Skialp Gran San Bernardo, dove il sole scia con te
Corrado è un sindaco sui generis. Lo capisco subito, a prima vista, appena oltrepassa la porta d’ingresso del bar in cui, insieme a Marco, lo stiamo attendendo. Il passo leggero e spedito denota l’entusiasmo che lo accompagnerà per le due intere giornate in cui mi farà da cicerone alla scoperta di Saint-Rhémy-en-Bosses, di Crévacol e dell’intera vallata del Gran San Bernardo. Così come dalla stretta di mano forte e decisa. Seduti al tavolo, davanti a una buona tazzina di caffè, inizia a raccontarmi del progetto Skialp Gran San Bernardo, intrapreso a partire dal 2016 in collaborazione con la vallata svizzera di Bagnes (quella che comprende anche Verbier) e che proprio nell’inverno 2019/2020 è entrato nel vivo grazie al finanziamento nell’ambito dei progetti Interreg Italia-Svizzera del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale. Perché qui a Saint-Rhémy, lungo il tracciato dell’antica strada romana che collegava Italia e Svizzera attraverso il valico del Gran San Bernardo, il territorio offre molto di più di quanto si possa immaginare. E se negli anni ’80 a farla da padrone era decisamente l’ampio e soleggiato comprensorio sciistico di Crévacol (A Crévacol, dove il sole scia con te, come recita un vecchio ma ancora attuale slogan), oggi si aggiungono le mille possibilità che la vallata offre agli amanti dello scialpinismo. Degli oltre 60 itinerari possibili, 30 sono stati censiti e da pochissimi giorni sono disponibili sul sito gulliver.it, con tanto di traccia Gpx, descrizione dettagliata del percorso, accesso automobilistico, cartina, gallery fotografica e, per alcuni, anche un breve video di circa tre minuti realizzato con il drone. Un vero e proprio vademecum per permettere, anche a chi viene da lontano, di addentrarsi in questo paradiso per le pelli e le discese in fresca. Il tutto correlato da un servizio privato di skialp-bus, integrativo e non sostitutivo dei servizi pubblici di linea, attivo nei territori di Saint-Rhémy-en-Bosses, Saint-Oyen ed Etroubles per collegare i diversi itinerari scialpinistici e prenotabile con una semplice chiamata attraverso tutti gli operatori turistici e professionali (Guide e Maestri di sci) che hanno aderito al progetto.
E poi c'è l'ospitalità che in questa valle di passaggio fin dall'antichità ha un sapore particolare: alberghi, affittacamere, campeggi e ristoranti si sono ritrovati nel progetto skialp. Le tazzine sono ormai vuote ed è giunto il momento di lasciare il bar e andare a toccare con mano la realtà che Corrado mi ha appena descritto. In auto raggiungiamo il parcheggio degli impianti di Crévacol, dove le piste da sci tirate ad arte sono già baciate dai primi raggi del sole mattutino. Alcuni scialpinisti stanno risalendo la strada che costeggia le piste e che porta fino al nuovo bivacco, realizzato qualche mese fa appositamente per loro. A costruirlo, a occuparsi della progettazione e della messa in posa, sono stati proprio lo stesso sindaco e coloro, tra compaesani e Maestri di sci, che stanno lavorando perché la vocazione scialpinistica della località possa realizzarsi. Una piccola opera di architettura di montagna. L’ampia vetrata è un occhio sulla vallata e sul Col Serena, con interni in legno chiaro, elettricità e un piccolo impianto di riscaldamento. «Il bivacco vuole essere un simbolo di accoglienza per tutti gli scialpinisti, che qui sono ben visti e incorag- giati. Dai neofiti, che risalgono le piste e si dedicano a itinerari più semplici, fino ai più esperti, come quelli che scelgono le uscite ai Colli Citrin e Serena». A parlare è ancora una volta il sindaco Corrado. «Una struttura che abbiamo voluto realizzare direttamente, occupandoci da zero della progettazione e, una volta approvato il progetto e commissionata la realizzazione della struttura, della messa in posa. Pensa che per terminare i lavori prima dell’avvio della stagione siamo saliti lungo la strada già innevata con l’Unimog io, l’amico Guida alpina Loris e Fabio. E poi Erik, maestro della Scuola di Sci Gran San Bernardo, che si è occupato personalmente della struttura su cui poggia. Gli scialpinisti possono entrare per cambiarsi la maglietta oppure scaldarsi e mangiare un panino. È aperto sempre, anche di notte, la luce si accende grazie a un sensore di movimento e illumina l’entrata e l’interno. È molto piccolo e non sono previsti posti letto, ma sappiamo che c’è già chi, con materassino e sacco a pelo, ha trascorso la notte sulla panca in legno, godendosi lo spettacolo delle prime luci dell’alba».
Quando arriviamo al bivacco, effettivamente, non lo troviamo vuoto. Due ragazze si stanno riscaldando e, fuori, sci e pelli infilati nella neve. Il calorifero elettrico funziona alla perfezione e la temperatura interna è sui 18/20 gradi. Il panorama tutto intorno spazia a 360 gradi, con una veduta mozzafiato sul Passo del Gran San Bernardo con il suo Ospizio, i colli Citrin e Serena e, in lontananza, i 4.000 metri del Grand Combin. Scendendo lungo le piste ci imbattiamo in due professionisti dell’Esercito che effettuano le rilevazioni nivologiche utili per emettere il bollettino valanghe. Un’operazione che qui viene ripetuta quotidianamente per determinare il grado di rischio e la tipologia di valanghe che potrebbero formarsi. Informazione utilissima, ovviamente, per chiunque voglia fare del fuoripista o risalire i pendii della vallata con le pelli. Ci coinvolgono attivamente nella loro attività spiegandoci gli aspetti che valutano con queste rilevazioni e mostrandoci, attraverso una lente di ingrandimento, la natura dei cristalli di ghiaccio. Avvicino l’occhio alla lente, incredula di poter scorgere qualcosa se non un ammasso di neve senza forma. E invece – sorpresa – i cristalli sono ben visibili: spettacolo della natura purtroppo non visibile a occhio nudo.
Prima di buttarci nel freeride di Crévacol, una lunga discesa che dal punto più alto degli impianti porta al borgo antico di Saint-Rhémy, ci fermiamo da Erica per una ricchissima polenta concia e un tagliere di affettati. Tra questi troneggia il famoso Jambon de Bosses, pregiato prosciutto crudo DOP dal sapore delicato, un tempo stagionato nei fienili, ora prodotto nello stabilimento ma seguendo ancora la ricetta artigianale. Erica, la ristoratrice, riempie la tavola di ogni prelibatezza, invitandoci ad assaggiare tutto. «Guardate che altrimenti mi offendo» ci intima scherzosa. Con le pance decisamente piene ci rimettiamo gli sci pronti ad affrontare la lunga e bella discesa freeride che, tra pendii non troppo ripidi e tratti di bosco, ci porta al borgo antico di Saint-Rhémy, dove ci attende lo Skialp-bus che ci riporterà agli impianti. Non prima, naturalmente, di essere passati da Simona, che gestisce un hotel e ristoro proprio nel cuore del delizioso borgo, ed esserci rifocillati con un tagliere a base di prosciutto, lardo e affettati misti, il tutto accompagnato da un paio di birre locali. Ho già intuito che saranno due giorni non solamente di scialpinismo ma anche di scoperte gastronomiche, che vanno dai piatti più tradizionali e caratteristici (indimenti- cabile la zuppa valdosatana offertaci da Danila e Roberto) a quelli più raffinati. Perché nella Valle del Gran San Bernardo non mancano neppure le rivisitazioni ricercate, come i gnocchetti di barbabietola ripieni di formaggio Bleu d’Aoste che mi ha servito Davide, il proprietario dell’hotel in cui ho alloggiato. Durante la cena Massimo Bal, presidente delle Guide alpine della Valpelline e del Gran San Bernardo, ci mostra il nostro prossimo itinerario. Tecnicamente semplice e non troppo lungo ma, così ci promette, assolutamente spettacolare dal punto di vista paesaggistico. Da quello che ho già visto durante la prima giornata, non stento a crederlo.
