Skialper Archive / Balkan express

Un biglietto ferroviario di sola andata Monaco-Salonicco. Due biciclette e gli sci legati al telaio. Duemilacinquecentoventi chilometri in autosufficienza per tornare a casa ed esplorare i Balcani, tanto sulle alpi c'era poca neve. Diario di 31 giorni indimenticabili.

Testo e foto di Max Kroneck e Jochen Mesle

D1 0-68 km 

Finalmente siamo qui, alla stazione ferroviaria di Salonicco. Le ultime settimane sono state piuttosto stressanti. Durante i tre giorni di viaggio in treno siamo riusciti a recuperare un po’ di sonno, ma ora finalmente si comincia.

D2 68-123 km 

Ieri siamo rimasti subito bloccati. Ora dobbiamo togliere il fango dalle ruote, poi proseguiremo lungo la costa sotto il nevischio. Freddo e umidi- tà, però il cibo greco fa dimenticare tutto. La gente del posto parla di un buon inverno sul Monte Olimpo, quindi il nostro obiettivo è salvo.

D3 123-142 km

È l’alba quando lasciamo Litochoro. La strada non è ancora stata ripulita e rimaniamo presto bloccati nella neve, continuando a spingere le biciclette finché non passiamo agli sci. Attraversiamo un bosco da favola e arriviamo in un bivacco invernale, che raggiungiamo al buio. Fa piuttosto freddo, ma la zuppa è calda.

D4 142-167 km

Siamo saliti attraverso la neve profonda fino alla vita. In cima soffia un forte vento. Ci sfoghiamo nel bosco. Polvere profonda e vista sul mare: c’è di meglio? Poi, una divertentissima discesa nel sottobosco per tornare alle nostre biciclette. Che esordio con gli sci!

D5 167-286 km

Finalmente esce il sole, ma fa ancora troppo freddo per i pantaloncini. Oggi copriremo un po’ di distanza: la prima tappa di oltre 100 chilometri è alle porte e non vediamo l’ora di tornare a sciare, questa volta nella Macedonia del Nord. Quindi una rapida sosta al supermercato e via...

D6 286-392 km

Tanta pioggia, che poi si trasforma in neve. In bici è fastidiosa, ma potrebbe essere molto meglio con gli sci. Oggi non è stata la giornata più facile del viaggio, ma - lo diciamo a bassa voce - ci siamo divertiti un po’. Al confine ci consigliano le migliori discese e i migliori après-ski del Paese.

D7 392-422 km

Raggiungiamo il comprensorio sciistico di Kopanki pedalando, su una strada per una volta già liberata dalla neve. Jonche, una Guida alpina, ci mostra orgoglioso la sua montagna. Usciamo dall’area sciistica e saliamo sul monte Pelister. Un’altra giornata di neve fresca fino alle ginocchia e nessuna traccia in vista. Non riusciamo a fermarci, è troppo bello e troppo diverso dalle Alpi nelle scorse settimane, per questo raggiungiamo le nostre biciclette con il buio.

D8 422-515 km

Dopo un lungo commiato dal nostro ospite, che si è preso cura di noi nelle ultime due notti, abbiamo iniziato a pedalare verso la nostra destinazione, il monte Korab. Vicoli ciechi, gomme sgonfie e telai oscillanti non ci impediscono di raggiungere il lago di Ohrid. Un posto meraviglioso, ma siamo troppo stanchi per guardarlo da vicino.

D9 515-624 km 

Il percorso costeggia lunghi bacini artificiali e grandi discariche in mezzo ai fiumi. Prima dell’ultima salita, un abitante del luogo ci ha avvertito che negli ultimi giorni qui sono stati avvistati dei lupi. Ma, soprattutto, dobbiamo stare attenti agli automobilisti ubriachi. Dopo un lungo spostamento notturno attraverso la tempesta, abbiamo raggiunto Radomirë, un piccolo villaggio albanese di montagna ai piedi del monte Korab.

D10 624-668 km 

Dopo molti tira e molla, oggi abbiamo deciso di non mettere gli sci. Con il vento, la temperatura percepita dovrebbe essere di circa -30 °C... Così abbiamo il tempo di pianificare meglio le prossime tappe e di prendercela comoda e non è male quando le gambe sono appesantite da centinaia di chilo- metri e altrettante curve nella polvere. Però anche in bicicletta il vento non ci lascia in pace e ci fa quasi uscire di strada.

D11 668-748 km 

In un’altra discussione con i nostri contatti locali abbiamo preso la decisione: dobbiamo usare l’autostrada per attraversare il confine e risparmiare così una deviazione con molti metri di dislivello. Con la bici in autostrada? Già... partiamo piuttosto nervosi. Ma il viaggio si rivela meno selvaggio del previsto, anche se non certo piacevole. Arrivati in Kosovo, ci facciamo già un’idea su Prizren e dintorni direttamente dalla sella. Più tardi, abbiamo l’opportunità di parlare con Edis, che ci fornisce utilissime informazioni sul Kosovo e sulle sue montagne. Dopo una lunga pausa, riprendiamo le bici con temperature ben al di sotto dei -5 °C e risaliamo il passo verso i monti Sharr, dove ci aspetta tanta neve fresca.

D12 748-756 km 

Non possiamo creder ci. Ancora una volta abbiamo una montagna tutta per noi e la neve è di nuovo fresca e alta fino al ginocchio. Non salia- mo troppo, perché sopra gli alberi non c’è visibilità, ma le corte discese nel bosco sono piene di pillow e valgono come migliaia di metri di dislivello.

D13 756-891 km

Oggi è stato il primo giorno di bel tempo da quando siamo scesi dal treno. La partenza però ha lasciato il segno con il termometro che segnava -12 °C e una discesa di oltre 1.200 metri di dislivello da affrontare sulle due ruote. Brrr! Le bici hanno puntato verso la valle di Valbona, in Albania. Ti trovi da- vanti un enorme scenario di montagne, da tutte le parti; è uno dei giri in bici più belli che abbiamo mai fatto. Il sole stava già tramontando quando abbiamo attraversato il confine albanese e nell'ultimo tratto abbiamo pedalato di nuovo al freddo e al buio.

D14 891-901 km

Quattro telecamere riprendono Max mentre si gode la sua seconda linea e scende urlando di gioia. Non è facile documentare le emozioni e soprattutto... quanto è perfetto quas- sù. Il sole splende, anche se abbiamo iniziato la nostra gita con le pelli solo alle 11 del mattino, dopo una lunga dormita e una mattinata rilassata. C’è ancora la neve perfetta e tutta l’area (quasi tutta la valle di Valbona) per noi.

D15 901-950 km

La sveglia suona alle cinque. Passo dopo passo, attraverso la valle ghiacciata, poi metro dopo metro su per i cespugli fitti. Ieri siamo saliti sui fianchi della valle, oggi raggiungiamo il fondovalle e saliamo al Maja e Boshit. La vista in cima è più che grandiosa, ma ci accorgiamo che non è la cima giusta, quindi andiamo sull’altra, a 2.414 metri. Dopo aver goduto di questi enormi pendii incontaminati, dobbiamo lottare per tornare indietro facendo lo slalom tra i cespugli. Una volta arrivati in fondo, ci tocca ancora pedalare.


D16 950-1.076 km

Il traghetto allontana le linee e possiamo rilassarci un po’ mentre percorriamo una certa distanza. Dopo una lunga riflessione, abbiamo scelto di usare il battello lungo il fiume Drin, da Fierzë a Komani, invece di fare il giro dell’intera catena montuosa, per- ché così risparmiamo due giorni che non avremmo comunque avuto a disposizione. Siamo circondati da un paesaggio incredibile di gole, rocce a strapiombo e acque verdi. Quando attraversiamo il confine con il Montenegro, è già buio.

D17 1.076 km

Oggi è stato un giorno speciale, prima di tutto perché non abbiamo pedalato. A Podgorica abbiamo lasciato le bici in rimessa per un giorno e incontrato Srdja, un artista montenegrino che le ha dipinte. Ma soprattutto Srdja ci ha dato tante dritte sul cicloturismo in Montenegro e sui Balcani.

D18 1.076-1.196 km

Purtroppo dobbiamo rinunciare a sciare sulle montagne del Montenegro, perché mancano ancora tanti chilometri da percorrere, ma va tutto molto bene e raggiungiamo la Bosnia-Erzegovina poco dopo l’alba. Dove possiamo trovare cibo e riparo?

D19 1.196-1.304 km

Dopo una notte folle nel cuore di Bileća, circondati da persone ubriache e assordati dagli schiamazzi, le strade tortuose continuano e aumenta anche il vento laterale. Ci sorpassano così tanti camion che sembra di pedalare a 20 centimetri da un muro. Esausti, chiudiamo la giornata subito dopo Mostar e speriamo in una mattinata tranquilla...

D20 1.304-1.384 km

Wow, che bell’altopiano quello del Parco Nazionale di Blidinje. E non c’è nessuno qui, a parte noi. Le montagne sembrano selvagge e la sensazione è che non nevichi da giorni. Vediamo se riusciamo a trovare qualche bella linea da sciare domani.

D21 1.384-1.434 km

I nostri timori sono confermati: sotto i nostri piedi sembra che ci sia più ghiaccio che neve, ma il panorama è magnifico e ci godiamo il viaggio. Illuminati dagli ultimi raggi di sole, cambiamo assetto, legando gli sci alla bici, e partiamo verso il tramonto.

D22 1.434-1.576 km

Sole, pantaloni corti, strade sterrate: una bella giornata. Le nostre preoccupazioni per le condizioni della neve aumentano chilometro dopo chilometro: la vera domanda è piuttosto se troveremo ancora neve in Croazia.

D23 1.576-1.701 km

Scuotendo la testa, osserviamo gli incendi sul ciglio della strada. Abbiamo optato per un passo dove in inverno dovrebbe esserci un’area sciistica e speriamo di trovare qualche residuo di neve a Velebno, sui Velebit. Ci consoliamo comprando qualche altro spuntino e torniamo in sella; bisogna pedalare.

D24 1.701-1.776 km

Ammettiamolo... a volte, non è così facile come sembra. È tardi, non abbiamo ancora trovato la neve e ora dobbiamo tornare indietro di 15 chilometri, perché qui non c’è cibo né acqua. Dopo una pausa e un bicchiere di vino ci sono ancora 1.500 metri di dislivello, ma il nostro umore è migliore e saliamo metro per metro ben dopo il tramonto, al buio. Speriamo almeno che ci sia ancora della neve lassù, verso il monte Buljma.



D25 1.776-1.831 km  

Sopra a Stinica abbiamo trovato la neve. In Croazia, a marzo. Wohoo! Giusto qualche chiazza, ma c’è qualcosa di unico nel fare un paio di curve con una t-shirt, sciando nella pappa, tra i prati fioriti e con lo sguardo che corre sul mare. Abbiamo costruito un piccolo kicker e ce la siamo goduta, prima di scendere a tutta velocità verso il mare.

D26 1.831-1.971 km

Stiamo pedalando in riva al mare, perché dobbiamo stare vicini ai 200 battiti al minuto anche oggi? Be’, qui tra Croazia, Slovenia e Italia c’è molta salita. Anche la città di Fiume sembra essere tutta su e giù. Però siamo riusciti a ricavarci del tempo per un delizioso pranzo, prima di pedalare verso Trieste e chiudere la giornata con una pizza e un cappuccino.

D27 1.971-2.100 km

Saranno l’ottimo espresso triestino, il sole, i 25 °C, il tuffo rinfrescante in mare e la prospettiva di un’emozionante sciata sulle Alpi slovene, ma oggi abbiamo più voglia di pedalare degli ultimi giorni. Giusto il tempo di rilassarci ancora un po’ al mare e via verso la Slovenia, passando per Cividale del Friuli e il valico di Stupizza.

D28 2.100-2.127 km

Sembra impossibile: siamo tornati sulle Alpi, ma in Grecia c’era molta più neve. Una giornata piuttosto indecisa si conclude finalmente sul Passo di Vrsic e domani vogliamo fare qualche escursione con gli sci.

D29 2.127-2.163 km

Che montagne! Anche se non nevica da cinque settimane, iniziamo presto a camminare in una valle selvaggia. Il cuore di Max sobbalza, perché oggi ci aspettano due bei canali. A causa delle temperature calde e della mancanza di precipitazioni, nei couloir ci sono quasi più pietre che neve, ma è molto divertente e concludiamo la nostra ultima giornata di sci con un grande sor- riso, dopo aver raggiunto la vetta del Mala Ponca (2.468 m), sopra Kranjska Gora.

D30 2.163-2.310 km

Tre passi, due rapporti, una speranza. Il cambio elettronico di Max è ancora difettoso. Più precisamente, può scegliere tra la marcia più bassa e quella più alta, quindi è un gioco di equilibri tra allenamento e forza massima. Per fortuna, il negozio di bici che ci hanno consigliato mantiene le promesse e finalmente possiamo pedalare lungo la Drava in direzione di Katschberg e Obertauern, in Austria. Peccato solo che sia già passato mezzogiorno.

D31 2.310-2.520 km

Si torna a casa! :) Dato che non possiamo, come speravamo, arrivare a Monaco di Baviera quando c’è il sole e che anche nelle Alpi Bavaresi non è una stagione invernale da ricordare, non abbiamo dubbi: a tutto gas, via verso la tappa più lunga, gli ultimi 210 chilometri di un viaggio che non scorderemo mai.




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Skialper Archive / Ortles Friends, fidarsi & affidarsi

Gabriel Tschurtschenthaler soffre di un disturbo degenerativo
della vista, così per salire in vetta ha creato una cordata
perfetta con le Guide Vittorio Messini e Matthias Wurzer.
Che è arrivata sul Cerro Torre e sulla cresta Hintergrat.

Testo di Elena Casolaro, foto di Damiano Levati/Storyteller Labs

Radice a sinistra. avverte Vittorio, in testa alla cordata. Gabriel segue le indicazioni, spostandosi a destra, e Matthias lo osserva da vicino, affinché eviti ogni ostacolo. I tre alpinisti procedono in cresta, muovendosi tra canaloni ghiacciati e camini di roccia e avvicinandosi alla vetta un metro alla volta. Potrebbe sembrare una cordata come tante, ma Gabriel è affetto fin da piccolo da un disturbo degenerativo della vista, e dell’ambiente che lo circonda distingue solo immagini sfocate. Se nasci in Alta Pusteria, in montagna ci devi andare per forza: non c’è molto altro da fare. Così Gabriel Tschurtschenthaler, altoatesino classe 1988, inizia da bambino a scorrazzare per creste e prati. Verso i 15-16 anni, le sue facoltà visive cominciano a diminuire lentamente, dandogli il tempo per fare ciò che gli viene naturale: cercare un modo per continuare a fare alpinismo. Il suo modo ha un nome e un cognome, anzi due, quelli di Vittorio Messini e Matthias Wurzer, entrambi Guide alpine.

I tre si conoscono scalando su ghiaccio e il loro rapporto è fin da subito qualcosa di più di quello Guida-cliente. Iniziano ad andare in giro insieme, diventano amici e progettano vette da conquistare. A uno viene un’idea, oppure spesso tutti e tre hanno già in testa la stessa montagna. Si informano e cercano la via più adatta alle loro esigenze, magari che sia stata già ripetuta da Matthias o Vittorio e che lasci la possibilità di calarsi in discesa. La stessa cosa che farebbe una cordata normale, con qualche accortezza in più e la massima concentrazione da mantenere per tutta la durata dell’ascensione, evitando anche il minimo inciampo. Ognuno si fida degli altri, oltre che di se stesso, e questo è il vero punto di forza della squadra. Gli altri sensi di Gabriel compensano le mancanze della vista: si muove affidandosi al suo equilibrio, alle sensazioni trasmesse dalle piante dei piedi e alle indicazioni minuziose dei compagni, con cui si intende al volo. Così riesce a trovare le giuste prese per le mani o i migliori appoggi per i piedi, a conficcare le punte di piccozze e ramponi nel ghiaccio e a scegliere il percorso più sicuro su cui camminare. Gabriel ha inoltre grande consapevolezza del proprio movimento nello spazio e distingue chiaramente un tratto di roccia solida da uno sfasciume, indovinando il momento preciso in cui accorciare il passo o cambiare direzione.


Oggi essere autosufficienti e bastare a se stessi sono considerati i massimi valori a cui aspirare: farcela da soli, senza chiedere l’aiuto di nessuno. Quando domando a Gabriel cosa si prova a riconoscere di essere completamente dipendenti dagli altri in questo contesto, risponde che non gli è mai piaciuto fare affidamento su qualcuno, per lui farcela da solo è sempre stato un grande obiettivo. Ma a un certo punto ha dovuto ammettere di non poter continuare a fare certe cose, senza aiuto. Aveva solo due scelte: accettarlo, o mollare. Inutile dire che l’alpinista altoatesino non si è arreso, ha scelto di affidarsi ai suoi amici e continuare ad andare in montagna. Matthias e Vittorio sono i suoi occhi e anche loro, descrivendo con precisione qualcosa che Gabriel non può vedere, ottengono una prospettiva nuova sulla montagna. Tutto questo ha un piacevole effetto collaterale: l’assoluta fiducia che si costruisce tra i tre amici vetta dopo vetta e che è forse più importante della salita stessa.



