Sono passate un paio di settimane da quando ho intervistato Arianna nella sua casa di Corvara; potrei dire per un caso fortuito, o più che altro sfortunato, visto che vi si trovava a causa di un infortunio alla caviglia che pareva serio e in grado di tenerla lontana dagli sci e dal tour. Dopo queste due settimane Arianna, quando ho scritto questa intervista, era in testa alla classifica generale del Freeride World Tour, avendo dominato la tappa di Fieberbrunn. Non si possono fermare gli healing vibes della famiglia del Tour a quanto pare…

Ciao Arianna, come prima domanda vorrei chiederti perché molti atleti rimangono al Tour molte stagioni, anche se hanno già vinto il titolo. Non sarebbe più fico scegliere la strada del filming e creare contenuti di alto profilo con case come Teton o Matchstick?

«Il punto principale è che passare dal Tour al filming non è scontato, è riservato a pochi atleti, che hanno queste opportunità per una combinazione di sponsor, personalità interessanti e richiesta delle stesse case di produzione; oltre ovviamente a un livello tecnico al top. Quindi sebbene al Tour gli skier e snowboarder siano il meglio del meglio, solo pochi riescono a passare al mondo del filming; per gli altri rimane l’unica reale possibilità di essere pro. Un aspetto che non traspare dall’esterno è che siamo una famiglia: il Freeride World Tour diventa questo gruppo di personaggi che gira il mondo insieme, condivide trasferte, gare e giornate in powder, già solo questo è di per sé un ottimo motivo per ripresentarsi anno dopo anno allo start. Ognuno è libero di vivere come vuole, di organizzarsi come meglio crede, sia per quanto riguarda gli aspetti logistici che gli impegni in calendario, allenamenti compresi. Nessuno ti dice quello che devi fare, non ci sono le federazioni di mezzo ed è forse l’unico ambiente rimasto un po’ punk rock in tutto lo sci. Il Tour ti dà tanto, sia in termini di visibilità che di opportunità, quindi va solo apprezzato, a prescindere dai voti dei giudici. Rimanere all’interno di questa cerchia è l’unico modo per molti per vivere di sci ed è una rampa di lancio per le nuove generazioni».

Questa cosa effettivamente non si coglie dallo streaming, che negli anni passati è sempre stato il tallone d’Achille, con dirette eterne e il giudizio sempre opinabile dei giudici a creare del malcontento.

«Certamente i giudici non sono infallibili e molte volte si accorgono loro stessi di avere commesso errori, però cercano sempre un miglioramento dei criteri, anche con vari meeting dove sono presenti i rider. Organizzare il World Tour non è cosa da poco a livello economico, lo streaming è tutto per la sua divulgazione e i giudici subiscono pressioni per velocizzare il processo di valutazione e per rendere più fluido lo spettacolo. Il lavoro che viene svolto è da rispettare e apprezzare e se alla fine della gara sei scontento del punteggio, ci sta. Però devi ricordarti che il gioco è questo, se vuoi farne parte, che i rider sono importanti, ma sono solo un pezzo dello show. Uno show che deve filare il più veloce possibile per piacere. Purtroppo alla fine sono sempre i soldi che comandano».

Secondo te il judging ha contribuito a fare chiudere il gas ai rider, penalizzando i backslap?
«Agli skier uomini no di sicuro! Loro è meglio tenerli a bada che sennò veramente esagerano (ride). E comunque vanno sempre molto forte, sempre al limite. Certo, a volte i backslap penalizzano cliff o trick stilosi perché atterrati un po’ al limite, però quello che si cerca di premiare è sempre lo stile e la misura, dando più punti a chi si distingue. Il judging sarà sempre il limite, perché comunque va applicato a diverse interpretazioni della montagna date da background diversi. L’unico aspetto che forse limita la progressione dei rider durante il Tour è il fatto di passare molto tempo lontano dalla neve a causa degli spostamenti e del down time quando le condizioni non permettono di sciare e gareggiare; questo non aiuta affatto a dedicare il tempo necessario a imparare e perfezionare i trick e lo stile. Cercare di rimanere integri durante la stagione senz’altro ti limita nello spingere».

Quindi come scegli la tua linea, la costruisci per raccogliere più punti, sapendo cosa guardano i giudici?
«Assolutamente no, scelgo la linea che più mi ispira e che più rispecchia il mio stile e il mio background, fatto da sci alpino e freestyle-slopestyle. I giudici ti conoscono e lo vedono se ti perdi, se scegli una linea che non ti rispecchia. Molti dei giovani che arrivano dalle gare FWQ Juniors sono più abituati a questa tipologia di gara e sono già specializzati, puntando ogni tanto a ciò che dà più punti, anziché all’estetica della linea e alla propria voglia di sciarla quella determinata linea».

Sei tornata da poco da Jackson Hole, dove sei stata invitata alla jam/gara sul famoso Corbet’s Couloir, che ti ha visto al secondo posto, che esperienza è stata?
«È stato bellissimo! Abbiamo ricevuto una super accoglienza per una settimana intera, condizioni top per girare con gli amici e spingere. La gara in sé consisteva in due run per rider, giudicate poi dagli stessi rider in una video session un paio di giorni dopo, con tanto di birrette per completare il tutto. Questo formato è stato molto divertente, all’ameri- cana, con il pubblico che urlava e gasava in partenza, dove ognuno poteva decidere come droppare, costruendo anche il proprio kicker. Ho avuto la possibilità di concentrarmi di nuovo di più sui trick e proprio all’ultimo giro dell’ultimo giorno sono caduta su un 360 infortunandomi alla caviglia già malconcia».