Si ride e si scherza, con Corrado, con le Guide e i Maestri di sci. Si parla della valle, della sua vocazione allo scialpinismo e mi raccontano di un certo Carlo Alfonso Ronc di Saint-Rhémy-en-Bosses, uno dei primi a prendere parte al Trofeo Mezzalama vincendolo due volte, nel 1935 e 1936, la seconda volta nella squadra delle truppe alpine con Perenni e Vida, quando la gara non era ancora così conosciuta e gli scialpinisti viaggiavano con gli sci
di legno. Il giorno successivo la sveglia suona alle sette. Il programma è risalire il Vallone del Gran San Bernardo, sempre tenendo gli impianti di Crévacol come punto di partenza e dirigendoci sulla sinistra, per arrivare fino al vecchio bivacco della Tête de Crévacol (2.621 metri) dal quale si apre una panoramica su quasi tutte le cime più alte della valle e gli immensi, bianchi valloni circostanti, compreso quello del passo del Gran San Bernardo con il famoso ospizio, dal quale mi dicono che è passato nel 990 Sigerico, autore del primo diario della Via Francigena, e poi Napoleone nel maggio del 1800, con 40.000 soldati. Salendo lo sguardo si perde sul colle del Malatrà, ultimo mitico passaggio del Tor Des Géants. E, più in lontananza, sulla cima del Monte Bianco. Siamo una bella compagnia oggi, tutti in fila indiana dietro alla Guida che, di tanto in tanto, si ferma per mostrarci le varie cime. Non c’è vento, solo una leggera brezza che va a mitigare il calore del sole. Sole, l’immancabile sole, presente dal mattino fino al tramonto, che accarezza e trasforma la neve. Non siamo gli unici a salire. Sono anche oggi tanti gli scialpinisti che, innamorati di questa vallata magica ed evocativa, lasciano la loro impronta allungata sui vari itinerari. Lontani dalle piste tanto quanto basta per apprezzare il silenzio della montagna, il pensiero corre alla grandissima quantità di linee, salite, discese e paesaggi. Al fatto che una o due giornate non bastano certamente, che bisogne- rebbe rimanere qui almeno una settimana e ancora potresti non averne abbastanza. «Skialp Gran San Bernardo, questo è il nome del progetto Interreg, ha come obiettivo lo sviluppo dello scialpinismo e la valorizzazione di un territorio che nulla ha da invidiare alle località più blasonate della Valle d’Aosta. Qui gli aspetti naturali e paesaggistici si legano indissolubilmente a quelli culturali, che spaziano dalla storia all’enogastronomia. Il contesto transfrontaliero permette di sviluppare azioni in un unico, contiguo territorio con il coinvolgimento diretto degli operatori turistici. Si scia da inizio stagione fino a maggio/giugno e quindi è una meta ideale per gli amanti delle pelli.
Il progetto è triennale, dal 2019 al 2021, e stiamo preparando una app per mettere in contatto turisti, strutture recettive, Guide e Maestri di sci. Quindi per fornire allo scialpinista un servizio completo al 100%». Così mi aveva detto Corrado quando ci siamo incontrarti, due giorni fa. Quando mi parlava, quando lo ascoltavo davanti alla tazzina di caffè, non avevo idea di cosa mi aspettasse. E ora, che l’ho visto, non vorrei più ripartire. Prima di caricare gli sci e dirigermi verso la pianura, lontano da queste vallate a dal bianco della neve, mi concedo un ultimo spuntino post sciata da Chiara, nel suo locale lungo le piste. Ridendo e scherzando scopro che l’8 febbraio a Flassin (il primo luogo in cui in passato, prima ancora di Crévacol, si praticava lo sci alpino e oggi sede di un parco divertimenti sulla neve) prederà il via la seconda edizione dell’Arrancaslimba, gara goliardica sugli sci (ma è possibile anche partecipare con ciaspole e ramponcini) da affrontare a coppie su un anello di 6 chilometri e un dislivello di 300 metri. L’idea nasce dalla storica Mezza Slimba che si disputava tra i borghi della vallata del Gran San Bernardo e, con lo stesso spirito di allora, viene riproposta con due variazioni: una nel nome (si chiama Arrancaslimba per gemellarla con la popolarissima Arrancabirra in calendario a ottobre) e una nella sua sostanza liquida: non vino ma birra lungo il percorso, ancora una volta grazie al supporto dei titolari di Les Bières du Grand St. Bernard, originari proprio della Coumba Freida (valle fredda in dialetto valdostano). Sarebbe una buona scusa per tornare da queste parti.
Per informazioni su Skialp Gran San Bernardo e gli itinerari:
Sito: www.skialp-gsb.eu
IG: skialpgransanbernardo
www.gulliver.it
Il prosciutto che non ti aspetti
Il Vallée d’Aoste Jambon de Bosses Dop è un prosciutto crudo speziato con erbe di montagna dal sapore delicato, prodotto a 1.600 metri di quota. La sua produzione è antichissima: i primi documenti che testimoniano la presenza di questo prodotto nella Valle del Gran San Bernardo risalgono al 1397. È L’unico prosciutto in Italia che viene fatto stagionare in presenza di fieno (che assorbe l’umidità e rilascia profumi) grazie all’incrocio dei flussi d’aria che scendono dai colli Malatrà, Citrin, Serena e Gran San Bernardo e che creano l’ambiente ideale per la lavorazione e stagionatura. Una tradizione tramandata di padre in figlio che ha permesso al Vallée d’Aoste Jambon de Bosses di ottenere nel luglio del 1996 la Denominazione di Origine Protetta (DOP). Un assaggio lo troverete sempre, ma se capitate a Saint-Rhémy-en- Bosses la seconda domenica di luglio sappiate che si celebra la sagra di questa prelibatezza.
La birra local
Dopo una pellata per dissetarsi ci sono le birre del birrificio artigianale Les Bières du Grand St. Bernard di Gignod, a mille metri di quota. Si dice che arrivino direttamente dalla cima delle Alpi... Tutto nasce dalla grande passione di Rémy Charbonnier, ingegnere che dopo due anni di formazione si butta anima e corpo, insieme al suo socio Stefano Collé, in una nuova avventura e nel 2010, ad Etroubles, inizia la produzione delle prime birre Napea, Balance e Amy. Nel 2017 il birrificio di Etroubles comincia a non essere più grande a sufficienza per supportare le esigenze e le quantità produttive richieste ed ecco che la sede cambia e si trasferisce a Gignod. La nuova struttura, con oltre 4.000 metri quadrati, ospita un impianto di produzione da 35 ettolitri con una capacità produttiva annuale che arriva a 10.000. La filosofia del birrificio è racchiusa nel significato del marchio che rappresenta l’unione e l’equilibrio tra la natura e l’uomo. Due infiniti che, incontrandosi, danno vita alla birra ruotando attorno a quattro punti fissi che sono le materie prime: acqua, cereali, luppolo e lievito.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 128
Translagorai Classic FKT Run
«Translagorai Classic FKT Run nasce in modo piuttosto semplice. Ordino 50 adesivi pagandoli a mie spese e decido che sono il premio per chi arriva in fondo alla traversata in meno di 24 ore. Servono a rendere l’idea che se sei a caccia di un riscontro materiale importante è meglio che aspetti che ricomincino le gare.
Attenzione, la Translagorai esiste da sempre come percorso, io non ho inventato assolutamente nulla. Esisteva la traccia e, intuendo da ciò che in molti mi hanno scritto, in tanti hanno un cugino o un conoscente che aveva già stampato un tempo strabiliante.
Però mancava l’ufficialità, ma soprattutto qualcosa che rendesse questa traversata un vero FKT, un percorso condiviso, ripetibile e che facesse sognare anche i non local. Abbiamo quindi creato la traccia cercando di individuare il concatenamento che avesse più logicità e linearità per chi lo avrebbe voluto ripetere in futuro. Possiamo dire che è uno standard collaudato, non esclusivo, e ovviamente aperto alla creatività personale di ognuno».
… E poi Francesco Paco Gentilucci e altri otto trail runner sono partiti una sera di metà luglio da Passo Rolle per farla in meno di 24 ore questa Translagorai.
«Per me era la terza volta su questo percorso e non ero mai riuscito ad arrivare in fondo nell’arco di una giornata sola. Il nostro obbiettivo è quello di creare un archivio degli intertempi, di consigli per chi vuole ripeterlo, oltre alla salvaguardia di questo posto che è perfetto così, nella sua imperfezione. In un FKT è giusto avere una visione diversa da quella che si ha su un percorso tracciato con le fettucce di una gara, senza pubblico e senza materiale obbligatorio: insomma, devi arrangiarti».