Le imprese di Gabriel riflettono la sua determinazione: nel dicembre 2021, vola in Patagonia per provare a raggiungere la vetta del Cerro Torre insieme a Matthias e Vittorio, da un’idea di quest’ultimo. Una montagna iconica e che pone molte sfide, prima fra tutte l’avvicinamento: la base della via dista dall’ultimo paese 40 chilometri, di cui buona parte su ghiacciaio e il resto su roccia. Quando i tre riescono a raggiungere la base della parete, rimangono da affrontare le difficoltà. dell’arrampicata: impiegano due ore e mezza solo per salire l’ultimo tiro della via. Per questo, una volta conquistata la cumbre, la prima sensazione provata da Gabriel è il sollievo per esserci arrivati tutti interi. Poco dopo, la necessità di rimandare l’esultanza e rimanere concentrati: la discesa è, infatti, lunga e la vetta è solo a metà strada. Ma l’avventura patagonica non fa che affiatare la cordata e alimentarne la fame di nuove imprese. Così lo scorso aprile troviamo i tre alpinisti sull’Ortles, la cima più alta dell’Alto Adige, la stessa che Gabriel guardava da bambino col naso all'insù. Proprio per questo ci vuole andare: arrivare in vetta alla maggiore tra le montagne di casa, è qualcosa che sente di dover fare. La via scelta è la cresta Hintergrat, spesso esposta e con tratti di roccia friabile che per Gabriel rappresentano la maggiore insidia. I tre procedono seguendo uno schema ben preciso: quando Vittorio sale da primo, avverte gli altri due di ogni ostacolo, mentre Matthias sta alle spalle di Gabriel, seguendone ogni mossa. Viceversa, quando . Matthias a guidare la cordata. Così, i tre conquistano i 3.905 metri della vetta. La giornata è limpida e il panorama in cima all’Ortles lascia senza fiato, mille picchi bianchi che bucano le nuvole e si allungano verso il cielo. Gabriel sente il vento sul viso, l’odore della neve che fonde, il calore del sole e la grandezza del vuoto tutto intorno a sé. Sembrava impossibile, ma ci ha creduto e ce l’ha fatta. Tocca la croce di vetta, abbraccia gli amici e gli sembra quasi di riuscire a vederlo, il panorama.

L'OUTFIT DI GABRIEL, VITTORIO E MATTHIAS

Gabriel, Vittorio e Matthias durante le loro ascensioni non si possono permettere distrazioni, neanche quelle derivanti da un abbigliamento meno che perfetto. Per questo hanno scelto la collezione Ortles di Salewa, una linea in vendita da questo mese, basata su funzionalità ed essenzialità. Giacca e pantaloni Ortles 3L GTX Pro Stretch hanno svolto egregiamente il loro dovere sia sul Cerro Torre, sia sull’Ortles, Gabriel si ritiene pienamente soddisfatto: «Ho sempre la stessa giacca e non voglio cambiarla». Si tratta di prodotti pensati per l’alpinismo invernale più tecnico e le cascate di ghiaccio, realizzati per adattarsi a qualsiasi sfida. «La giacca hardshell, dal taglio ampio, lascia sufficiente gioco per un abbigliamento a più strati - indispensabile in inverno - e dona un senso di comfort senza costrizione» commenta Vittorio. La giacca (650 euro) è costruita in Gore-Tex Pro a tre strati, per una maggiore resistenza del tessuto all’abrasione. Troviamo due diverse tecnologie di Gore-Tex: gli inserti ergonomici Gore-Tex Pro Stretch, strategicamente posizionati in corrispondenza delle spalle e dei gomiti, lasciano tutta la libertà di movimento necessaria per l’alpinismo e l’arrampicata. Nelle aree esposte, invece, si è puntato sulla protezione dalle intemperie e la resistenza all’abrasione con la tecnologia Gore-Tex Pro Most Rugged, che assicura isolamento e durevolezza. Il capo presenta inoltre ampie tasche anteriori, che consentono di accedere al dispositivo ARTVA senza spogliarsi. Il cappuccio è regolabile e, grazie al soffietto nascosto sul retro, può essere utilizzato con e senza casco. Per quanto riguarda i pantaloni hardshell (550 euro), anche questi sono molto protettivi, impermeabili e traspiranti. Il design segue l’anatomia del corpo per lasciare le gambe libere di muoversi e le zip laterali permettono la massima ventilazione. Nei pantaloni, gli inserti in Gore-Tex Pro Stretch sono posizionati sulle ginocchia, in vita e sulla seduta. La parte inferiore della gamba è costruita per adattarsi agli scarponi da alpinismo e da scialpinismo e l’inserto elasticizzato permette di regolare l’ampiezza dell’orlo, così da evitare che i ramponi si impiglino. All’interno della collezione troviamo anche Ortles Ascent Mid GTX, uno scarpone da alpinismo leggero e funzionale che accetta ramponi semi-automatici. Vittorio lo utilizza per lunghe giornate su roccia e ghiaccio in alta quota e ne è entusiasta: «Una scarpa che non perde comodità nemmeno durante le uscite più lunghe e intense e che convince grazie all’ottimo grip e alla sicurezza che trasmette a ogni passo, senza limitare la mobilità. Un mix riuscitissimo, perfetto sia per noi Guide, che per le persone che si affidano a noi». Ortles Ascent Mid GTX adotta una suola Vibram con inserto per l’arrampicata, tomaia in robusta pelle da 2,2 mm, abbinata a una membrana Gore-Tex Insulated Comfort, che mantiene il piede caldo e asciutto anche in inverno. L’Ankle Protector System (APS) sulla caviglia aumenta la stabilità e la tenuta della tomaia; un supporto in più, che si rivela prezioso per proteggere dagli infortuni durante i lunghi tour in alta montagna, quando le discese danno fondo alle ultime riserve di energia. Pesa 850 gr e costa 370 euro. La combo perfetta è con lo zaino Ortles Guide 35L, studiato sulle esigenze di chi pratica alpinismo in inverno e deve attrezzarsi per affrontare uscite di più giorni, che comprendano anche passaggi di arrampicata. Compatto e leggero (1.280 gr), ha chiusura rolltop, attacco magnetico per la corda, scomparto per la pala e la sonda, fascia lombare separabile, doppio attacco per la piccozza, cerniera 3-way per un accesso rapido e completo allo scomparto principale. Il sistema di trasporto Salewa Dry Back Contact riduce l’area di contatto dello zaino con la schiena, garantendo una migliore circolazione dell’aria. Costa 190 euro ed è disponibile anche nella versione da 45 litri.

www.salewa.com

Giacca Ortles 3L GTX Pro Stretch
Scarpone Ortles Ascent Mid GTX
Zaino Ortles Guide 35 L

Skialper Archive / Fermo immagine

Si può condensare in una fotografia la gioia
di una linea disegnata con naturalezza su
un minuscolo canale tra le rocce? È più difficile che farlo in un film come Roots, ma il foto racconto delle discese di Sam Anthamatten, Yann Rausis e Simon Charrière tra le Dolomiti è un’ottima eccezione

Testo e foto Matteo Agreiter

Lo sguardo si era posato diverse volte su quella linea stretta e dritta, un canalino ripido, a metà della Forcella Pordoi, proprio sotto il Sass Pordoi. Ho sempre pensato che nessuno l’avrebbe mai sciata. Troppo stretta, difficile ridurre la velocità e riprendere il controllo. Quel primo giorno, con la neve che luccicava per il rigelo, non mi era neppure passato per la testa quel pensiero ricorrente. Invece Sam, appena l’ha vista, non ha esitato nemmeno un minuto. È sceso come una scheggia, senza una curva; poi, sul duro finale, una leggera piega per frenare, in tutta sicurezza. Incredibile. Ancora più incredibile quando ci ha confidato di aver dimenticato gli scarponi in posizione walk. Non potevo credere ai miei occhi. Sam non è altro che Sam Anthamatten. All’inizio di marzo ce lo siamo ritrovati in casa insieme a Yann Rausis, che con il suo short movie From Source sta facendo parlare il mondo dello sci di montagna, e Simon Charrière, freerider ma soprattutto artista perché, oltre a disegnare scie nella neve, le pennella su tela e su carta, con grande maestria. Lo ha fatto anche per Skialper con le cover interne del numero dello scorso giugno. Insieme a loro, Etienne Mérel e Steph Guins, regista e aiuto del nuovo film del The Faction Collective, Roots. Nel loro curriculum, dopo l’ultimo giro in Dolomiti, possono scrivere anche 10.000 metri di dislivello positivo in dieci giorni, con telecamere, teleobiettivi e droni nello zaino.

A inizio marzo le montagne luccicavano sotto il sole per quanto la neve era ghiacciata. L’ultima nevicata era un miraggio. L’inverno ci aveva viziati, ma poi velocemente tutto sembrava cambiato. Una di quelle sere, mentre eravamo seduti davanti alla stufa a scaldarci un po’, è suonato il telefono e ha risposto mio padre Manuel. Dall’altra parte c’era uno dei ragazzi di Faction, da Verbier. Volevano fare qualche ripresa per un film tra le Dolomiti e cercavano una Guida alpina. Tra me e me ho pensato: ottima idea, ma, con tutta la polvere che abbiamo avuto, devono venire proprio adesso? Non abbiamo fatto in tempo a metabolizzare quell’ottima idea che da Verbier hanno confermato il viaggio, nonostante il problema della neve e io mi sono proposto come fotografo di scena. L’idea iniziale della produzione era di andare a sciare canali a Cortina nell’anno della pandemia, con tutto chiuso e tanta neve. Però io e mio padre la pensavamo diversamente. Nelle tranquille serate davanti alla stufa di un inverno senza turisti abbiamo deciso di proporre qualcosa di diverso: canali e canalini nei dintorni di Corvara e del gruppo del Sella, a casa nostra. Linee raramente sciate, alcune probabilmente inedite, anche perché di difficile accesso se non si conosce molto bene la zona. Spot che neanche noi local avevamo mai preso in considerazione e che avevamo riscoperto in quell’inverno così tranquillo e tanto innevato.

L’appuntamento con quella versione ridotta del Collective, solo qualche giorno dopo, era a Colfosco, da Mary, mia zia, che gestisce un piccolo B&B di fronte alla famosa Val Misdé. In ladino significa Valle di Mezzogiorno perché, proprio a quell’ora, tutte le pareti, sia quelle di destra che quelle di sinistra, vengono completamente illuminate dal sole. Quale migliore presagio per dare il benvenuto a Sam e Simon? Tra appassio- nati basta uno sguardo per capirsi e per condividere la gioia semplice di una curva nel posto giusto, così, senza troppo convenevoli, siamo partiti subito alla ricerca di canali e Sam, come una calamita, è stato attratto da quella linea incredibile. Abbiamo giocato con la luce accarezzando le ombre e gli ultimi raggi del sole che si insinuano tra le fessure, incendiando la dolomia, fino a quando la notte ci ha costretti a rientrare per accogliere Yann, che non poteva arrivare prima. Basta poco per essere felici, basta un istante, da vivere intensamente, con tutte le energie. I giorni con Sam, Yann, Simon, Etienne e Steph sono volati via veloci in una routine sempre uguale, ma mai noiosa. Su per canali come dei camosci, giù con scioltezza cercando di comporre l’opera nel migliore dei modi, dalla mattina alla sera. Poi un panino tra un sorriso, una battuta e lo sguardo che si perde nel silenzio delle Dolomiti. Sul Sella, sopra Colfosco, tra torrioni di roccia che sembrano messi lì per trovare la migliore composizione dell’immagine, tra penombre, sagome, sfumature sul bianco della neve disegnate da un pennello immaginario. La sera con una bottiglia di birra tra le mani a guardare le foto della giornata. Le notti a selezionare gli scatti migliori tra quelle migliaia di immagini, tutte buone. Una sera abbiamo deciso di fermarci in un rifugio per produrre materiale con la luce morbida del tramonto, che mette ancora più in risalto le pareti verticali. Non è facile fare ricorso all’originalità quando, come fotografo, ti trovi di fronte alla grande bellezza, immortalata troppe volte, da tanti.

L’occhio e l’obiettivo rischiano di rimanere abbagliati, ma se sai lasciarti commuovere e isolarti da tutto il resto per cogliere l’attimo, anche il dito che preme sullo shutter sembra farsi più leggero. Se ripenso a quei giorni, ad avermi impressionato più di tutto sono lo stile, la solidità e la costanza con la quale Sam & co. sciavano linee così tecniche. Non importa se fossero canalini improba- bili o linee estetiche scelte sul momento, tutto sembrava così naturale. La forza di un grande sciatore sta nell’affrontare con lo stesso ritmo tutto quello che l’universo innevato gli propone, senza mai scomporsi, senza mai trasmettere la minima esitazione o fare trasparire la preferenza per un pendio. Lo sciatore completo unisce curve e trick e la montagna diventa un grande parco, con ostacoli naturali. Me ne sono reso conto quando siamo saliti con gli zaini e le frontali sulla ferrata Lipella, passando anche nelle gallerie scavate dai soldati durante la Grande Guerra. Dopo qualche curva, è partita la serie dei salti e sono scappati anche due backflip. E si è fatta subito sera... Per fortuna abbiamo trovato degli operai delle strade che ci hanno dato un passaggio, con gli sci ammassati sul cassone, tra cemento e badili! Il meglio spesso viene alla fine. Non so se è successo per caso o se nella mia testa e in quella di mio padre avessimo già deciso così da subito, ma gli ultimi giorni siamo rimasti nel giardino sopra casa, al Franz Kostner al Vallon, il rifugio che gestiamo in estate. In fin dei conti la nostra filosofia era proprio questa: partire alla scoperta di linee poco o meno conosciute. Divertirsi senza andare lontano. Dopo i classici, le nuove hit. Due giorni di ricerca e di scoperta. Per trovare un po’ di powder dell’ultima nevicata ci siamo calati in doppia su un versante nascosto e protetto dal sole, tra grandi massi e cornici bianche. Purtroppo Simon è dovuto partire per Chamonix per un altro progetto e si è perso la chicca finale, quella che, da sola, potrebbe dare un senso a una settimana di pellate. Quel giorno, lo ammettiamo, ci siamo fatti trainare un po’ da alcuni amici con la motoslitta e poi siamo saliti nell’anfiteatro della conca del Vallon, con il Piz da Lech, il Sasso delle Dieci e quello delle Nove che sorvegliavano la nostra traccia dall’alto. Per me sono le montagne più belle del mondo, ma sono di parte. Spesso le intuizioni arrivano quando meno te lo aspetti e così abbiamo subito visto una linea molto estetica che Sam ha scelto ed è diventata l’immagine di copertina di Roots, che pubblichiamo a pagina cinque di questo numero di Skialper. Si tratta di un taglio nella roccia molto esposto, che pende verso il vuoto. Inutile dire che una caduta non poteva fare parte delle opzioni. L’ultimo tratto era molto stretto, gli sci sarebbero potuti passare solo dritti. È stata una sciata in grande controllo e sicurezza, ma ormai eravamo abituati e lo stupore aveva lasciato posto alla certezza. Proprio quest’estate, passando di lì con i tubi per captare l’acqua dalla cascata e portarla al nostro rifugio, ho notato di nuovo quel taglio nella roccia, l’ho fotografato e ho mandato la foto ai ragazzi perché sembrava proprio impossibile da sciare. Però alla fine non sono pochi i canali che in estate sembrano insciabili e poi...

Quel sei di marzo il nostro obiettivo principale era un altro: un canale che divide la conca in due e fa arrivare sull’altro versante, nella zona sopra Colfosco, proprio in Val Misdé. Dopo esserci calati, Etienne e Steph e io abbiamo trovato uno spazio dove appostarci per fotografare e filmare senza dare nell’occhio. Curva dopo curva, siamo arrivati alla base. Danni collaterali: due schianti dei droni, uno dei quali disperso e cercato per ore, risalendo a piedi mezzo canale. Quando vedrete le incredibili riprese fatte in quel canale (una piccola preview la trovate già nel trailer di Roots) saprete che cosa c’è dietro a qualche secondo di immagini adrenaliniche…

La sera, in sauna da Mary, è venuta l’ispirazione per il nome da dare a uno di quegli ultimi canali scesi: Sauna couloir, what else? Ancora lessati dalla sauna, la mattina seguente siamo partiti con due furgoni verso la Marmolada. Questa volta i danni collaterali sono stati uno specchietto rotto tra i muri di neve e i resti delle piccole valanghe cadute ai margini della strada. Per mio padre e me era l’ultima chance per svelare la magia delle Dolomiti ai nostri nuovi amici, mentre le punte dei ramponi si aggrappavano al ghiaccio della cresta. Il sole che pian piano è apparso da dietro la cima illuminava una piccola porzione di neve e roccia sulla punta più alta, preludio a un’altra discesa indimenti- cabile, due scatti che mi convincono molto ogni volta che li riguardo e qualche salto in un canyon dolomitico. La sera, a casa, abbiamo aperto una buona bottiglia di vino per brindare a tutti i bei momenti vissuti insieme. Mentre sto finendo di scrivere questo articolo guardo un disegno appeso nel soggiorno di casa. Rappresenta tre sciatori sulle pareti innevate nella zona del Pisciadù. È firmato Simon Charrière e ce l’ha regalato l’ultima sera, prima di rientrare. Cristallizza in qualche tratto e sfumatura le emozioni di un inverno che non dimenticheremo mai. Con gli impianti fermi e così irreali, immobili nel panorama bianco, ci siamo spinti a sciare posti un po’ fuori dal comune. L’abitudine e il comfort non aiutano la curiosità. E forse è meglio così. Noi siamo stati felici e sicuramente c’è qualcun altro là fuori che ha condiviso la gioia con noi. Non so se le immagini di questo articolo e Roots sapranno trasmettere tutto quello che abbiamo vissuto, ma guardatelo.

