The players: Ezio Sesia

«La prima gita scialpinistica documentata di Adolfo Kind è stata proprio qui in valle, a fine dicembre 1896 e anche la prima ascensione di alpinismo invernale del CAI, il 24 dicembre del 1874 all’Uja di Mondrone» mi dice Ezio Sesia, classe 1955, mentre guida verso Cornetti, nell’alta valle di Ala, la centrale delle tre Valli di Lanzo. Non è facile trovare qualche fazzoletto di neve dopo settimane di alta pressione e vento e anche oggi il cielo è blu intenso e solo le vette delle montagne e i valloni in ombra conservano un po’ di oro bianco. E per parlare di scialpinismo vogliamo andare in ambiente, se poi riusciremo anche a fare una breve pellata, meglio. «Lo faccio per voi, dopo anni di gite e ora che ho il tempo a disposizione esco solo se ci sono le condizioni per divertirmi, se ne vale la pena». E di uscite con le pelli Ezio ne ha fatte tante visto che, insieme a Pier Luigi Mussa, nostro compagno di gita, ha scritto per i tipi di Mulatero editore Scialpinismo nelle Valli di Lanzo. Originario della valle, di Mezzenile, Ezio ha vissuto 45 anni a Torino, dove faceva il bancario, per poi ritornare in valle quando ha ottenuto il trasferimento lavorativo in zona. «Per me il primo gennaio del 2000 non è stato solo il passaggio del secolo, ma l’inizio di una nuova vita» scherza ricordando quella decisione.

In montagna, con o senza sci, Ezio ci è sempre andato. «In quegli anni tutti i bambini mettevano un paio di sci, si sciava nei prati, scalinando per salire». Ma lo scialpinismo è arrivato in un altro modo e quello spirito delle origini è rimasto dentro Ezio. «Era il 1973, avevo 18 anni e con una compagnia di amici con i quali ci ritrovavamo durante le vacanze estive decidemmo di salire per andare a vedere come erano con la neve quei posti tanto belli in estate, naturalmente con gli sci in spalla per tutta la salita». Fu amore a prima vista, però solo per Ezio. «Ancora oggi ci frequentiamo e qualcuno mi dice che vuole iniziare, ma non so se mai lo faranno». Questo non vuol dire che Ezio in montagna ci vada da solo. «Qualche volta sì, se la neve non è il massimo faccio anche fondo escursionistico, ma l’anno scorso sono caduto stupidamente, praticamente da fermo, e mi sono rotto la spalla: comunque mando sempre un sms a un’amica dicendo dove vado e poi al rientro». Spesso il compagno di gita è Pier Luigi, come oggi, ma in valle anche altri condividono la passione. «Ci siamo conosciuti a un torneo estivo di pallone e, ritrovandoci dopo alcuni anni, abbiamo iniziato a fare scialpinismo insieme». La valle non è il confine dei sogni di Ezio: «Se si organizza una macchinata con gli amici, andiamo anche altrove, ma la maggior parte delle volte rimaniamo nelle Valli di Lanzo, dove dopo anni comunque riusciamo ancora a trovare alcune varianti o addirittura qualche gita nuova». Ripetere gli stessi itinerari non a tutti piace, non è sempre così per Ezio. «Ce ne sono talmente tanti che non capita spesso, ma alcuni grandi classici vale la pena di rifarli, io vi consiglio sicuramente la Punta Rossa di Sea, un bell’itinerario in ambiente aperto; quando ci sono le condizioni merita davvero». Appunto, quando ci sono le condizioni, e per ora non ci sono, così, dopo qualche fotografia, torniamo all’auto e togliamo gli scarponi. «Segnatevi questa data: 24 febbraio, quel giorno nevicherà perché Ezio va a fare la settimana bianca in Val Venosta e quando esce dalla valle arriva sempre la neve» dice sorridendo Pier Luigi.

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Il tentativo di record sulle 24 ore di Kilian finisce in ospedale

Il record di Kilian sulle 24 ore di corsa in pista si è fermato al chilometro 134,8 e a 10 ore e 20 minuti, nella fredda notte norvegese. Due improvvise fitte al petto e un senso di vertigini hanno decretato il ritiro dell’atleta catalano che la scorsa notte si è accasciato durante un giro ed è stato portato in ospedale in ambulanza per accertamenti. «In ospedale mi hanno fatto una serie di esami, non pensano che sia niente di serio» ha detto Kilian Jornet oggi in un video registrato da casa. Probabilmente nei prossimi giorni verrà sottoposto ad altri accertamenti.

Kilian Jornet lavorava al tentativo di record da un anno. Lungo la pista di Måndalen, dove correva con altri atleti, con temperature intorno alla zero, ha percorso i primi 10 chilometri a 4’16’’/km e finito i primi 42,4 km in 3h02’23’’. «Andava bene, con i soliti up & down, il corpo e le gambe trasmettevano sensazioni positive e poi improvvisamente ho avvertito due fitte intense al petto e subito una forte sensazione di vertigine e stanchezza» ha detto Kilian che aveva in programma il tentativo Phantasm 24 (dal nome della scarpa Salomon utilizzata, la S/Lab Phantasm) qualche settimana prima, ma aveva dovuto posticiparlo a causa di una serie di infortuni.