A proposito di progetti, il tuo film La luce infinita come è andato?
«È andato molto bene, credo che sia stata un’espe- rienza unica, qualcosa che difficilmente si potrà replicare: una crew di amici, le musiche realizzate in casa. Purtroppo le cose ora sono cambiate e i miei amici hanno impegni, non hanno tutti la possibilità e il budget per prendersi del tempo e filmare».

E quindi niente più filming? O qualcosa bolle in pentola?
«In realtà ci sarebbe qualcosa di più o meno segreto, qualcosa di importante. Vedremo in primavera, mi piacerebbe tornare in America, un viaggio di rivincita visto che l’ultima volta a Mammoth mi sono rotta una vertebra!».

Non ti voglio far sbottonare troppo, però è chiaro che tutto questo sarà possibile, oltre che per le tue qualità, anche grazie all’apporto fondamentale degli sponsor…
«Certo, forse non tutti lo sanno, ma funziona cosi: la casa di produzione vuole uno skier rappresentativo, ma la sua parte, che ha dei costi molto alti, viene finanziata dagli sponsor e dal rider stesso, che
– diciamo – investe su di sé. Io posso essere contenta di avere degli ottimi sponsor e mi reputo molto fortunata, un grazie va senz’altro al mio manager che mi dà una mano enorme».

Questa domanda è doverosa: il tuo background? Forse non tutti sanno che arrivi prima dallo sci alpino e poi dal freestyle.
«Come tutti i bambini della valle ho cominciato con lo sci club e le gare della zona però, per farla breve, non era tanto il racing in sé che mi ha stufata, ma il fatto di essere in un mondo con troppe regole e costretta a fare solo ciò che diceva l’allenatore; a me piaceva fare i salti e scappare nei boschi o in park, non volevo sentirmi limitata».

Qui interviene la madre di Arianna, Cristina Gravina, olimpionica di discesa libera a Lake Placid: «Arianna faceva incavolare gli allenatori perché o si faceva i fatti suoi o non si presentava agli allenamenti e poi alle gare andava forte e batteva gli altri bambini, figurati i genitori… Una volta aveva avuto la possibilità di andare col club a Les 2 Alpes a fare allenamento e nella sacca degli sci aveva nascosto quelli da park: un giorno l’allenatore mi chiama e mi chiede dove sparisce tutti i giorni Arianna alla fine degli allenamenti!».

Un talento rubato allo sci alpino? «Mah, forse, però ha fatto bene cosi! E comunque per un motivo o per l’altro solo in poche della sua età sono andate avanti (Sofia Goggia per dirne una!)».

Una giovane ribelle già da piccola quindi. Di conseguenza il freestyle si addiceva di più alla tua personalità.
«Esatto, all’inizio l’ambiente del freestyle era super punk, ognuno faceva quello che voleva ed era libero di esprimersi liberamente, ma poi anche lì con l’arrivo della FIS e delle federazioni siamo tornati da capo: l’ambiente è cambiato e molti hanno mollato, come me e Markus Eder; con l’arrivo delle Olimpiadi sono apparsi sulla scena skier che non hanno mai costruito un kicker in vita loro, che non si sono sbattuti, attirati solo dai Giochi e dai benefici che possono portare. Ora questi park skier si allenano come matti in park e sui tappeti, ma poi se devono tornare a valle preferi- scono montare in cabinovia piuttosto che sciare (ovviamente questo non vale per tutti i freestyler). Dov’è la passione per lo sci? Le leggende che hanno spaccato nel freeski, come Tanner Hall o Candide Thovex, presenti dal giorno uno di questa rivoluzione, non torneranno più probabilmente, ora è tutto più incentrato sulla prestazione, è un vero e proprio sport e la progressione è molto più veloce. Come dicevo riguardo le nuove leve del Tour, ad alcuni giovani sicuramente manca il background fatto di sperimenta- zione e passione».

A proposito di Tanner, cosa vuol dire relazionarsi con molti di quelli che una volta, quando giravi in park, erano i tuoi idoli?
«Come dicevo, loro sono le vere leggende, adesso Tanner è un mio homie, ha una passione sfrenata ed è una persona speciale. È incredibile conoscere gente come lui e Sage Cattabriga-Alosa, essere sullo stesso piano di personaggi che hanno fatto la storia del freeski e del filming e vedere che sono delle rockstar anche come persone».

Oltre allo sci cosa ti piace fare? Hai qualche altro progetto?
«Mi sono laureata in fisioterapia a Innsbruck, dove ora vivo, quando non scio vado in mtb enduro, cammino e arrampico, vivo la montagna a 360 gradi. Un giorno forse mi piacerebbe insegnare e trasmettere la passione per lo sci ai bambini, senza limitazioni. Sempre se riuscirò a finire il corso Maestri di sci, in maniera più o meno legale!» (ride)

Words of wisdom finali?
«Respect the mountain! Prima di ogni cosa, sia per sperare che ci regali tanta neve e sia per quanto riguarda la sicurezza. E poi, andare col flow, non forzare mai, rimanere sani e senza infortuni».

Da quando ci siamo incontrati per questa intervista a quando l’ho scritta molte cose sono cambiate. La tappa finale del Freeride World Tour è stata cancellata a causa del virus bastardo e Arianna è stata incoronata regina per la terza volta. Noi speriamo che riesca ad andare avanti col suo progetto di filming, prima o dopo, se non altro avrà tempo di ristabilire la caviglia malandata, grazie anche alle sue nozioni di fisioterapia. Di un’ora e mezza di registrazione niente è stato cambiato, ma soltanto arrangiato per rendere più scorrevole la lettura. Dopotutto, come dice Arianna, go with the flow.

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