Lettera dalla Nuova Zelanda

Se state pianificando un viaggio sciistico nell’Isola del Sud della Nuova Zelanda, allora probabilmente state pensando di atterrare a Christchurch, saltare in auto/van/bus e dirigervi a Sud verso le località sciistiche dei laghi meridionali di Wanaka e Queenstown. Lì si scia a The Remarkables e Treble Cone e poi si fa festa fino a farsi venire male alla testa. Ma il punto è proprio questo: perché salire su quell’auto/van/bus e guidare verso Sud vedendo svanire velocemente attraverso il finestrino il migliore sci della Nuova Zelanda? Con 12 ski field, la regione di Canterbury ha più posti per sciare di tutte le altre. Molti di questi ski field sono in realtà dei club field gestiti in maniera comunitaria e no profit, il che significa che sono delle specie di comunità sciistiche socialiste.

Nei club field non troverete molte piste battute, né seggiovie, qui gli impianti di risalita sono manovie in stile anni ‘40, un modo semplice, terrificante ed efficace per salire in montagna. L’assenza di discoteche nel raggio di 100 chilometri fa sì che la scelta migliore per l’après-ski sia quella di pernottare in uno dei lodge dei club field e bere quello che vi siete portati, oppure andare in un pub di campagna ad ascoltare le storie di caccia di contadini dall’aspetto rude o a guardare una partita di rugby (in Nuova Zelanda una vera e propria religione) in tv.

Gli scialpinisti che vogliono provare qualcosa di diverso da quello che potrebbero trovare sulle Alpi o in Nord America saranno accontentati dai letti dei fiumi, dalle foreste e dai ghiacciai delle Alpi di Canterbury. Le cime glaciali del Parco Nazionale Aoraki Mt Cook sono una calamita naturale per gli skialper, ma ci sono molte altre destinazioni meno impegnative ideali per l’esplorazione. Con oltre 900 rifugi situati in tutto il backcountry neozelandese, trovare un posto dove passare la notte in montagna non è mai difficile, ma non dimenticate di portare le scarpe da trekking e le calze di ricambio per i guadi dei fiumi e le lunghe passeggiate nei fitti boschi per rientrare all’auto.

Gli inverni kiwi possono essere più imprevedibili dei tweet di Donald Trump. Alcune bufere fanno diventare bianca l’intera Isola del Sud, ma altri inverni vi vedranno sciare un sacco sul tussock (erba di montagna). La cosa buona è che se la brutta neve vi butta giù, potrete sempre abbandonare gli sci e dirigervi verso uno dei tanti surf break lungo la East Coast: l’acqua sarà gelida ma non c’è niente che una calda muta, una hot steak pie (piatto nazionale) e un flat white coffee (il cappuccino local) non possano risolvere.

Se vi concentrate solo sulla qualità della neve e sulla vita notturna, potreste rimanere delusi da un giro nella piccola e vecchia Nuova Zelanda, ma se siete disposti a superare gli ostacoli, a guadagnare ogni curva e a scambiare la vostra giacca in Gore-Tex con una muta da surf, allora l’avventura sarà difficile da dimenticare. Che poi è lo spirito giusto dopo tutto quello che è successo negli ultimi mesi. Nell’ultima stagione la mancanza di neve ha impedito l’apertura di alcuni club field, lasciando tanti sciatori senza possibilità di scelta se non quella di scambiare gli sci con mute spesse o mountain bike. Aspettiamo con fiducia qualche nuova bufera, dopo tutto quello che il 2020 ci ha gettato addosso, una giornata intera nella powder sarebbe la ricompensa minima.

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© Joe Harrison

Lettera da Valdez

Saluti dall’Alaska. Sono Gabriella, marinaia e freerider di 26 anni e vivo sulla mia barca a vela di 25 piedi nel posto più magico del mondo. È una vivace giornata di settembre, la neve ha già imbiancato le cime più alte e stiamo perdendo quasi sei minuti di luce al giorno. L’inverno si avvicina. È stato proprio l’inverno ad attirarmi qui. Sono arrivata nel febbraio del 2018 per un lavoro di tre mesi in una compagnia di heliski. Nei primi tre giorni non sono nemmeno riuscita a vedere le montagne da quanto nevicava. Ma quando finalmente le nuvole si sono aperte e il sole ha illuminato questa piccola città dell’Alaska alla fine della strada, ho capito che avevo trovato casa. Casa e abitazione sono due cose diverse e l’abitazione è arrivata in forma fluttuante. Il vecchio e logoro veliero di nome Whisper è entrato nella mia vita grazie a un meccanico dai capelli unti e dal cuore gentile. Mi ha offerto la nave come rifugio temporaneo e ho finito per viverci per un anno e mezzo. La semplicità, l’intimità, la magia racchiusa tra le pareti di vetroresina che custodiscono le storie di una manciata di altre anime che avevano occupato quello spazio galleggiante prima di me mi hanno attirato e hanno cambiato la mia vita. Sentendomi per metà sicura della scelta, per l’altra metà pazza, ho comprato la mia barca a vela, più funzionale, lo scorso settembre. Si chiama Zephyr ed è da qui che ho la grande fortuna di scrivere.

Mi considero una delle persone più felici al mondo e quando la pandemia ha fatto precipitare la Terra nel caos e nell’isolamento allo stesso tempo, mi sono ritrovata rintanata nel mio accogliente santuario di barche nella grande terra della distanza sociale. Ero nel comprensorio sciistico di Alyeska quando il Covid ha iniziato a diffondersi negli Stati Uniti. La funivia è passata dalla mezza capienza in una giornata di powder alla chiusura. Le immagini degli americani che facevano provviste per la toilette riempivano il mio news feed e la tensione mista a panico e preoccupazione riempiva l’aria fredda di montagna. Era ora di fare scorta di provviste (entro i limiti del ragionevole) e tornare a casa. E poi le cose si sono messe male. Un nuovo virus in un mondo moderno ha fatto sì che tutti noi potessimo vedere, in tempo reale, il caos che si abbatteva sui nostri fratelli e sorelle in tutto il mondo. Rannicchiata da sola nella mia barchetta ho guardato con orrore i filmati degli ospedali italiani sovraffollati e ho sentito nel cuore l’angoscia e l’umanità dei concerti e degli applausi che ogni giorno, dai balconi, riempivano le strade. Sapevo che era solo questione di tempo perché il vostro dolore fosse il nostro dolore e mi sono preparata al peggio.

Sono abituata a stare da sola. Mi considero un membro abbastanza indipendente della specie umana, so apprezzare la solitudine, ma ho anche fiducia nella comunità. Improvvisamente mi sono ritrovata a vivere in solitudine non solo per scelta, ma anche perché costretta. Tutto a un tratto ho provato il terrore puro e il vero senso della solitudine, ma anche quello della libertà e della liberazione. Ero pre occupata per la mia famiglia, a più di 4.000 miglia di distanza, e pensavo a quando li avrei rivisti. Avevo paura per i miei amici e vicini più anziani e per quelli che lavorano nella sanità. Ho lasciato che le onde del dolore e dell’incertezza si infrangessero. Mi sono seduta immobile. E poi ho capito che il mondo non si aspettava più nulla da me. Non aveva bisogno che io fossi da nessuna parte. Ero libera. Beh, più o meno. Come conduttrice delle news della radio pubblica locale ero considerata una lavoratrice essenziale e dovevo comunque andare a lavorare. Una vera fortuna in un momento di collasso economico. Così mi sveglio ancora oggi, come allora, alle cinque e mezza del mattino e passo le prime ore a guardare il telegiornale. Dalle storie internazionali alle leggi locali, tutto è cambiato in modo così rapido e drammatico che è stato abbastanza travolgente.

Il conteggio dei morti e dei danni economici sono diventati la triste normalità. Ma era bello continuare a parlare con la comunità, con i vicini, con gli amici, con gli estranei di quelle 48.000 miglia quadrate raggiunte dalle frequenze radio quando eravamo tutti bloccati a casa. Separati, ma collegati attraverso l’etere. E una volta lasciato lo studio alla fine delle mie trasmissioni quotidiane, mi sono disconnessa. Nella maggior parte degli Stati Uniti chiudevano i sentieri, le spiagge e i parchi. In Alaska non si può chiudere la natura. È tutto ciò che abbiamo. Uscivo dal lavoro e, quasi tutti i giorni, saltavo sugli sci e mi allontanavo dal resto del mondo per qualche ora. Credo che la maggior parte della mia sofferenza, e della mia felicità, sia tutta nella mente. Così mi sono allenata a lungo a ridisegnare la psiche per vedere la sfida e le avversità come opportunità di apprendimento, crescita e forza. Tutti i miei piani di viaggio primaverili ed estivi sono andati in fumo. I progetti di lavoro sono stati cancellati. Il mio principale lavoro estivo è svanito. Mi sono lasciata andare alla tristezza e alla confusione, ho raggiunto l’accettazione, poi ho ridisegnato la mia mentalità. Ho preso una gomma per cancellare tutte le riunioni, le corse in aereo e le scadenze che avrebbero ingombrato il calendario, ho lasciato la lavagna bianca e mi sono resa conto dell’opportunità che avevo: l’estate della libertà.

È stata la migliore opportunità per diventare più intima possibile con il mio palcoscenico, il territorio vasto e magico delle Chugach Mountains e del Prince William Sound. Ho continuato a lavorare alla radio per tutta l’estate, per garantirmi un reddito e un senso di normalità. Ma il resto del tempo l’ho passato nella mia piccola casa in barca, navigando verso Nord e facendomi strada attraverso le acque, sulle spiagge e sulle montagne del grande giardino dell’Alaska. Senza la possibilità e la pressione per essere altrove, se non qui, ho avuto modo di conoscerla e apprezzarla in un senso molto più profondo, più intimo. Ho assaporato la libertà e l’euforia di muovermi con il vento attraverso il fiordo, gettando l’ancora in calette e baie circondate dalla saggezza della natura, fatta di vecchie foreste e una varietà incredibile di animali che le abitano. Mi crogiolavo al sole, mi inzuppavo nella pioggia e mi tuffavo nell’acqua fredda e limpida. Poi puntavo la casa verso il porto, attraccavo e tornavo al lavoro per riconnettermi con il mondo attraverso la stazione radio. 