Il Lagorai è una delle ultime zone selvagge delle Alpi. Lungo il percorso si incrocia un solo rifugio con pernotto, per il resto o si scende a valle oppure ci si affida alla tenda e ai tanti bivacchi non gestiti: una peculiarità che le amministrazioni locali e i progettisti definiscono inadeguatezza. Ecco perché è stata prevista la ristrutturazione edilizia di un rifugio già esistente e di altre sei malghe-bivacco per creare nuovi punti ristoro gestiti: i primi lavori sono iniziati e in breve tempo si potrebbero incontrare agriturismi e ristoranti lì dove al momento non ci sono che qualche pastore e molte praterie. Un progetto di riqualificazione del genere servirà a dare nuova vita alla traversata? Così come gli atleti della Translagorai Classic FKT Run sono sempre di più coloro che si dirigono verso quest’angolo del Trentino attirati dalla possibilità di vivere un’esperienza di outdoor forse più scomodo e più difficile da gestire, eppure proprio per questo più appagante e più reale, soprattutto oggi che gli ambienti alpini, saturi di infrastrutture, finiscono per assomigliarsi quasi tutti. Ne parliamo su Skialper 131 di agosto-settembre.
Il cielo in una stanza
Lui dice che così si gioca il jolly. Uno a settimana, il sabato. Quel giorno può andare, può fare quel che vuole. Ma la domenica no: quella è tutta per Anna. E a lei non si può negare nulla. Ma a Roberto Munarin un giorno basta e avanza. Per anni e anni, con un jolly ogni sette giorni ha fatto cose che tanti umani neppure in una vita. E comunque, ora che è tempo di abbassare le luci sul lavoro da consulente tessile esperto di stile, chissà che qualche altra matta esca dal mazzo. Che ci sia tempo per fare ancora di più. Chissà. Fra un settebello e un asso di cuori, la carta che vince non cade mai troppo lontano. Munarin la getta sempre lì. Intorno alle montagne di casa, quelle di sempre. Per lui, 59 anni, gragliese trapiantato a Muzzano, gioiellino dell’Alta Valle Elvo biellese, l’ombra del Mucrone è il cielo nella stanza. Il tetto sulla testa. E una vita intera a pestare rocce, neve, ghiaccio e terra fra questi stessi punti GPS non è bastata a stancarlo. Né, è sicuro, lo stancherà mai. Da San Carlo al colle Carisey, dal Giassit al Camino, alla Nord del Mars, al Mombarone, fino alla valle Oropa e poi ancora e ancora, se un Pollicino avesse raccolto tutte le briciole lasciate a terra da Munarin in quasi quarant’anni di strada, ne avrebbe fatto una montagna. Una grande montagna ripiena di dieci, cento, millemila avventure.
Di scalate, chiodature, salite con gli sci, ravanate, scoperte, linee nuove e discese ripide. Farcita di aperture, sistema- zioni, bonifiche, camminate e ciaspolate. E insaporita di piccozzate, vie ferrate, escursioni e sciate in solitaria. Una ricetta che nessun altro da queste parti, sulle Pennine che guardano a Biella, ha mai saputo amalgamare fino a questo punto. E che per Munarin, con la modestia che da sempre si porta nello zaino, altro non è stata che un viaggio fatto in punta di piedi. Nel silenzio. E nel rispetto di un ambiente che, lo ripete come un mantra, di ogni alpinista resta sempre più forte.
Lui le chiama le scolastiche. In un mondo in cui le tentazioni strizzano l’occhio alla vanità e offrono palcosce- nici di parole, Munarin torna con la mente alla scuola. I banchi in cui ci si sedeva e da cui si ascoltava, si imparava. E si cresceva. Ogni uscita, anche con quattro decenni di montagna alle spalle, anche con un curriculum che conta un titolo da istruttore sezionale del CAI di Biella, nonché uno da vicecapo della stazione Valle Elvo del Soccorso alpino, oltre a lunghi anni da chiodatore e apritore di vie, realizzatore di progetti inediti, attività invernali e più di 120 salite e discese in solitaria, anche con tutto questo in tasca Munarin continua a sentirsi uno scolaretto. «Le mie non sono imprese, ma una ricerca vera. Un modo profondo e sincero di apprendere gli insegna- menti della montagna ed entrare a far parte del suo mondo. Esperienze che vivo in punta di piedi per cogliere le più piccole sfumature, con umiltà. Nella coscienza delle mie paure, compresa quella di non essere accettato, di sentirmi un estraneo e dover tornare sui miei passi, e nella consapevolezza che saprei sempre accomiatarmi con profondo rispetto».
Guidato da questo approccio slow, quasi meditativo, Roberto Munarin con il tempo si è reso uno dei più originali e innovativi alpinisti della scena biellese. Uno sportivo sui generis. Che non ha guardato alla montagna per farne reddito e pure ne ha percorso i tratti con la stessa intensità di un professionista. Anni di lavoro partiti quasi in sordina con la formazione classica del Club Alpino, poi il primo gradino istituzionale. Istruttore di alpinismo, arrampicata, cascate di ghiaccio per la scuola Guido Machetto del CAI concittadino di Quintino Sella. Quasi vent’anni da docente e, nel frattempo, l’esperienza nel soccorso e l’incontro folgorante con Tito Sacchet, precursore dell’arrampicata in quella mecca diventata la bassa Val d’Aosta. Con lui Munarin inaugura la stagione delle chiodature, rigorosamente dal basso. Mettono per primi il trapano tra le fessure di Mitico Vento a Machaby, poi si spostano ad esplorare i settori inediti di Outrefer e Albard. Per Roberto è il colpo di fulmine, lo sbocciare di una passione che a tutti i costi sente di dover trasferire ai suoi monti. Alla sua casa. Nasce così l’idea: un gruppo chiodatori tutto biellese, da mettere all’opera nella verticalità che ha visto perfezionarsi talenti unici. Da Guido Machetto a Nito Staich. «Quanto mi impressionavano quei salti di roccia che scendono dal monte Tovo e che raccontano decenni di storia alpinistica della mia terra - ricorda Munarin - Strutture e sentieri gloriosi lasciati in stato di abbandono, non solo per la scarsa conoscenza dei luoghi, ma anche per il pionierismo delle lontane chiodature. Qualcosa di ormai troppo distante dalle esigenze di sicurezza degli arrampicatori moderni». Insomma, è tutto da rifare.
Tutto da sistemare. Tutto ancora da inventare. E così, nel 2005, la macchina si accende.
La prima via, Ai Event, chiodata con l’amico Aldo Echerle, apre il gas. E poi via, come siluri. In appena cinque anni, con centinaia di giornate di lavoro, nella sola Conca di Oropa quasi centosettanta tiri di corda vengono chiodati in undici settori e decine di vie diventano realtà. Rinascite. Battesimi ex novo. Sono linee che si disegnano sulla misura di chiunque. A disposizione di chi le voglia provare e rivivere, dalle più classiche alle grandi novità.
Brevi e lunghe, facili e difficili, tutte sono unite dal filo di un nome che inizia sempre allo stesso modo: Ai. Come Ai Gat ad Piumb, il gruppo di questi nuovi chiodatori. Stesso prefisso, due vocali, in una forma di rispetto anche simbolico verso la montagna. «Un modo di chiedere il nostro permesso» chiarisce Munarin. È un’attività senza alcuno scopo di lucro. Lui, il fondatore, non vuole lasciare che ci siano sospetti su questo. Con gli aiuti dei sostenitori e degli amici, che donano materiale, e con spese annue di poche centinaia di euro, la Conca si arricchisce di tutto ciò che non aveva mai ricevuto da nessuno. Per Roberto Munarin - che all’attivo oggi tiene nel cassetto oltre 1.200 tiri di corda, ben più del solo progetto realizzato nell’area protetta del Santuario mariano - è la ciliegina sulla torta. La soddisfazione, sapendo che il dolce vero resta fatto di tanti altri ingredienti. Lasciato il trapano, dal mazzo spuntano i jolly giocati con la corda. Con le piccozze. Con i ramponi.
E soprattutto con gli sci. Nel corso degli anni Munarin colleziona un numero spropositato di salite e discese. Misto, ripido, invernale puro, nella lunga ricerca ce n’è per tutti i gusti.