The Players: Arno Ladstaetter

L’accento altoatesino si sente ancora, anche se si è trasferito e vive a Milano da ormai 25 anni. Nativo di Brunico, Arno è, come lui stesso si definisce, l’immigrato del nord. A casa fa ritorno spesso, una volta ogni due settimane circa, per visitare i parenti e per sciare insieme agli amici. «Appena trasferito a Milano ho utilizzato il forum di On Ice per conoscere gente che amasse, come me, la montagna e a cui aggregarmi il fine settimana. Fabrizio però lo conoscevo già… ci siamo incontrati per la prima volta, virtualmente, sul sito Camp to Camp». A questo punto Domenico, che sta ascoltando il racconto di Arno, non si trattiene più e interviene nel discorso. «Sono stato contattato da questo tal Arno, su On Ice, che mi chiedeva se poteva unirsi a qualche nostra gita sugli sci, perché si era appena trasferito ed era solo. (Ride) Pensa che quando mi ha chiamato gli ho chiesto se sapeva sciare bene». Arno non scia bene, Arno scia benissimo e con una disinvoltura che pare nato davvero con gli sci attaccati ai piedi. Nel gruppo lo chiamano il cannibale, soprannome che la dice lunga e non necessita di ulteriori spiegazioni. Un altro che aggredisce la discesa, insomma. Mentre Domenico racconta in maniera animata, Arno sorride e tende a minimizzare. Di tanto in tanto tira fuori dalla tasca della giacca la sua macchinetta fotografica compatta e scatta qualche foto.

Quando e finché c’è neve, Arno ha gli sci ai piedi. Le gite fatte, le vette raggiunte, sono talmente tante che ricordarsele tutte sarebbe impossibile, ma alcune gli sono rimaste nel cuore: in primis la parete nord del Fletschhorn, che ha sceso insieme a Fedora, altro membro importante del gruppo e super conosciuta nel forum per le sue relazioni puntuali e precise. Poi la Nord-Est dello Stecknadelhorn, il canale di Lourousa nelle Alpi Marittime, il couloir de Barre Noire. Non mancano neppure esperienze impegnative, di più giorni, delle vere e proprie piccole spedizioni, come lo scialpinismo estivo sulla punta Dufour e al Lyskamm in tenda, ad agosto, a quota 4.200 metri.

COSA CONTA DI PIÙ PER TE DURANTE UN’ASCESA?
«L’estetica. L’estetica è importantissima. Amo tracciare in salita e fare le classiche tracce da guida, non troppo ripide, precise e regolari, geometriche. Lo stesso vale per la discesa: una volta arrivato alla base della parete, mi piace girarmi e vedere una serpentina regolare, fatta di curve sinuose e tutte uguali. E poi, altra cosa fondamentale, da noi in Alto Adige esiste un’etica: non si invade o non si va a rovinare la serpentina altrui; ognuno, in discesa, segue una sua linea immaginaria su neve vergine. Poi mi piace anche ricercare vie di salita e discesa che non sono quelle scontate e tradizionali».

Arno non va alla ricerca del materiale più leggero. «I miei sci ideali sono quelli con cui ho sempre sciato. Se mi trovo bene, perché cambiare? Per me il peso non è un problema». Lo dice sorridendo mentre, nel tempo delle barrette e dei gel per lo sport, tira fuori dalla tasca interna della giacca un sacchetto trasparente con due fette di pane e un po’ di speck tagliato al coltello.

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The players: Fabrizio Righetti

«Fabri rallenta».

«Fatelo parlare, quello che sta là davanti, oppure mettetegli qualche sasso nello zaino, chissà che magari vada un po’ più piano».

Voci che arrivano da dietro, dai compagni di avventure di sempre, che il Righetti lo conoscono bene e che lo prendono in giro. Scherzosamente, con simpatia, perché in fondo a loro piace proprio perché è così: sorridente, iperattivo, performante, non necessariamente competitivo ma con dentro lo spirito dell’atleta, di quello che la salita se la vuole mangiare, così come la discesa. E che ha fiato a sufficienza e gambe buone per farlo. «Mi dicono che scendo già dalla macchina con gli scarponi ai piedi… e forse hanno ragione. Non sono uno che si ferma a fare colazione al bar, a perdere tempo. Sono fatto così. Però sono anche il primo che, a fine gita e una volta tornati alle macchine, tira fuori una bottiglia di vino, il salame, il pane e comincia ad affettare per tutti». Anche se poi di quel salame e di quel pane - abbiamo avuto modo di constatarlo sciando un sabato insieme a lui - non ne mangia molto. Gli altri dicono che è uno attento, un pignolo, che ama allenarsi e tenersi in forma, e a guardarlo non si stenta certo a crederlo.

Occhio di ghiaccio e capello brizzolato, classe 1964, il milanese Fabrizio Righetti è anche un coinvolgente oratore. Ama chiacchierare, lo si capisce fin dal primo istante, e salta con disinvoltura da un argomento all’altro, mostrando una poliedricità davvero invidiabile. È attento anche all’attrezzatura ma non fa la corsa ad avere il materiale più leggero. Dice di essere un affezionato di Ski Trab e oggi sta provando un nuovo tipo di attacchino. Zaino non troppo cool e abbastanza ridotto e borraccia portata sullo spallaccio, per bere in corsa. Leggero ma non a tutti i costi, lui definisce così il suo modo di andare in montagna e fare scialpinismo.

Professione geologo e attualmente impiegato all’ENI, per lavoro ha avuto occasione di vedere luoghi interessanti e ricchi di fascino. Ma il suo cuore rimane qui, sulle montagne di casa e più in generale sull’arco alpino, dove ogni anno compie innumerevoli gite con gli sci ai piedi e non solo. Quando la neve viene a mancare, infatti, si cimenta anche in gare di trail running, per esempio ha partecipato alle ultime due edizioni di Orobie Ultra Trail, riuscendo a tagliare l’ambito traguardo di Città Alta a Bergamo. Inoltre la scorsa estate ha preso parte alla mitica Monterosa Skymarathon, una gara che non si ripeteva più dagli anni ’90 e che prevede di correre in coppia (e in cordata su ghiacciaio) da Alagna a Punta Dufour e ritorno con un compagno, proprio come nelle competizioni di scialpinismo.