Credo che tutti noi dobbiamo giocare le carte che ci vengono date al meglio delle nostre capacità. Ogni singolo giorno mi sveglio piena di gratitudine per la salute, per il lavoro, per la casa in barca, per l’opportunità di vivere all’aperto quando la maggior parte delle persone sono costrette a vivere dentro. Penso che la vita sia abbracciare la sofferenza, alleviarla al meglio delle nostre possibilità e poi vivere la gioia con altrettanto entusiasmo. Penso che la vita sia come camminare su un filo, in equilibrio tra la nostra famiglia umana e noi stessi, che sia prendersi cura l’uno dell’altro al meglio delle proprie capacità, per poi lasciarsi il tempo per curare anche noi stessi, il nostro cuore, la nostra anima, il nostro vascello. Mentre l’estate volge al termine e si sente la nostalgia dell’autunno, voglio abbracciare di nuovo la mia famiglia. Mi manca viaggiare, mi mancano le città. Ho voglia di piste da ballo affollate, musei e funivie piene nei giorni di powder. Lo farò cercando di andare oltre quell’innato stato di malcontento umano. Continuerò a crogiolarmi nel mio giardino, ad amare la mia famiglia dell’Alaska e la mia piccola barca fino a quando non saremo tutti un po’ più guariti.

Ora, se volete scusarmi, c’è il sole. E c’è una brezza da sfruttare.

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© Gabriella Palko

Lettera dal Gennargentu

Sono nato ai piedi delle Alpi e all’età di quattro anni mi sono stati regalati i miei primi sci. Le nevi di Bardonecchia e di Sestriere sono state la mia prima scuola sinché, verso i 12 anni, non ho sentito il richiamo delle nevi non tracciate. Mio padre, che pure mi aveva iniziato a ogni forma di frequentazione della montagna, non era uno sciatore. Comprendeva tuttavia che non mi sarei accontentato di andare a sciare sugli impianti, per cui mi iscrisse a un corso di scialpinismo del CAI UGET. I primi anni furono terribili, lo scialpinismo mi sembrava una disciplina veramente disumana. Non ero allenato e, sciisticamente parlando, avevo una tecnica assai approssimativa. A ogni gita mi sembrava di andare in guerra ma, gradatamente, le mie gambe divennero più resistenti e imparai, come si faceva un tempo, a cavarmela in ogni situazione. Dopo la morte di mio padre lasciai il CAI e mi unii a un altro gruppo di amici che mi iniziarono a uno scialpinismo più ambizioso. Negli anni precedenti alla mia conversione all’arrampicata, parlo quindi della fine degli anni ‘70, divenni uno scialpinista maniacale. Mettevo gli sci a novembre per toglierli a fine giugno. Cominciai a fare qualche discesa di sci ripido e iniziai anche ad andare da solo, la montagna solitaria è sempre stata una mia grande vocazione. Anche quando ho iniziato ad arrampicare, da appassionato scialpinista - potrei anche dire ex - non ho mai rinunciato alle mie quattro/cinque gite l’anno. In buona parte da solo, o con la mia fidanzata conosciuta in Sardegna, che avevo naturalmente iniziato subito allo scialpinismo, come fosse ovvio che questa attitudine dovesse far parte della sua dote. Ma quando mi trasferii definitivamente sull’isola, la rinuncia alla neve fu dura da digerire.

Mi accorsi presto che nel centro dell’isola c’era un mottarozzo che rispondeva al nome di Gennargentu. La mia attitudine per la geografia, e in particolare l’altimetria delle montagne, mi permise di ricordare subito, senza andare a rispolverare il sussidiario, che si trattava di una montagna alta 1.834 metri. In quegli anni, era il 1986, in inverno nevicava ancora abbondantemente e avevo notato che i versanti settentrionali che davano verso Fonni rimanevano a lungo innevati. La cosa più ovvia fu quindi tentare una salita in scialpinismo da questo lato. Una strada si avvicinava alla vetta del Bruncu Spina e permetteva di arrivare a circa 1.400 metri, quota che avrebbe garantito un minimo di fondo. A questo punto occorre fare una premessa: mentre sulle Alpi si cerca di combinare una salita nei giorni seguenti la nevicata, a queste latitudini, forse per paura che la neve si sciolga prima di averla toccata, si parte durante la nevicata stessa. Questo costringe già a tragicomici avvicinamenti in auto, su strade ovviamente non spazzate (in Sardegna si mormora di un fantomatico maialetto delle nevi che ripulisce le strade dopo la nevicata, ma noi non lo abbiamo mai visto!). Dunque, tornando alla prima volta, riuscii a coinvolgere la mia fidanzata, sì e no tre gite all’attivo, e niente meno che il primo alpinista sardo, che non so quante volte avesse messo gli sci, ma comunque li possedeva.

© Maurizio Oviglia

Si aggregò inoltre la fidanzata di lui, che gli sci li aveva comprati per l’occasione. L’improbabile doppia coppia si avviò quindi sui pendii spazzati dalla tormenta su un terreno che invero assomigliava più a un falsopiano. Dopo circa un’ora e mezza eravamo già in vetta. A stento nella bufera riuscimmo a levare le pelli e nella nebbia cominciammo a scendere lungo il versante settentrionale del Bruncu Spina, che ci sembrava l’unico che potesse garantire un minimo scivolamento sui venti centimetri di neve che avevamo a disposizione. L’alpinista sardo mi seguiva impavido mentre le due donne cercavano di scendere limitando i danni: sicuramente si stavano divertendo moltissimo e a casa avremmo fatto i conti… A un certo punto una delle due perse uno sci che mi passò a fianco come un missile. A quel tempo si usavano ancora i laccetti, ma probabilmente si era dimenticata di chiuderli. Fatto sta che da quel momento iniziò un calvario. Tornammo in primavera a cercare lo sci disperso, ma non fu mai ritrovato. Alcune leggende narrano che sia sotto sequestro in qualche ovile della zona, appeso come trofeo proprio sopra il caminetto. Gli anni seguenti ritornai varie volte da solo (non volevo più far ulteriori danni a terzi), provando a salire da vari versanti sulla stessa cima. Ricordo una salita al Bruncu Spina da Nord dove, prima di raggiungere un pendio degno di questo nome, dovetti combattere per un’ora su un sentiero a ostacoli costituiti da filo spinato e muretti a secco. Alla base del pendio mi misi la cuffia, attaccai l’iPod con un pezzo di potente jazz rock, e mi sparai i 500 metri per cui ero venuto, tutti d’un fiato. Mi ero finalmente sfogato, ma sulla discesa meglio calare un pietoso velo. Gli anni seguenti provai dal versante opposto, Desulo.

Sulla cartina una strada penetrava nella valle sotto Punta La Marmora e provai a farla in auto. A quei tempi possedevo una Tipo, che quel giorno quasi scomparve, inghiottita in un mare di fango. Non ero sicuro di riuscire a ritornare, ma mi incamminai lo stesso. La neve sembrava essersi sciolta tutta nelle due ore precedenti e camminavo con gli sci in spalla in direzione dell’unico pendio innevato. Ricordo però un ambiente solitario di grande bellezza con branchi di mufloni che mi passavano a fianco, rapaci che volteggiavano nel cielo. Verso le 11 ero all’attacco del pendio di Su Sciusciu, che in sardo vuol dire la pietraia. I 20 centimetri di neve rimasti erano ormai una pappa bianca e la discesa fu un disastro. Buttai gli sci, ma miracolosamente riuscii a riguadagnare la strada asfaltata, sciando con la Tipo nel fango. L’ultima volta non fu migliore. Ma fu davvero l’ultima, chi vi sta narrando ormai ha smesso e può accontentarsi di ammirare da lontano il Gennargentu imbiancato di neve. Non rimaneva che provare dal versante di Correboi, che ancora non conoscevo. La neve era poca, come al solito e al contrario da quanto dichiarato dall’Unione Sarda, e raggiunsi una curva della strada che più si avvicinava alla cresta Est del Bruncu Spina. Mi cambiai di nascosto (non avrei mai potuto entrare in un bar della Sardegna vestito da sci) e incominciai a camminare nel bosco fittissimo e intricato. Avevo sottovalutato la distanza e anche la pendenza, insomma era l’ennesima gita completamente insciabile che mi ero regalato. Raggiunta la cresta, a 1.500 metri, ne avevo abbastanza. Ci saranno stati 5 centimetri di neve e avevo oltrepassato 45 muretti di pietre con filo spinato; non ci crederete ma li avevo contati. In discesa mi si ruppe il vecchio scarpone come fosse un uovo di cioccolato (del resto l’attrezzatura buona l’avevo lasciata a Torino) e cercai di scendere alla meglio nella macchia mediterranea, mirando alla macchina. A un certo punto un cinghiale mi si parò davanti agli sci. Rimasi un attimo interdetto, ero sempre armato di bastoncini, avrei reso cara la pelle. Per fortuna con uno scatto si infilò nel bosco: provai a inseguirlo, a quel punto speravo in un ingresso in paese da eroe. Ma sapeva sciare meglio di me e lo persi…

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© Maurizio Oviglia

Lettera da Sauris

Sono arrivata quassù forse per destino. Avevo un paio di ore di buco per un’intervista saltata durante una trasferta a Sauris e la voglia di scoprire quella frazione che non avevo mai visto. Era un’occasione da sfruttare anche perché nella valle del Lumiei, dove la Carnia si spinge verso il Cadore, bisogna venirci apposta. Era inizio marzo, c’erano il sole e la neve. Sono salita a Lateis senza davvero sapere cosa aspettarmi. Ho trovato un silenzio tangibile, una cinquantina di case con in mezzo una chiesetta e, intorno, una natura potente. I prati, chiusi da boschi di faggio e di abeti, e poi le montagne, più rocciose e potenti a Sud, più morbide verso Nord. Arrivata in cima, alla borgata Ameikelan, ho notato uno stavolo, una vecchia stalla con il suo fienile, in posizione strategica: non solo davanti al Tinisa, la montagna che protegge Lateis, ma affacciato sul Bivera. Il Bivera si distingue dalle altre Alpi Carniche per la forma svettante, per il tratto di cengia orientale rossa di ammoniti.