E il poker scende con le realizzazioni più ardite: quelle inedite e le solitarie. Solo di queste ultime il biellese ne colleziona oltre un centinaio. E ancora non si ferma. «Sono i momenti in cui sono più me stesso. Da solo, con le mie montagne. E per forza di cose è lì che la preparazione diventa quasi maniacale. Soprattutto nel periodo invernale, quello che di gran lunga prediligo, è tutto un pianificare. Ricercare la linea della salita, della discesa, individuare il passaggio impossibile fra le rocce, il pendio più addomesticabile, l’attacco, l’uscita». Non sempre tutto è facile. Spesso è un gran gioco di incognite e difficoltà. A volte, anche di rinunce. Ma lui lo dice: «Qui non c’è niente di commerciale. Niente da vendere. Questo modo di vivere la montagna va semplicemente oltre il gesto atletico e rappresenta un mio modo di stare a stretto contatto con l’ambiente e la natura selvaggia che mi circonda». Niente di più.
L’unica vetrina verso il mondo è un sito web. Raccolte con la cura di un padre, tutte le immagini delle avventure di Munarin si srotolano lungo una stessa pellicola. Fotogrammi di un unico sogno. La solitaria alla parete Nord del Mombarone, la vedetta della Valle Elvo, quella alla Nord-Est della Punta Tre Vescovi, quella alla Nord del monte Roux. Lui racconta che ogni volta è un crescendo di emozioni. «La settimana prima del grande giorno i collegamenti web non si contano. Controllo continuamente l’evoluzione del meteo, analizzo tutti i siti che conosco. Incrocio i dati. E intanto tengo sempre fra le mani le foto del mio progetto. In auto, a pranzo, a cena, sul desktop del computer: ogni momento è buono per ripassare i compiti. Poi arriva il momento delle riflessioni. È quasi ora. E io divento taciturno, assente. Anna lo sa. E ogni volta capisce al volo che qualcosa bolle in pentola». Ma la scolastica vince sempre. È lei la più forte. Il grande giorno l’essenziale è fatto di poche cose: una colazione che è quasi un pranzo, uno zaino che riduce al minimo i pesi e un cuore tormentato di emozioni. «Me lo chiedo ogni volta. Ma chi me lo fa fare?».
E nessuno la risposta la sa. «Poi arrivo all’attacco, indosso l’imbrago, calzo i ramponi, metto gli sci nello zaino, controllo di avere tutto. E parto. È il momento in cui divento una cosa sola con la mia montagna: la tensione si allenta, sento l’abbraccio della parete e non mi sembra più di essere solo». È l’apoteosi dell’alpinismo introspettivo. Una specie di catarsi. Che però non fa sconti, e impone di mantenere sempre le antenne dritte. «Alterno passaggi facili che supero in conserva ad altri più alpinistici, che affronto in autoassicurazione - spiega Munarin -. È un’armonia fatta di perfetta concentrazione e veloce progressione: i due requisiti fondamentali per conquistarsi il diritto, a patto che la montagna lo voglia, di toccare la cima».
Una vetta, però, non è mai in tasca finché non si torna dove si è partiti. Così dice la storia. E Munarin a queste parole crede dal profondo. «Non deve essere cima a tutti i costi. Non mi importa. L’essenziale è coltivare un’idea, immaginarla, farla propria e tentare il possibile per realizzarla». Ecco perché, al di là delle uscite solitarie, ogni jolly giocato dal Maestro - come tanti amici ormai lo chiamano - è il punto di arrivo di uno studio. Di una proiezione mentale. E mai di una banale esecuzione meccanica di gesti. Anche l’ultimo asso calato è figlio di questa logica, Ai fil di cresta. Sempre Ai. Sempre una linea. Sempre un’idea nuova alla base. Una traversata a fil di cresta dalla Colma del Mombarone al Monte Barone, l’Ovest e l’Est delle Alpi Biellesi, passando per la locale Alta Via e per la montagna regina, il Mars (2.600 m) e poi ancora per il Cresto e la Valle Cervo, il Bo e le linee fra Valsessera e Oasi Zegna. Un sogno nuovo, da rendere vero a puntate. Con calma. Con i compagni giusti, la preparazione adeguata e con sci e pelli. E se qualcosa, a dirla tutta, è già diventato realtà, altro lo diventerà nei tempi a venire. Quando il destino lo vorrà. Per Munarin, in effetti, non conta correre, conta solo vivere. E ora che i jolly spunteranno dal mazzo senza più obblighi di lavoro a intralciare, ogni singolo giorno potrà finalmente essere quello buono. Pronto a spargere il profumo della vita da divorare. Dell’ossigeno da inseguire. E dei sogni da coltivare.
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Arianna Tricomi, go with the flow
Sono passate un paio di settimane da quando ho intervistato Arianna nella sua casa di Corvara; potrei dire per un caso fortuito, o più che altro sfortunato, visto che vi si trovava a causa di un infortunio alla caviglia che pareva serio e in grado di tenerla lontana dagli sci e dal tour. Dopo queste due settimane Arianna, quando ho scritto questa intervista, era in testa alla classifica generale del Freeride World Tour, avendo dominato la tappa di Fieberbrunn. Non si possono fermare gli healing vibes della famiglia del Tour a quanto pare...
Ciao Arianna, come prima domanda vorrei chiederti perché molti atleti rimangono al Tour molte stagioni, anche se hanno già vinto il titolo. Non sarebbe più fico scegliere la strada del filming e creare contenuti di alto profilo con case come Teton o Matchstick?
«Il punto principale è che passare dal Tour al filming non è scontato, è riservato a pochi atleti, che hanno queste opportunità per una combinazione di sponsor, personalità interessanti e richiesta delle stesse case di produzione; oltre ovviamente a un livello tecnico al top. Quindi sebbene al Tour gli skier e snowboarder siano il meglio del meglio, solo pochi riescono a passare al mondo del filming; per gli altri rimane l’unica reale possibilità di essere pro. Un aspetto che non traspare dall’esterno è che siamo una famiglia: il Freeride World Tour diventa questo gruppo di personaggi che gira il mondo insieme, condivide trasferte, gare e giornate in powder, già solo questo è di per sé un ottimo motivo per ripresentarsi anno dopo anno allo start. Ognuno è libero di vivere come vuole, di organizzarsi come meglio crede, sia per quanto riguarda gli aspetti logistici che gli impegni in calendario, allenamenti compresi. Nessuno ti dice quello che devi fare, non ci sono le federazioni di mezzo ed è forse l’unico ambiente rimasto un po’ punk rock in tutto lo sci. Il Tour ti dà tanto, sia in termini di visibilità che di opportunità, quindi va solo apprezzato, a prescindere dai voti dei giudici. Rimanere all’interno di questa cerchia è l’unico modo per molti per vivere di sci ed è una rampa di lancio per le nuove generazioni».
Questa cosa effettivamente non si coglie dallo streaming, che negli anni passati è sempre stato il tallone d’Achille, con dirette eterne e il giudizio sempre opinabile dei giudici a creare del malcontento.
«Certamente i giudici non sono infallibili e molte volte si accorgono loro stessi di avere commesso errori, però cercano sempre un miglioramento dei criteri, anche con vari meeting dove sono presenti i rider. Organizzare il World Tour non è cosa da poco a livello economico, lo streaming è tutto per la sua divulgazione e i giudici subiscono pressioni per velocizzare il processo di valutazione e per rendere più fluido lo spettacolo. Il lavoro che viene svolto è da rispettare e apprezzare e se alla fine della gara sei scontento del punteggio, ci sta. Però devi ricordarti che il gioco è questo, se vuoi farne parte, che i rider sono importanti, ma sono solo un pezzo dello show. Uno show che deve filare il più veloce possibile per piacere. Purtroppo alla fine sono sempre i soldi che comandano».
Secondo te il judging ha contribuito a fare chiudere il gas ai rider, penalizzando i backslap?
«Agli skier uomini no di sicuro! Loro è meglio tenerli a bada che sennò veramente esagerano (ride). E comunque vanno sempre molto forte, sempre al limite. Certo, a volte i backslap penalizzano cliff o trick stilosi perché atterrati un po’ al limite, però quello che si cerca di premiare è sempre lo stile e la misura, dando più punti a chi si distingue. Il judging sarà sempre il limite, perché comunque va applicato a diverse interpretazioni della montagna date da background diversi. L’unico aspetto che forse limita la progressione dei rider durante il Tour è il fatto di passare molto tempo lontano dalla neve a causa degli spostamenti e del down time quando le condizioni non permettono di sciare e gareggiare; questo non aiuta affatto a dedicare il tempo necessario a imparare e perfezionare i trick e lo stile. Cercare di rimanere integri durante la stagione senz’altro ti limita nello spingere».
Quindi come scegli la tua linea, la costruisci per raccogliere più punti, sapendo cosa guardano i giudici?