«Vado in montagna da quando avevo 15 anni. Allora per raggiungere Lecco, da Milano, mi toccava prendere il treno. Della gita mi piace un po’ tutto, a partire dall’organizzazione dell’uscita fino alla discesa, meglio se in polvere naturalmente. La vetta è importante ma non fondamentale. Amo moltissimo il gesto atletico e lo sforzo durante la salita. Anche l’allenamento, quello che si fa in settimana, è finalizzato ad avere la giusta preparazione atletica per affrontare nel migliore dei modi (e godersi) l’ascesa a qualche montagna nel fine settimana».

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Mercoledì la première online sui primi 3.548 km di Va’ Sentiero

Appuntamento mercoledì 25 novembre con l’anteprima nazionale del docufilm autoprodotto ‘Va’ Sentiero - Alla scoperta del Sentiero Italia’. Protagonisti i primi 3.548 km della spedizione che sta riscoprendo l’entroterra italiano percorrendo il trekking più lungo al mondo, condensati in 50 minuti. Diretta alle 21 sul canale YouTube di Va’ Sentiero per la proiezione; alle 21.55 ci si sposta su Facebook per il Question Time aperto alle curiosità di tutti gli spettatori. Modera Frank Lotta, speaker di Radio Deejay e conduttore del programma Deejay On the Road.

Il docufilm con video e montaggio di Andrea Buonopane racconta i volti e le storie che il giovane team di Va’ Sentiero ha incontrato durante i suoi primi 3.548 km percorsi nei primi 7 mesi della spedizione lungo il Sentiero Italia, attraversando Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Trentino-Alto Adige, Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Toscana, Emilia- Romagna, Umbria e Marche. Un cammino, questo, senza precedenti, iniziato lo scorso anno con un duplice obiettivo: da una parte promuovere il Sentiero Italia - il trekking più lungo al mondo - all'insegna della consapevolezza ambientale e del turismo lento; dall'altra, valorizzare le terre alte.

L’ingresso alla première virtuale è gratuito; per chi lo desiderasse, è possibile contribuire alla causa di Va’ Sentiero con una donazione al progetto. La spedizione Va' Sentiero e la realizzazione del docufilm sono state rese possibili anche grazie agli sponsor che hanno creduto nel progetto. «Quando il lockdown ci ha obbligato a pensare diversamente, abbiamo ragionato su cosa fare per promuovere una visione outdoor più local: i marchi vivono grazie ai territori ma non sempre sono stati attenti a supportarli e Va’ Sentiero ci è sembrata l’iniziativa giusta per riportare il focus sulle terre alte vicino a casa perché le attraversa a passo d’uomo, perché attraversa tutta l’Italia ma al tempo stesso mille territori così diversi tra di loro» dice Jerome Bernard di Vibram, uno dei marchi che sostiene Va’ Pensiero in questo suo secondo anno di vita. «Credo che in questo momento in cui in molti hanno scoperto il mondo outdoor a causa delle limitazioni imposte dalla pandemia i marchi abbiano una responsabilità ancora più grande per aiutare i nuovi appassionati a praticare in sicurezza e con responsabilità» ha aggiunto Bernard. Nel primo anno di sostegno, Vibram è intervenuta fornendo suole con mescola Megagrip ai ragazzi di Va’ Sentiero, ma l’obiettivo era anche di creare interazione nelle varie tappe, obiettivo che si è scontrato con l’emergenza pandemia e che verrà ripreso a partire dalla prossima primavera. L’engagement si è trasferito online con interventi sui canali social del marchio ogni fine settimana per raccontare l’avventura di Va’ Sentiero, Quella stessa avventura che mercoledì tutti potranno rivivere in un timelapse di 50 secondi.

© Sara Furnalentto

Dani Arnold, la paura per amica

Le piccozze divorano la via con fame inesauribile. Si alternano veloci a mordere il ghiaccio sottile. Poi a graffiare la roccia nascosta appena sotto. È freddo. Ripido. Pauroso. Ed è solo l’inizio. Potrebbe essere tutto lì, davanti e sopra di lui. Potrebbe non servirgli altro che quella parete di vetro, il gesto che ripete e la tensione che lo affila per sentirsi vivo. E invece la velocità per un attimo rallenta, perde il dominio. Dani si ferma. Quasi scordasse di essere lassù, artigliato al velo di acqua solida che gli impone massima rapidità, si volta indietro. Si prende il suo tempo, sorride. There it is… the Alaskan sun, dice piano. Il giallo arancio del sole sboccia dal buio dell’orizzonte ancora assonnato. Tende un nastro lunghissimo sopra tutte le valli e lo annoda sulla fronte infreddolita di Dani e dell’amico, che da qualche ora salgono la parete Est del Mooses’s Tooth, nel cuore dell’Alaska Range.

Loro sono Dani Arnold e David Lama, uno svizzero, l’altro austriaco, e non hanno tempo per commuoversi. Buttano quello sguardo al sole, giusto il tempo di sentirsi felici, e poi via. Ancora su. Perché nelle quarantott’ore che stanno per vivere, in questa primavera 2013 già densa di alto alpinismo, firmeranno un’impresa destinata a farsi ricordare. Bird of prey, Uccello rapace. Una nuova via sull’inviolata Headwall di questa montagna tanto estetica quanto sperduta, posata nel mezzo di un ghiacciaio che solo i monomotore osano sfiorare. Millecinquecento metri di linea importante. Qualcosa che neppure loro si aspettavano di trovare. E forse di saper affrontare.