In sintesi, per la sua bellezza. Da quello stavolo, la vista sul Bivera era indubbiamente perfetta. Sono passati quattro anni e il Bivera ora lo ammiro praticamente da ogni finestra di casa, dallo stavolo scoperto in quella luminosa giornata di marzo. Al mattino, quando sollevo gli oscuranti dell’abbaino, mi dà il buon giorno. Spesso esco ad ammirarlo la sera, al buio: non c’è inquinamento luminoso e nelle giornate di luna piena, con la neve, il manto bianco riflette la luce del cielo. Lo vedo dal salotto, quando lavoro e cerco ispirazione. Anche quando mangio ci scrutiamo. Occhi negli occhi. Lui ed io. È la vetta più famosa della zona, ma non certo l’unica. E si risale con gli sci. Da Casera Razzo, volendo fare le cose facili, si segue la forestale per Casera Mediana, riscaldandosi con calma, girando poi verso Chiansaveit, quindi su per il vallone tra Bivera e Clapsavon. Puntando prima alla forcella e poi alla spalla Sud della montagna. È una classica primaverile. In cima il panorama è fantastico: il Lago di Sauris, le Dolomiti, la Marmolada, ma anche i Tauri e il Grossglockner, se la giornata è limpida. E la discesa è bella ampia, super divertente. Si scia anche sin sulla cima, piatta, del Clapsavon: si spinge sempre da Razzo a Chiansaveit e poi, lasciata la casera sulla sinistra, si inizia a salire, verso la sella alla sinistra della vetta. Per entrambi si può partire sci ai piedi anche da Sauris, aggiungendo metri di dislivello, anche perché la strada che collega Sauris di Sopra alla Sella di Razzo in inverno è chiusa. Oppure si possono scegliere varianti più impegnative, discese più ripide.

© Luciano Gaudenzo/photofvg

Di sciate, qui, se ne fanno parecchie. Anche perché si parte dai paesi già a una buona quota: 1.240 metri per Lateis, 1.212 per Sauris di Sotto, 1.398 per Sauris di Sopra. Il distanziamento fisico è garantito: gli abitanti sono meno di 400, c’è turismo, sì, ma non è certo opprimente. Puoi salire e scendere senza incontrare nessuno. Il problema, spesso, è che ti tocca batter traccia. Però si scende su un manto intonso. Il bello di questa zona è che puoi guardarti intorno, scegliere una cima e provare a salirla. Soprattutto sul versante delle malghe, quello che si spinge verso la Val Pesarina, ci sono per lo più gite facili, mai troppo ripide, mai troppo lunghe. Torondon, Novarza, Gerona, Pieltinis, Morgenlait, Olbe. Ma non solo. Dall’altra parte, verso il passo Pura, Nauleni, Colmaier, Cavallo di Cervia, Tinisa per i più bravi. Più avanti, verso il Veneto, ci sono Bivera e Clapsavon, ma anche Col Marende, Col Sarende e poi i Brentoni. Punti una vetta, attendi le condizioni giuste e provi a salire, con un mix di fantasia e testardaggine se è un itinerario nuovo o inusuale. Partendo da casa a piedi o con gli sci. Se manca la neve, e le distanze sono lunghe, magari in bici. Qui a Sauris i maestri di questo sport green e di totale immersione nella natura sono Francesca Domini e Marco Stefanuto. Salgono a Sella di Razzo in bicicletta, partendo da casa, lungo il lago. Non vogliono portarsi dietro troppo peso, pedalano con gli scarponi da sci ai piedi. Sono 16 chilometri, tutti di salita, circa 700 metri di dislivello. Se la meta è la zona di Passo Pura, quindi oltre la diga del lago, verso Ampezzo, si pedala ancora. «Oltre il coronamento della diga e il tunnel, sino alla quota neve» spiega Francesca. «Ma si può passare di là anche con il kayak. E sino a qualche anno fa, quando faceva più freddo, sfruttavamo il lago ghiacciaio, per camminarci sopra» aggiunge. Così una gita di scialpinismo, a due passi da casa, diventa una vera esperienza, quasi un’avventura. Francesca ci si è abituata da ragazzina, vivendo la natura. Poi per la laurea, in scienze forestali, ha cercato e frequentato le arene di canto dei galli cedroni, zone di corteggiamento segretissime. Rimanendo in appostamento, nascosta nel bosco, in attesa delle parate, dei richiami, dei combattimenti che precedono gli accoppiamenti. Immergersi nel bosco non le fa certo paura. Gestiscono un’azienda agricola, Bianco Sauris, che crea formaggi di capra. Lo fanno da una decina d’anni, con una passione immensa: per l’ambiente, le capre, la vita rustica, sincera, in natura. Si sono sposati nel maggio del 2011 quasi in sella al Bivera. «Partimmo con il buio da casa, noi due con don Piller, il parroco sciatore di Sauris, e il suo cane, Fox. Era sereno, poi arrivarono la pioggia, la grandine, quindi la neve, il vento. A 50 metri dalla croce di vetta dovemmo rinunciare. Ci scambiammo le fedi e poi via, una meravigliosa discesa nella polvere» ricorda Francesca. Il viaggio di nozze fu una corsa sino alla Lesachtal, la vallata carinziana da cui arrivarono, nel medioevo, i saurani. Circa 60 chilometri su e giù tra monti e vallate.

La loro vita è scandita dalle esigenze delle capre Nere di Verzasca. Animali vivaci, resistenti al freddo, amanti della vita in alta quota. Ce ne sono ancora poche e resistono. Come Francesca, come Marco, come Selva, il loro cane: forse per questo le hanno volute con loro. «È un lavoro impegnativo e coinvolgente, ma puoi trovare i tuoi tempi. Anche se ci sono i capretti piccoli, tra gennaio e febbraio, quelle tre o quattro ore per una sciata, tra una poppata e l’altra, si trovano» spiega Marco sorridendo. Francesca ha imparato a sciare da ragazzina, seguendo Sergio, «il suo secondo papà», quando andava sulle creste, sopra le malghe, a controllare il livello della neve per l’Enel, che gestiva la diga del lago di Sauris. Usava sci militari, lunghi e pesanti. Soprattutto per una piccolina come lei, che nei periodi di magra, quando è più stanca, non arriva neanche a 40 chili. Marco, nato e cresciuto a Portogruaro, in pianura, qui ci è arrivato dopo. «Ho imparato a fare scialpinismo con gli amici di Timau, di Malga Pramosio, andavamo spesso sui Tauri» racconta. Entrati entrambi nel Soccorso Alpino, sezione di Forni di Sopra, ne sono usciti qualche anno fa. Perché l’impegno con le capre li fagocita. Non possono allontanarsi per le esercitazioni, pensando magari di star fuori più giorni. E ovviamente neanche pensare a vacanze, a viaggi su altre montagne. Ma a loro non pesa. Anzi. «Abbiamo scelto ciò che facciamo e lo amiamo. Ci mettiamo tempo, impegno, entusiasmo perché ci crediamo. Intorno abbiamo montagne che in pochi conoscono, dove possiamo ancora scoprire un versante per noi inesplorato, una discesa che non avevamo considerato» spiega Marco. C’è il vantaggio indubbio di essere dei local. Conosci i pendii pericolosi, sai dove scarica, sai quando la neve si trasforma e se c’è già fondo e inizia a nevicare ti cambi e sei pronto per partire. In genere non trovi i pendii solcati, affollamento. E in tempi di Covid-19 è semplicemente perfetto.

Marco mi porge Let my people go surfing, il libro che racconta la filosofia di Yvon Chouinard, il fondatore del brand Patagonia. «Amare i luoghi incontaminati significa partecipare alla lotta per salvarli, impegnandosi per ridurre l’impatto ambientale. Senza sprecare, limitando il consumo» commenta. Sembra scritto per loro. Vivono in modo semplice, consapevoli e contenti di farlo. Per questo sono arrivati a Sauris, dieci anni fa. Francesca ci era cresciuta, sì, poi con la scuola e il lavoro se ne era allontanata. «Volevamo proteggere la montagna. Chi la protegge è chi ci lavora amandola, chi la gestisce» mi spiega. Lo scialpinismo, la neve, sono una passione, ma il loro progetto è più ambizioso, immensamente più impegnativo: essere montanari moderni, numi tutelari del territorio. Aiutare la montagna, almeno la loro montagna, a rimanere se stessa.

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© Luciano Gaudenzo/Photofvg

Argentera Reloaded

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 127 DI DICEMBRE 2019

Argentera è sempre stato il posto di cui non bisognava parlare. Troppo bella, troppo poco affollata per essere data in pasto agli affamati di polvere, specialmente quando lì se ne trovava mediamente più che nel resto dell’arco alpino. Protetta dalla massa anche grazie al suo isolamento: dalla pianura del cuneese bisogna sciropparsi cinquanta chilometri di curve, spesso intasati dai tir diretti verso la Francia attraverso il Colle della Maddalena. Da Milano ci vogliono quattro ore, da Torino poco più di due: forse troppi per una stazione che ha da offrire una seggiovia e uno ski-lift. Ciononostante il mito di Arge è cresciuto negli anni, senza tuttavia riuscire mai a diventare un fenomeno mainstream come è successo ad altre località simili – per rimanere in Piemonte – Prali, forse anche a causa del fatto che i suoi frequentatori hanno preferito mantenerla per sé, per fare in modo che nei giorni di polvere in coda agli impianti ci si potesse contare nell’ordine di un paio di decine di sciatori. Oggi Argentera è un comune che deve fare i conti con un dissesto finanziario che sfiora il milione di euro e l’incapacità di garantire un’apertura continua degli impianti, un servizio dal quale dipendono pressoché tutte le altre attività economiche del posto: per diventare un paese fantasma il passo è paurosamente breve, un futuro reso ancora più triste dal brillante esempio dei vicini di casa. Situata immediatamente più a monte, infatti, luccica la Val Maira, divenuta nel corso degli ultimi anni un esempio da manuale di come riconvertire in ottica turistico-sportiva una valle destinata all’oblio. Com’è possibile che due luoghi apparentemente simili abbiano conosciuto destini tanto diversi?