«Assolutamente no, scelgo la linea che più mi ispira e che più rispecchia il mio stile e il mio background, fatto da sci alpino e freestyle-slopestyle. I giudici ti conoscono e lo vedono se ti perdi, se scegli una linea che non ti rispecchia. Molti dei giovani che arrivano dalle gare FWQ Juniors sono più abituati a questa tipologia di gara e sono già specializzati, puntando ogni tanto a ciò che dà più punti, anziché all’estetica della linea e alla propria voglia di sciarla quella determinata linea».
Sei tornata da poco da Jackson Hole, dove sei stata invitata alla jam/gara sul famoso Corbet’s Couloir, che ti ha visto al secondo posto, che esperienza è stata?
«È stato bellissimo! Abbiamo ricevuto una super accoglienza per una settimana intera, condizioni top per girare con gli amici e spingere. La gara in sé consisteva in due run per rider, giudicate poi dagli stessi rider in una video session un paio di giorni dopo, con tanto di birrette per completare il tutto. Questo formato è stato molto divertente, all’ameri- cana, con il pubblico che urlava e gasava in partenza, dove ognuno poteva decidere come droppare, costruendo anche il proprio kicker. Ho avuto la possibilità di concentrarmi di nuovo di più sui trick e proprio all’ultimo giro dell’ultimo giorno sono caduta su un 360 infortunandomi alla caviglia già malconcia».
A proposito di progetti, il tuo film La luce infinita come è andato?
«È andato molto bene, credo che sia stata un’espe- rienza unica, qualcosa che difficilmente si potrà replicare: una crew di amici, le musiche realizzate in casa. Purtroppo le cose ora sono cambiate e i miei amici hanno impegni, non hanno tutti la possibilità e il budget per prendersi del tempo e filmare».
E quindi niente più filming? O qualcosa bolle in pentola?
«In realtà ci sarebbe qualcosa di più o meno segreto, qualcosa di importante. Vedremo in primavera, mi piacerebbe tornare in America, un viaggio di rivincita visto che l’ultima volta a Mammoth mi sono rotta una vertebra!».
Non ti voglio far sbottonare troppo, però è chiaro che tutto questo sarà possibile, oltre che per le tue qualità, anche grazie all’apporto fondamentale degli sponsor...
«Certo, forse non tutti lo sanno, ma funziona cosi: la casa di produzione vuole uno skier rappresentativo, ma la sua parte, che ha dei costi molto alti, viene finanziata dagli sponsor e dal rider stesso, che
- diciamo - investe su di sé. Io posso essere contenta di avere degli ottimi sponsor e mi reputo molto fortunata, un grazie va senz’altro al mio manager che mi dà una mano enorme».
Questa domanda è doverosa: il tuo background? Forse non tutti sanno che arrivi prima dallo sci alpino e poi dal freestyle.
«Come tutti i bambini della valle ho cominciato con lo sci club e le gare della zona però, per farla breve, non era tanto il racing in sé che mi ha stufata, ma il fatto di essere in un mondo con troppe regole e costretta a fare solo ciò che diceva l’allenatore; a me piaceva fare i salti e scappare nei boschi o in park, non volevo sentirmi limitata».
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Qui interviene la madre di Arianna, Cristina Gravina, olimpionica di discesa libera a Lake Placid: «Arianna faceva incavolare gli allenatori perché o si faceva i fatti suoi o non si presentava agli allenamenti e poi alle gare andava forte e batteva gli altri bambini, figurati i genitori... Una volta aveva avuto la possibilità di andare col club a Les 2 Alpes a fare allenamento e nella sacca degli sci aveva nascosto quelli da park: un giorno l’allenatore mi chiama e mi chiede dove sparisce tutti i giorni Arianna alla fine degli allenamenti!».
Un talento rubato allo sci alpino? «Mah, forse, però ha fatto bene cosi! E comunque per un motivo o per l’altro solo in poche della sua età sono andate avanti (Sofia Goggia per dirne una!)».
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Una giovane ribelle già da piccola quindi. Di conseguenza il freestyle si addiceva di più alla tua personalità.
«Esatto, all’inizio l’ambiente del freestyle era super punk, ognuno faceva quello che voleva ed era libero di esprimersi liberamente, ma poi anche lì con l’arrivo della FIS e delle federazioni siamo tornati da capo: l’ambiente è cambiato e molti hanno mollato, come me e Markus Eder; con l’arrivo delle Olimpiadi sono apparsi sulla scena skier che non hanno mai costruito un kicker in vita loro, che non si sono sbattuti, attirati solo dai Giochi e dai benefici che possono portare. Ora questi park skier si allenano come matti in park e sui tappeti, ma poi se devono tornare a valle preferi- scono montare in cabinovia piuttosto che sciare (ovviamente questo non vale per tutti i freestyler). Dov’è la passione per lo sci? Le leggende che hanno spaccato nel freeski, come Tanner Hall o Candide Thovex, presenti dal giorno uno di questa rivoluzione, non torneranno più probabilmente, ora è tutto più incentrato sulla prestazione, è un vero e proprio sport e la progressione è molto più veloce. Come dicevo riguardo le nuove leve del Tour, ad alcuni giovani sicuramente manca il background fatto di sperimenta- zione e passione».
A proposito di Tanner, cosa vuol dire relazionarsi con molti di quelli che una volta, quando giravi in park, erano i tuoi idoli?
«Come dicevo, loro sono le vere leggende, adesso Tanner è un mio homie, ha una passione sfrenata ed è una persona speciale. È incredibile conoscere gente come lui e Sage Cattabriga-Alosa, essere sullo stesso piano di personaggi che hanno fatto la storia del freeski e del filming e vedere che sono delle rockstar anche come persone».
Oltre allo sci cosa ti piace fare? Hai qualche altro progetto?
«Mi sono laureata in fisioterapia a Innsbruck, dove ora vivo, quando non scio vado in mtb enduro, cammino e arrampico, vivo la montagna a 360 gradi. Un giorno forse mi piacerebbe insegnare e trasmettere la passione per lo sci ai bambini, senza limitazioni. Sempre se riuscirò a finire il corso Maestri di sci, in maniera più o meno legale!» (ride)
Words of wisdom finali?
«Respect the mountain! Prima di ogni cosa, sia per sperare che ci regali tanta neve e sia per quanto riguarda la sicurezza. E poi, andare col flow, non forzare mai, rimanere sani e senza infortuni».
Da quando ci siamo incontrati per questa intervista a quando l’ho scritta molte cose sono cambiate. La tappa finale del Freeride World Tour è stata cancellata a causa del virus bastardo e Arianna è stata incoronata regina per la terza volta. Noi speriamo che riesca ad andare avanti col suo progetto di filming, prima o dopo, se non altro avrà tempo di ristabilire la caviglia malandata, grazie anche alle sue nozioni di fisioterapia. Di un’ora e mezza di registrazione niente è stato cambiato, ma soltanto arrangiato per rendere più scorrevole la lettura. Dopotutto, come dice Arianna, go with the flow.
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Monsieur Mezzalama
Certe persone, più di altre, hanno la capacità di complicarsi meravigliosamente la vita, portando avanti progetti che, presi singolarmente, basterebbero già a riempirti la giornata. Adriano Favre è una di queste: Guida alpina, tecnico e responsabile del Soccorso Alpino, viaggiatore, alpinista himalayano, organizzatore del Mezzalama e una delle menti dietro al successo de La Grande Course, rifugista. Probabilmente da piccolo doveva essere uno di quei bambini iperattivi con le ginocchia perennemente sbucciate. Per intervistarlo sono andato a intercettarlo direttamente sulle montagne di casa, a Champoluc.
Ciao Adriano, come sei diventato Guida Alpina?
«Sono diventato Guida 45 anni fa, il primo della mia famiglia ma di sicuro non l’ultimo, visto che mio nipote Emrik è aspirante in questo momento. Gli anni passano, certo, ma la passione rimane forte lo stesso. A quell’epoca ci si arrivava quasi unicamente dall’alpinismo, anche se io ho avuto la fortuna di avere Giorgio Colli come mentore, che già allora praticava molto lo scialpinismo».
Quando hai cominciato a organizzare spedizioni?