«Perdere David è stato durissimo» mi confessa Dani senza aggiungere tante parole. È passato ormai un anno da quando il compagno di avventure è volato verso la sua cima più alta, rapito da una valanga nel parco nazionale di Banff. Dani è da poco tornato dalla Siberia, dove ha vissuto nuove esperienze e ha risollevato il sipario sullo spettacolo che deve andare avanti, ma le cose restano difficili da accettare. «Quando è morto non ho voluto crederci, è stata una cosa che mi ha devastato». Eppure, in questo continuo filo di rasoio, restano pur sempre eventualità da mettere in conto. Succedono, e spesso. «È stato un dolore enorme dire addio anche all’amico Hansjörg Auer, che era con David quel giorno. Ma questa è la vita. E ho dovuto accettare e ingoiare anche il male che mi ha fatto salutare per sempre una persona come Ueli Steck». La montagna usa terapie d’urto per dialogare con gli umani, si sa. Tutti ne sono coscienti. Ma quella volta di Ueli, la perdita è andata oltre. Ha separato, verrebbe da dire, due parti del tutto. Ueli e Dani, due svizzeri, due velocisti della montagna. Due amici. Due rivali. Due talenti che si inseguivano e si raggiungevano, poi si sfuggivano, si cercavano e si osservavano. Si stimolavano a vicenda e non si invidiavano mai. «Non l’ho mai visto come un concorrente e ho sempre cercato di fare la mia strada» ricorda oggi Dani. Ma le cronache non possono nascondere quell’eterno rincorrersi sulle stesse cime. L’ossessione per le stesse pareti.

© Thomas Monsorno

Era il 2011 quando Dani Arnold, allora ventisettenne, rubò per qualche tempo lo scettro all’amico sulla Nord per eccellenza. Due ore e ventotto minuti per lasciarsi alle spalle tutta la via Heckmair, superare una ventina di cordate e mettere piede sulla cima di sua maestà l’Eiger. Venti minuti in meno del record che già era di Ueli. E che poi, nell’affannoso vortice, a lui sarebbe tornato senza altri rivali per poco più di cinque minuti. Un niente. Oggi la Guida alpina Dani Arnold da Urner di Bienne, villaggio montano della Schächental, Canton Uri, tiene in pugno tre delle sei grandi pareti Nord d’Europa. Cervino, Grandes Jorasses, Cima Grande di Lavaredo. Su ognuna il suo è il tempo più rapido di chiunque nella storia. Sono i tasselli di un puzzle fatto di speed record conquistati con la sola fisicità. Nessun dispositivo di sicurezza, niente corde né imbraghi, nessun friend, niente moschettoni, niente di niente. Solo scarpette e casco. E gas aperto a mille, nel puro stile di quel free solo che ha stregato anche il cinema di Hollywood.

«La rinuncia consapevole alla sicurezza è qualcosa di speciale - mi confida Dani - Nella nostra vita cerchiamo di rendere tutto sempre più sicuro, il che è positivo. E gli alpinisti che rinunciano al materiale di sicurezza solo perché lo ritengono fonte di rischi si espongono a un gioco molto, molto pericoloso. Per me è diverso. Quando io arrampico in free solo devo sentirmi sicuro al cento per cento di poterlo fare: la fiducia è un punto chiave». Anche la sicurezza, a pensarci bene, lo è. Da una deriva l’altra, in fondo, e viceversa. «Sì. La sicurezza è in assoluto la cosa più importante. Ogni persona deve decidere fino a che punto vuole spingersi. Tuttavia, esiste sempre un rischio residuo di cui ognuno deve essere consapevole. Il segreto per affrontarlo? Formazione, preparazione ed esperienza. Le montagne sono belle, ma non bisogna mai scordare che sono anche pericolose».

E se qualcuno si lascia vincere dal desiderio di emulare? «Ognuno ha il diritto di fare le cose come vuole. Ma a un solo patto: che la vita di nessun altro sia messa a rischio». Resta il fatto che quel che dicono è vero: la pericolosità affascina. E infatti per Arnold la via più bella di sempre è un nome quasi sconosciuto che però gli ha fatto passare le pene dell’inferno. Anubis, in Scozia. Un 8a+ di misto aperto da Dave MacLeod nel 2010. «Perché è la mia preferita? Perché è molto difficile e non è ancora stata ripetuta. Ci sono pochissimi percorsi al mondo che sono così tecnicamente impegnativi. Naturalmente anche i free solo e i tentativi in velocità sono molto importanti per me. Ma sono un alpinista e ogni tanto voglio fare non solo salite rapide, ma anche nuove vie o percorsi molto difficili». E allora naturale che col tempo il cuore si sia posato sulle grandi classiche. Sulla ricerca di un nuovo primato proprio dove le leggende dell’alpinismo avevano scritto la storia. Cervino, via Schmid, parete Nord. Nell’anno del secolo e mezzo dall’ascesa di Whymper, Dani è svolazzato in cima, questa volta aggiungendo all’attrezzatura piccozze e ramponi, nel tempo di una libellula, un’ora e quarantacinque minuti dove gli umani impiegano una mezza giornata buona. E poi la Cima Grande di Lavaredo lungo la mitica via, classe 1933, Comici-Dimai. Cinquecentocinquanta metri di linea impegnativa, simbolo dell’arrampicata in Dolomiti, sfrecciati via nel tempo di una messa, e neppure solenne. Quarantasei minuti e trenta secondi. Circa due in meno del record precedente e quanto i nomi qualunque impiegherebbero sì e no per fare qualche tiro. Ma neanche poi tanti.