All’inizio degli anni ’80 c’era gran fermento, mi racconta Vince Ravaschietto, Maestro di sci e Guida alpina, quando ci incontriamo in un bar di Borgo San Dalmazzo. Lui arrivò ad Argentera dopo essere stato Direttore della scuola di sci di Limonetto e l’idea della dirigenza era proprio quella di creare in Valle Stura una stazione superiore alla Riserva Bianca di Limone. Il gestore della stazione sarebbe stato Carlo Marchisio, che aveva già lavorato a Gressoney e Pontechianale. Si partì però con un grosso handicap, quello dell’inverno 1980/81, quando l’assenza di nevicate fece esodare i facoltosi turisti scandinavi verso la più rassicurante Val d’Aosta. Nonostante ciò i progetti erano pronti: lo ski-lift Andelplan, servito dalla seggiovia biposto Pie del Beu, avrebbe collegato la piccola stazione con il Vallone di Ferriere, allo sbocco del quale era in costruzione il Villaggio Primavera; il vallone, ricco di campi aperti, sarebbe stato perfetto per ospitare numerosi altri impianti di risalita. Sull’altro lato della valle, invece, il pezzo forte sarebbe stato il Villaggio Roi Soleil, comodamente raggiungibile con un breve ski-lift appositamente costruito. La morte del dirigente di allora e la conseguente mancanza di una figura di riferimento fece sì che tutte le possibili idee rimasero tali, e il decollo di Argentera si trasformò in una rincorsa continua senza mai arrivare al momento di stacco, con qualche occasionale interessamento da parte di imprenditori che si concludeva poi in un nulla di fatto. Vince mi racconta anche di quando, a metà del decennio, accompagnò in un sopralluogo alcuni tecnici venuti lì per conto di un grande costruttore lombardo, tale Silvio Berlusconi. Anche in quel caso, però, oltre alle chiacchiere non ci fu molto altro. La mancanza di una leadership e una progettualità costante negli anni fece sì che Argentera rimanesse la piccola stazione che era in origine. Lo ski-lift del Roi Soleil venne riconvertito in baby e i cantieri rimasero tali, senza che nessuno, nel corso degli anni, abbia avuto il coraggio di metterci le mani sopra.

© Federico Ravassard

La seconda vita di Arge comincia dopo gli anni 2000, quando anche in Italia esplode la moda del freeride e dello snowboard. Il potenziale di quelle montagne di colpo diventa chiaro a tutti e poco alla volta la voce comincia a girare nell’ambiente, senza mai diventare troppo forte. Una specie di segreto massonico che serpeggia tra gli appassionati piemontesi, che la frequentano silenziosamente durante l’inverno, quando in settimana si ritrovano a girare sulla biposto. Tra loro c’è anche Daniele Molineris, inconsapevole del fatto che in quei boschi la sua vita sarebbe cambiata e sarebbe diventato in pochi anni uno dei più affermati fotografi outdoor italiani. «Io e i miei amici abbiamo sempre girato ad Arge, per noi era la stazione dietro casa. Non ci siamo mai resi conto davvero di quanto quei pendii fossero unici» mi racconta quando vado a trovarlo nel suo studio di Boves, ai piedi delle montagne. Nelle foto che mi mostra compare con le ciaspole nei piedi e la tavola sulle spalle. A quell’epoca lavorava ancora come grafico e la fotografia era poco più che un passatempo. Nel 2012 le cose hanno preso una piega inaspettata, grazie a un lavoretto apparentemente innocuo: ad Argentera viene organizzato il Norrona Day con il supporto di un negozio di Borgo San Dalmazzo e Daniele si offre come fotografo per l’iniziativa. Gira con Giuliano Bordoni, ambassador del marchio, e quelle immagini lo lanceranno nell’ambiente. Nello stesso inverno fa un altro incontro cruciale per la sua carriera. «A un certo punto vedo una coppia di sciatori, due figurini vestiti di tutto punto da The North Face. Riconosco in uno dei due il volto conosciuto di uno dei fotografi più quotati nell’ambiente: era Damiano Levati insieme alla compagna. All’epoca non lo conoscevo di persona, sono state proprio le discese di quel giorno a far sì che entrassi in contatto con lui. Qualche tempo dopo mi sono licenziato e ho iniziato la mia strada di fotografo freelance».

In quel periodo Arge comincia a essere leggermente più conosciuta, la voce che esista un paradiso della powder in basso Piemonte inizia a girare tra gli addetti ai lavori, disposti a percorrere centinaia di chilometri per verificare la realtà dei fatti. «Mi ricordo che una volta Giuliano e Paolo Marazzi sono venuti in giornata dalla Lombardia, lo stesso hanno iniziato a fare anche gli sciatori dell’Appennino». A Daniele sembrava folle l’idea di venire fin là per, letteralmente, un paio di impianti, ma a quanto pare l’unicità del posto sembrava veramente attrarre sciatori da ogni dove. Nel 2013 sbarcano anche le star del freeride Kaj Zackrisson, Henrik Windstedt e Mike Douglas con la troupe di Salomon TV e anche il loro feedback è decisamente positivo. Tuttavia le pubblicazioni rimangono più contenute, come se i local non volessero parlare apertamente del loro gioco preferito. «Quando penso alle difficoltà economiche di Arge, mi sento un po’ in colpa» ammette Daniele. «Forse abbiamo una responsabilità anche noi se la stazione non è mai veramente esplosa, causando uno stallo economico che ne ha di fatto bloccato lo sviluppo. Allo stesso tempo però ci piaceva l’atmosfera intima, non è mai stata una Chamonix o una Gressoney: in coda agli impianti ci si salutava tutti tra amici». Dalle parole di Daniele mi rendo conto quanto, in questo luogo, sia forte l’egoistico paradosso della polvere: siamo tutti amici, ma guai se tracci il pendio prima di me. Una specie di morbo nascosto da tutti, me e voi compresi: da un lato siamo fieri di fare parte di una comunità, dall’altro non vogliamo assolutamente condividere certi luoghi per conservare il privilegio della prima traccia.

Candide Thovex ad Argentera © Enrico Turnaturi

Negli stessi anni un altro local girava quasi indisturbato in Valle Stura. Paolo Pernigotti stava diventando Guida alpina e, insieme a pochi altri adepti, quando il tracciabile era stato tracciato era tra i pochi in zona a fare scialpinismo con la chiara idea di divertirsi il più possibile in discesa. Nel cuneese, terra di gare e materiali light, gli sci fat con cui pellava insieme alla cricca del Nowork Team erano visti come oggetti alieni. «Arge era un mondo a sé stante, a partire da chi ci lavorava. Il luogo di ritrovo era il Polar, un hangar alla partenza della biposto riadattato a bar. Lo gestiva l’Emi, che ora si è trasferito in Spagna. Emi aveva aperto anche un piccolo chalet in alto e quando capitavi lì ti offriva un Cuba Libre tra una run e l’altra. Si grigliava e si sparava musica dalle casse tutto il giorno. Ogni tanto comparivano snowboarder stranieri, che scavavano kicker ovunque, roba che ti sparava in aria per metri». È Pallo che mi racconta poi dei problemi degli ultimi anni, quando le difficoltà crescenti si sono trasformate nell’apertura a singhiozzo della seggiovia: spesso non venivano venduti abbastanza skipass per compensare le ore di lavoro degli impiantisti. Nel 2017 Arge ha iniziato ad aprire solo nei fine settimana, concentrando la folla in pochi giorni e intaccando di fatto la magia di tracciare in solitudine. Proprio in quell’inverno però Pallo ha fatto le sue sciate migliori. «Erano i giorni del Burian, ogni notte nevicava mezzo metro. Quell’anno era cominciato sotto tono e in tanti avevano accantonato l’idea di sciare lì. Ci siamo ritrovati a girare in due, io e Matti (al secolo Mattia Tosello, Maestro di sci di Limone) per quattro giorni. Ora se penso all’ipotesi concreta che chiudano definitivamente gli impianti vado fuori di testa».

Esattamente, è proprio così: a dirmelo era stato lo stesso Pallo qualche settimana prima, quando ci eravamo incrociati a Finale. Negli ultimi autunni l’apertura è rimasta incerta fino all’ultimo per poi sbloccarsi, ma quest’anno i fatti sembrano virare più verso il no, con tutto ciò che comporterebbe per la situazione già critica del Comune. Qualche giorno dopo contatto l’ex gestore, che schietto mi conferma la non apertura, perché l’impianto è arrivato alla scadenza tecnica e mancano tempo e risorse economiche per ammodernarlo. Altre voci, però, sembrano smentirlo: qualcuno dice che alla fine apriranno, altri no. Il destino di Argentera continua a essere avvolto nel mistero, nella mancanza di certezze, e il passato recente non fa che confermare questa tendenza. Nel 2016 il sindaco di allora, Armando Giavelli, venne accusato di turbativa d’asta, peculato e abuso d’ufficio nell’ambito della gestione di fondi dell’Unione Europea per i piccoli comuni e dovette scontare sei mesi di arresti domiciliari e dimettersi dalla carica. Nell’ottobre del 2019 Giavelli è stato assolto: il fatto non sussiste, dirà il Tribunale di Cuneo. Nel frattempo il declino di Argentera è continuato inesorabilmente e la patata bollente è passata a Monica Ciaburro, sindaca dal 2017. Quando la chiamo al telefono mi risponde da Roma, dove è membro della Camera dei Deputati per Fratelli d’Italia. Mi racconta di come il Comune, proprietario degli impianti, sia stato tagliato fuori dai fondi per le comunità montane per il suo dissesto di oltre 800.000 euro: a causa dei debiti e dei 13 mutui aperti dal ’94 a oggi, si ritrova nell’impossibilità di accedere a possibili aiuti economici per dire stop alla catena di eventi che ne hanno caratterizzato la discesa verso il baratro negli ultimi quarant’anni. La presenza di numerosi creditori nelle liste dei fornitori non fa altro che peggiorare la situazione, perché numerose ditte specializzate rifiutano di lavorare con le strutture comunali senza un pagamento anticipato.