«La prima è stata nel 1980 sul Churen Himal, per cercare di completare una via tentata da una spedizione di Paolo Consiglio una ventina di anni prima. Tornammo a casa senza la vetta, dopo aver provato a salire la via normale. Per completarla ci sono poi tornato nel 1993 e nel 2012: è stata una lunga storia! La prima spedizione su un Ottomila, invece, è stata al Kanchenjunga nel 1995, e la prima vetta il Manaslu nel 1996. Poi ne sono seguite altre, non sempre arrivando in cima: K2, Shisha Pangma, Dhaulagiri, Annapurna e per finire l’Everest, nel 2005. Dopo ho continuato a vivere l’Himalaya in modo più tranquillo, portando i clienti a fare trekking o alpinismo a quote inferiori. Ho cominciato a lavorare con i viaggi organizzati in Nepal nel 1988 e oggi posso considerarla una seconda casa. Ora ho terminato il mio mandato da direttore del Soccorso Alpino Valdostano, ma continuo ad occuparmi del coordinamento di alcuni settori a livello nazionale, tra cui quello cinofilo».
Ci sono margini di miglioramento nell’attività del Soccorso Alpino?
«Sì. Per esempio nell’applicazione delle tecnologie di geolocalizzazione: si può migliorare ulteriormente nonostante i grandi progressi di questi anni. Come elicotteri e macchine l’Italia è a un livello altissimo, mentre invece stiamo lavorando molto su quelli che chiamiamo non-technical skills, vale a dire l’allenamento mentale e la capacità di fare squadra, che sono di grande aiuto in missione, per evitare ad esempio che si verifichi una delle peggiori circostanze in assoluto: l’incidente ai soccorritori. Come dicono i francesi, bisogna essere malin: svegli, attenti. Nel corso degli anni abbiamo poi gestito la formazione di squadre di soccorso estere, tra cui i peruviani e i nepalesi».
Hai ancora un’altra anima, quella del rifugista, vero?
«Sì, ho cominciato nel 1987 con la co-gestione del Rifugio Quintino Sella al Felik e anche lì ho vissuto i cambiamenti in prima persona. Sono aumentate le esigenze dei frequentatori (non li chiamerei mai clienti), i quali sono sempre più spesso stranieri. Proprio al Quintino è nato il progetto Highlab di Ferrino, più di 25 anni fa. Collaboravamo già grazie alle spedizioni ed è venuto spontaneo venirci incontro nel momento in cui cercavano un luogo dove poter testare veramente i loro prototipi: un campo allestito per tutta la stagione estiva, ad esempio, subisce la stessa usura di una spedizione alpinistica. Vedere una tenda sbriciolarsi o resistere a 150 chilometri all’ora di vento costituisce un test importante. Inoltre insieme abbiamo portato avanti diversi progetti, perlopiù legati alla sicurezza: lo zaino Airsafe è uno di questi».
E poi, come se non bastasse, è arrivato il Mezzalama.
«Sì, quella è un’avventura cominciata nel 1995. La prima edizione organizzata da noi è stata nel 1997, dopo quelle tenutesi fra il 1933-39 e quelle del 1972-78. L’idea del Mezzalama moderno fu del consorzio turistico del Monte Rosa e all’epoca, lavorando per Monterosa Ski, venni incaricato della questione. Non ero assolutamente pratico di quel mondo e mi sono fatto le ossa poco alla volta. Sono state determinanti la conoscenza di queste montagne e - diciamolo - un pizzico di fortuna per arrivare a far correre la gara anche con condizioni avverse. Fin dalla prima edizione, poi, è stata fondamentale la collaborazione con il meteorologo Luca Mercalli, capace di prevedere le finestre meteo giuste nelle quali far correre gli atleti. L’edizione 2015, ad esempio, si è disputata in un intervallo di nove ore tra le perturbazioni, basti pensare che gli atleti di testa indossavano il piumino anche in salita. Nel 2003, invece, abbiamo dovuto evacuare degli atleti in ipotermia e da quel momento abbiamo introdotto regole più severe per l’attrezzatura».
Cosa è cambiato nel corso delle varie edizioni?
«I partecipanti, ora, sono più preparati tecnicamente, sia perché è evoluto lo scialpinismo, sia perché la voce si è sparsa e ormai tutti hanno bene in mente quali siano le difficoltà aggiuntive del Mezzalama che ne fanno una gara unica: non è assolutamente sufficiente avere il motore e basta. Sono cambiate anche le condizioni della montagna, un fatto che si è palesato nell’edizione 2015, quella corsa in senso inverso da Cervinia a Gressoney; molte discese, a causa dello scioglimento dei ghiacciai, presentavano tratti tecnici con ghiaccio vivo e dubito che si ripeterà l’esperimento, a meno che non ci sia un’inversione di tendenza».
Qual è il focus principale del Soccorso Alpino nel giorno della gara?
«L’attenzione dei soccorritori è rivolta principalmente a ciò che potrebbe succedere in ghiacciaio, quindi nel tratto dal Colle del Breithorn fino ai rifugi Gnifetti e Mantova. La traccia viene balisata nei giorni precedenti, ma ciò non vuol dire che sia sicura al cento per cento: si sono già verificati crolli di ponti nelle ore successive al passaggio degli atleti, quindi il procedere in cordata non è una questione di folklore, ma una reale necessità. Noi come organizzatori ce la mettiamo tutta, ma l’ultima parola spetta sempre alla montagna. Ho introdotto due delfini, ai quali presto passerò la responsabilità, perché comunque non sono più un ragazzino: François Cazzanelli ed Emrik Favre. Con loro spero di migliorare ulteriormente l’organizzazione della gara e seguire anche l’evoluzione dello scialpinismo e dell’ambiente».
Quali sono gli obiettivi comuni de La Grande Course?
«Con gli altri organizzatori stiamo cercando di creare e seguire una traccia unica per tutti, collaborando per uniformare regolamenti e standard di gara, ma anche, ad esempio, la logistica, con una piattaforma unica di iscrizione. Ci si confronta e ognuno assiste alle gare dell’altro. Vogliamo anche riavvicinarci alla ISMF, per armonizzare i calendari e non penalizzare gli atleti. Credo che il formato delle gare di Coppa del Mondo sia complementare a quelle de La Grande Course, anche perché sarebbe l’unico tipo di evento replicabile in un possibile calendario olimpico. Sono anche favorevole allo scialpinismo alle Olimpiadi, tutto ciò che fa bene allo sport è sempre ben accetto. L’ingresso dell’arrampicata sportiva è un ottimo stimolo per noi. Gli atleti a livello da Coppa del Mondo sono un centinaio, quelli de La Grande Course sono 5.000: bisogna favorire il ricambio generazionale e la diffusione dell’attività agonistica fra i giovani».
Quali sono i momenti più emozionanti del Mezzalama?
«Il momento più bello è quando ci si vede tutti all’arrivo. Quello più emozionante, invece, è la partenza, durante la quale i mesi di preparativi giungono a una concretizzazione e sai che da lì devi stare sull’attenti. Ci sono stati episodi di tensione fortissima, come nel 2005 quando al momento della partenza il vento in quota non voleva attenuarsi e abbiamo dovuto ritracciare parte del percorso, posticipando il via di un paio d’ore. Contemporaneamente dovevamo anche gestire l’evacuazione di un gruppo coinvolto in una valanga al Castore la sera prima. O nel 2019, quando abbiamo dovuto cambiare il percorso abbassandolo di quota la mattina stessa, ritracciando e bonificando i pendii all’alba. Tra Guide, medici e volontari ci sono 120 persone sul percorso: credo che anche per un professionista sia un’esperienza formativa, perché si è tutti dentro una grande macchina e ognuno deve fare la sua parte».
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Every Single Street
Correre su ogni singola strada di San Francisco in 45 giorni è stato come fare un’ultra ininterrotta tra le montagne, perché non puoi mai staccare con la testa, devi essere sempre concentrato e il dislivello è importante - dice Rickey - Però per altri versi è molto diverso, perché la nostra idea di trail running è spesso legata alla fuga, è semplicemente esistere in un posto e non essere perfettamente presenti e consapevoli in quel luogo: correre per le strade della città è l’opposto di fuggire.