Dani ogni volta arriva in cima senza sorrisi. Quasi fosse irrispettoso ridere lassù, a celebrare un tempo alla portata di nessuno. Non sorride, ma trasmette felicità. Ferma il cronometro e si accuccia, riposa, si guarda intorno e tiene un po’ la testa fra le mani. A pensare cosa, solo lui lo sa. «L’Eiger per me è stato come un trampolino di lancio. La Cima Grande, dal canto suo, è stata un’ottima esperienza. Speravo di essere così veloce, ma non pensavo fosse possibile. Delle Jorasses invece sono particolarmente orgoglioso: è una parete davvero grande». Il ricordo sul Massiccio del Monte Bianco è datato fine luglio 2018. Lungo la via Cassin sullo Sperone Walker, Dani Arnold volteggia ancora una volta al ritmo di una farfalla, per poi pungere come una vespa. Proprio come insegnava Muhammad Ali. Alle dieci meno venti del mattino è a 3.300 metri d’altitudine, alle 11 è a 4.000. Alle 11.27 il pungiglione si conficca sulla Punta Walker, a un’altezza di 4.208 metri. In due ore e quattro minuti Arnold chiude il cerchio e firma un nuovo successo sotto l’egida del Pro Team di Mammut. Ma la domanda resta: perché? «È più una sfida personale. Questa dell’arrampicata leggera e veloce è una tendenza che si sta sviluppando sempre più, ma io la vedo come una forma di lotta contro me stesso. Per me è molto importante essere bravi in tutte le discipline degli sport di montagna e credo che ci voglia un ottimo livello in ogni ambito per avere la sicurezza di arrampicarsi senza una corda».

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Già. Ma come arrivare tanto in alto? Dani ci scherza quasi su. E racconta di uno stile di allenamento molto freestyle, che non bada a mode o teorie e si alimenta solo delle proprie necessità. «A volte mi alleno molto, a volte faccio fatica a impegnarmi. L’obiettivo è importante per me: se non ho alcun obiettivo, non vedo alcun motivo per allenarmi. Ecco perché trovo fondamentale avere uno scopo nella vita. Quando lo raggiungi, puoi godertelo e festeggiare, e questa fase fa parte proprio del tuo personale traguardo». La pozione magica, comunque, non conta ingredienti segreti. Nessuna dieta specifica (anche se non mangio fast food ogni giorno) e tante ore nel letto: «Ho bisogno di dormire molto. Sono una persona mattiniera e la sera sono per lo più inutilizzabile». Ma neppure l’integralismo porta successo. E infatti, lui lo ammette, «spesso infrango le regole del mio stile di vita. Adoro il cambiamento. E penso che le nuove situazioni ti rendano creativo». La compagnia della moglie Denise, in tutto questo, non è di secondo piano. Con lei Dani arrampica spesso e con lei ha condiviso scalate di alto profilo. «È bellissimo quando possiamo fare grandi esperienze insieme in montagna. Per me gli amici, la famiglia e un posto dove mi sento a casa sono estremamente importanti». Eppure, paradossalmente, partire resta il pallino cruciale. Il chiodo fisso da battere finché ce n’è. Ieri il Broad Peak, primo Ottomila di una carriera giocata tutta su altezze minori, oggi la Siberia. Domani chissà. «Quella in Himalaya è stata una bella esperienza per me, ma non ne sono uscito soddisfatto. Tecnicamente non è assolutamente nulla di impegnativo. Ogni persona con un Ottomila nel cassetto è celebrata come un eroe, ma ci sono molte montagne di duemila metri che richiedono molta più preparazione di una via normale laggiù».

In Siberia, dove Dani è stato da poco con l’amico Martin Echser e dove sono state scattate le foto di questo servizio, le altezze sono ben lontane da quelle dei giganti della Terra. Ma lì il senso di infinito vince su ogni cosa e raggiunge il cielo senza alcuno sforzo. «L’obiettivo di questa spedizione era l’inverno freddo, quello giusto per tentare l’arrampicata su ghiaccio. Il riscaldamento globale sta rendendo le cose sempre più difficili alle nostre latitudini, quindi volevamo esplorare un nuovo posto, dove nessuno avesse mai scalato il ghiaccio». Un obiettivo raggiunto sul lago Bajkal, nella Siberia meridionale, dove di rado se si cerca il freddo ci si imbatte in qualcos’altro. «Abbiamo trovato esattamente quello che cercavamo, un freddo ben più intenso di quello che avevo provato sugli Ottomila: è stato fantastico. Ma anche la curiosità per il Paese, le persone e la cultura è stata un elemento importante di questo viaggio. L’ha arricchito molto».

Insomma: partire, per poi tornare e ripartire ancora. Alla ricerca infinita di qualcosa che non si afferra mai. Ecco la vita di Dani Arnold. «Certo, il periodo della quarantena da Covid-19 mi ha fermato, per forza di cose. Ma non è stato poi così male per me. Ovviamente ho dovuto posticipare una spedizione in Perù, ma la cosa più importante è che sono sempre rimasto in salute. Ora però sono molto felice che tutto stia tornando alla normalità». Un modo per dire, magari eufemisticamente, che quel che giaceva in pentola stia tornando a bollire? «Ho ancora molti progetti - chiude Dani, tra l’ermetico e lo scaramantico - Diciamo che non prevedo un futuro noioso». Insomma, non resta che stare a guardare: qualcosa lascia scommettere che la vespa dalle ali di farfalla si prepari a pungere ancora. Ma non chiedetegli se abbia paura, perché la risposta vi spiazzerà. «La paura è una buona amica, mi protegge» sorride lui. E a pensarci bene, Dani Arnold da Urner di Bienne un qualche segreto doveva pur nasconderlo. Che sia proprio questo, però, nessuno lo sa. E forse non lo saprà mai.