In un contesto di lento abbandono tuttavia c’è chi, mosso dai sentimenti prima ancora che dai calcoli, ha deciso di provarci ancora: conosco così Alessandro Vola, che insieme alla compagna Franca è rimasto uno dei pochi a gestire un’attività commerciale nella zona di Argentera. D’estate gestisce il rifugio Prati del Vallone, mentre in inverno si sposta esattamente nel cuore di Bersezio, la borgata nella quale arrivano molti itinerari fuoripista del vallone di Ferrere. Qui da un anno ha aperto il bar Base Prati del Vallone, cercando di dare ad Argentera quello che da qualche anno mancava: un punto di riferimento per i freerider e gli scialpinisti. Con la collaborazione delle Guide alpine di Global Mountain, tra cui Paolo Pernigotti e Vincenzo Ravaschietto, ha creato un centro dove, oltre al servizio di ristorazione, fosse possibile noleggiare materiale da skialp e freeride e tenere lezioni teoriche per i corsi di scialpinismo, oltre a preparare un campo artva per le esercitazioni. Quando ci vediamo per pranzo è una nebbiosa mattinata di metà novembre. Nei giorni precedenti qualcuno ha già sciato riferendo di condizioni invernali, Alle invece ha ancora da fare per preparare gli chalet che affitta per la stagione. Qui ci è arrivato nel 2001, dopo aver lavorato come impiantista in altri comprensori, tra cui la Vialattea. Mi racconta che ormai quassù sono rimasti in pochi: oltre a lui ci sono una pasticceria, un negozio di alimentari, un paio di alberghi e poco altro. Gli under 40 sono pressoché scomparsi e tra i giovani la più anziana ha 16 anni ed è difficile immaginare che rimarrà qui finito il liceo. Quando discutiamo della possibile non apertura degli impianti, Alle scuote la testa preoccupato: a differenza della Val Maira, qui il turismo in settimana è piuttosto limitato, a causa anche della mancanza dei servizi turistici essenziali e con il solo pubblico degli scialpinisti del weekend sarebbe romantico ma molto complicato tirare avanti. Dopo pranzo ci tiene a farmi visitare il suo campo base dove accoglierà i clienti nel corso dell’inverno. Sulla stufa nella sala centrale campeggia un autografo conosciuto: Candide Thovex. «Ha sciato qui l’anno scorso, ha avuto la fortuna di capitare nella giornata giusta e con gli impianti aperti - mi racconta - La stufa l’ho scelta bianca apposta perché vorrei che diventasse una sorta di libro degli ospiti, poco alla volta». Parlando di futuro, Alle sa che il destino della località è nelle mani dei pochi che hanno ancora il coraggio di investirci dei soldi, lui compreso. Oltre che della bontà delle stagioni: il bene primario di Argentera, nel caso non lo si fosse capito, è proprio la qualità della neve, spesso superiore a quella di vallate ben più famose, ma ciò non è bastato a garantirne la sopravvivenza fino ad ora.

© Maurizio Fasano

Per trovare uno sportello bancomat bisogna percorrere una decina di chilometri e arrivare a Pietraporzio. Poco più a valle si trova Sambuco, diventata un’eccellenza locale grazie al ristorante e all’albergo Della Pace gestiti dalla famiglia Bartolo, spesso affollati di turisti stranieri. Un successo che stride invece con la situazione ammorbata di Argentera, dove decenni di cattiva gestione e mancanza di figure centrali hanno fatto sì che i danni si accumulassero fino a ricadere su chi, ora, ha deciso di restare. L’ennesima dimostrazione risale a questo autunno, quando è stato rimosso il ponte sulla Stura che permetteva di partire con le pelli direttamente dalla partenza degli impianti: si trattava di un abuso edilizio sul quale si è soprasseduto per anni, fino a che non è stato necessario fare qualcosa. Nelle sue condizioni economiche Argentera deve rigare dritto e nei concorsi pubblici, là dove le era ancora consentito partecipare, risultava spesso penalizzata, come nell’aggiudicarsi i fondi destinati alle stazioni sciistiche piemontesi. Un bando nel quale non veniva fatta distinzione in base alle dimensioni e al fatturato, portando piccole realtà a dovere giocarsela con le garanzie offerta da colossi come la Riserva Bianca di Limone o la Vialattea. Dopo l’incontro con Alle rimango a farmi un giro a piedi in paese. La nebbia e la leggera nevicata in corso ne accentuano la crisi. Nel piazzale degli impianti l’accumulo di neve supera già il metro ed è stata pulita solo una striminzita traccia che però non arriva alla porta della segretaria. La frazione di Argentera, poco più a monte, è angosciosamente deserta. Sui marciapiedi non si vedono impronte e anche i depositi davanti alle porte sono ancora freschi, come se nessuno li calpestasse da giorni, e probabilmente è davvero così. Qua e là si scorgono dei cartelli di vendita, alcuni già sbiaditi dal tempo. A pochi giorni dall’ormai improbabile apertura per la stagione 2019/20 si indice una nuova assemblea tra gli abitanti del paese per capire se esiste la possibilità di un salvataggio in corner: purtroppo, l’esito è negativo. Rimane una possibilità per garantire almeno il funzionamento del baby, per permettere l’accoglienza delle famiglie, ma si tratta di un palliativo che poco può contro la sconfitta morale ed economica di una località il cui potenziale è rimasto inespresso a causa di una catena di eventi che dalla sua apertura si è prorogata fino a oggi.

Penso ad Alle e ai pochi che rimarranno su a presidiare il fortino contro l’abbandono: la speranza è che un inverno di fermo degli impianti possa far esplodere l’alta Valle Stura come mecca dello scialpinismo sia invernale che primaverile, e allo stesso tempo dare la giusta scossa da cui ripartire. Le premesse, in fondo, ci sono sempre state, sotto forma di un innevamento spesso oltre la media per quantità e qualità, e a differenza del precedente questo inverno è partito in pompa magna. Quella che invece è mancata è stata una direzione comune nella quale procedere, mettendo da parte attriti fra i singoli elementi che potrebbero cambiare le sorti di una valle a pochi passi dal baratro. E allo stesso tempo cercare di uscire da quell’aura di mistero e di non detto che ne ha in parte frenato l’ascesa: qualcuno sussurra che il rischio è che nelle giornate giuste si intasi come ormai succede a Prali, una località che ha saputo rilanciarsi (e salvarsi) in pochi anni grazie alla sua fama di stazione freeride-oriented. Tuttavia, dall’essere un secret spot al diventare un insieme di piloni arrugginiti e baite abbandonate dimenticato il passo è purtroppo breve ed è proprio Argentera a insegnarcelo. Ovunque, nelle Alpi, esistono luoghi che rischiano di morire e che proprio per questo possono avere un fascino particolare, oltre che l’assenza di altri pretendenti per la prima traccia, con le pelli o con gli impianti: piccole borgate che meritano di essere salvate attraverso la loro frequentazione, perché raccontano e custodiscono il passato e il futuro delle Alpi al pari di località più blasonate. Probabilmente poter dire di aver sciato l’Incianao immacolato fa meno figo di aver vibrato su un Toula coperto di gobbe, ma è proprio da qui che bisognerà ripartire.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 127 DI DICEMBRE 2019

© Federico Ravassard

 


Alex Txikon, l'alpinismo è immediatezza

In questi giorni l’alpinista basco Alex Txikon si trova in hotel a Kathmandu, insieme a Inaki Alvarez e Simone Moro. Sta facendo passare i giorni della quarantena richiesta alle autorità locali prima di dirigersi al campo base del Manaslu, che i tre tenteranno in invernale. Puntano a salire la via normale della montagna, lungo la parete Nord-Est. L’obiettivo è, oltre al raggiungimento della vetta principale, il concatenamento con il pinnacolo est (7.992 m). Inoltre l’intero progetto si sviluppa secondo le moderne regole invernali che prevedono di arrivare al campo base dopo il 21 dicembre e portare a termine la salita entro il 21 marzo. La spedizione polacca che ha compiuto la prima invernale il 12 gennaio 1984 ha raggiunto le pendici della montagna il 2 dicembre, realizzando buona parte dei lavori di preparazione della via prima del solstizio d’inverno. 

Abbiamo pubblicato una lunga intervista a Txikon sul numero 130 di Skialper, lo scorso giugno. La riproponiamo a seguire.

«La vita media oscilla intorno ai 33.000 giorni, se dipendesse da me passerei la maggior parte del tempo di questo viaggio tra le montagne. Se ci fermiamo un attimo a pensare, ci sono molte cose importanti. Però solo due sono essenziali: la vita e il tempo. Ed è proprio in questi momenti che guardo indietro e vedo un bambino che gioca e sale sulla bici e, sorpreso e inquieto, mi domando: come è passato tutto così velocemente, vero?».

Alex Txikon è nato nel 1981 a Lemona, nei Paesi Baschi, ultimo di 13 fratelli. E ha cercato di mettere in pratica sempre il suo comandamento. Anche nei mesi scorsi quando si è allenato in Antartide per andare a scalare l’Ama Dablam e tentare l’Everest invernale. Risultato? Road to Himalayas: partenza da Puerto Williams, in Cile, a bordo di una barca a vela il 14 dicembre insieme a Juanra Madariaga per andare a scalare ed esplorare nelle isole Shetland Meridionali attraversando il burrascoso Canale di Drake. Poi all’inizio di gennaio, con solo due giorni di riposo, subito in Nepal per trovare Félix Criado e Ínigo Gutiérrez Arce, che hanno raggiunto il Nepal in auto dalla Spagna. Rientro a inizio marzo, giusto in tempo per chiudersi in casa per il lockodwn. «L’Antartide è uno dei posti più meravigliosi della terra e credo che, piuttosto che attraversare mezzo mondo per raggiungere l’Himalaya od organizzare conferenze stampa e rilasciare interviste, sia molto più interessante stare in montagna con le persone che ti sei scelto e arrivare con una motivazione molto più grande in Nepal. Non era la prima volta in Antartide per me: i paesaggi e la logistica sono unici e si può ancora fare alpinismo ed esplorazione di altissimo livello».