Le sterminate distese di sabbia e le gelide onde di Ocean Beach, a San Francisco, hanno qualcosa di catartico. E il gesto simbolico di Rickey Gates, che qui ha chiuso il primo agosto del 2017 la sua corsa da costa a costa degli Stati Uniti e da qui il primo novembre del 2018 è partito per il progetto Every Single Street, un’ultra-maratona per toccare ogni singola strada di San Francisco, è stato premonitore. O forse profetico. Passare dalle immense distese di uno dei Paesi più grandi del mondo alle 49 miglia quadrate di una città di poco meno di un milione di abitanti assume un significato ancora più profondo ora che, a causa delle restrizioni dei lockdown e delle conseguenze dell’era Covid, abbiamo riscoperto tutti una dimensione più local. E l’hashtag #everysinglestreet, oltre che un cortometraggio della Salomon TV, è diventato virale, con seguaci in ogni parte del mondo. Per correre dalla South Carolina a Ocean Beach, Rickey Gates ha coperto 3.700 miglia (poco meno di 6.000 chilometri), per raggiungere tutte le strade di Frisco, come i local chiamano la città del Golden Gate, 1.317 miglia (poco più di 2.100 chilometri) e 147.000 piedi di dislivello, quasi 45.000 metri. Dopotutto in sette miglia per sette miglia ci sono ben 1.100 miglia (1.770 chilometri) di strade e per percorrerle tutte, anche se sei efficiente al massimo, devi coprire alcuni tratti più volte. Abbiamo parlato con Rickey di Every Single Street su Skialper 131 di agosto-settembre.
Una corsa alla fine del mondo
«Ero curioso di tornare nella valle Chacabuco e al lago Jeinemeni. Ma non era solo la natura ad attrarmi, piuttosto gli uomini e il loro rapporto con l’ambiente. Queste valli, questi monti, sono forse il luogo dove ho lavorato più a lungo come Guida di montagna, dove ho corso più lontano. Qui ho scritto record di salita e discesa in velocità su cime selvagge. Queste montagne le sento un po’ come mie, anche se non vivo qui, ma vicino a Santiago, nella valle Maipo. All’inizio del 2018, grazie alla donazione allo stato del Cile della terra della Valle Chacabuco da parte di Tompkins Conservation, la Reserva Nacional Lago Jeinemeni e la Reserva Nacional Lago Cochrane sono state unite nel Parque Nacional Patagonia. Queste valli sono state trasformate negli anni dall’allevamento e l’ecosistema, al di fuori dei panorami da cartolina, rischiava di essere compromesso irrimediabilmente, però la creazione del parco è andata contro alcuni degli interessi economici locali. Così, a distanza di due anni, volevo vedere come è stato accolto dalle persone che vivono da quelle parti e che effetto ha prodotto sull’economia locale. Volevo farlo a mio modo, tornando lì per correre».
A scrivere è Felipe Cancino, runner e attivista ambientale cileno, che ama guidare verso Sud, per andare a scoprire gli angoli più selvaggi della Patagonia usando i propri piedi. E così ha scoperto che un parco nazionale è molto più di un semplice contenitore di natura e può diventare un volano per l’economia locale e per uno sviluppo sostenibile. Attorno al Parque Nacional Patagonia, per esempio, sono sorte fattorie per l’agricoltura bio intensiva. Nei suoi viaggi in Patagonia Felipe è andato anche più a Sud, fino alla punta estrema del Sud America.
«La Peninsula Mitre è l’estrema punta meridionale del Sud America, quella punta dell’Argentina che guarda a Est. Ieri abbiamo provato a bere l’acqua degli acquitrini rendendoci conto che, anche bollita, è imbevibile perché inquinata dai castori. Sembra incredibile, ma questi roditori, introdotti dall’industria delle pellicce, hanno devastato l’ecosistema locale. L’alternativa era bere quel liquido disgustoso o l’acqua salata del mare, poi abbiamo capito che si poteva raccogliere l’acqua che ogni giorno cade dal cielo ed è stata la nostra salvezza. Essere qui, senza tutte quelle comodità del nostro mondo, a partire da un collegamento internet, mi ha obbligato a risolvere i problemi, tanti, facendo solo ricorso al mio intuito. Mi ha fatto capire che a volte devi avere fortuna».
Su Skialper 131 di agosto-settembre un intenso reportage con le meravigliose fotografie di Nacho Grez e Rodrigo Manns.
Va' Sentiero
Ieri ci siamo svegliati sulle rive del piccolo lago di Favogna, tempestato di ninfee. Sembrava un quadro di Monet. Ero ancora stordito dal sonno e ho pensato di farmi una nuotata. Dal pontile di legno, nudo, mi sono tuffato nel lago deserto. Grazie al fondo torboso l’acqua era a temperatura ideale e mi è venuto da urlare di felicità. Più tardi abbiamo raggiunto la cima del Monte Roen. Non è stato solo il nome a ricordarci il Signore degli Anelli. Da lassù, a Ovest, scintillavano i grandi ghiacciai dell’Ortles-Cevedale, sormontati da vette che parevano scolpite nel cielo.
Ai nostri piedi la parete orientale del Roen volava in picchiata per centinaia di metri. Lungo la discesa verso il rifugio abbiamo allungato per la Malga di Smarano e Sfruz. Volevamo toglierci lo sfizio di vedere se esistono davvero due tali con dei nomi simili, da Stanlio & Ollio altoatesini. Alla malga non c’erano né Smarano né tantomeno Sfruz (che abbiamo scoperto poi essere dei paesini a valle), ma due cani con il manto chiazzato che ci hanno guardati arrivare in attento silenzio, senza scomporsi né abbaiare. Erano Pastori del Lagorai. Un ragazzo dagli occhi gentili ci ha offerto birre e cacioricotte fresche di minuti, sapevano ancora di erba tagliata.
Lui e sua moglie (Alan e Roberta) salgono qui ogni primavera con le loro vivaci bimbe e le tante caprette. Ce ne hanno anche fatta mungere una. Mi ha colpito la loro serenità. Roberta aspetta un altro bimbo e, mentre mi preoccupavo della loro sussistenza, guardandoli ho realizzato di come fossero spontaneamente al di sopra di ogni tipo di preoccupazione, concentrati a vivere il presente come un dono. A fine tappa, mentre ci rilassavamo a piedi scalzi sul grande terrazzo del rifugio Oltradige, il Latemar, il Catinaccio e le Odle si sono tinti di rosa. È stata l’ultima grande vista delle Dolomiti, un bellissimo arrivederci.
A scrivere è Yuri Basilicò. Insieme a Sara Furlanetto e Giacomo Riccobono, neanche 90 anni in tre, si è inventato Va’ Sentiero, una spedizione lungo il Sentiero Italia, il trekking di 6.880 chilometri che attraversa tutta l’Italia, per fare riscoprire questa gemma dimenticata. Nel 2019 dal Golfo di Trieste a Visso, quest’anno, restrizioni permettendo, quello che manca. Su Skialper 131 di agosto-settembre Yuri ha scritto per noi un diario dei primi, intensi, mesi lungo il Sentiero Italia, scegliendo qualche episodio e luogo tra i mille. Perché il senso di un viaggio lungo il Sentiero Italia è quello espresso perfettamente dalle parole di Konstantinos Kavafis nella poesia Itaca, che Yuri e i suoi compagni di viaggio hanno letto alla partenza dal Golfo di Trieste: non conta la meta, ma il viaggio. Per info su Va' Sentiero: vasentiero.org
Transap
Le cose più belle della Transap sono quelle che non si vedono con gli occhi, sono quelle che non puoi toccare e quantificare materialmente. Credo sia un aspetto positivo non avere oggetti o riconoscimenti che definiscano il valore delle motivazioni e delle azioni. Non ci servono cose per essere e per fare. Nel caso della Transap, tutto ciò che ha un significato, almeno per me, rimane immateriale. A dare un senso alla Transap non sono certo i chilometri (non pochi), né tantomeno il dislivello (non male), anche se ci devi fare i conti, e magari dopo un po’ li maledici, come se fossero diventati delle vespe sotto la maglietta o delle tarme nelle scarpe bucate. Sudi e soffri, a volte sbocchi in mezzo al bosco, sbuffi come un vecchio motore a gasolio sfatto, ma vai avanti perché nella Transap c’è un perenne senso di attesa nei confronti di qualcosa che sta per accadere. Mi piace pensare alla Transap come a un viaggio ideale, che in realtà non si compie, ma ridefinisce ogni volta una meravigliosa aspettativa. Perché è sempre difficile cogliere il senso di un’attesa, visto che la sua magia è proprio il non compiersi, ma aspettare che nasca. Ci vuole impegno e il giusto atteggiamento per capire la semplicità.