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Alla fiera dell’Est

*Crack: termine usato nel giornalismo sportivo americano per definire i giocatori, solitamente nel basket e nel football, che rompono gli equilibri con elementi di novità

«Vattene all’Est da Mosetti e guarda un po’ cosa ci trovi». L’ordine, dalla redazione, era più o meno questo. L’anno scorso ce n’eravamo andati al Sud, quest’anno tocca dirigersi all’Est, quindi, verso le Alpi Giulie. Io, per inciso, abito all’Ovest, a Torino. Vado a sciare su cime alte più di tremila metri, a volte quattromila, molto spesso poi finisco in Francia dove bene o male mi ci ritrovo; al massimo il caffè fa un po’ schifo, ma le montagne hanno sempre la stessa forma. All’Est, invece, non mi ci ero mai fermato d’inverno e come tanti avevo la convinzione che l’Italia finisse a Venezia. Le montagne lì sono basse, squadrate e cattive, come i pugili che se le danno nel retro dei bar di periferia. La maggior parte di esse non arriva neanche a 2000 metri, per dare un’idea. Però proprio in mezzo a queste montagne è cresciuto uno degli scialpinisti italiani più fighi (si può usare il termine figo? Non mi vengono molte altre parole per descriverlo) del momento, Enrico Mosetti, detto il Mose. Classe 1989, sponsorizzato da quel marchio molto hipster di Chamonix che ne riflette in pieno l’immagine, quattro spedizioni all’attivo e discese pazzesche su giganti di cinque o seimila metri in Perù, Georgia e Nuova Zelanda, più un tentativo al Laila Peak in Pakistan, ovvero una delle più belle montagne del mondo. Tutto questo per dire che, insomma, se uno così impara a sciare da queste parti, allora le Alpi Giulie devono avere un qualcosa dentro di selvaggio. Oppure selvaggio lo è chi viene qua a scivolare sulla neve, chissà. Dopotutto è questo ciò che cerco, domande a cui trovare una risposta. Chi è quello lì. Cosa c’è dietro quella cresta. Credo che uno quando viaggia debba andare incontro a dei quesiti, a delle incertezze, altrimenti il tutto si riduce al trascorrere una settimana bianca in un posto diverso da dove si va ogni weekend.

© Federico Ravassard

A Sella Nevea, dove abita Enrico, ci arrivo alla sera. I fari illuminano a malapena il cartello bilingue che spunta dalla nebbia, la stessa che oggi ha fatto perdere Mose e compagni sul versante sloveno del comprensorio, alla ricerca di una linea teoricamente accessibile con una pellata dagli impianti. Dico teoricamente perché il pomeriggio l’hanno passato a vagare tra boschi e salti di roccia alla ricerca di un segno di civiltà sotto forma di traccia nella neve. Li incontro davanti allo Julia, un rifugio in centro al paese. Le loro facce suonate e gli scarponi ancora nei piedi a quest’ora testimoniano che effettivamente è stata una lunga giornata. L’appartamento del mio ospite è in linea con la sua persona. Il termosifone è scomparso sotto una catasta di piccozze appese, sopra la stufa ci sono pelli e scarpette ad asciugare mentre in balcone la rastrelliera comprende sci che vanno dai 70 ai 115 millimetri al centro; in un angolino, a tradire le origini pistaiole, ci sono anche delle aste da gigante. Enrico mette sul fuoco una minestra, si chiacchiera del più e del meno, di viaggi e di persone. Sin dall’inizio capisco che appartiene a quella piccola categoria di persone che hanno messo seriamente lo sci in una posizione piuttosto alta nella lista delle priorità della loro vita. Il curriculum alpinistico ce l’ha scritto sul corpo, sotto forma di tatuaggi. Una trota dell’Isonzo sul braccio, a testimonianza delle origini goriziane, città spaccata in due dal fiume e dalle carte della burocrazia. Due colibrì sul petto a rappresentare l’Artesonraju e il Tocllaraju, le due cime di seimila metri della Cordillera Blanca che ha sciato in solitaria in Perù. Dei cristalli di neve sul collo, questa non bisogna neanche spiegarla. E poi ci sono montagne, alberi, numeri a ricordare i viaggi in Pakistan e in Nuova Zelanda e persone che hanno lasciato un segno sulla sua persona.