Alex Txikon non è rimasto mai fermo. Il suo curriculum, sulla soglia dei 40 anni, è una lunga lista. Dopo i primi 4.000 nelle Alpi, nel 2003 è arrivato il primo Ottomila, il Broad Peak e l’anno successivo il Makalu; ha iniziato a lavorare come cameraman-alpinista per la trasmissione tv Al Filo de lo Imposible, si è unito al progetto di Edurne Pasaban, prima donna a raggiungere tutti i 14 Ottomila. Lui ne ha raggiunti 11, il Shisha Pangma due volte, alcuni in stile alpino. Dal 2011 è andato in Himalaya ogni inverno e spesso anche nella stessa estate. Nel 2016 la prima invernale del Nanga Parbat sulla via Kinshofer con Simone Moro e Ali Sadpara, nell’inverno 2013 la prima del Laila Peak e in primavera il Lhotse. Nell’inverno 2011 e 2012 tenta il Gasherbrum I, ma è costretto a fermarsi sopra i 7.000 metri e nella seconda occasione perde tre compagni di spedizione. Il G1 e G2 si sono arresi nell’estate del 2011, il K2 mai, nonostante più tentativi, l’ultimo nell’inverno del 2019. E neppure l’Everest, che lo scorso inverno non si è concesso come in quello del 2017 e del 2018. In mezzo spedizioni e prime salite in Antartide, Groenlandia, Himalaya, base jumping, documentari pluripremiati ai vari film festival.

Alex, che cos’è il nuovo alpinismo? 

«È immediatezza, perché oggi con i social media è tutto istantaneo, ma dipende dal tuo Paese di origine, dalla tua visione e soprattutto, oggi, rispetto alle generazioni precedenti, ci sono moltissimi tipi di alpinismo di alto livello».

E l’himalaysmo invernale, che cosa rappresenta per Alex Txikon?

«Gli Ottomila invernali continuano a essere un luogo nel quale mi trovo a mio agio, mi piace lottare con le condizioni meteorologiche, mi piace soprattutto la montagna, perché è completamente diversa e non c’è l’affollamento degli altri mesi dell’anno».

Hai detto che gli 8.000 invernali sono una questione di velocità prima ancora che resistenza, il fast & light è il nuovo alpinismo?

«Credo che più veloce sei, meno tempo passi nei campi in quota, più possibilità hai di raggiungere la vetta e di farlo in maggiore sicurezza, cioè di sopravvivere, perché le finestre meteo favorevoli sono limitate. Passare dal campo 1, 2, 3, 4? Oggi in inverno, con un buon lavoro di preparazione, puoi arrivare direttamente al campo 3».

L’himalaysmo è stato a lungo conquista nazionalistica delle vette, oggi invece unire le forze tra spedizioni può aiutare a raggiungere gli obiettivi, come al Nanga Parbat nel 2016. Però le montagne sono ricche di episodi di rivalità ed è quello che è successo nella tua spedizione al K2 nel 2019 quando non c’è stata collaborazione con la spedizione russo-kazaka-kirghisa.

«Domani (il 14 maggio, ndr) si festeggia il quarantesimo anniversario della prima scalata basca dell’Everest, la quattordicesima bandiera a sventolare sul tetto del mondo, portata dalla Ci sono gli Ottomila invernali, ma ci sono anche i Settemila o i Seimila… «Certo, siamo saliti sul Pumori, l’Ama Dablam, il Laila Peak, il Gasherbrum I, a quote più basse: siamo degli specialisti, non ci ciucciamo il dito e sappiamo quello di cui parliamo».

Come ti acclimati, hai mai usato le tende ipossiche?

«Sì, una volta, aiutano molto, però credo che non ci sia niente di meglio dell’acclimatamento fatto sul luogo, le tende sono un aiuto per chi ha poco tempo».

Limiti, paura, rischio, come ti confronti?

«I limiti, la paura, il rischio li stabilisci tu stesso. La paura, il limite e il rischio sono i compagni della prudenza: più paura, più prudenza. Al contrario di quanto si pensi».

Hai lavorato come cameraman in una trasmissione tv, cosa pensi dell’alpinismo-show e dei mezzi di comunicazione?

«Ci sono anche i social media e io sono attivo, però non sono un appassionato di questo mondo, mi piace ancora leggere sulla carta stampata, invece di premiare l’immediatezza e diventare un consumatore seriale di video, preferisco leggere una rivista mensile e cercare la qualità».

Ali Sadpara, Simone More, Daniele Nardi, Ferran Latorre, Adam Bielecki, Krzysztof Wielicki, Denis Urubko, Tomasz Mackiewicz, Ueli Steck, Reinhold Messner. Le tue strade si sono incrociate con quelle di altri alpinisti, hai qualche ricordo particolare?

«Con tutti, belli e brutti. Ognuno ha la sua strada che ogni tanto incrocia le altre, ma corrono parallele tra di loro e nella stessa direzione. Voglio conservare ricordi positivi di ciascuno di loro».

Ed Edurne Pasaban?

«Questa settimana cade il decimo anniversario della scalata del Shisha Pangma che nel 2010 l’ha fatta diventare la prima donna ad avere salito tutti i 14 Ottomila e sono orgoglioso di avere fatto parte del suo team».

Hai definito il Nanga Parbat la montagna delle montagne, qual è la montagna della tua vita, sempre il Nanga?

«Tutte, tutte le montagne sono spettacolari, tra il Nanga e il Makalu scelgo il Makalu perché è tra le prime che ho scalato e ho dei ricordi particolari, il Nanga Parbat per me è importante come tutte le altre montagne».

Cosa vuol dire essere il tredicesimo figlio?

«Ho sempre dovuto lottare, ogni dettaglio di tutto quello che ho raggiunto l’ho conquistato con il lavoro e l’aiuto degli amici e delle persone vicine, però l’insegnamento più grande che mi ha dato è l’importanza della vita e della forza di volontà, sapere qual è il tuo posto».

La pandemia ha cambiato le nostre vite, anche la tua. Qual è l’insegnamento che ti ha dato?

«Ho lavorato molto, a un nuovo libro, a un film. Ho lavorato quindici ore al giorno, ma ho dedicato il tempo a me invece che agli altri o a stare in aeroporto. Fermarsi, guardare e pensare dove mettere il prossimo granello di sabbia e in che direzione stiamo remando è l’insegnamento più importante».centoquattresima persona, se non sbaglio. Però oggi ognuno scala per sé, per essere più veloce, ci sono gli sponsor: è cambiato tutto. Unire le forze ti dà più opzioni, come è successo con Simone e Tamara, perché noi eravamo in tre, loro in due, e se uno sta male, cosa fai? Credo che per salire un K2 in inverno bisogna unire le forze, costruire e non distruggere».

Qual è la tua filosofia di spedizione? 

«Semplice, che ci sia empatia tra i partecipanti, che tutti siano pagati e che ci sia trasparenza: abbiamo gli sponsor ed è giusto dividere i soldi con gli altri. Devi comportarti bene, devi scegliere l’attività che credi conveniente per sopravvivere e perché il tuo team sia supportato e non ci siano incidenti o morti, ci vuole tutto il necessario per affrontare la sfida».

Nel 2019 volevi provare l’Everest invernale dal versante Nord e poi hai ripiegato sul K2 perché non hai avuto i permessi, perché nel 2020 hai attaccato ancora l’Everest dal Khumbu?

«Anche quest’anno ci sono stati problemi per i permessi e abbiamo sentito che al K2 ci sarebbe stata tanta gente: non abbiamo voluto trovarci nel gioco del 2019 con i russi. Credo che avessero perso del tutto la testa, che pensassero di essere in una partita contro quelli che erano accanto a loro».

Stazioni meteo portatili e droni, nuovi attrezzi per un nuovo alpinismo? I droni sono utili solo per i soccorsi o anche per le ricognizioni? Invece per il campo base ami costruire igloo, perché?

«Avere i dati reali delle piccole stazioni che puoi portarti dietro e quelli che arrivano da lontano è molto diverso. I droni? No, non li usiamo per la ricognizione della via, ma sono fondamentali per i soccorsi. In uno dei voli alla ricerca di Tom e Daniele (Ballard e Nardi sul Nanga Parbat, ndr) dal campo base li ho visti in modo netto. Però solo guardando al passato possiamo costruire il futuro. Per questo al campo base sono utili gli igloo: ci hanno aiutato tantissimo a mantenere un ritmo cardiaco e una saturazione dell’ossigeno nel sangue migliori, a riposare di più, a essere protetti, ma soprattutto a tenere alta la temperatura; ci sono i dati a dimostrarlo: fuori c’erano meno venti e dentro si stava bene, intorno agli zero gradi».

Tra i tuoi partner tecnici c’è Ferrino, da quanto tempo?

«Da un anno, è una marca che mi è sempre piaciuta molto, già al tempo di Edurne Pasaban, è un’azienda di famiglia che quest’anno compie nientemeno che 150 anni. Sono orgoglioso di fare parte di questa grande squadra e di usare zaini, tende e altri prodotti, ma soprattutto di essere ambasciatore dei valori di Ferrino che vanno a braccetto con i miei. Le tende sono le migliori che ci siano, senza alcun dubbio».

Steve House, Mark Twight, Ueli Steck ci hanno insegnato che si può allenarsi per l’alpinismo, come per qualsiasi sport. House ha scritto che l’alpinismo è all’80% mentale e al 20% fisico. Sei d’accordo?

«Steve, Mark, Ueli sono la punta di una freccia che ha segnato una tendenza, anche a me piace allenarmi duramente, ma la motivazione viene prima di tutto. È la motivazione che mi fa raggiungere gli obiettivi e canalizzare tutte le energie. Ottanta/venti? Sono totalmente d’accordo, io direi settanta/ trenta, però devi avere fiducia, credere in te stesso, altrimenti sei fottuto».