È proprio una gran figata.


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https://www.youtube.com/watch?v=dfg_cLwwiZc


Skialper Archive / Il paradiso è per pochi

Tre mesi nell’inverno australe
di El Chaltén, in Patagonia,
per chiamare casa una delle
più piccole ed eclettiche
comunità sciistiche del mondo

Testo e foto Matthew Tufts

L’ennesima buca mi aveva sballottato violentemente, con il risultato di ritrovarmi con la lingua ustionata dall'infuso di matè e di farne schizzare un po’ sulle maniche della mia giacca Gore-Tex. Ero seduto sul retro di una vecchia Toyota Hilux tra una mezza dozzina di sci e un cane che sembrava molto meno ansioso di me. La nostra crew si passava un infuso di caffeina, sgranando gli occhi fuori dai finestrini annebbiati alla ricerca delle guglie di granito color ceruleo sopra la strada innevata del Lago Del Desierto, con i Blink 182 e i Twenty One Pilots come colonna sonora.Ero abbastanza nervoso da sembrare un gringo imbranato nel mio primo giorno di sci a Sud dell’Equatore: si trova a El Chaltén, nel cuore della Patagonia Meridionale, con tre Guide IFMGA argentine con un lungo palmarès di record di arrampicata, trail-running e sci alpinismo fast & light. Di solito sono un compagno di escursione veloce ed efficiente; quella volta, invece, avevo troppa attrezzatura fotografica, poca acqua e un vocabolario spagnolo molto basico, nonostante il pesante accento locale.Per fortuna i miei compagni non facevano parte di un tribunale che doveva giudicare e mi avevano già insegnato le parole per esprimere i concetti di polvere crosta. Così non ci hanno messo molto a rimproverarmi per aver spostato la cannuccia nell’infuso di matè. La curva di apprendimento da queste parti è ripida e veloce. L’efficienza conta nelle Ande.Questo non mi ha impedito di scottarmi di nuovo la lingua, imprecare e rimettere il contenitore dell’infuso al suo posto mentre la Hilux affronta una curva a gomito in due tempi, suscitando l’ilarità dei miei compagni d’avventura. L’alba si avvicinava.Erano quasi le dieci del mattino.  L’inizio di luglio è uno dei periodi più tranquilli e bui dell’anno a El Chaltén. Gli affollati mesi estivi sono un lontano ricordo e gli inverni freddi e tempestosi della Patagonia meridionale, anno dopo anno, hanno fatto da humus per un'improbabile cultura dello sci tra le guglie di granito e l’arida steppa. Una cultura forgiata dal clima spietato della regione e dalla topografia, sfidando gli standard dell'industria dello sci e plasmando gli sciatori a partire da un improvvisato gruppo di semplici locali con diverse storie di montagna alle spalle. In effetti si tratta di una community così poco conosciuta. che molti dei non sciatori di El Chaltén sanno a malapena che esiste.

L’inverno, al contrario, è troppo tranquillo in questo paese a quasi 1.400chilometri a Sud di Bariloche, una delle destinazioni sciistiche più famose dell'America Meridionale. L’assenza di turisti e lavoratori stagionali, ai quali si aggiungono molti locali che approfittano delle vacanze scolastiche, può portare la popolazione di luglio a poco più di 500 persone. Tutte le attività commerciali essenziali – un negozio di alimentari, una farmacia, alcuni ristoranti, un paio di ostelli, un solo bar e una palestra di bouldering – chiudono i battenti.Quelle poche che rimangono aperte ,lo fanno con orario ridotto.La palestra di arrampicata indoor del Centro Andino può sembrare un'eccezione alla breve lista di stabilimenti essenziali fuori stagione, ma per la gente di montagna di El Chaltén, El Muro è il punto d’incontro tra il mondo dell'arrampicata e quello dello sci. Ed è il miglior posto per trovare un compagno per partire alla scoperta delle montagne con la neve.

La Escoba de Dios, il famigerato vento dell'Ovest, sferzava le giunture della porta della palestra facendo stridere talmente tanto da scambiare quel suono per il lamento dei cani randagi della città.All’interno il vento si mischiava a una sinfonia di racchette da ping pong, grida di arrampicatori e una miscela eclettica di hip-hop, reggae funky ed elettronica.Dopo aver fatto il consueto giro di saluti con alcuni degli sciatori che avevo conosciuto in città, mi sono fermato a parlare con Tomás Roy Aguiló, alto e forte scalatore, oltre che Guida locale. Trentasei Ore dopo mi sono unito a lui e ai suoi amici e soci in affari Juan PipaRelli eRobertoIndio Treu e a un vivace pastore australiano che si chiama come me, Mateo. La comunità sciistica è piccola a El Chaltén – forse 30 persone o anche meno – ma l’atmosfera è sempre accogliente quando un forestiero arriva da queste parti a farsi frustare dai ventiinvernali. Il cielo perfetto e il vento quasi inesistente del mio primo giorno vicino al Lago del Desierto hanno cancellato tutti i preconcetti sul clima variabile e inospitale della Patagonia in inverno.La polvere scivolava via leggera e fredda come nel Kootenay, in British Columbia, e i pendii erano più ampi di quelli del Rogers Pass alla High Sierra. Abbiamo Finito la giornata con diversi giri dei ghiacciai sui fianchi del Cerro Crestón, un luogo popolare per il suo approccio facile. Ho imparato che quel facile in realtà significa un’ora di portage nella foresta, su pendenze importanti, prima di raggiungere la linea della neve e mettere sci e pelli. Proprio quando avevo iniziato a immaginare discese infinite nella powder, ecco l’uscita con pathos, che mi ha riportato nel presente più duramente di qualsiasi buca lungo la strada.Al cambio d’assetto ho passato le dita sulla soletta degli sci leggermente scheggiata mentre guardavo le nostre tracce sulla montagna. La Patagonia non finisce mai di umiliarti.

Local Ski Culture - El Chaltén
Attraversamento della Laguna de Los Tres

Sono dovute passare diverse settimane, molti matè e più di un paio di giri in mezzo agli squali in attesa del giusto mix di neve e meteo per fare la nostra prima escursione nel Parco NazionaleLos Glaciares, puntando alla Laguna De los Tres e al Cerro Madsen, all'ombra del massiccio del Fitz Roy. Nonostante L'accesso diretto dal paese, da dove partono i sentieri, il parco è molto poco frequentato dagli scialpinisti. La linea della neve qui è alta e richiede di entrare in profondità nell’area protetta. Lo scotto da pagare sono diverse ore in più, se non molte di più, di portage rispetto alla media delle gite di un’ora dal Lago del Desierto. Eppure il terreno è incomparabile.Nel silenzio assordante di un sentiero che in estate si trasforma in una lunga fila di escursionisti, ci siamo fermati per bere un goccio d’acqua dove la pendenza lasciava spazio a una specie di altipiano ,guardando i primi raggi del sole che salivano a illuminare la cresta dietro di noi e le torri di roccia a Ovest. Il mio sguardo è stato subito catturato da un impressionante canalone che divide le cime gemelle del Techado Negro, forse la linea più evidente della catena. Gli occhi di Raselli si sono illuminati e si è messo a sorridere, sussurrandomi che era una grande sciata con una vista spettacolare del Fitz Roy. È stato zitto per un attimo, quasi a immaginare qualcosa, e ha aggiunto che aveva fatto la prima discesa diversi anni prima. I miei occhi non devono avere celato una certa sorpresa a sentire quelle ultime parole se il suo viso si è corrucciato in un sottile ghigno e ha scrollato le spalle.«Ci sono quasi solo prime discese qui» mi ha detto con naturalezza «la maggior parte della gente, semplicemente non esce in inverno». È un controsenso per una delle capitali dell’alpinismo moderno che siano solo una manciata di sciatori ad avere messo la loro firma sulle prime discese.Le ultime stagioni hanno partorito un certo numero di linee audaci a opera di gente come Raselli, Aguiló e Julian Casanova, un freeskier e Guida di Bariloche, ma senza nessuna frenesia.Prima della fine degli anni Novanta gli sci venivano utilizzati solo per i lunghi avvicinamenti ai ghiacciai che permettono di raggiungere le pareti di roccia.Il vento ha iniziato a cambiare quando una Guida argentina con radici a Bariloche e Crested Butte, in Colorado, si è stabilita in paese nell’inverno del 1997.Max Odell è, a tutti gli effetti, il padre dello sci a El Chaltén. Local da più di 20 anni, le sue prime stagioni in Patagonia Meridionale sono sempre state al buio e in solitaria. Non esiste nulla: nessun bollettino delle valanghe, men che meno compagni di avventura. Le sue bizzarrie invernali ne hanno fatto un outsider nella comunità montana al ritmo di tante prime discese solitarie su vette che sarebbero considerate classiche in una località sciistica più rinomata.Far crescere la popolarità dello scialpinismo in un villaggio sonnolento e con avvicinamenti che non perdonano è stato un compito non facile e veloce da portare a termine, ma che Odell ha accettato con entusiasmo

Paso Inferior

Nei primi anni Duemila aveva già qualche seguace e nel corso della successiva dozzina di anni è nata una piccola ed eclettica comunità di sciatori che ha disegnato con regolarità, stagione dopo stagione, i propri otto sulle radure più dolci intorno al Lago del Desierto. Però se chiedi a uno scialpinista di El Chaltén chi ha portato lo sci da queste parti, non ce ne sarà uno che non ti farà il nome di Odell.Ancora oggi Odell probabilmente accumula il maggior numero di giorni di sci all’anno a El Chaltén: una manciata di escursioni guidate e un numero significativamente maggiore di uscite per il puro piacere, spesso accompagnato dai figli:Pedro, 16 anni, e Tomás, 14 anni. I ragazzi hanno imparato a sciare a El Chaltén, scivolando giù per la collina in paese dove ora hanno costruito un hotel, oppure nei boschi sotto la Valle del Mosquito risalendo con la manovia che Odell ha costruito più di dieci anni fa.Rimane il fatto che lo sci a El Chaltén non è un’attività così immediata e naturale, nel migliore dei casi. Se le statistiche sulle precipitazioni nevose annuali nel villaggio non sono affidabili, è comunque sempre più raro che una nevicata significativa sopra i tetti delle case e soprattutto che la neve rimanga al suolo per un po’ di tempo. I pendii più bassi e boscosi non sono quasi mai innevati, limitando di fatto lo sci alla quota, e il cambiamento climatico è evidente nella ritirata dei ghiacciai Torre e Piedras Blancas.«Eravamo abituati ad avere sempre questa quantità in città almeno una volta all'anno e durava due o tre settimane»mi ha detto Odell, tenendo le mani a un piede e mezzo di distanza. «Ho notato che ogni anno devi camminare più lontano e salire più in alto per raggiungere la neve».Un fenomeno pericoloso per l'equilibrio già precario della piccola comunità sciistica locale. Di solito le grandi discese in quota e i circhi glaciali corrugati da crepacci e ricchi di accumuli da vento e cornici sono il terreno degli scialpinisti esperti, mentre i principianti rimangono in basso, ma la mancanza di neve al sotto della linea del bosco spinge tutti gli sciatori sempre più in alto, rendendo il gioco pericoloso. Eppure quello che sembra un punto di non ritorno è già un atout. Al di là delle linee sorprendenti e del potenziale infinito in chiave scialpinistica, è la comunità che rende unico lo scià El Chaltén. «Non c’è nessun posto come qui» mi ha detto Odell mentre caricavamo gli sci e preparava lo zaino sul suo van sulle rive del Río Eléctrico. «La maggior parte di queste persone ha imparato a sciare qui, nel backcountry. L’altro giorno sono uscito con Chiaro, il mio ultimo discepolo. Se posso insegnare a ognuno di loro a sciare, allora avrò sempre più compagni per le mie escursioni».L’iniziazione di Chiro allo scialpinismo è stata simile a quella di molti altri sciatori di El Chaltén: alpinisti senza esperienza di sci, desiderosi di trovare uno sbocco invernale, che hanno seguito le orme di Odell. La formula ha fatto nascere una comunità di sciatori locali da un assortimento di scalatori, alpinisti ed escursionisti. Per molti di noi l’idea di addentrarsi nella natura selvaggia per sciare una parete ripida senza una più che buona tecnica sciistica sembra una pazzia.Ma ciò che rende possibile l'evoluzione sciistica di El Chaltén è una tecnica plasmata da quella stessa montagna spietata. «Gli scialpinisti locali hanno una conoscenza diversa della montagna perché sono stati sulle pareti» mi ha detto Santi Guzman un pomeriggio. Guzman è il proprietario di Fresco, l’unico bar in città che è aperto durante i mesi invernali.È anche un ambassador di DPS e Outdoor Research, oltre che allenatore della squadra nazionale argentina di freeski. E probabilmente quello che più si avvicina al concetto di celebrità dello sci a El Chaltén. «Sanno come usare una corda, un’imbracatura – continua – sanno come tirarsi fuori dai pericoli, sono in forma, tutte queste abilità ne fanno dei validi scialpinisti nella montagna aperta, più di quanto mi sia trovato a mio agio io, sciatore da località sciistica, alle mie prime esperienze nella wilderness».


Guzman è cresciuto affinando la sua tecnica sulle piste addomesticate di Bariloche, dove era sempre nella zona di comfort. Gli sciatori di El Chaltén, invece, sanno come uscire da quella zona di comfort. La stragrande maggioranza di loro non sta andando a mettersi nei guai in canali dove non è possibile sbagliare,anche se si tratta di un terreno su cui si troverebbero meglio senza sci. La maggior parte di loro è solo alla ricerca di un altro modo per affrontare le montagne.A differenza dei mesi estivi, quando gli anfiteatri del Fitz Roy e della Torre Possono sembrare colossei riservati ai gladiatori più talentuosi dell’alpinismo, la comunità sciistica qui rimane umile.«In Argentina lo sci è uno sport d’élite, è costoso» mi ha detto Laura Iriarte, un’insegnante di inglese alla scuola superiore locale. Portare la famiglia a sciare per soli due giorni nelle località vicino a Bariloche costerebbe più di un mese di stipendio. «Qui a El Chaltén Non è così, chiunque può sciare e trovare sci usati da farsi prestare per provare.È l’unico posto così in Argentina.Lo scialpinismo è gratis». Laura è cresciuta vicino a Buenos Aires, figlia di un falegname e di un’insegnante.È venuta a El Chaltén, ha sposato una Guida escursionistica, Pedro Fina, e ha imparato a sciare negli ultimi dodici anni.Ci tiene a chiarire che, a parte alcune grandi discese aperte da stranieri, come la linea di Andreas Fransson sulla Whillans al Aguja Poincenot nel 2012, ciò che differenzia la cultura invernale di El Chaltén è il pot-pourri di sciatori di tutte le classi sociali e disponibilità economiche. Non a caso più della metà di loro ha imparato senza mai mettere piede su una funivia o una seggiovia.«È una comunità super piccola, c'è davvero una bella empatia tra tutti»mi ha detto Guzman. «È più difficile imparare, ma sta succedendo. E se ora si inizia a sciare a 30 anni, ci sarà una prossima generazione quando i figli metteranno le pelli e il livello non potrà che salire».Nonostante sia riuscito a fare una gita con quasi tutti gli sciatori della zona, il meteo in Patagonia è incredibilmente variabile e ho trascorso gran parte dei miei tre mesi in paese in compagnia di molti locali che non hanno mai sciato. Alcuni proprietari di attività commerciali chiudono a malincuore il negozio in inverno. Altri Usano felicemente il flusso e riflusso del turismo per chiudere le loro porte e distinguere il lavoro dal tempo libero.Merlin Lipschitz fa la Guida a El Chaltén da più di 20 anni, inizialmente andando avanti e indietro da Bariloche prima di mettere su casa qui nel 2003. Ha iniziato a sciare a El Chaltén seriamente intorno al 2005 e ha portato i primi clienti sulla neve un lustro dopo. A distanza di altri dieci anni ha registrato un leggero aumento del turismo invernale, ma nulla a che vedere con la crescita del lavoro estivo nello stesso arco di tempo. La società di Guide Di Lipschitz può arrivare fino a 50 clienti al giorno in alta stagione, impiegando anche cinque Guide aggiuntive. In inverno Lipshitz opera da solo e lavora con al massimo 15 sciatori a stagione. «L'unica Cosa negativa della Patagonia è che l'inverno è così breve» mi ha detto una volta mentre toglieva le pelli sopra il ghiacciaio del Cerro Crestón. Nonostante la stagione corta, potrebbe probabilmente avere qualche cliente in più, però a lui va bene così.