DIVAGAZIONI CARNICHE

Il mattino seguente ci tocca svegliarci presto. Abbiamo appuntamento con Marco per andare verso la Carnia, dove lui ed Enrico devono fare un rilievo nivologico per l’AINEVA, l’ente che si occupa di monitorare le condizioni del manto nevoso e il conseguente pericolo valanghe. Io invece ho come obiettivo la cima del Monte Coglians, la più alta della zona, qualche centinaio di metri sopra il sito scelto dai due per i test. Non è che faccia proprio bello oggi, anzi. Alla nostra destra si trova il Crostis, un panettone con una salita che sarebbe dovuta essere teatro di un tappone del Giro d’Italia, in seguito annullata a causa della pericolosità della discesa. A poche valli da noi svetta invece il sacro Zoncolan, considerato dai ciclisti una delle salite più dure d’Europa: sei chilometri con una pendenza media del 15% e punte sopra il 20%, praticamente una lunghissima rampa di garage. L’avevo salito durante una vacanza pedalatoria qualche anno fa, mi ricordo che in alcuni punti la ruota anteriore impennava e qualcuno, dopo aver dovuto mettere il piede a terra, non era più riuscito a ripartire. Saluto i due mentre iniziano a scavare e continuo per i fatti miei, ma dopo un’oretta di lotta con il vento decido che forse ne ho abbastanza. Mi sento come il sacchetto di plastica di American Beauty, le raffiche a cento chilometri orari mi fanno perdere continuamente l’equilibrio. Non sono l’unico, almeno: raggiunti gli altri, il bollettino di guerra parla di uno sci volato a valle e vari oggetti che hanno tentato il decollo, tra cui uno zaino e la bilancia per la neve. Finito il rilievo e recuperati i dispersi torniamo giù, leggermente infreddoliti. Ci rifacciamo sulla strada del ritorno verso Sella Nevea, alla Rosticceria Buon Arrivo, conosciuta come Il Polletto: un’istituzione locale in fatto di grassi saturi e birra artigianale. Quando si tratta di cibo, da queste parti, non si va troppo per il sottile: la cena dell’indomani la facciamo da Surc, un ristorante poco oltre il confine sloveno dove la tartare di carne, che io da bravo piemontese sono abituato a vedere servita con giusto un filo d’olio, qui la servono con burro, cipolle crude, olive, peperoncini e cetrioli. Rende l’idea, no?

© Federico Ravassard

L’IMPORTANTE È SCIARE

Il mattino seguente l’appuntamento è al bar dello Julia con Beatrice, la fidanzata di Enrico, e i suoi amici. Lei, Nicole, Andrea e Samuele hanno tra i 21 e i 22 anni e nella vita, oltre a studiare, sono maestri di sci. Non sono molti i ragazzi della zona che vanno in giro con le pelli, mi confessa Bea. A dire il vero, continua, ci sono praticamente solo loro: la zona di Tarvisio, infatti, ha una solida tradizione di sciatori alpini, alimentata dalla presenza del liceo sportivo Bachmann, da cui escono continuamente atleti di altissimo livello nelle gare su pista, come l’azzurro Mattia Casse. Saliamo al sole sui pendii che portano alla Forcella dei Disteis, sotto la parete simbolo di Sella Nevea, quella del Montasio. Nei piedi i miei compagni hanno tutti assi e scarponi di una certa massa, si capisce che prima ancora di essere alpinisti loro sono sciatori. Prima di partire abbiamo incrociato un amico comune, più esperto, che ha voluto rassicurarsi delle loro intenzioni: non è da molto che salgono con le pelli fuori dalle piste battute, quindi - parole sue - a vederli andare via da soli oggi si è sentito un po’ come una mamma chioccia di fronte ai suoi pulcini. Saliamo con calma, il vento non dà fastidio e sarebbe meglio che la neve dura mollasse un po’, ma non mi importa più di tanto: sono qui per conoscere persone e guardarmi intorno, più che per sciare. La muraglia del Montasio si alza dritta sopra di noi, apparentemente insciabile. Con molta più neve su queste pareti scendono linee di sci ripido che si snodano attraverso cenge e canali. Anche le gite facili, qui, non sono da sottovalutare: a causa della morfologia dolomitica infatti i pendii fuori dai boschi cominciano da pendenze medie e spesso terminano in canali che si infilano in mezzo a muri di centinaia di metri, come l’Huda Paliza, la discesa simbolo delle Giulie. Arriviamo in cima e, dopo aver spellato al volo, Nicole e Beatrice partono davanti a me. Porca miseria se sciano secco! Mi arrabatto dietro di loro in qualche modo con i denti che vibrano per la neve che evidentemente non ha mollato e l’unica pausa che facciamo è per scattare qualche foto. Questi ragazzi sono l’esempio più chiaro di quello che sta succedendo ora allo scialpinismo, al quale si stanno approcciando sempre più sciatori di altissimo livello che hanno voglia di vedere posti nuovi, di tirare curve su pendii che non hanno mai visto la fresa di un gatto. L’importante per loro è questo, essere sciatori prima di tutto il resto. Quello che viene dopo sono dettagli, il dove e come lo si fa è un aspetto secondario, perché una curva è bella sempre, che sia fatta in un metro di polvere o sul ghiaccio barrato di un gigante. E infatti nella birra post-gita l’argomento di cui si discute è chiaro: chi viene martedì prossimo a vedere lo slalom di Coppa del Mondo a Schladming?