Transap, come la chiama Niki Gresteri, sta per Transappenninica. Un’idea semplice semplice e perfetta per questa estate così diversa: partire dalla pianura per arrivare al mare della Liguria, valicando quell’Appennino tanto selvaggio quanto vicino alle località più turistiche. Naturalmente a piedi, o di corsa, comunque con passo veloce. Nella sua versione-evento la Transap ha luogo l’ultimo fine settimana d’estate, come un rito collettivo senza pettorali, quote di iscrizione e ristori, ma con lo spirito della grande avventura da vivere insieme, perché non sono ammesse inscrizioni singole. Ma idealmente la Transap è dentro ogni sognatore che dalle cime dell’Appennino volge lo sguardo verso il mare ed è un’idea per una estate diversa, fosse anche solo per correre per pochi chilometri su quelle vie del sale che collegavano Pianura Padana e Mar Ligure per crinali, lontano dai briganti. Ecco perché su Skialper 131 di agosto-settembre abbiamo chiesto a due che la Transap l’hanno fatta, di raccontarcela, di raccontarci le emozioni che si vivino su quei crinali. Le parole sono di Niki Gresteri e Marta Manzoni, le splendide fotografie di Nicola Damonte. Un articolo da leggere con lo spirito con il quale si sfogliano le pagine di un racconto.
Made in Bangladesh
«Clacson, polvere, smog, tosse, lacrime, occhi di donne stanche, bambini dallo sguardo adulto, piedi scalzi e cumuli di ciabatte di plastica abbandonate. Bus sovraffollati, bus da rottamare in perenne sorpasso su una pista di terra battuta, bus molleggiati con sospensioni finite e sedili consumati, autisti che si scagliano nel traffico dove sembra che chi frena perda il rispetto degli altri conducenti. Correre in auto contromano per evitare un ingorgo. Imbottigliamenti pazzeschi creati da un paio di risciò e alcuni CNG (taxi motorizzati a tre ruote, delle specie di Ape Piaggio) per una mancata precedenza. Ancora clacson! Treni che si annunciano nelle stazioni spezzando il silenzio notturno mentre l'ansia sale nel sonno pensando alle tante persone che camminano per i binari bui come fossero sentieri sicuri nella foresta. Il muezzin che annuncia l’alba e quello che precede il tramonto. Cartelloni pubblicitari che pubblicizzano grandi infrastrutture del futuro. Grandi scritte che recitano safety first come fossero enormi prese in giro. Canne di bamboo che sorreggono palazzi in costruzione. Tra le palme e vicino agli argini sbucano moltissime ciminiere e camini neri che lasciano nubi grigie in cielo con file di mattoni alla loro base: famiglie intere accovacciate sulle ginocchia vivono grazie a queste fabbriche di polvere rossa, fanghi e liquami».
Da dove arriva e come viene prodotta la giacca che usiamo quando andiamo a fare skialp, o il fleece che mettiamo sotto? Giacomo Frison e Glorija Blazinsek sono andati alla fonte, a vedere lo stabilimento dove vengono prodotti alcuni capi di uno dei marchi più noti, Salewa. Un viaggio non certo dei sogni, in Bangladesh, uno dei Paesi più sfortunati del mondo, dove 169 milioni di persone rischiano di vedere scomparire la loro casa tra le acque e lottano ogni giorno per conquistare i diritti più elementari, a partire dal cibo. «Lo sforzo più grande in Bangladesh è stato evitare di ragionare secondo le nostre regole e provare a interpretare continuamente questa logica della non logicadettata quasi sempre da un’esigenza di sopravvivenza» scrivono Giacomo e Glorija. Però a Comilla la musica cambia. Le regole non sono più quelle del traffico di Dhaka e di tutto il resto del Paese, qui non vince il più forte o chi suona con più intensità il clacson. Qui è un'oasi organizzata. Ci si rispetta, ci sono ruoli definiti: sarti, tagliatori, supervisori e manager, si hanno tutte quelle garanzie per nulla scontate in un Paese così sfortunato. Acqua potabile prima di tutto, un pasto garantito, i bagni e le docce, l’aria più fresca e l’assistenza medica con il dottore e l’ottico. Poi il sussidio di maternità e l’asilo per l’infanzia, ma soprattutto la donna che lavora riesce a ottenere più stima e diritti, creandosi un ruolo importante anche in famiglia ed evitando matrimoni combinati in giovane età. Ne parliamo su Skialper 131 di agosto-settembre.
Giovanni & Franz, si continua a correre
Nostradamus, a noi, ci fa un baffo.
Franz: «E pensare che l’idea originale del libro era quella di dire che la corsa, una volta diventata stile di vita, si adatta all’età. Un po’ come la pelle, il colore dei capelli, o le rughe del viso. È una corsa diversa, meno competitiva e più meditativa».
Giovanni: «Tu, come al solito, la butti in filosofia. La verità è che, con l’età che aumenta, le prestazioni calano e bisogna regolare le aspettative, ma di certo non è necessario smettere di correre. Al massimo bisogna adattarsi alle nuove condizioni. Un po’ come fanno le piante».
F: «Ecco lì, dieci parole e stai già citando il mondo vegetale».
G: «Dico solo che le piante sono sottovalutate, a conoscerle meglio si imparano un sacco di cose interessanti. Comunque, tornando alla corsa, il blocco al quale il Coronavirus ci ha obbligati è stato un laboratorio. Ci sono quelli che si sono adattati correndo in terrazza o sul tapis roulant e quelli che non sono riusciti ad accettare la situazione e la corsa - antistress per eccellenza - è diventata un fattore di stress».
Giovanni Storti, meglio conosciuto come Giovanni del famoso trio Aldo, Giovanni e Giacomo, ha scritto un libro con l’amico runner Franz Rossi sulla corsa e gli anni che passano. Eppure quel libro, Niente panico, si continua a correre, è diventato un po’ metafora della corsa nella natura al tempo del distanziamento sociale. Ecco perché i due autori hanno prodotto un articolo a quattro mani per parlare del trail running in questi strani mesi che stiamo vivendo. Di come sono cambiate le loro sensazioni, di come hanno vissuto gli scorsi mesi e stanno vivendo questa estate. Si spazia dalla natura a Kilian Jornet, con quella leggerezza tipica dei comici, per riflettere sui temi seri della nostra epoca. E, per chiudere il quadretto, Giovanni e Franz li abbiamo portati a correre – per la prima volta insieme dopo il lockdown – ai piedi del Monte Bianco, dove li ha fotografati per noi Dino Bonelli. Che direi, buona lettura! L’articolo completo è su Skialper 131 di agosto-settembre.
Esanatoglia state of mind
«A Esanatoglia non ci sono montagne più qualcosa di altre; la quota rimane sempre sotto i 1.500 metri. Non ci sono località balneari famose nelle vicinanze (il mare è a 70 chilometri), non ci sono location che si prestano come sfondo per foto su Instagram o didascalie da claim aziendale di industrie del fitness, profumi o auto sportive. Ed è proprio per questo che amo Esanatoglia. Qui le montagne e le colline non sono (ancora e spero mai) giostre per turisti portati in autobus a depredare il territorio e comprare souvenir e non esistono tutte quelle strutture simbolo del turismo non sostenibile delle Alpi, i belvedere in cemento o i kindergarden, i baracchini di patatine fritte e gli hotel di lusso per i russi».
Scrive così nell’articolo su Esanatoglia, nelle Marche, Francesco Paco Gentilucci su Skialper 131 di agosto-settembre. «C’è ancora un piccolo borgo di meno di 2.000 anime in cui tutti si conoscono, la gente corregge il caffè al bar col Varnelli e le vecchiette ti chiedono di chi sei il figlio» continua Gentilucci. Ma cosa è andato a farci a Esantoglia? Sentieri, tantissimi sentieri, tutti curati e mantenuti in modo impeccabile, chilometri di single track nel bosco segnalati alla perfezione dove è impossibile perdersi: per avere la cartina, gratuita, basta andare a chiederla al tabacchino del paese. Questa oasi curata e tenuta sempre in condizioni perfette è opera dell’olio di gomito di Leopoldo Giordani e dei suoi soci appassionati di mountain bike che nel corso degli anni hanno iniziato a prendersi cura dei sentieri locali, rimettendoli in funzione, creando cartelli segnavia in legno fino alla loro ultima creazione, l’Esatrail Supehero, ovvero il collegamento di molti dei sentieri in un giro unico: 90 chilometri e 4.000 metri di dislivello positivo. E perché non provarlo in versione trail running? Risultato? «In 14 ore e 22 minuti di corsa ho incontrato due persone sul percorso, alcuni cinghiali, tantissimi caprioli e un serpente. Basta». Un articolo da leggere, dopo avere guardato le belle immagini di Elisa Bessega.