«L’inverno è il mio periodo: i ritmi rallentano, sciamo con gli amici, facciamo asados, stiamo a casa con la famiglia.Lavoriamo duramente in estate per prenderci un po’ di tempo per noi in inverno». Dietro alle sue parole si cela quello stato di agitazione e di stress tangibile a El Chaltén quando arriva la primavera australe e i residenti si preparano per l’alta stagione. Ma è anche un momento di ottimismo perché la maggior parte della gente del posto preferisce l’intensità dell’estate, quando il business è al massimo. È la quintessenza del turismo mordi e fuggi stagionale:il modello funziona per una parte della popolazione, ma alcuni preferirebbero un po’ più di stabilità.Per decenni il Parco Nazionale Los Glaciares E le cime intorno a El Chaltén hanno attratto gli alpinisti, però prima del nuovo millennio il turismo non era ancora classificabile come di massa in un paese isolato e con pochi o nessun servizio. Tutto è cambiato nel 2000 quando a El Calafate, la grande città di 7.000 abitanti a Sud di El Chaltén, hanno inaugurato un aeroporto con voli regolari su Buenos Aires. L’anno seguente la svalutazione del Peso argentino ha fatto da detonatore per il turismo internazionale verso la Patagonia meridionale.La strada per El Chaltén è asfaltata dal 2006 e i turisti non si sono fatti attendere,t rasformandolo nella capitale mondiale del trekking nel giro di un decennio.È difficile prevedere quando e se arriverà la prossima trasformazione di El Chaltén.È la città più giovane dell’Argentina, nata ufficialmente nel 1985. Per molti aspetti è ancora nella sua adolescenza.C’è poca preoccupazione (o eccitazione)che lo sci possa esplodere in inverno nello stesso modo in cui è avvenuto per l'escursionismo nei mesi estivi. Le Guide Locali si sono impegnate per sviluppare il turismo scialpinistico, dalla promozione sui social media alla costruzione di un rifugio a basso impatto ambientale sotto il Cerro Crestón (il primo per uso specifico invernale nella Patagonia meridionale).Però è ancora un mercato di nicchia.Il boom estivo si gonfia anno dopo anno ma, in inverno, El Chaltén rimane com'è sempre stato, o quasi.

Il tempo gioca a uno strano gioco in Patagonia. Passano giorni e poi settimane all'insegna della tempesta. Questo, tuttavia, dà alla cultura montana argentina la possibilità di fiorire, celebrando la vita all’ombra di un anfiteatro alpino, banchettando con asados sognando obiettivi futuri. Entrambi sono cotti a fuoco lento e marinati con la pazienza che solo la Patagonia può infondere. L’esperienza è innaffiata da un buon Malbec e dal fischio del vento, guarnita con un’alzata di spalle verso le opportunità mancate, deluse da tempeste furiose. L’attesa fa fermentare le finestre meteorologiche in qualcosa di ancora più dolce. Le previsioni a lungo termine sono una chimera nei Roaring Forties(i venti ruggenti oltre il 40° parallelo), ma arriva un margine di circa tre giorni in cui la fiducia nel meteo aumenta. Senza una superficie terrestre per cambiare il corsodi una tempesta o di un sistema di alta pressione che si stacca dal mare, l'arrivo della finestra giusta diventa imminente. Dopo settimane di attesa, Merlin e io eravamo finalmente accampati al De Agostini, alla base della Valle del Torre. Il nostro primo giorno in quota si era rivelato tutt’altro che perfetto, perché l'ultima inversione aveva svelato un canalone a prova di proiettile da tanto la neve era dura sotto le nostre solette. Una discesa da fare rizzare ogni singolo capello, senza margine d’errore e di caduta fino al lago ghiacciato. Forse è questo il motivo per cui così pochi sciano sulle cime più alte. Dopo una lunga e pesante camminata nel buio fino alle tende, la neve cadeva leggera mentre ci infiliamo nei sacchi a pelo umidi.Per un attimo ho colpevolmente sperato che la tempesta continuasse, che il cielo non si aprisse e che potessero spingere la cima nell’etere ambiguo di un proposito futuro.Ci siamo svegliati alle cinque: una spolverata di neve e nuvole in tutte le direzioni ci hanno spedito nei nostri sacchi a pelo un po’ più a lungo. La sveglia delle sei è arrivata veloce a svelare un cielo sereno.«È perfetto, dobbiamo andare ora» ha mormorato Merlin, sorpreso quanto me. Ci siamo dati da fare per far bollire l’acqua e spingere a forza le ghette negli scarponi congelati.Appesi alla fune tirolese nell’immobilità del mattino pre-alba, il mormorio del fiume sotto di noi sembrava zittito dal silenzio di un mare infinito di stelle nel cielo.Il Cerro Torre appariva come un miraggio nella tenue luce lunare e il nostro obiettivo, il Cerro Solo, sedeva imponente sopra le ombre della media montagna, con la colossale parete orientale dipinta di crepacci.A distanza di dieci ore, dopo aver sciato una delle linee più spettacolari della zona in perfette condizioni primaverili, Merlin e io ci siamo presi di nuovo alla fune tirolese per tornare alle tende, abbiamo mangiato tutto il cibo rimasto e iniziato la delirante marcia di rientro in paese.«In Patagonia devi essere paziente» mi aveva detto Lipschitz diverse settimane prima. «È difficile aspettare, non è per tutti. Ma una volta che provi a sciare qui, quando trovi le condizioni giuste, non c’è niente di paragonabile». È l’incertezza che ti fa desistere, ma se hai il fegato di scommettere e di stare al gioco...A El Chaltén la questione non è «com’è» o «come sarà probabilmente», ma «come può essere bello» dicono i local. Ed è un ottimo motivo per mettere il proprio destino in balia dei venti del Sud.

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Skialper Archive / Ice & Palms

Milleottocento chilometri e 35000 metri di dislivello in bici e sci, dalla Germania meridionale a Nizza, per sciare le montagne più belle e concedersi una vacanza al mare

Testo Federico Ravassard Foto Max Kroneck, Jochen Mesle,Julian Rohn

Baden-Württemberg è uno dei principali land della Germania. La sua capitale è Stoccarda, conosciuta nel resto del mondo come la patria dell’automobile(Mercedes-Benz, Porsche, Bosch hanno sede qui, ad esempio), e l’economia dell’intera regione si basa largamente nell'industria. Confina con la Francia a Este con la Svizzera a Sud, mentre i principali rilievi sono rappresentati dalla Foresta Nera, la catena del Giura E le Prealpi del Lago di Costanza.Il Baden-Württemberg sembra un buon posto dove vivere, se non fosse per un piccolo dettaglio:il mare, specialmente quello caldo, è lontano, parecchio lontano. E di conseguenza, se un paio di amici si dovessero inventare di voler andare al mare in bicicletta, le cose si complicherebbero parecchio, specialmente se lungo l’itinerario ci si volesse portare dietro anche degli sci e decidere di utilizzarli nel miglior modo possibile.I due amici sono Jochen Mesle e Max Kroneck Che, oltre alla passione per lo sci, scoprono di condividere anche quella per le pedalate, specialmente quelle lunghe e faticose, e per la fotografia, in particolar modo quella che ti impone di utilizzare apparecchi pesanti e scomodi. L’idea che partoriscono insieme ha le caratteristiche comuni di ogni sufferfest si rispetti: dev’essere lunga, fisicamente estenuante, particolarmente ricca di incognite e problematiche di varia natura, originare vesciche in vari punti del corpo e apparire insensata agli occhi delle persone normali.Et voilà, ecco il progetto Ice & Palms: Jochen e Max Vogliono partire da casa loro a Dürbheim, nel Baden-Württemberg, raggiungere l'Austria e da lì attraverso i principali valichi alpini arrivare fino al lungomare di Nizza, senza mai utilizzare mezzi a motore e sciando il più possibile, filmando allo stesso tempo la loro avventura.Di tanto in tanto, poi, verranno raggiunti da amici che daranno una mano nella ripresa delle immagini.I loro destrieri saranno due bici gravel, equipaggiate con portapacchi anteriori e posteriori sui quali sistemare l’attrezzatura. Sci e scarponi dietro, insieme a uno zaino con il materiale per la notte. Sacca Anteriore sinistra per il pentolame e macchine foto.Tasca anteriore destra: accessori e abbigliamento da pioggia, pronti per essere tirati fuori in poco tempo.Peso totale, cinquanta chili, grossomodo: vista l’agilità, più che destrieri li si potrebbe definire dei ronzini un po' sovrappeso.

Quello della partenza, nella primavera del 2018, è un momento strano, Jochen e Max sembrano fuori posto: un po’ come quei modelli da catalogo, ritratti in ambiente ma con abbigliamento e attrezzatura perfettamente in ordine e puliti. Ci vorranno un paio di giorni per cominciare a stropicciarsi il giusto e toccare la neve dopo più di 100 chilometri di distanza pedalata. Non è poi così male, tutto sommato, poter alimentarsi in modo soft prima di arrivare sulle montagne vere.Viaggiare con bicicletta e sci al seguito significa perdere continuamente tempo a fare e disfare i bagagli, che richiedono un ordine maniacale, in perfetta antitesi con la natura degli sciatori. Ogni pezzo deve essere nel posto giusto per essere trovato nel momento giusto:Mark Twight diceva che in montagna ci vuole un accendino in ogni tasca, per non impazzire quando si tratta di accendere il fornello in bivacco, e in bike packing non cambia più di tanto.Al quarto giorno sono nell’Arlberg, da lì si dirigono verso la Svizzera. Di neve qui non sembra essercene molta, ma bisognava pur trovare un compromesso per poter beneficiare dell’apertura di quasi (tutti) i valichi. Sono le classiche condizioni in cui, una volta- come dicono i vecchi - cominciava la stagione dello scialpinismo. A St. Anton un avventore in un bar chiede loro cosa faranno quando, una volta arrivati a Nizza, non troveranno più neve da sciare. «Ci Siamo portati dietro anche il costume da bagno» la risposta perentoria.Dopo nove giorni e 500 chilometri si comincia a fare sul serio.La coppia di ciclo-sciatori si avvicina al massiccio del Bernina E dalle sacche sulle ruote spuntano fuori piccozze e corde, ingredienti necessari per il menù dei giorni a seguire: Piz Bernina e Cima di Rosso, itinerari grandiosi che strizzano l’occhiolino alle pendenze sopra i 45°. Si muovono bene, dopo le prime tappe in cui hanno patito entrambi le conseguenze di infortuni occorsi durante la stagione invernale. Strano ma vero, le centinaia di chilometri in bicicletta hanno fatto da terapia e ora si avvicinano alla metà della distanza che separa la Germania dal Mediterraneo.Dopo due settimane di viaggio arrivano al Furkapass, che collega le Alpi Lepontine a quelle Bernesi. Su questi tornanti, negli anni ’60, Sean Connery sfreccia sulla sua Aston Martin durante le riprese Agente 007 - Missione Goldfinger, ma quando Jochen e Max Arrivano alla sbarra del fondovalle capiscono in poco tempo che per loro il valico sarà tutt’altro che velocità e adrenalina: la parte alta non è ancora stata ripulita dalla neve ed è, in poche parole, chiusa al traffico. Non rimane altra scelta che accettare la sfida e caricare le biciclette letteralmente sugli zaini, tirare fuori le pelli e proseguire carichi come sherpa lungo i pendii innevati, sotto una leggera nevicata che non fa altro che rincarare la dose di sofferenza.I due viandanti procedono barcollanti sotto i loro carichi monumentali e, un passo alla volta, cominciano a salire verso i 2.436 metri del passo. La discesa è una scena surreale, fatta di curve molto controllate e allo stesso tempo storte come un quadro cubista, fino a quando, esausti, possono finalmente mettere le ruote sull’asfalto, mentre il nevischio ora tramutato in pioggia fa apprezzare ancora di più la mutevolezza del meteo primaverile.Sono passati ventun giorni dalla partenza e con 960 chilometri nelle gambe il Vallese si apre davanti a loro. Mentre a pochi chilometri i turisti gozzovigliano nei ristoranti di Zermatt, i nostri due eroi puntano gli sci verso mete sicuramente più di nicchia. «È bello ritrovarsi completamente soli in montagna e sapere di avercela fatta con le proprie forze» commentano, salendo verso il rifugio da cui partiranno il giorno successivo. Il Bishorn lo sciano nella nebbia, non senza qualche spavento. Le valanghe si fanno sentire ma non si fanno vedere, mentre a quattromila metri, immersi nel white-out, aspettano una finestra di cielo pulito per scendere il più velocemente possibile.Sul Brunegghorn, due giorni più tardi, vengono premiati dagli dei della montagna con una discesa memorabile, in una di quelle giornate in cui lo scialpinismo primaverile si manifesta in tutta la sua bellezza.Cielo azzurro, polvere fredda e, duemila metri più sotto, il verde dei pascoli a fare da quinta. La parete Nord è una pratica che viene liquidata in una decina di curve che giustificano pienamente lo sforzo supplementare di utilizzare assi da freeride al posto perline scialpinismo light: entrambi, infatti, hanno deciso di portarsi dietro sci oltre i 100 millimetri al centro e scarponi a quattro ganci da free touring. L’attenzione della coppia, ormai innamorata del Vallese, si sposta a questo punto su un altro monumento del ripido, che risponde al nome di Grand Combin de Valsorey. Lo scivolo Nord-Ovest, che culmina a 4.184 metri, viene descritto da Marx come una scala di Giacobbe, facendo riferimento all’affresco di Raffaello In cui il profeta biblico sogna una scalinata da cui gli angeli possano muoversi fra la Terra e il Cielo. Lo stesso scivolo in cui, nel film La Liste, Jérémie Heitz perdeva uno sci, riuscendo incredibilmente a salvarsi la pelle dopo una caduta a 50° di pendenza. Per i due la giornata si rivela fortunatamente meno adrenalinica, anche se la stanchezza inizia a farsi sentire. Proprio quel giorno avrebbero dovuto riposare, ma passare sotto a quella rampa senza scala non sarebbe stata un’azione da fedeli devoti alla causa dello sci.Al trentesimo giorno, nei pressi del Gran San Bernardo, iniziano a manifestarsi i primi indizi che indicano che ormai è solo questione di pochi giorni prima di potersi spaparanzati in spiaggia.Nizza 323 km, recita un cartello nei pressi del tunnel. Pochi chilometri più in là, a Donnas, delle palme appaiono a bordo statale come oasi nel deserto. 

Come i barbari alla fine dell’Impero Romano, i due germanici continuano a calare verso Sud a bordo dei loro ronzini meccanici, nutrendosi unicamente di pizza, pasta e carboidrati vari per onorare la cultura del turismo tedesco in Italia. Valle di Susa, poi il Monginevro: il prossimo obiettivo sarà la Barre des Écrins, il quattromila più meridionale dell’arco alpino, e sarà anche l’ultima vetta in programma prima di dirigersi verso il Col du Vars e le spiagge francesi.Quella sulla Barre è un’altra giornata memorabile. Si filmano a vicenda all'alba, mentre si dirigono, sci ai piedi, verso la terminale della parete Nord, che per l’occasione si è presentata con il vestito dei giorni di festa.Solitamente è un muro ghiacciato e non sempre la neve la ricopre in modo sufficiente per poter essere sciata. Solitamente non vuol dire sempre, e per i due l’ultima discesa del loro viaggio può cominciare direttamente dalla croce sommitale, dalla quale si può vedere tanto il Monte Bianco quanto il Golfo di Nizza. Chi ha già sciato nelle Alpi del Sud sa bene l’emozione che si prova a vedere il Mediterraneo scintillare in lontananza, la stessa che provano Jochen e Max mentre gli attacchi fanno clack. Il Col du Vars è una formalità che viene sbrigata in fretta, aspettando l'ultimo ostacolo: il Col de la Bonette, che con i suoi 2.715 metri è, insieme allo Stelvio, all’Iseran e all’Agnello, tra i più alti valichi asfaltati delle Alpi. Nel 2016 il Giro d’Italia era passato di qua in una tappa memorabile, la penultima: in soli 134 chilometri erano stati concentrati 4.100 metri di dislivello, con le salite al Vars, alla Bonette e alla Lombarda per poi terminare sui tornanti che conducono al Santuario Di Sant’Anna di Vinadio. Proprio qui, sul finale, Vincenzo Nibali aveva attaccato sul diretto concorrente Esteban Chaves, che si era visto sfilare la maglia rosa a meno di 24 ore dalla fine del Giro. Quel giorno, all’arrivo, i genitori di Esteban si erano resi protagonisti di una scena di sport indimenticabile, andando ad abbracciare il siciliano sul traguardo e complimentandosi con lui per la vittoria. Uno sgambetto è stato riservato anche a Max, che riesce a forare a meno di 30 chilometri da Nizza, dopo 42 giorni e 1.800 chilometri di strade di montagna.L’arrivo sul lungomare è uno shock: dopo sei settimane in cui le uniche priorità erano state sciare, pedalare e più generalmente sopravvivere, il senso di smarrimento è totale. «Cosa faremo ora?», si chiedono i due, confusi al punto che pure scegliere dove andare a cenare rappresenta una sfida al pari della traversata del Furkapass innevato. Succede così che il capitolo finale del loro viaggio viene scritto in un ristorante messicano nel sud della Francia, un’idea assurda e apparentemente incomprensibile quanto voler partire dalla Germania per arrivare al Mediterraneo sciando pedalando. Cosa ci insegnano Max e Jochen? Beh, di sicuro potrebbero illuminarci sulla loro gestione del tempo libero, ma è limitante dire che per intraprendere un progetto come Ice & Palms sia sufficiente trovare 40 giorni di ferie, anche perché, in un certo senso, loro in quel momento stavano lavorando, in quanto freeskier professionisti. No, Jochen e Max Ci insegnano che le avventure più belle possono essere vissute anche dietro casa, che non è necessario viaggiare dall’altra parte del mondo per ritrovarsi in balia dell’incognito. E che l’incognito - o inesplorato, che fa più figo - può avere moltissime forme diverse: dalle condizioni della neve sul Grand Combin a quelle della strada sul Furkapass, fino a quelle fisiche di Max quando, nel trasferimento dalla Val d’Aosta alla Francia, si ritrova a macinare duemila metri di dislivello con 39 gradi di febbre.E ci insegnano anche in cosa consiste la creatività, ovvero su come prendendo due o più concetti e fondendoli insieme si possano creare infinite nuove idee. Tipo andare in bici e sciare, o sciare e andare al mare.Oppure, andare al mare pedalando e sciando. Insomma, ci siamo capiti.Un’ultima lezione potrebbero darcela sulla gestione della biancheria in sei settimane di ambienti umidi e freddi, ma quella è tutta un’altra storia

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Ice & Palms è un cortometraggio di 32 minuti prodotto da El Flamingo Films e diretto da Jocken Mesle, Max Kroneck, Philipp Becker e Johannes Müller. Premiato in alcuni dei principali festival del film di montagna e avventura è disponibile gratuitamente su Vimeo o sul sito https://eisundpalmen.de/


Skialper Archive / Millésime 2021

Metti insieme le curve di un'unica, irripetibile stagione e otterrai un sapore diverso. Come quello dello champagne millesimato. Diario di un inverno dolomitico tra impianti chiusi, parcheggi pieni di neve e amici pronti a condividere la gioia di uno sci diverso.