Quel bambino che andava in bici ora ama le moto. Nel 2007 si è comprato una Royal Enfield Line Art con la quale ha attraversato il Nepal da Nord a Sud e che è stata distrutta nel 2015 dal crollo dell’edificio che la ospitava a causa del terremoto. Poi è arrivata una Royal Enfield Bullet Machismo con la quale ha viaggiato da Kathmandu ad Amristar, attraversando l’India. «Questo tipo di moto, la sua storia, mi hanno sempre affascinato, così tre anni fa ho comprato la terza, un modello del 1978. L’ho presa a Nuova Delhi e l’ho completamente restaurata, trasformandola in una reliquia da trattare con cura». Nel 2019 quella Royal Enfield è salita su una nave fino a Barcellona e poi su un camion fino in Bizkaia. «Vederla arrivare a casa e aprire quella cassa mi ha fatto salire le emozioni, tornare a quelle strade nelle quali sono cresciuto, ai suoni e ai ricordi di quegli angoli di India e Nepal. Incredibile».

A PROPOSITO DELLA SPEDIZIONE AL MANSALU

Una sfida umanitaria e sostenibile

Come già accaduto lo scorso inverno, anche questa volta Alex cercherà di offrire il suo aiuto ai popoli delle montagne. In questa occasione avrà con sé centinaia di lampadine solari da distribuire alle famiglie che abitano la regione del Makalu. «Una lampadina cambia radicalmente la vita di una famiglia» il commento di Txikon. «Non ce ne rendiamo conto, ma per questi villaggi avere la luce di notte può significare che i bambini possono imparare a leggere e a scrivere». L’altra finalità è quella di fornire strumenti, come le lampadine solari, che lascino il minor impatto possibile sull’ambiente. La stessa cosa anche al campo base dove verranno installati due pannelli solari (uno verrà poi donato alla locale scuola al termine della spedizione).

I prodotti scelti da Alex Txikon

Alex Txikon partirà per il Manaslu con materiali della linea Ferrino High Lab. Il campo base sarà composto dalle tende Colle Sud e Campo Base, mentre per i campi più alti Alex e compagni potranno contare sulle tende Snowbound, Maverick e Pilier, dormendo nei sacchi a pelo HL 1200 RDS Revolution. Tra le tende della linea High Lab spicca la nuova Pilier. Si tratta di un must di Ferrino che è stato aggiornato per alcuni dettagli e uscirà sul mercato il prossimo inverno. Questa tenda, testata da Alex anche nelle sue precedenti spedizioni, è dotata di un sistema di paleria esterna che permette un montaggio rapido.

© Alex Txikon

Su quale nuvola vivevamo?

Avevo iniziato a scrivere prima del lockdown, esplorando i benefici della solitudine in montagna. E poi la macchina si è fermata. La stazione è diventata silenziosa con la chiusura degli impianti di risalita. La natura sta rivendicando i suoi diritti. La purezza delle forme bianche cede il passo alla pacificazione di un paesaggio blu scuro. Scrivo di nuovo, chiuso tra quattro mura, in piena prigionia. Il cielo è caduto sulle nostre teste in questo resort fantomatico. È una stagione senza tempo che incombe.

Il nostro paradiso bianco si sta sciogliendo in un’epidemia di oscurità. Devo ammettere che l’isolamento ha assunto un’altra dimensione, non è più l’idillio che avevo cominciato a descrivere. Avevo pensato che questo periodo mi avrebbe dato ispirazione. Al suo posto, di fronte a me, c’è un grande vuoto. Una pagina, bianca come la neve, e le mie idee che rimbalzano contro i muri. Il mio spirito è atrofizzato e il mio distacco dal mondo esterno ostacola tutta la creatività che nutre il mio interno. Ho bisogno di ossigeno per creare. Il mio cervello è schiacciato dalle notizie quotidiane sull’effetto distruttivo di questo virus. Ho l’impressione che sia un brutto film, eppure è la realtà. Volendo fare una nota caustica, questa crisi causerà senza dubbio meno vittime dell’inquinamento mondiale, quello di quando la nostra società funziona normalmente.

GIORNO 5 — Ahi, ahi, ahi, ahi. Lo schiaffo. Il mese di marzo è freddo. Le carte meteo annunciano che nevicherà! Per quanto possa sembrare sorprendente, e per la prima volta in vita mia, mi sento frustrato. Isolato da tutto, in un edificio austero in stile Shining, osservo il ritorno dei fiocchi di neve di cui non scieremo i colori. Questa esperienza di isolamento è un vero e proprio interrogativo introspettivo sulla mia capacità di sopportare sia la mia ragazza che me stesso. Ma finora tutto bene...

GIORNO 7 — Ogni giorno faccio la stessa cosa. Apro le tende al risveglio e sospiro. Mi piace ammirare questo grande candore nelle prime ore, è la mia libertà che mi fa l’occhiolino. Ne sono privato. Batto la fronte contro il vetro e dialogo con l’altra metà che non sa più cosa fare di me. Devo scambiare metri di dislivello con metri quadrati. La mia testa è calda ma non è febbre. I miei Atris sono arrivati una settimana fa, il giorno della chiusura di La Plagne, ma non c’è la stregoneria del corvo nero. Li guarderò sotto il cellophane e da sotto la trapunta li sognerò fino al prossimo inverno. No, le montagne non si sono mosse, ma il sipario del teatro è caduto sul mondo.

GIORNO MENO 10 — Dieci giorni prima del confino, alla vigilia di questa crisi senza precedenti, avevo approfittato dei nostri spazi aperti, quelli che offrono serenità e contemplazione. L’avevo fatto, senza saperlo, durante la mia ultima giornata sugli sci. «La salita mi ha fatto sentire bene, a ogni passo la neve si rompeva con quel suono muto. Sono in cima da solo, respiro fino in fondo e vivo il momento. Il crepuscolo si avvicina dolcemente e a poco a poco la sua sfumatura blu. La valle diventa cupa e sulle cime ci sono gli ultimi giochi di ombre. Le montagne si addormentano, conservando i loro segreti fino al giorno seguente. Ho scelto di salire per scappare. La luna mi aiuterà a scendere. Non saprei cosa farmene di una frontale che oscura la luce naturale». Il cuore è nostalgico, continuo a rimuginare sulle mie prime tracce nei couloir, i ricordi dei drittoni… Che fortuna vivere in quota, su quale nuvola vivevamo per non accorgercene? In quale bolla eravamo chiusi? Poi, all’improvviso, ci è scoppiata in faccia!

GIORNO 10 — La prospettiva di non sapere cosa accadrà domani non è mai stata così reale come oggi. È difficile perdere la strada, chiusi nel proprio salotto. Eppure sto perdendo l’orientamento, girando in tondo. Di solito i nostri resort sono parchi di divertimento, con la felicità di tutti quei momenti passati a scivolare, a riunirsi, a bere e a baciarsi... E poi, nessuno. Ma all’orizzonte il pianeta respira ancora come prima e mostra una luce incredibile.

GIORNO 13 — È il mio giorno fortunato, sono finalmente interessato a questa fottuta regola sull’esercizio fisico ai tempi del lockdown e mi rendo conto che il perimetro autorizzato è di un chilometro. È più grande e più interessante di quanto pensassi. Gli sci sugli scarponi assumono quindi una dimensione completamente nuova. Stamattina mi sono anche un po’ spaventato. Ho urlato di gioia alla curva a destra. Ho fatto il giro della mia nuova vita e sono risalito a piedi come un escursionista senza fiato che non cammina da due settimane, ascoltando i corvi beffardi che fischiano. Penso che questo cerchio deve essere molto meno collinoso e molto più cementificato altrove e sono felice. Tutto il mio approccio fotografico rimane nell’inquadratura. Volevo vedere cosa potevo ottenere da questo spazio senza barare. Questo è il mio nuovo terreno di avventura, la mia nuova frontiera da non attraversare, altrimenti sono 135 proiettili. 

GIORNO 14 — Il mio modo di guardare alla montagna è cambiato. Non ho più fretta di partire alle 9 in punto per prendere la prima cabina e scivolare a capofitto verso le solite linee. È l’elogio della lentezza. Mi sorprende scoprire itinerari su queste vette che credevo di conoscere. Passo ore su Fatmap, perché la tecnologia è molto presente nella mia vita quotidiana da sequestrato. È uno degli ultimi legami con il mondo esterno, per quanto noioso possa sembrare. Potrebbe essere un couloir che non avevo visto, un altro modo per avvicinarsi all’uscita... Comunque la mia mente sta già scivolando verso il prossimo inverno. E quando il mio cervello inizia a bollire, vado a vedere il tramonto. Ho il mio permesso di muovermi e una libertà effimera, quanto è bello?

GIORNO 15 — La musica ha sempre avuto un posto importante nella mia vita di sciatore. In questo momento l’amplificatore dei bassi Marshall sta suonando a tutto volume nel mio appartamento. A volte mi dispiace per i miei vicini, a volte non mi importa, la mia attività cerebrale è elettrizzante. Guardare le immagini di sci galvanizza il corpo immobile e stimola l’immaginazione. Tra due articoli complottautistici e alcune teorie sulla fine del mondo, riesco a trovare la strada sulle pagine giuste e poi mi butto sui film cult del freeskiing, da Apocalypse Snow a Session 1242 e tutti gli X Games real ski edit. La libertà di sciare con la mente è molto importante in un cervello intricato come il mio.

ALL’INFINITO E OLTRE Abbiamo sempre avuto l’impressione di dominare il mondo, eccoci ora molto meno potenti e molto più insignificanti. Raymond Depardon ha descritto l’elogio del vagabondaggio, nel senso che il tempo e il vuoto possono farci perdere la testa, a patto che accettiamo di farne parte. Ignorare il passato e il futuro e lasciarsi andare all’osservazione del proprio ambiente. Lasciarsi andare. Sicuramente c’è una ricetta per la noia. Non combattere contro il tempo ci aiuterà a girare l’orologio più velocemente, a risolvere il puzzle del vuoto, a trovare i pezzi mancanti di questa umanità che sta girando fuori controllo. E poi, quando avremo bisogno di tornare al ritmo della vita, avremo le chiavi per aprire nuove linee.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 132

© Maxence Gallot

Giù al nord

Una piacevole brezza ci accarezza la pelle, una delle tante stranezze di inverni sempre più atipici in Appennino. L’Appennino centrale è caratterizzato da condizioni meteo variabili, ma il climate change ha reso tutto ciò ancora più imprevedibile. Tornare sulla catena dei Monti della Laga, Colle del Vento e Monte di Mezzo è un po’ come andare oltre la distruzione del sisma del 2016. Attraversare Amatrice, con il campanile della sua chiesa, unica struttura rimasta in piedi, e gli altri paesi quasi del tutto rasi al suolo per raggiungere Campotosto, da dove iniziano le salite, è come allontanare il passato e riconnettersi al futuro che verrà. 