Testo Bruno Compagent Foto Layla Kerley

Non so quanto sia durata la caduta, ma quando il mio corpo ha toccato il suolo, l’impatto è stato così violento che ho aperto gli occhi, l’aria è entrata precipitosamente nei polmoni e ho allargato le braccia. La mano ha toccato qualcosa di caldo e morbido e ho sentito il respiro diventare più regolare. Mici è voluto qualche secondo in più per rendermi conto di dove mi trovavo. Poi, nella mia mente le cose sono tornate al loro posto: la strada, i documenti, i controlli da evitare, la fatica e la tempesta di neve, l‘Italia, fino a questo piccolo Resineux, una specie di incenso naturale di cui amo l’odore e il fumo danzante che emana quando brucia.Subito dopo, il bip dei mezzi spazzaneve ha attirato la mia attenzione. Con una tazza colma di caffè tra le mani ho appiccicato il naso contro il vetro della finestra dell’appartamento che avevamo preso in affitto per una settimana. La neve cadeva dritta, non c’era un soffio di vento, riuscivo a malapena a distinguere la mia auto e i contorni del mondo intorno a noi si facevano morbidi e indefiniti.Non c’era stress, non c’era fretta, non c’erano orari di apertura degli impianti da prendere in considerazione. La tempesta sembrava voler inghiottire il mondo di prima sotto uno spesso sudario bianco.Le strade erano innevate e circolavano solo pochi veicoli. La neve, che cadeva in abbondanza e senza vento, mi faceva salire l’adrenalina e l’entusiasmo, come quando da bambino vagavo per le strade del mio paese durante le nevicate, alla ricerca di dislivelli per tuffarmi nella fredda e inebriante dolcezza dell’inverno

È bastato poco perchè il piccolo appartamento si trasformasse in un campo base
Bruno Compagnet e Diego Castellaz danzano a cospetto delle pareti dolomitiche

Il parcheggio era deserto e mal ripulito dalla neve, eravamo in mezzo al nulla.La stazione di partenza di una moderna seggiovia, scomparsa sotto la neve, sembrava l’immagine di un altro pianeta.Poche parole, a volte basta solo uno sguardo. Abbiamo seguito una traccia battuta dal gatto delle nevi, che risaliva il pendio di una pista deserta.Avvolti nei cappucci, al ritmo dei respiri, viaggiavamo nei nostri mondi interiori. L’energia necessaria e la lotta logorante con la gravità ci immergevano in una specie di trance morbida e piacevole, dalla quale a volte emergevamo per segnalare all’altro la nostra presenza e per rispondere a una domanda che noi stessi ci stavamo facendo nello stesso momento. La cresta era stracarica e il vento leggero che soffiava aveva accumulato una quantità preoccupante di neve, ma c’era qualcosa di lusinghiero in quelle curve scolpite nel bianco che si snodavano tra i larici e sapevo che, da qualche parte, esisteva un percorso invisibile e sicuro.Lo abbiamo seguito attentamente con tutti i nostri sensi all’erta. Eravamo soli ed era una sensazione che mi calmava e mi riempiva di una gioia profonda.Lontano dalla commedia sociale delle discussioni futili e delle raccomandazioni inutili. Abbiamo continuato a salire insieme, guardandoci le spalle a vicenda. Percepivo la preoccupazione di Layla, che non aveva il coraggio di dire nulla, ma osservava il pendio che stavo tagliando saltellando sugli sci. Eravamo d’accordo sulla linea che avrebbe sciato e il punto dove mi avrebbe aspettato. I rumori della neve sotto gli sci e l’analisi del manto mi facevano pensare che il nostro passaggio avrebbe innescato solo uno strato superficiale di 15 centimetri. Dovevamo saperlo gestire, spostandoci velocemente dopo ogni curva. La neve era estrema-mente leggera e rara per l’Europa, non certo da cento chilogrammi per metro cubo. Ho seguito Layla con gli occhi un po’ preoccupati, ma era abbastanza veloce e ho tirato un sospiro di sollievo quando l’ho vista dare una rapida occhiata dietro le spalle e poi rifugiarsi, come previsto, all’ombra di un grande larice. Nonostante gli attrezzi larghi e la scelta del pendio più ampio, era uno sci diverso, speciale, con la velocità che calava immediatamente alla minima curva. È stato piuttosto un viaggio nel mondo della neve profonda, quasi soffocante. Eravamo soli in quei boschi magici, ovattati dalla grande nevicata. E questo è bastato a renderci felici.Ho ascoltato una canzone che viene dalla notte dei tempi al crepitio del fuoco, mentre finivo una buona bottiglia di Mori Vecio e Layla lavorava al suo computer. La notte è scesa come una coltre di silenzio e di freddo, rafforzandola sensazione di benessere e di isolamento.Non credo che ci fossero più di un centinaio di anime in quella piccola località delle Dolomiti. La cassiera del mini-market ormai ci conosceva e ci salutavamo da lontano quando incontravamo altre persone per strada.Poi ho passato un’altra brutta notte: la neve e le onde hanno questa capacità di portarmi via dal sonno, che diventa leggero a causa dei fiocchi o degli spruzzi, a seconda della stagione e del luogo.Il parcheggio non era stato ripulito da alcuni giorni, ma sono riuscito a parcheggiare l’auto di fronte a un enorme cumulo di neve. 

Siamo risaliti seguendo una facile pista da sci e ogni tanto alzavamo la testa per contemplare la roccia e la neve che ci dominavano. Cercavo di ascoltare la montagna, per capire se avesse qualcosa da dirmi: il cielo grigio e l’atmosfera cupa dell’inizio della giornata intaccavano un po’ la mia motivazione. Abbiamo superatola stazione di partenza della funivia, procedendo verso un traverso sotto una parete, dove si era accumulata una grande massa di neve, che suonava cava e aveva una struttura che non mi piaceva. «Sei sicuro?». «Penso che passando più vicino possibile alla parete dovrebbe andare bene, altrimenti chiama Eric o il 112, ok?».Layla ha aspettato che io avessi raggiunto la piccola cresta, dove saremmo stati al sicuro per un po’.Abbiamo tagliato molti pendii di quel tipo, prima di arrivare di nuovo ai piedi di una magnifica falesia di calcare giallo e ocra. La luce stava prendendo il sopravvento, tutto andava bene, ci sentivamo più leggeri sugli ultimi metri appena prima di mettere piede sull’alti-piano, che in estate si trasforma in un deserto di roccia e di vento e ha ispirato a Dino Buzzati Il Deserto dei Tartari.Quel romanzo che parla della condizione umana, delle nostre scelte, delle aspettative e dei miraggi della vita, delle vanità e delle speranze, dovrei proprio rileggerlo.Un uccello bello e fragile mi ha risvegliato da questo stato onirico. La piccola palla di piume si è presentata a chiedere un pezzo di seme, che gli ho lanciato con grande piacere e un po’ di emozione.

il sole risplende di una luce morbida, con i raggi radenti che illuminavano le effimere matasse di fiocchi di neve.Un’atmosfera polare accentuata dalle nuvole di vapore che, in controluce, uscivano dalla bocca di Layla.Siamo Arrivati su una cima immersa in una luce dorata. L’etere era trafitto dalla croce ghiacciata, crivellata di adesivi; non avevamo più niente da calare e per miracolo freddo era rimasto più in basso. Sull’altipiano non c’era un filo d'aria, il panorama era grandioso.Sapevo che quello sarebbe stato un momento indimenticabile del nostro inverno, uno di quelli che ci piace evocare in situazioni che non hanno nulla a che fare con la montagna. Non bisogna essere molto allenati o tecnicamente bravi per arrivare qui:alla portata di tutti, basta semplicemente volerlo. Tutto è purezza e candore, non c’è bisogno di andare alla fine del mondo o di scalare un ottomila per vivere la montagna.Ho preso Layla tra le mie braccia e poi l'ho seguita con gli occhi mentre danzava leggiadra sul tappeto bianco che la montagna aveva steso sotto i suoi sci.Una discesa così rappresenta quanto di più simile alla mia idea di perfezione.L’ho vista pennellare curve, guidata dal suo istinto e dall’abilità di giocare con il pendio e l’ho guardata ancora in una nuvola di cristalli di neve resi furiosi dal passaggio disinvolto e gioioso.

A volte mi manca la vita sociale, quella dei vecchi tempi, quando in inverno ci ritroviamo per parlare, bere e far scorrere l’adrenalina della giornata nelle nostre vene, ore dopo aver riposto gli sci in cantina. I tre bar di fronte alla stazione di Chamonix erano sempre zeppi di persone e spesso ci spostavamo da uno all'altro per ordinare un boccale di birra e guardare gli scandinavi, che si dimena-vano al ritmo di una banda rock che suonava dal vivo in una stanza affollata e surriscaldata. Come potevamo immaginare allora il distanziamento sociale, le mascherine, i tamponi, la perdita di tante libertà e soprattutto del controllo del nostro modo di pensare, che a volte mi fanno sprofondare in un profondo scetticismo sul nostro futuro? 

Viviamo felici il presente, domani potrebbe essere troppo tardi...Siamo entrati nell’inverno come fuggitivi che si nascondono nel bosco, lasciandoci alle spalle una buona parte del problema e trasferendoci in un mondo selvaggio e cotonoso, con le sue regole, che abbiamo accettato e rispettato a modo nostro. Sono Ancora stupito di come abbiamo potuto adattarci velocemente di come una situazione eccezionale sia diventata normale. Nella solitudine delle montagne, i segni della presenza umana sono scomparsi sotto la neve. Le infrastrutture e gli edifici sono diventati inutili, abbandonati a se stessi. Questa Sensazione di isolamento ce la siamo goduta, prima timidamente, senza capire che era un’occasione eccezionale. Poi ci siamo buttati giù senza farci più domande, vivendo intensamente ogni discesa e ogni curva. Niente impianti di risalita, ma tanta neve, senza vento. Chi avrebbe potuto immaginare questo scenario solo un anno fa? 


CORTINA

Con il passare delle settimane, il clima è diventato più clemente e la neve ha smesso di cadere dal cielo per un po’.Toni e William sono ripartiti e siamo andati in Svizzera per un fine settimana, nel Vallese. Ci siamo incontrati con alcuni amici a Nendaz ed è stato bello sciare nel comprensorio con gente del posto come Romain o Liesbeth, ma non eravamo più abituati alle code, al rumore degli impianti e ai parcheggi pieni di gente, così siamo tornati subito in Italia, a Cortina d'Ampezzo, prima che la regina delle Dolomiti ospita i Mondiali di sci alpino. Non conoscevo Cortina per la semplice ragione che non è il posto per me.Il Lato Chic e mondano mi aveva portato ignorare le montagne che la circondano.In una settimana, grazie all’invito di Massimo di Scarpa, avrei cambiato completamente idea su questo angolo delle Dolomiti.L’ospitalità di Claudio al Dolomiti Lodge, ai piedi delle Tofane, è stata molto calorosa e siamo partiti alla scoperta della zona del Cristallo e di Misurina conTomi Patrick. Abbiamo sciato anche con Aldo, con cui abbiamo condiviso una bella giornata sulle sue discese preferite; ci ha parlato anche di un massiccio isolato e sconosciuto, che visiteremo un’altra volta.Sulla via del ritorno verso le Dolomiti Avevo fatto il pieno di gasolio, ma il carburante non era quello con gli additivi per il freddo intenso e così siamo rimasti bloccati sul ciglio della strada che sale a Misurina. Con la macchina in panne, abbiamo sfruttato l’occasione per andare a sciare insieme a Manuel e Matteo Agreiter, nel loro giardino segreto intorno alla Val Mezdì. Un’altra giornata intensa, iniziata sotto un timido sole e finita nella tempesta e nel vento, tra forcelle e boschi, all’insegna del grande sci, come sempre con Manuel.

PRIMAVERA

Siamo tornati a San Martino per cercare un po’ di pace, ma anche per affrontare alcuni giorni intensi (e stressanti) di riprese con una troupe televisiva francese, che stava realizzando un documentario sulle donne e la montagna; Layla, come fotografa, era una di queste. È stata un'esperienza fisicamente impegnativa, a causa delle condizioni meteo e della neve, ma con l’aiuto di Eric Girardini e Manuel Agreiter siamo riusciti a toglierci un po’ di peso dalle spalle. E poi c’erano i cameraman e i dentisti, con borse che pesavano più di 15 chili. Il Freddo era intenso e i pendii ripidi. In breve, tutto ciò che non si vede quando si guardano le immagini.L'atmosfera Della tempesta è passata in fretta e le temperature si sono alzate di nuovo. Al mattino si sentiva il canto degli uccelli e nel bosco la neve bagnata cadeva dai rami; nel pomeriggio l'acqua scorreva giù dai tetti e le giornate si stavano allungando. Nell’aria c’era il profumo della primavera. È stato allora che Mathieu e Paola, una coppia di amici, sono venuti a trovarci per sciare nella neve fredda e veloce del versanteNord, nel bosco o nei canali all’ombra.Poi le temperature sono di nuovo salite e abbiamo iniziato a cercare la neve primaverile. Per Mathieu è stata l'occasione per fare un po’ di telemark, per medi esibirsi sulla tavola da neve con mia figlia Minna, che ha la fortuna di crescere in questo piccolo paradiso.Poi siamo tornati a Chamonix. L'inverno Non era finito, ma avevamo vissuto quelle ultime settimane tanto intensamente da disegnare una linea netta tra il prima e dopo, quasi la fine di una stagione. Le sciate, gli incontri: tutti momenti che hanno contribuito a tessere una ragnatela, che ci ha imbrigliato e alla quale non ci siamo ancora abituati del tutto. È stata un'esperienza molto forte, fisicamente ed emotivamente. Ci vorrà tempo per realizzare tutto quello che abbiamo vissuto. E, dopo aver fatto la selezione delle foto per questo articolo, è proprio l'aspetto umano dello sci di montagna, prima ancora di quelle tonnellate di neve leggera e polverosa, a rendere speciali i nostri pensieri, come un buon bicchiere di millesimato.

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Skialper Archive / Desert love affair

Due pro skiers e un fotografo alla ricerca di discese nella polvere. Ma è una polvere diversa, appiccicosa e abrasiva, le pelli sono sostituite dai cammelli e le tracce svaniscono dopo pochi secondi, cancellate dal vento del sud.​

Testo Donny O'Neill Foto Daniel Rönnbäck

Quando chiudo gli occhi e lascio divagare la mente, mi ritrovo sulla vetta di una montagna innevata e illuminata dai raggi del sole, con il riverbero e una leggera brezza che penetra nel casco e fa vibrare ogni capello. Essere su una vetta mi trasmette una sensazione di familiarità, ma anche di passione e avventura. Ma ora, con gli occhi chiusi e il vento che fa svolazzare i capelli, sento come un prurito sulla pelle. Attraversa la faccia e arriva ai denti. Sabbia. Sabbia negli scarponi, sotto gli sci e nella pelle. Questa volta, sulla vetta di una grande duna del Sahara, con una linea vergine da sciare sotto di me, mi ritrovo immerso in un corteggiamento con il deserto.

Tof Henry sulla powder del Sahara

Il sole aveva assunto una tonalità rossastra filtrato da quelle nuvole di sabbia. Non c’erano alberi, né moto che rombavano per le strade e neppure negozi illuminati fino a notte fonda come a Marrakech.Era una città piatta che pullulava di vita e di commerci che si adagiava sulle colline. Le colline piano piano diventavano montagne e le montagne si perdevano nel cielo sporco. Dai ciliegi in fiore ai pini, dalla neve alla sabbia: avevamo viaggiato nove ore verso Sud-Ovest attraverso il Marocco e le valli dell’Atlante fino al villaggio di Merzouga, nella regione di Erg Chebbi, deserto del Sahara.Dietro di me c’erano i pro skiers Chad Sayers e TofHenry e il fotografo Daniel Rönnbäck che stavano sorseggiando una calda tazza di tè del deserto e sgranocchiando i biscotti che avevano trovato alla stazione di servizio. Un viaggio fino in Marocco per sciare dove quasi tutti non l’avrebbero fatto. Chad cercava la curva perfetta nella powder con profumo di deserto, Tof nuovi couloir in stile Chamonix e Daniel di catturare quell’allure esotica di un viaggio con gli sci in Africa attraverso l’obiettivo. E poi io, che mi sono unito all’avventura di una vacanza sciistica diversa in qualità di quarto nomade. Davanti a noi c’era Muhammad, la nostra guida del deserto. Ci siamoDue pro skier e un fotografo alla ricerca di discese nella polvere. Ma è una polvere diversa, appiccicosa e abrasiva, le pelli sono sostituite dai cammelli e le tracce svaniscono dopo pochi secondi, cancellate dal vento del Sud seduti sotto il cielo nuvoloso con la sabbia che stava ancora depositandosi al suolo dopo due giorni di tempesta. La luna piena bucava le nubi con la sua luce chiara e illuminava le sagome dei cammelli di Muhammad, Mali e Jimmy. Stavamo per lasciare il comfort della casa di Muhammad per un accampa-mento da dove il giorno successivo saremmo partiti per la nostra pellata sulle dune del deserto.Ora il pulviscolo della sabbia era sparito dall’aria, lasciando trasparire in tutta la sua potenza il contrasto tra il bronzo della sabbia e il blu intenso del cielo.Le nuvole correvano sopra di noi, creando un filtro ai potenti raggi del sole. Alle 8 il termometro segnava22 gradi e la pelle iniziava a scottare. Con i turbanti ad avvolgere i capelli, gli sci sulla schiena e i bagagli ridotti al minimo siamo partiti in groppa ai cammelli verso un infinito di sabbia. Le tracce tra i granelli raccontavano le storie di altri viaggi. Nonostante il vento che aveva soffiato da Sud a Nord erano rimaste le tracce di altri cammelli passati prima dei nostri, di pesci delle sabbie (una specie di lucertola tipica del deserto) che scappavano dai topi del deserto e le piccole orme degli scarabei. Piccoli e paffuti, tutti neri con dei puntini sul guscio, gli scarabei avevano rimescolato la sabbia facendola sembrare ancora vergine e il Sahara si era fatto bello per noi dopo giorni di tempesta.Eravamo da poco arrivati al campo che Tof stava già scrutando la sua prima discesa. Le dune di sabbia circondavano l’accampamento e creavano dei miraggi fatti di spine e couloir. Il vento del Sud aveva depositato granelli di sabbia sui versanti Nord, creando delle piccole valanghe sui pendii oltre i 40 gradi. Con gli sci sugli zaini e gli scarponi ai piedi, eravamo pronti per la nostra avventura sulle montagne più alte che vedevamo.Jimmy e Mali salivano veloci nella sabbia lasciando impronte grandi il doppio di una mano umana. Eleganti e potenti allo stesso tempo, i cammelli ci hanno fatto guadagnare quota al comando di Chad e Tof. Siamo passati dalle valli di sabbia alle creste. Stare in groppa a un cammello è simile a cavalcare un cavallo, con la differenza che sembra di essere tre volte più alti ed è un ottimo punto di osservazione alla ricerca delle migliori linee.Man mano che salivamo di quota, aumentava la pendenza e a un certo punto abbiamo dovuto scendere e proseguire con gli sci ai piedi. La sabbia era calda e abrasiva e non abbiamo avuto bisogno delle pelli per scalare questi pinnacoli di 350 metri.Ogni duna cambiava mentre la guardavi, trasformata dalle forti folate di vento che arrivavano dall’Algeria, distante solo 17 chilometri. La serie di dune era diversa da come me la sarei aspettata: solo cinque chilometri di larghezza, ma ben 50 da Nord a Sud.

Le più grandi erano al centro di quella striscia e le loro creste proiettavano ombre nere sulla sabbia più in basso. I miei sci per fortuna salivano senza nessun problema su quella sabbia così grippante e quasi non mi sono accorto di essere arrivato in cima e avere tutto il deserto ai miei piedi. Tof si è messo la sua maglietta e ha aperto le zip di ventilazione dei pantaloni mentre Chad serrava bene gli scarponi e chiudeva gli attacchi. C’era eccitazione nell’aria ed eravamo in vetta al Sahara.Ero curioso di vedere Tof disegnare la prima discesa su una spina di 200 metri rivolta a Nord.Con le braccia larghe come ali e la nuvola di sabbia dietro come se fosse neve, si è messo sulla linea di massima pendenza. Chad ha infilzato i bastoni nella sabbia per spingersi e guadagnare velocità. La sabbia creava uno strato appiccicoso che frenava gli sci, come quando l’acqua ti rallenta sulla neve marcia. Il trucco era quello di riuscire a trovare lo strato più compatto dove potere scivolare piuttosto che sprofondare nella soffice polvere e impantanarsi. Chad è riuscito a disegnare una perfetta C dietro di lui, lasciando una scia esile. Sulla neve ti giri per guardare con soddisfazione i tuoi otto, sulla sabbia hai solo un momento per dare uno sguardo, prima che il vento cancelli i segni del tuo passaggio. Ho scritto la mia storia sulle dune, ma l’unica prova che è rimasta è stata la sabbia che si è infiltrata negli scarponi.Giro dopo giro, salita dopo salita, Tof e Chad hanno preso confidenza e il sorriso sui loro volti ne era la prova più evidente. Hanno sciato spine e versanti aperti fino a quando il sole ha iniziato a tramontare.Il bagliore della luce si è trasformato in un arancione vivo quando finalmente il vento da Sud è diventato fresco. In vetta, con gli occhi chiusi e la faccia illuminata dagli ultimi raggi, con il vento che accarezzava la pelle e la sabbia soffice sotto i piedi, mi sono sentito a casa, proprio come su una vetta innevata. Tof ci ha lasciati per godersi un’ultima discesa fino all’accampamento mentre i turisti erano saliti sulla duna più alta per vedere il tramonto. La sera è stata allietata dal calore delle braci di tamerice che hanno rosolato una pizza del deserto, carne e verdure.Muhammad e i suoi portatori ci hanno trasmesso tutto il loro amore per l’Africa battendo le mani sui tamburi e cantando. Muhammad è uno di noi.Ha viaggiato 52 giorni in groppa a un cammello daTimbuktu, dove vive la sua famiglia, in cerca di legno di frassino da bruciare, nuove opportunità e vino.Il Marocco è la creazione di un nomade. La sua cultura, la religione e le abitudini sono il risultato del vagabondaggio di Berberi, Arabi e viaggiatori che hanno traversato il più grande deserto del mondo fino alle vette innevate dell’Atlante o al Mediterraneo alla ricerca di commerci, viveri e amore. Con la sabbiai ntrappolata tra gli interstizi del mio attacco Kingpine il turbante rosa legato allo zaino, anche io ho lasciato un segno nel Paese dei nomadi. Mentre le tracce sparivano nella sabbia e le dune venivano modellate dal vento, mi sono sentito a casa. Gli sciatori sono dei nomadi. Ogni montagna è una nuova avventura da scrivere. Giriamo il mondo in cerca di linee ancora da sciare, grandi pareti e nuovi tipi di neve. O sabbia. Siamo una tribù di entusiasti girovaghi. Senza uno stile di vita precostituito, solo un’avventura dietro l’altra. Dando il benvenuto a nuovi nomadi da fare entrare nelle nostre vite e nuove discese nel nostro viaggio.

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Skialper Archive / Sangre y corazón

Quattro giorni di lunghi e complicati avvicinamenti, prime ripetizioni e nuove vie nel cuore più selvaggio e vertiginoso delle Dolomiti bellunesi

Foto Santi Pedròs, Diego Toigo e Ruggero Arena

La cima più alta è il Monte San Lucano, con i suoi 2.409 metri, ma è semplicemente il culmine geografico di un gruppo montuoso conosciuto solo da scalatori e alpinisti alternativi. Le Pale di San Lucano, nascoste a Nord-Est dalle più alte Pale di San Martino, per molti sono dei semplici nomi sulla mappa, però ospitano nelle loro viscere un labirinto di pareti e guglie che ne fanno un terreno per pochi.  

Emilio Comici, Attilio Tissi, Giovanni Andrich, Eugenio Bien, Renato Casarotto, Piero Radin, Alessandro Gogna, Franco Miotto, Lorenzo Massarotto, Ilio ed Ettore De Biasio, Ivo Ferrari, Fausto Conedera, Stefano Santomaso, Gianni Del Din, Renato Panciera. Ci sono alcuni dei grandi dell’alpinismo insieme a cognomi poco conosciuti al di fuori di queste montagne tra i protagonisti della storia alpinistica dello Yosemite delle Dolomiti, come lo ha definito Alessandro Gogna nell’omonimo libro.

Le Pale di San Lucano superano i 1.600 metri di altezza dal fondovalle, le pareti hanno uno sviluppo tra i 400 e 1.000 metri. Gli avvicinamenti possono durare dalle tre alle quattro ore e spesso si risolvono in umili ritirate dopo essersi persi su pendii ripidi e scoscesi, cosparsi di erba scivolosa. Molte vie non vanno oltre il V+ o VI UIAA, ma la natura selvaggia dei luoghi, le difficoltà di orientamento e i pochi chiodi nella roccia alzano l’asticella. Una delle vie più famose è la Casarotto-Radin, un gigantesco diedro di oltre 300 metri incastonato nello Spiz di Lagunaz (2.331 m) con una discesa lunga e complessa. Altre vie più moderne come la Collaborazione o la Via dei Ritorni, più difficili e senza nemmeno uno spit lungo il percorso, sono la prova che esistono ancora angoli nascosti, lati B dove disegnare belle vie di qualità alpinistica.

@Ruggero Arena

È stato il mio amico Diego Toigo, presidente del Gruppo Rocciatori del CAI Feltre, a lanciare l’idea di un concatenamento delle quattro Pale, una traversata cercando di raggiungere le vette solo con prime ripetizioni. Il progetto sembrava un po’ folle, soprattutto per la complicata logistica di accesso e di discesa e per la mancanza di punti di appoggio come rifugi o bivacchi. La prima scelta è stata quella della stagione: abbiamo subito concordato che il periodo migliore per questo viaggio alpinistico sarebbe stato in primavera inoltrata grazie alle giornate con tante ore di luce e perché in autunno la mancanza di acqua avrebbe reso complicato idratarsi. Impensabile andarci in estate: fa troppo caldo e il mio lavoro di Guida non mi avrebbe lasciato tempo. Avevamo diverse opzioni, sempre con l’obiettivo di concatenare solo prime ripetizioni, l’unica decisione presa da subito è stata quella di partire dalla Quarta Pala e finire sulla Prima. Prima della traversata abbiamo portato una tenda con viveri sotto la vetta del Monte San Lucano, proprio accanto al Passo del Ciodo, unico passaggio utilizzato in passato dai pastori e dai cacciatori di camosci e nostro campo base.

Il D-day è arrivato domenica 13 giugno, quando abbiamo intravisto una finestra meteo favorevole in una primavera molto variabile. Alle sei del mattino abbiamo parcheggiato il furgone al Col di Pra, a 843 metri di quota, per affrontare uno degli avvicinamenti più abominevoli che ricordi, che ci è costato quattro ore, incontri ravvicinati con zecche e vipere e un volo a pendolo su un tiro di terzo grado. Alle 9.30 intuiamo di essere all’attacco della via Mario Tomè - Bariza che sale per 800 metri tra lo Spigolo Gogna e la Casarotto. Alle nostre spalle una vista incredibile sullo Spiz di Lagunaz e il diedro Casarotto ci accompagna per tutto il giorno. Siamo rimasti sorpresi dalla qualità della roccia man mano che si liberava dai ciuffi d’erba, aumentando in verticalità e difficoltà. Dopo un paio di tiri di VI, annusiamo la vegetazione in vetta. Sono quasi le sei del pomeriggio e accarezziamo il primo dei nostri sogni, la Quarta Pala di San Lucano. Una passeggiata lungo l'aerea cresta, calpestando un po' di neve soffice a causa delle alte temperature, ci porta al caratteristico Arco del Bersanèl, al Monte San Lucano e al Passo del Ciodo. È stata una giornata con più di 1.700 metri di dislivello cumulato e 13 ore e mezza di attività. Siamo felici e ci godiamo un tramonto unico, ma non ho nemmeno il tempo di dare la buonanotte a Diego che mi ritrovo a sognare l’ignoto.

 

@Ruggero Arena
@Ruggero Arena

Lunedì è stata la volta della via del Pilastro Bianco. La discesa per arrivare all'attacco avviene attraverso il Boral di San Lucano. I borai sono i canali rocciosi ed erbosi che separano le Pale di questo particolare gruppo montuoso. Nel 2017 ero già stato qui quando abbiamo aperto Llops de Mar con Luca Valatta, ma era autunno e il canale già senza neve. Questa volta dobbiamo scendere per circa 500 metri con le doppie su neve dura rotta da crepe sospette che in fondo si trasformava in cascate d’acqua. Alla fine, a due lunghezze dall'inizio della via e dopo tre ore di avventura, siamo riusciti a entrare in parete con un lungo traverso. Il percorso sale senza particolari difficoltà per belle fessure e placche sulla sinistra del Pilastro e ci porta sulla vetta tra Terza Pala e Spiz di Lagunaz, dove inizia una sessione di salite e discese che comprende un totale di oltre 300 metri, tiri fino a IV+ e sei doppie. Per fortuna che pensavamo che la seconda sarebbe stata una giornata rilassante: sono state più di 12 ore molto intense che ci hanno condotti alla tenda sfiniti e lì abbiamo trovato ad accoglierci il nostro amico e fotografo ufficiale della traversata, Ruggero Arena. Dopo avere valutato bene la logistica del terzo giorno, abbiamo deciso di spostarci per la notte al bivacco Margherita Bedin, in vetta alla Prima Pala, per risposarci meglio. Il posto è da sogno…

Martedì siamo scesi lungo il sentiero 765, cancellato da un incendio e dalla tempesta Vaia del 2018 e ormai quasi impraticabile, dirigendoci verso il Boral de la Besausega per raggiungere la base della via Flora, obiettivo iniziale della giornata. Però, una volta arrivati all'attacco, nei primi tre tiri ci alziamo troppo e ci rendiamo conto che la via è 40 metri sotto di noi e a destra e invece, sopra le nostre teste, una roccia di ottima qualità cattura l’attenzione. Così, con naturalezza, iniziamo a salire dove vogliamo. Prima troviamo delle stupende placche giallo-nere a buchi, poi i tiri si susseguono in maniera logica con delle lunghezze davvero belle e dopo sette tiri raggiungiamo la grande cengia terminale di Flora, pensando di percorrerla e di finire così su un terreno familiare, ma il diedro di uscita è diventato una cascata d’acqua. Mancano una cinquantina di metri, sulla sinistra vedo un sistema di fessure che ci regalano due tiri eccezionali e non facili fino alla vetta della Seconda Pala su una nuova via che chiamiamo Sangre y Corazòn.

@Santi Padròs

Abbraccio Diego, sentiamo che il viaggio è quasi terminato, manca solo l’ultima via, sulla Prima Pala, ma siamo molto stanchi e il meteo promette temporali pomeridiani per il giorno successivo, quindi dobbiamo giocare bene le nostre carte. Nell'ora e mezza di rientro al Bivacco Bedin abbiamo analizzato bene la situazione, poi un'altra notte intrisa di natura, roccia, emozioni e amicizia. Vita pura. Mercoledì avevamo in mente due vie alla Cima Est di Ambrusogn (vetta principale della Prima Pala), la più dura Raffaella e la Massarotto - De Biasio come soluzione veloce in caso di maltempo. Alla fine siamo riusciti a ripetere i primi tre tiri della via del Diedro e poi ci siamo spostati sulla Raffaella, che ci ha regalato una salita tecnica e di impegno. La placca compatta che porta alla splendida fessura più in alto ci ha dato del filo da torcere e anche i tiri successivi sono davvero belli. Alla fine siamo arrivati alla cengia che con un lungo traverso tra i mughi ci ha portato fuori dalla parete, appena sotto la Cima d’Ambrusogn. 

Mentre ci sleghiamo, ci rendiamo finalmente conto di avere dato forma al nostro sogno. Siamo già fuori dalla parete, sulla via per il bivacco, per recuperare tutto e tornare alla civiltà. Ancora non ci crediamo di essere riusciti a concatenare le quattro pale in quattro giorni consecutivi. Ora però stiamo cominciando a rilassarci, sono state giornate molto intense, soprattutto per l'esposizione del terreno, ma siamo soddisfatti delle nostre scelte. E quasi non ci accorgiamo che, mentre arriviamo al furgone, inizia a piovere. Grazie Diego, perché sogni progetti incredibili nel cuore dell'Europa, dove sembra che se non ti confronti con l'orologio non ci sia più niente da inventare. E da sognare.

Questo articolo è stato pubblicato su Skialper 137 


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Skialper Archive / La macchina del tempo

Un gelido sole fa capolino dietro i profili delle montagne mentre mi appresto ad andare al lavoro. Il turno del mattino in ospedale inizia prossimo all’alba e, a seconda della stagione, l’Appennino mi saluta in maniera diversa. Il grigio tetro e monotono del nosocomio è sovrastato in lontananza da un lungo profilo che conosco a memoria e che migliora questa squallida, seppur necessaria, geometria, donandole un aspetto inaspettatamente maestoso. L’occhio stropicciato punta immediatamente verso il gruppo del Cusna, un gigante sdraiato sulla pianura, che appare fiero in direzione sud-ovest quando, imbiancato dalla neve, sposta l’immaginazione a certe forme himalayane. Subito dopo è impossibile non notare il cono simil-vulcanico del Cimone che fa capolino dietro le colline. La più alta cima dell’Appennino settentrionale rimane però ben celata dalle sinuose gobbe che la attorniano, concedendosi solo in piccola parte allo sguardo attento. Verso sud-est, dalla nera boscaglia di media quota, sbucano Spigolino, Cupolino e Corno alle Scale. Quest’ultimo mi riporta in Cordillera Blanca, con le sue caratteristiche cime affilate e solcate dai canali quasi fossero campi arati verticali. Il viaggio fantastico tra le montagne di casa e quelle del mondo si conclude all’angolo opposto dell’orizzonte dove, senza preavviso, emergono altre due evidenti vette imbiancate, dalla mole incredibilmente poderosa nonostante la loro modesta dimensione effettiva. 