Le salite con le pelli verso le vette, quasi tutte a Est della catena della Laga, attraversano bellissime faggete che sembrano avere lo stesso pattern per quanto sono regolari e simmetriche. Fuori dal bosco si continua a fare traccia risalendo pendii ondulati e dolci su una neve ancora fredda, condizioni insolite per questo posto, dove solitamente le creste sono battute dal vento e la neve è icy e insidiosa.

Raggiunto Colle del Vento si gode di una fantastica vista sul Mare Adriatico a Est, Gran Sasso a Sud-Est e Lago di Campotosto a Ovest. Il paesaggio richiama scenari tipicamente nordici, il contrasto tra le alte vette, le dolci colline coperte di neve, il lago di Campotosto e la luce bassa all’orizzonte è fantastico. L’assenza del solito fastidioso vento, da cui il toponimo, ci dà modo di godere ancora per un istante del paesaggio. A Nord le vette si susseguono tra un vado – il più noto il Vado di Annibale – e l’altro. Monte Gorzano, Pizzo di Moscio, Macera della Morte, Pizzo di Sevo e più a Nord i Monti Sibillini.

È tempo di andare: la discesa nella powder, nel canale Sud-Est con vista Gran Sasso e sui pendii dolci e poi nella larga faggeta fino ad arrivare al lago dà un gran gusto. Ogni volta che torno in Appennino vengo su queste montagne, ma condizioni di neve così non le avevo mai trovate. Un’altra stranezza degli inverni appenninici. Arrivati al lago ci fermiamo ad ammirare le ultimi luci del tramonto sul Gran Sasso e Monte Corvo, torneremo presto!

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 132


Powder to the people

Facciamo un gioco di parole per gli auguri del 2021. Powder to the people. Eh sì, questo terribile 2020 – come effetto collaterale rispetto a lutti e disagi, sia chiaro – si è portato via anche una delle riviste simbolo di un modo di interpretare la montagna e lo sci, la statunitense Powder. Anche per uscire di scena ci vuole stile. E l’ultimo numero di Powder, in distribuzione dallo scorso 20 novembre, è come una linea inaspettata e da fuoriclasse disegnata da Doug Coombs nella powder dell’Alaska. Powder 40.2 esce con una copertina che è la celebrazione moderna della prima cover, del 1972: uno sciatore che volteggia in aria, sullo sfondo della luna. Virata in bianco e nero, con lo stesso logo e lo stesso strillo annual portfolio of the other ski experience. L’alfa e l’omega, quella forza rivoluzionaria dell’uscita 1 del volume 1 celebrata con uno scatto di Nic Alegre che aggiorna lo stile sciistico e cita alla perfezione la foto originaria, con il dettaglio da intenditori della luna duplicata più piccola nell’angolino in alto a sinistra.

Su Skialper 133 di dicembre-gennaio abbiamo voluto dare il nostro tributo a un media che era diventato barometro culturale del mondo della neve con un’intervista all’ultimo capo redattore, Sierra Shafer, e pubblicando alcune delle copertine più originali.

«Nei nostri 49 anni come The Skier's Magazine, abbiamo cercato di essere una rappresentazione onesta dello sci in neve fresca. A volte abbiamo mancato il bersaglio, ma nel nostro sforzo di trovare e raccontare le storie più essenziali dello sci, avere una voce autentica - da parte degli sciatori e per gli sciatori - è stato l’obiettivo» ha detto Shafer. «Non ci sarà mai più un altro Powder Magazine. Però, se vinceremo la nostra battaglia contro il cambiamento climatico e il coronavirus, ci sarà sempre lo sci. Finché ci saranno sciatori, ci saranno storie da raccontare - chi siamo, come lo facciamo, perché lo facciamo -. Nell'industria dello sci si comincia a vedere la luce in termini di inclusione di storie su sciatori provenienti da contesti più diversi. Non possiamo smettere di farlo; c'è ancora tanto lavoro per rendere lo sci un luogo sicuro e inclusivo non solo per sciatori bianchi, ricchi ed eterosessuali. Ecco perché perdere qualsiasi piattaforma, non solo Powder, sarebbe devastante per l'industria dello sci e per la nostra comunità». Chiudiamo l’anno con questo augurio, che lo sci «diventi un luogo sicuro e inclusivo non solo per sciatori bianchi, ricchi ed eterosessuali».

Noi di Skialper ci siamo e andremo avanti per la nostra strada, cercando di andare oltre l’apparenza delle cose, cercando le storie e l'autenticità. E contiamo anche sul vostro sostegno. Buon 2021 e, visto che là fuori la neve non manca, powder to the people!

la prima e l'ultima copertina di Powder

Sciare al tempo del Covid-19

Limitazioni, distanziamento, paure. Lockdown permettendo, potrebbe essere l’inverno dello scialpinismo. Sarà davvero così? Ne parliamo diffusamente su Skialper 133 di dicembre-gennaio in un dossier di 60 di pagine, partendo dalla situazione generale, dai dati economici, per poi analizzare le prospettive con i professionisti, le Guide alpine, e i negozianti. E per affrontare le tematiche della sicurezza e i consigli per iniziare, dalla tecnica (con i suggerimenti di Alberto Casaro), all’abbigliamento e all’attrezzatura, che trattiamo anche nelle pagine dedicate al must have dove abbiamo divido sci e scarponi per tipologia di newcomer. Oltre 40 attrezzi perfetti per chi sa già sciare, anche bene, e vuole provare a mettere il naso fuori dalle piste. In mezzo a tanta incertezza, l’unico dato certo è che lo scialpinismo era già uno sport con numeri in crescita prima della pandemia e l’inverno diverso che stiamo vivendo ha dato un’ulteriore spinta. Prima dei lockdown autunnali è stata una corsa all’acquisto di sci e scarponi, che si è poi fermata ma ora è difficile trovare attrezzatura da skialp perché spesso è andata esaurita. Però regna l’incertezza sul futuro, anche quello prossimo. Così le Guide alpine si sono organizzate e hanno adattato i loro programmi, per esempio trasformando in streaming le lezioni teoriche in presenza e promuovendo i corsi con quattro-cinque uscite per iniziare, proposti a poche centinaia di euro. L’importante è adattare la propria tecnica alla neve polverosa o rovinata ma non battuta e magari individuale set-up che possa funzionare sia dentro che fuori. «Al netto di tutto, e soprattutto di ragionamenti oggi impossibili da fare, resta allora una sensazione - scrive Veronica Balocco nell’introduzione - Qualcosa comunque cambierà. Tanti o pochi che siano, un po’ per la paura della malattia, un po’ sulla scia di tendenze già in atto, un po’ invogliati dalle restrizioni, i migranti esisteranno. E la loro transizione alle discipline più free, meno socialmente invasive, farà la differenza di un’intera stagione. Soprattutto in termini di approccio, sicurezza, formazione e preparazione. Le voci dall’interno, quelle che seguono la filiera intera, dall’acquisto alla pratica, confermano che sarà così».

© Alice Russolo

Onde

«Chi lo fa per amore, chi per desiderio, chi per narcisismo, chi per sentirsi giovane. Io lo faccio per noia, solo fottutissima noia. La ragione è che non ne posso più di scendere le autostrade di neve. Un giorno dalla seggiovia guardo i puntini che disegnano la stessa traccia con gli stessi sci e lo stesso lasciapassare sullo stesso identico monotono piatto insulso tappeto di neve da cannone e trabocco di noia. «Sono così anch’io?», mi chiedo fissando gli scarponi di plastica lattescente, e piuttosto di fare il puntino torno indietro con la seggiovia. Fuori pista non posso andare perché ci sono i sassi: i puntini sciano sulla striscia di carta igienica. Non so niente del surf da neve. Neanche il nome, infatti non si chiama così».

Comincia proprio così il bel racconto intitolato Onde e scritto da Enrico Camanni che pubblichiamo su Skialper 133 di dicembre-gennaio. Onde è un estratto del più lungo racconto che potete trovare sul numero di AA Arcipelago Altitudini, il nuovo prodotto editoriale della nostra casa editrice. Una narrazione perfettamente in tema con il numero di dicembre-gennaio di Skialper perché parla di un inizio. Di uscire dalle piste per provare qualcosa di nuovo, lo snowboard. Come tanti stanno uscendo dalle piste per provare lo skialp o per salire e scendere con le splitboard. «Navigare i mari di neve fresca, invece che grattugiare le piste. Farsi attrarre dalla filosofia dello snowboard e decidere di sperimentare il nuovo linguaggio. Per caso, come succede per le cose importanti della vita. Basta non dire di no» scrive Enrico Camanni. Come non essere d’accordo, a maggior ragione in questo particolare momento?


Solving for Z: il nuovo cortometraggio TGR/Patagonia

È un sottile gioco tra prevenzione e rischio. Andare in montagna in inverno comporta studio, allenamento, esperienza. Ed è quello che fa da una vita la Guida alpina Zahan Billimoria, protagonista di Solving for Z, a calculus of risk il nuovo cortometraggio di Teton Gravity Research presentato da Patagonia (in lingua inglese). 

Zahan, che vive in Whyoming, nonostante la meticolosità e il continuo aggiornamento, nel 2015 rimane coinvolto in un incidente da valanga con alcune vittime e quell’episodio condiziona la sua vita e il suo modo di andare in montagna negli anni successivi. Il film si apre proprio con una valanga filmata con una action camera e lo schermo che diventa improvvisamente bianco, inghiottito dalla neve perché, durante le riprese, nella scorsa primavera, Zahan si è trovato lui stesso (per fortuna con conseguenze limitate) coinvolto in un incidente. La presenza dei sottotitoli, sempre in inglese, aiuta la comprensione.