Quasi sconosciuto tra i non addetti ai lavori, il gruppo Alpe di Succiso – Monte Casarola riconduce il fantomatico pellegrinaggio sulle Alpi. Eccezion fatta per la quota, potrebbe benissimo essere inserito in un quadretto svizzero. Parecchie altre amate cime di casa non si vedono, ma questo assaggio basta per sapere che il momento finalmente è arrivato. L’attrezzatura da sci sempre pronta in macchina mi aspetta fremendo a fine turno. Una tempesta ormonale carica di fiocchi nevosi percuote il mio soma assonnato, e già pregusto le curve pomeridiane. Oggi come non mai il freddo dell’inverno è uno stato di liberazione. Riappropriarsi finalmente delle sensazioni naturali, troppo a lungo celate sotto maschere e tute a scafandro, in un asettico annullamento della persona e dei desideri. Lo sciappenninismo, lungi dall’essere una disciplina per palati raffinati, richiede il coraggio e la pazienza di andare a verificare di persona e la dovuta predisposizione ad accettare le sorprese, positive o negative che siano. Chi è abituato alle Alpi potrebbe facilmente storcere il naso. Sullo spartiacque tosco-emiliano le cime vere e proprie caratterizzano solo l’ultima parte della salita. Per giungere alla testata delle valli bisogna traversare molti chilometri di ondulati colli solcati da strade spesso malconce nella loro tortuosità. In questa fascia di territorio la neve cade in maniera sporadica e molto spesso scompare ancor prima di accumularsi. Negli anni alcune bucoliche realtà sciistiche locali con dotazione di manovie o skilift sono progressivamente scomparse. Raggiunti i borghi più alti, la strada finisce e appare la linea di crinale sovrastante. Inutile dire che per chi risiede in queste zone l’Appennino bianco racchiude qualcosa di estatico, specie ora che il regalo della neve è tutt’altro che scontato. 

© Giovanni Danieli

Escludendo i maggiori comprensori di piste che tentano ostinatamente di resistere alla sempre più evidente fine della loro gloria, in alto Appennino si spicca un balzo fuori dal tempo. Sia in senso storico che in senso geografico. Lo stato di desolazione che si respira, in particolare durante la stagione fredda, in molti dei paesini a ridosso delle montagne, è compensato dalla cocciutaggine dei pochi che scelgono di abitarvi. Gente in salita, simile in tutto il mondo, che non ha paura della fatica e del silenzio. Soprattutto per quelli come me che frequentano i monti lontano dai weekend, è abitudine prepararsi alla gita ascoltando solo i propri movimenti, immersi nella spettrale atmosfera delle ultime case, ben sigillate in attesa di climi più caldi. I suoni si propagano nitidi e l’attacco dello scarpone sembra quasi rimbombare a ridosso dell’abetina piegata dal peso della neve. 

La quota modesta permette allo sciatore affamato di approcciare le salite anche a pomeriggio inoltrato. Il momento in cui il sole tramonta per lasciare spazio al buio ovattato dell’inverno è forse il frammento più significativo nel bianco d’Appennino. Pare davvero di essere agli albori dello sci, attraversando le borgate immersi nella neve fresca. Presto mi immedesimo nel personaggio e nelle atmosfere di quel film che mio padre guardava e riguardava, catturando la mia curiosità di bambino. C’era questo sciatore formidabile nella Courmayeur di inizio Novecento, interpretato dal norvegese Morten Aass, che con una divina tecnica telemark nuotava nella neve, infilando qualsiasi pertugio nei boschi o tra le case per giungere ai vicoli del paese antico con gli sci. Questo prima di essere catapultato negli anni Ottanta con una bizzarra macchina del tempo a pedali, e disegnare altre prodigiose linee sulle Alpi come se i decenni non gli appartenessero, come se lo scivolare sulla neve trascendesse lo spazio temporale. The time machine si chiamava il film e io ho sempre sognato di emulare le gesta del mitico telemarker col cappellaccio nero. Sul nostro crinale l’ambiente perlopiù boschivo e dolce nelle sue forme consente, con le dovute accortezze, di muoversi anche se il meteo è incerto. Qui non spaventano le bufere di neve o i cieli neri ma il Libeccio. Nei valichi tra Toscana ed Emilia lo strato nevoso si consuma rapidamente, livellato da correnti spaventose che impongono frequenti e rapidi cambi di direzione anche ai più determinati. 

L’essere forzatamente confinati all’interno della regione ci ha portato a ripercorrere ancora i pendii di casa, riscoprendo lo spettacolo e l’emozione quando pensavamo di aver ormai vissuto tutto. Questa volta però non rappresentano banali metri di dislivello da accumulare in vista di più ardite salite alpine, ma sono lo scopo finale. Il trucco sta nello sciare con nuovi occhi. Per esempio riconsiderando quelle tracce naturali da troppi anni accantonate, quei canali che magari prima o poi e quei versanti sempre sfavorevoli alle buone condizioni. I giorni sciappenninistici passano in fretta da queste parti. La posizione geografica di barriera alla pianura e la relativa vicinanza al mare fanno sì che la neve si trasformi in un battito di ciglia. Per certi versi ci sono anche lati positivi, ma in buona sostanza la powder in Appennino settentrionale è merce rarissima. Ecco perché non bisogna tentennare. Guai a perdere minuti preziosi, e giù per itinerari che parevano non dover essere mai solcati. 

Chissà quando ricapiterà, forse l’anno prossimo, probabilmente tra cinque o dieci anni. Il vento modella le sue sculture sul crinale e nel cielo terso il panorama ha dell’incredibile nella sua unicità. Si vede il luccichio del mare, specchio tra le ombre frastagliate dell’arcipelago toscano e la Corsica. Poi ancora le Apuane, i Colli Euganei, le città emiliane e il Monte Baldo. Solo alla fine ecco il Monte Rosa, lontanissimo.  Ora però cala la sera e la discesa la faremo alla luce delle frontali, discretamente, per non disturbare il bosco. Faggi, abeti rossi e bianchi, immobili nella stagione lenta. Di notte la percezione è amplificata e il profumo della neve ci avvolge nell’euforia di una polvere stupenda. Lascio che il cuore si calmi, una curva e respiro, vorrei non finisse mai. Di tanto in tanto sono solo, come avevo desiderato. Poi un tunnel di alberi sommersi ci catapulta verso inclinazioni dove cala la tensione delle gambe, e improvvisamente le oscure presenze di mucche Highlander fuori dal recinto mi costringono a un cambio di passo. Perdo l’equilibrio, un tuffo e sono ricoperto di uno strato candido, tra gli sguardi insospettiti delle amiche dal lungo pelo. Non ho più la torcia frontale, smarrita in questi freschissimi metri, ma poco importa. Preferisco non raccontare agli altri di quest’entusiasmo che solo l’inverno può dare, di quanto è straordinariamente primordiale sguazzare nella neve. Tanto non mi crederebbero mai. 

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 138 DI DICEMBRE 2021

© Giovanni Danieli

Skialper Archive / Sesso, droga e la curva perfetta

«Sciare nella neve fresca è la massima essenza dello sci. Significa libertà, con un’enfasi non su come lo si fa, ma sul farlo di più... è al di là dell’attrezzatura, della forma, della tecnica. Forse la cosa più importante è che lo sci nella polvere significa allontanarsi dalla folla in un posto dove non ci sono tracce, impianti, recinti, altri corpi. Solo neve. È un altro mondo». 

Dall’editoriale del primo numero della rivista Powder, 1972

 

C’è tutta una filosofia e un’economia dietro al concetto di essenza – o di anima – degli sport all’aria aperta: chi ce l’ha veramente, dove la si trova e perché. Naturalmente ci sono sport che da sempre rivendicano un’anima che è diventata argomento di promozione e di commercializzazione, nei video e nelle pubblicità: il surf, l’arrampicata e lo sci sono ai primi posti di questa lista.
Ma l’anima può essere sia effimera che onnipresente, più evidente in certe sotto-discipline all’interno della sfera più ampia di qualsiasi attività. Negli sport invernali, è un soffio che avvolge tutto il mondo della neve fresca: powder, poudre, pulverschnee, nieve polvo. Proprio come getting barreled (surfare nel tubo all’interno dell’onda) è l’esperienza più mistica nel surf, così un face shot, uno spruzzo di polvere, è il Santo Graal dello sci. 

Naturalmente l’anima dello sci è un mix perfetto che mette insieme anche i luoghi speciali dove andiamo a caccia di polvere e le persone con cui condividiamo l’esperienza: la formula è semplice: persone + luogo + polvere. Ed è quello che ha attirato e attira sempre di più nella montagna aperta molti di noi, annoiati dall’ambiente artificiale delle località sciistiche. O forse è lo spettro del cambiamento climatico e la preoccupazione che non ci resti molto tempo per godere del fenomeno della neve fresca. Oppure, come recita un cliché un po’ démodé, la polvere è come una droga potente – una volta che l’hai provata, puoi solo desiderarne di più. Qualunque sia la ragione, We want powder è il nuovo We want fast lifts nell’industria degli sport invernali. 

 

«Il vero sciatore non segue gli altri. Non si limita a una pista. È un artista che ricama un bel disegno nella neve vergine e incorrotta. La cresta coperta di neve polverosa per il vero sciatore è come il marmo per lo scultore. La neve la cui bellezza è stata distrutta da migliaia di sciatori sulla pista non registra il passaggio di un altro sciatore. Solo la neve soffice registra i movimenti dei singoli sciatori, ed è unicamente nella neve soffice che il vero artista può esprimersi». 

Arnold Lunn, Le montagne della gioventù, 1925

© Mattias Fredriksson

Ci sono molte attrazioni nella neve fresca. È naturale, per prima cosa. Fresca. Pulita. Brillante. E non fa male quando si cade. Ma i veri aficionados sanno che è molto di più. C’è una certa trascendenza nel galleggiare sulla powder che va al cuore dell’intera esperienza sciistica, qualcosa che non può essere adeguatamente descritto, ma che deve essere sperimentato per essere compreso appieno. C’è chi ha detto che spiegare lo sci nella polvere a un neofita è come spiegare il sesso a una vergine. Banale ma vero, però cercherò di dirlo diversamente. Lo sci nella polvere è una questione di parole e di incapacità di parlare. Di raccontare, ma non riuscire a descrivere. Riguarda il silenzio che ti circonda, ma anche come quella quiete in qualche modo amplifichi il battito del tuo cuore, l’ansimare del tuo respiro, il vento tra gli alberi. Si tratta di grugniti involontari di sforzo e strilli inconsci di gioia. Si tratta di ispirazione. Disperazione. Matrimoni falliti. Cattiva poesia. Sorrisi. Sciocchezze. Dita dei piedi congelate e mal di testa
da gelato. Prime tracce e sci persi. La magica sensazione di affondare seguita da una momentanea assenza di peso. Di arrancare, navigare e surfare, attraverso e sopra a crosta, sastrugi, pappa, cemento e ogni sorta di brutta neve, solo per arrivare alla roba buona. È un modo di sentire. Un modo di pensare. Un modo di vivere. Un modo di condividere. 

L’ultima parte è importante perché la relazione della polvere con gli amici con cui la vivi è difficile da descrivere. Ma farò un tentativo anche per questo. Dolores LaChapelle ha scritto che, se la gioia è la risposta di un amante che riceve ciò che ama, è anche la sensazione che proviamo quando sciamo nella neve polverosa con gli amici. Una gratitudine traboccante che produce i sorrisi assolutamente assurdi che illuminano i nostri volti alla fine di una discesa. Non vedi mai questo tipo di mimiche facciali; non sulle facce di chi lascia un campo da tennis, un campo da golf o una pista di hockey; non su quelle di chi scende da un podio dopo un grande discorso o lascia un club dopo una favolosa serata di ballo. Nient’altro si avvicina al significato dei sorrisi condivisi nella polvere: sono un riflesso della vita pienamente vissuta, insieme, in un tripudio di realtà. 

 

«Non ci si può mai annoiare a sciare nella neve polverosa perché è un dono speciale della relazione tra terra e cielo. Arriva in quantità sufficiente solo in determinati luoghi e in alcuni momenti su questa terra; dura solo un tempo limitato prima che il sole o il vento la trasformino. Le persone le dedicano la loro vita per il piacere di essere così semplicemente in balìa della gravità e della neve». 

Dolores LaChapelle, Earth Wisdom, 1978 

© Mattias Fredriksson

Molti di noi sono così estasiati dai sentimenti generati dalla neve polverosa che girano il mondo per inseguirli nel maggior numero possibile di posti diversi. Quando si parte per un pellegrinaggio in un Paese lontano, su montagne sconosciute, alla ricerca della neve, in realtà si sta cercando qualcosa di più di una semplice scivolata esotica. Ciò che si desidera veramente è cogliere l’attimo e  gli amici del giorno, poi mescolarli insieme. Un nuovo esperimento nel laboratorio dell’inverno. Che si tratti di Europa, Alaska, Canada, Scandinavia, Nuova Zelanda o Giappone, gli ingredienti di base sono gli stessi: roccia, ghiaccio, cime, discese, neve. Eppure tutti sono anche deliziosamente diversi: una nuova latitudine, una luce unica, strane foreste, curiose formazioni di neve. 

Scoprire l’anima dello sci vuol dire seguirne le linee sui fazzoletti di neve di tutto il mondo e i comprensori sciistici hanno giocato con questo desiderio per creare un mercato internazionale. Però i veri top player nella corsa alla polvere profonda si sono tenuti a lungo in disparte, sussurrando i migliori segreti tra di loro nelle code degli impianti di risalita e passandosi la versione beta tra fratelli. Ma, con l’aumento della domanda, questa situazione non poteva durare. Mentre gli operatori turistici soddisfano il crescente appetito del pubblico per le destinazioni uniche, la natura selvaggia e la polvere non tracciata, angoli del mondo tradizionalmente sonnolenti come il Giappone settentrionale, la Turchia e la Bulgaria ospitano un numero sempre maggiore di sciatori in arrivo da tutto il mondo. Diversi comprensori americani ed europei hanno aperto interi settori per il freeride e l’esplosione dello scialpinismo è senza precedenti. Che sia human powered o no, il business della polvere è in piena salute. 

Basti pensare che nella sola British Columbia, in Canada, la capacità dell’industria dello sci backcountry (con una grossa fetta rappresentata da eliski e cat skiing, vale a dire la risalita con mezzi cingolati, ma anche una crescente popolarità dello skialp, che può contare ogni anno su nuovi lodge e itinerari segnalati) è più che raddoppiata nell’ultimo decennio e la domanda supera ancora l’offerta. Confrontate questa ricerca della powder con l’attuale sovrabbondanza globale di spa e terme. Non sono un venditore, ma direi che potrebbe essere una buona pubblicità: i benefici di uno schiaffo in faccia con la neve fredda potrebbero effettivamente superare quelli dell’aromaterapia o della stone therapy lungo la schiena. 

 

«C’è un’esperienza del niente quando si scia nella neve fresca. Ma l’idea del nulla nella nostra cultura è spaventosa e non abbiamo parole per descriverla. Invece nel pensiero taoista è chiamata la pienezza del vuoto da cui provengono tutte le cose. Le mie esperienze con la neve polverosa mi hanno dato i primi barlumi delle infinite potenzialità della mente». 

Dolores LaChapelle, Polvere Profonda Neve, 1993

 

Quest’ultima citazione potrebbe essere un po’ troppo zen per alcuni, ma LaChapelle ha ragione. Quando si arriva al dunque, surfare la neve fresca non riguarda l’esperienza esteriore, ma quella interiore. Riguarda quell’intersezione cruciale di mente e corpo, dove pensiero e sentimento non possono essere separati. Fermarsi in fondo a un pendio e guardare indietro verso una linea che sei convinto sia stata la migliore discesa della tua vita, appoggiandoti alla fettuccia dei bastoncini e sorseggiando l’aria attraverso un sorriso, non appartiene solo a te, ma a tutti quelli che sono stati per qualche minuto in piedi con le gambe che tremano così tanto e hanno vissuto quella stessa esperienza. E non importa quanto sia stata lunga la discesa o quanto ti senta pieno di dolori, importa che sei consapevole che, se anche non dovessi sciare più, andrebbe bene così. Però una discesa nella powder scatena quel tipo di reazione chimica che fa sì che il tuo cervello ne voglia sempre di più, che ti fa pensare di non averne mai abbastanza, e che la prossima volta sarà sempre meglio.
Forse tutte quelle analogie sul sesso e... non erano poi così banali. 

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 138 DI OTTOBRE 2021

© Mattias Fredriksson

Skialper Archive / Jules Berger, local hero

Quando Marco Siffredi è sceso dal Couloir Cordier, Jules Berger aveva appena cinque anni. Era, a tutti gli effetti, un bambino e quel nomignolo gli è rimasto, the Chamonix kid. Nato e cresciuto ai piedi del Monte Bianco, per la precisione proprio sotto l’Aiguille Verte, fin da giovanissimo ha portato avanti uno scialpinismo d’esplorazione o per ripercorrere itinerari di pregio. Nelle ultime stagioni ha messo la firma su veri e propri exploit ben lontano dalle masse, magari scegliendo con cura le condizioni, anche in periodi dell’anno non propriamente sciistici. E così l’anno scorso, a vent’anni dall’impresa di Marco Siffredi, Jules Berger è andato a ripetere una linea mitica, così vicina eppure quasi inaccessibile, nel bacino dell’Argentière: un giorno speciale tra seracchi imponenti e i pendii vertiginosi del Couloir Cordier, sulla parete nord dell’Aiguille Verte. Giusto sopra a casa.
A Chamonix va così… Anche se a volte arriva il giorno in cui passiamo le nostre personalissime Colonne d'Ercole.

Spesso passiamo da Chamonix per lavoro, non penso che sia un caso, Cham è la Mecca dell’alpinismo e dello ski de montagne. Sei d’accordo? «Come posso non esserlo? Però Cham è ancora e soprattutto il punto di riferimento per l’alpinismo, più che per lo sci. Forse per lo sci estremo, ma non direi per lo sci alpino classico e forse neanche per lo scialpinismo inteso in modo tradizionale. Anche se il Monte Bianco offre un 86 terreno fantastico».

Ti chiamavano Chamonix kid, penso che sia quasi superfluo chiederti perché...
«Sono nato a Chamonix, 26 anni fa. Mia mamma fa parte di una famiglia di Guide locali, i Symond; papà è svizzero, ma comunque di una Svizzera non distante (ride, ndr). La montagna è ovvio che faccia parte di me in maniera naturale, non ho comunque iniziato molto presto, diversa- mente da altri. Da quando avevo sette anni fin verso i quindici ho gareggiato nello sci di fondo, in montagna e a sciare ci andavo, ma solo prendendo gli impianti. Verso i diciassette anni ho iniziato con l’alpinismo classico e lo scialpinismo, un percorso che mi ha portato via via ad aumentare la pendenza del terreno d’azione. Ora sono Maestro di sci alle Grands Montets, d’estate invece faccio il giardiniere e mi occupo di tree climbing. Non nascondo che mi piacerebbe provare il percorso per diventare Guida alpina, magari il prossimo anno».

Ci piace parlare con sciatori veri, non necessariamente professionisti nel senso stretto del termine. A dire il vero, se uno guarda bene oltre la cortina di fumo dei social, forse di veri professionisti ce ne sono ben pochi. Tu come ti definisci?
«Concordo in pieno. Sei un professionista quando sei pagato per sciare e spingi per portare un’evoluzione nella disciplina. Io non lo sono. È più corretto dire che sono un grande appassionato, uno sciatore appassionato. Mi piace cercare nuove linee, esplorare, conoscere posti diversi. Porto avanti a modo mio una ricerca. Poi in montagna mi piace fare tutto, in ogni stagione, dall’arrampicata, agli itinerari classici in puro stile chamoniard, al parapendio. Se mi chiedi cosa preferisco, ci penso un attimo, ma ti dico sciare».

Chamonix è il riferimento, ma immagino che non sia sempre così facile la vita alpinistica: competizione, anche tra gruppi differenti di sciatori – o gang, se vogliamo esagerare – pareti affollate, specie con la polvere, una corsa all’oro bianco e ai pochi grandi obiettivi stagionali. Esagero?
«No, assolutamente, è vero. Basta pensare all’Aiguille du Midi: è l’esempio perfetto. Venti, anche trenta persone giù dalla nord, da itinerari come la Mallory nei giorni di polvere in primavera, quasi fosse una gara alla prima traccia, che difficil-mente sarà la prima. È due anni che non ci vado per questo motivo. Non riesco ad avvertire l’atmosfera giusta per quello che faccio: hai gente sulla testa, sotto. Una corsa che ha dei rischi e non mi fa stare tranquillo. Nei giorni della riapertura della Midi, l’inverno scorso, con i miei compagni siamo andati volutamente a provare l’Aiguille de Bionnassay. Abbiamo sciato una nuova linea in neve fredda ed eravamo soli. Mi piace di più questo tipo di situazione».

In questa ottica, qual è il tuo spot preferito nel massiccio del Monte Bianco?
«Assolutamente il versante della Brenva, il lato più selvaggio del Bianco. Mi era capitato di salire lo Sperone della Brenva per poi scendere in parapendio. Poi ci sono tornato con gli sci, entrando dal Colle della Brenva e andando a prendere lo Sperone».

E fuori dal Bianco?
«Dopo la discesa della parete nord del Lyskamm orientale ho capito che
il Monte Rosa ha un grande potenziale. Ci voglio tornare. Così come il Vallese, in Svizzera: che montagne e che pareti! In inverno mi piace esplorare la zona di Arolla, un sacco di potenziale, terreno tecnico e poca gente».

Agli sciatori spesso chiediamo cosa cercano nelle linee, cosa
li spinge verso una determinata discesa. Sembra banale,
ma cerchiamo di entrare nella vostra testa.
«Come per molti, quello che mi attrae di una determinata parete è l’estetica della linea, la sua logica, che a mio avviso non viene preclusa dalla presenza di salti e dal dover attrezzare tratti alpinistici, magari facendo delle doppie: a me non dà fastidio. E poi c’è il fascino per la storia delle montagne e di alcune imprese: è quello che è successo per la discesa del Cordier alla Verte. Lo conoscevo da molto tempo, ma più come un luogo tetro e minaccioso: basta pensare al numero di incidenti dovuti alla caduta di seracchi nel canale. Per anni ho provato diffidenza verso questo itinerario, poi la sua storia ha iniziato ad affascinarmi. Marco Siffredi è stato un modello per i giovani chamoniard come noi e siamo rimasti subito colpiti dagli scatti della sua discesa del Cordier nel giugno del 2000. La mia visione è cambiata. Ho iniziato a pensarci e poi ci sono andato. Una discesa bellissima e impegnativa».

L’Aiguille Verte, raccontaci
del tuo rapporto particolare con questa montagna.
«È vero, dire che è la mia preferita è quasi riduttivo. Trovo più corretto dire che è la montagna di casa, ci abito sotto, la vedo dalla finestra, è lì, sempre. Ci son stato ben otto volte, non sempre con gli sci. Per esempio, il Nant Blanc l’ho risalito per ricognizione e per iniziare a conoscerne i passaggi. È estetica, è bella, la più bella perché offre una miriade di linee e di possibilità».

Allora ti faccio una domanda interessata: il Couloir Couturier, versione originale, passando dove negli ultimi anni rimane il ginocchio di ghiaccio, secondo te un giorno sarà ancora sciato? «Mmmmm... non so, più no che si. C’è sempre ghiaccio ultimamente, non si è coperto neanche nelle ultime annate più nevose, quando era quasi tutto in condizione lì intorno. Non male la variante della Z aperta da Vivian Bruchez, si passa bene ed è un’alternativa perfetta».

Parliamo di Marco Siffredi: chi è per te? A Chamonix si avverte ancora il peso della sua personalità? Che cosa ha lasciato?
«Marco per me è un idolo, come Jean-Marc Boivin, mi ha ispirato fin da ragazzino. Vivendo qui, ho davanti il loro terreno di gioco: è uno stimolo. È stato un esempio e una motivazione. Poi ha fatto tutti i suoi exploit giovanissimo, come ero io con i miei amici quando mi sono avvicinato a questo mondo: è stato pazzesco: il Perù, l’Everest nel 2001, nel 1999 il Nant Blanc, a vent’anni appena compiuti. Il Nant Blanc! E quella foto! Un monumento! Quell’immmagine di Marco in mezzo alle strisce di neve tra
il ghiaccio verde... Ah la Verte!».

Veniamo alle domande tecniche: il tuo set-up?
«Uso sci Black Crows: gli Orb Freebird per i terreni più tecnici e dove c’è maggiore probabilità di trovare nevi dure. Il mio sci preferito però è il Navis Freebird: mi trovo bene ovunque, dalle curve di tutti i giorni alle pareti ripide. Gli attacchi sono Plum e gli scarponi Salomon».

Ora una curiosità: sappiamo che siete molto amici, parlaci di Michael Bird Shaffer: un personaggio eccentrico.
«Ci siamo conosciuti durante una discesa della nord della Midi. C’è stata subito empatia, nonostante fossi molto più giovane. Ne sono seguite altre come il Pain de Sucre, una parete molto ripida e tecnica. Siamo andati insieme e Bird era gasatissimo. Sì, entusiasta è la parola giusta per descriverlo: lo è in tutto, dalle sciate alle feste (ride, ndr)».

Arriviamo al nostro classico:
le definizioni. Descrivi cosa provi in una discesa: una parola.
«È una buona domanda, non così semplice come sembra. Concentrazione: solo dopo arrivano le emozioni. Solo dopo senti il sapore. Quando scendo sono concentrato».

Lo sci in una parola?
«Passione».

Jules in una parola?
«Curioso».

Il futuro dello sci?
«Per quanto mi riguarda spero di continuare a fare belle sciate, su belle montagne e pareti nuove per me. In generale, penso che, nonostante tutto, lo sci possa ancora essere esplorazione».

E a noi sentire questa prospettiva fa crescere solo l’entusiasmo.

A bientôt Jules!

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SI SKIALPER 139 DI DICEMBRE 2021

© Jules Berger

Skialper Archive / Fulgido Tabone, professione custode del Rocciamelone

La voce si assottiglia e si rompe, quasi volesse farsi piccola per lasciar spazio all’ennesimo ricordo. Le memorie di 45 anni trascorsi tutti quassù, senza mai lasciare un’estate sguarnita, fanno a pugni per essere raccontate. Ma, di tanto in tanto, il cuore prevale. E Fulgido il montanaro si commuove. A 2.854 metri d’altitudine c’è chi fatica a camminare qualche ora. Lui ci ha trascorso una vita. Il Ca’ d’Asti, rifugio alpino più antico d’Italia immortalato dalle cronache sin dal Trecento, oggi non sarebbe nulla senza le sue mani callose. Forse non ci sarebbe proprio più. Quel che dal 1977 Fulgido vi ha messo dentro, di materiali, di lavoro, di equipaggiamento, e di cuore, è tanto. È tutto quel che c’è. Trecento quintali almeno di carichi, trasportati tutti con il motore delle gambe, dice lui: qualcuno ha moltiplicato anni, salite e pesi e poi gli ha fatto il conto. Un numero teorico, certo. Ma alla fine, a guardarsi intorno, mica poi tanto. E dire che a 12 anni Fulgido Tabone, annata 1948, muratore e factotum di professione, pensava che da queste parti non sarebbe mai più tornato. Il Rocciamelone, che butta l’occhio sul Ca’ d’Asti da 700 metri più su, 3.538 sul livello del mare, gli era parso qualcosa da dimenticare, dopo quella prima salita poco memorabile vissuta dopo aver raggiunto la base in Vespa. E invece qualcosa era scattato. Ci sarebbe voluto tempo per capirlo, ma qualcosa era pronto a cambiargli la vita. Solo quest’anno sono 41. In totale, alla data del suo settantatreesimo compleanno, il 10 settembre, erano 1.220. Fulgido Tabone oggi non è solo il rifugista storico che dà un’anima al Ca’ d’Asti del CAI Susa: è anche l’uomo del Rocciamelone. 

La persona che ha salito la cima dei torinesi, dedicata alla Madonna, più volte rispetto a chiunque altro al mondo. Dopo l’ormai lontana ascesa da dodicenne, Fulgido ha incrociato di nuovo queste strade nel 1976, quando sul giornale diocesano La Valsusa comparve un annuncio per la ricerca di volontari desiderosi di dare una mano nella sistemazione del vecchio rifugio e del bivacco in vetta. «Quel giorno mi sono presentato in punta, e ho visto che c’erano alcuni ragazzi, insieme al cappellano militare Laterza. Passammo insieme tutta la giornata: alla sera mi chiese di rimanere ancora, e di tornare in settimana» ricorda lui. Quel qualcosa destinato a cambiargli la vita era ormai scoccato. Da quell’anno, il legame con questi monti non si è più dissolto. «La sistemazione del rifugio è stata un lavoro lungo e faticoso, durato più di dieci anni e con tantissime persone che hanno dato un contributo – racconta Fulgido – Nessuno avrebbe scommesso una lira sulla rinascita di quel rudere, e invece guardate qui. Ma nel tempo ho capito che se avessi lasciato, forse tutto si sarebbe perso. E così ho deciso di legarmi sempre più a questo posto». Risultato: oggi qui tutto parla di lui. Non solo le stanze del rifugio, arrivato a contare 80 posti che il Covid ha purtroppo ridotto a una ventina, ma anche la cappella di Santa Maria e il bivacco sotto la vetta: «A tutto questo tengo come fosse casa mia» confida, evitando con modestia di puntualizzare che l’impegno gli è valso il Cavalierato e il premio Penna al merito dagli alpini della Valsusa. 

© Federico Ravassard

Eppure, la storia di un amore tanto forte non può non contare anche dispiaceri. Come in ogni cosa umana, quassù, nell’aria più rarefatta, i sentimenti più nobili a volte se la vedono anche con le debolezze. E Fulgido, che per 45 anni ogni estate ha lasciato la sua Caprie per custodire questi luoghi, ripensa con la voce nuovamente rotta al 2006. «Quella volta in cui sfregiarono il volto della statua della Madonna». O alla vicenda del baffo rotto del busto di Vittorio Emanuele II, proprio in cima alla montagna. Le mani da artigiano di Fulgido ci hanno sempre messo su una toppa, ma la tristezza resta. «In tanti anni sono molte le cose cambiate in peggio. La maggior parte della gente è gentile e corretta, ma oggi faccio i conti sempre più con superficialità e maleducazione. Persone che prenotano e non si presentano, cattiveria, polemiche e discussioni per l’obbligo di mascherine: io non ho più vent’anni. E certe cose fatico ormai ad affrontarle». Anche l’ultima botta: il Comune che ha chiuso la strada fino al parcheggio La Riposa per lavori, compromettendo di fatto la chiusura di stagione, lo ha piegato. Eppure Fulgido tiene duro.
E non si spezza. «Il prossimo anno? Vedremo» lasciando intendere che comunque non saprà mai dire no a tutto questo. «Questa montagna non ha più alcun segreto per me» dice con affetto. E il ricordo va alle 1.220 ascensioni, percorse da tutte le vie possibili, dalle più semplici alle più ardite, da vicino e da lontano, senza carichi e con pesi di ogni genere, per piacere e per dovere. «Un ricordo speciale? Forse la recente salita dal canalino verso Novalesa, durante la quale abbiamo ritrovato la croce in legno che nell’800 era posta sulla cappella di vetta. O forse i due giorni e mezzo di cammino da Caselette alla cima, la volta in cui sono partito da più lontano. O ancora il recente incontro con una ragazza svizzera, che ha deciso di salire in punta con me e con la quale ho chiacchierato di tante cose della vita. Un bel momento, un incontro che mi piacerebbe rinnovare». 

Insomma, milleduecentoerotte volte, 41 solo nel 2021, tante solitarie, tante scialpinistiche, 8 Natali e 5 Capodanni in cima. Fulgido ricorda ogni momento. Ogni fatica. Ogni attimo di freddo. Ogni chilo trasportato. Ogni pericolo. «E ogni volta in cui mi sono reso conto – dice – che qui bisogna sempre sapere quel che si fa, soprattutto se alla cima si arriva con gli sci ai piedi». Lui, quel che fa ormai lo sa alla perfezione. Banale da dire. Ma ogni giorno resta una scoperta, pure in una storia tanto fedele a se stessa. «Per venire a Fulgido Tabone, meriterebbe non solo qualche frase, ma un intero volume – scrisse un giorno, anni fa, il generale Giorgio Blais sullo Scarpone Valsusino – Ha dell’incredibile quello che lui e la sua impareggiabile moglie Angiolina fanno. Non so da quanti anni Fulgido sia il gestore di Ca’ d’Asti, non meno di una trentina, forse trentacinque. Già in prima linea durante i lavori per la ricostruzione del rifugio e la sistemazione del Santuario in vetta, ne assunse la responsabilità gestionale da quando il rifugio iniziò a funzionare e da allora è sempre là in prima linea, alternando la sua presenza fra l’abitazione e normale attività a Caprie e la nostra montagna. 

Fulgido non è solo il custode del rifugio e del Santuario in vetta. Tabone è l’amorevole custode del Rocciamelone, colui che traccia e mantiene i sentieri, che fissa e controlla le corde che aiutano la salita nell’impervio ultimo tratto sotto la vetta, che va su e giù fra Ca’ d’Asti e la vetta. È lui che si è accorto che l’ultimo nubifragio di giugno e la tempesta avevano danneggiato la Croce di Ferro, facendola precipitare fra i dirupi. L’ha cercata, l’ha trovata, l’ha nuovamente installata, l’ha riportata nelle condizioni precedenti, e tutto in silenzio, senza clamori, senza attendersi un grazie, ma solo per la straordinaria coscienza di gran galantuomo e per l’amore che porta verso il nostro monte, di cui conosce pietra su pietra». Di Fulgido Tabone, in fondo, cosa serve dire di più? 

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 138 DI OTTOBRE 2021

© Federico Ravassard