MONTE SART, UN ATTIMO DI INFINITO

Ci diamo appuntamento con Dade, al secolo Davide Limongi, alla partenza degli impianti. Dade è uno dei compagni di merenda di Enrico, nella vita fa il finanziere qui a Sella Nevea. L’idea di oggi è andare a sciare la parete sud del Monte Sart, una pala a pendenza costante che si vede anche dalla statale che va a Tarvisio. Non abbiamo fretta, anzi, nei nostri piani l’idea è di scenderlo al tramonto. Nello zaino abbiamo infilato anche un paio di scarpe comode perché non sappiamo bene fin dove arriveremo con gli sci. Prima tappa, colazione al Rifugio Gilberti, dove Mose lavora abitualmente insieme a Irene e Fabio, il cuoco. Fabio Tschurwald, soprannominato Tschurwi, è uno dei custodi di questi luoghi ed è lui a farmi una visita guidata del rifugio, tappezzato di foto e cimeli d’epoca. Molte stampe ritraggono scene di speleologia, una pratica che nelle Giulie trova uno dei parchi giochi più belli al mondo grazie alla natura carsica del terreno. In ogni momento dell’anno qui arrivano speleologi da tutto il mondo, soprattutto dall’Est Europa, che scendono per centinaia di metri nelle grotte di cui sono crivellate queste montagne, in qualsiasi stagione. Anzi, dice Tschurwi che d’inverno le condizioni sono ottime perché i flussi d’acqua sono assenti. C’è solo un piccolo problema da risolvere: prima di iniziare le calate bisogna spalare la neve dagli ingressi, e a volte ci vogliono giorni interi a causa dello spessore del manto: la quantità media di precipitazioni, qui, arriva ai 16 metri all’anno nonostante la bassa quota. Su una parete invece troneggia il ritratto di Ignazio Piussi, pioniere dell’alpinismo friulano e, a detta di Messner, il più forte alpinista degli anni Sessanta. Piussi firmò alcune ascese incredibili per quei tempi, come quelle sul vicino Mangart e sul Civetta in Dolomiti, e tentò per ben tredici volte la parete Nord dell’Eiger. Sono montanari cocciuti, i friulani. Usciamo dal Gilberti mentre il cielo comincia a coprirsi e mentre saliamo verso la Sella Ursic ci immergiamo inesorabilmente nella nebbia. Saliamo a testa bassa, devo tenere lo sguardo puntato sulle punte degli sci per non farmi venire la nausea a causa del white-out. Arriviamo al bivacco Marussich e decidiamo di aspettare lì che il tempo migliori. Mose fa sfoggio di grettezza slava tirando fuori dallo zaino gli avanzi della sera prima e, noncurante della temperatura sotto zero, banchetta allegramente con patate congelate e una fetta di Lubianska, una variante slava del cord-bleu. Momento di giubilo, nel cibo lasciato dai visitatori del bivacco troviamo anche un barattolo di senape: il Grand Hotel Nevea è qui. Ripartiamo mal volentieri, fuori continuano a esserci vento e nebbia. Ci portiamo sotto un canale che conduce alla cresta del Sart e calziamo i ramponi, sferzati dalla neve che, noncurante della gravità, sale dal basso verso l’alto a cause delle raffiche. Sbuchiamo proprio mentre sta succedendo qualcosa di maestoso: le nuvole si stanno diradando, lasciando spazio alla luce dorata del pomeriggio. Sembra di essere nella scena chiave di un film della Red Bull, noi siamo quei tre puntini che battono traccia su una cresta baciata dal sole da un lato e che sul versante opposto precipita in una parete sulla quale Emilio Comici aveva aperto nei primi anni del Novecento una via folle di più di 900 metri. È un momento magico, proprio quel tipo di momento per cui uno dovrebbe iniziare a fare scialpinismo e in cui i secondi si dilatano come polmoni. Le rocce delle montagne intorno a noi sono diventate coralli stuccati da meringhe di neve, mentre il fondovalle, duemila metri sotto di noi, sembra un paesaggio della Terra di Mezzo di Tolkien. La neve marmorea del mattino è stata addolcita dal calore del sole e pennelliamo curve che vorremmo non finissero mai. Come entriamo nei primi arbusti Mose tira fuori il gps: dobbiamo aggirare i salti di roccia che circondano la parte inferiore del pendio. Sento odore di ravanata, ma dopo il delirio di luce che abbiamo appena vissuto siamo tutti ben disposti a farci una scammellata a piedi per tornare a casa. Dade, che ha lasciato le scarpe in auto, accoglie con meno gioia il portage, ma rifiuta stoicamente la nostra offerta di vendergli le nostre comodissime scarpe. Un’ora più tardi veniamo salvati da Beatrice, partita da casa per darci uno strappo fino a un meritato spritz a Campo Rosso, in compagnia di un certo Tadei.

© Federico Ravassard

TADEI, CHE VA SU VELOCE

Dalle Alpi Giulie non nascono solo scialpinisti forti in discesa: ce ne sono altri che il vento sulla faccia lo sentono anche in salita. Uno di questi è Tadei Pivk, residente a Camporosso, che zitto zitto negli anni si è portato a casa per ben due volte la maglia di campione del mondo di skyrunning senza essere un professionista. Di origini slovene, dopo un passato agonistico nel salto con gli sci, Tadei ha iniziato a correre per caso, dopo che degli amici lo avevano coinvolto nella staffetta del Lussari, una gara locale. In settimana lavora come impiantista sulle piste di Tarvisio e alla sera si allena sul Sentiero del Pellegrino, 900 metri di strada forestale che d’inverno sono l’unica pista consentita agli scialpinisti. Tra un sorso e l’altro Tadei mi spiega, un po’ rassegnato, la situazione da queste parti: la risalita a bordo impianti non è assolutamente tollerata e generalmente quello che oggi chiamiamo ski fitness qui è ancora un concetto sconosciuto. Completamente l’opposto di quello che succede pochi chilometri più in là, nel comprensorio austriaco del Dreiländereck (letteralmente, angolo dei tre paesi). Qui, dove Austria, Italia e Slovenia si toccano, l’apertura serale del giovedì si è rivelata un successo. Tadei mi racconta che la settimana prima a risalire le piste erano almeno in 400, con relative consumazioni nelle attività locali a far girare il tutto, la prova del nove che lo scialpinismo da resort è una forma di turismo che può effettivamente funzionare. Mose chiede a Tadei se quest’anno si schiererà in partenza alla Scialpinistica del Canin, la gara che viene organizzata a Sella Nevea. Lui sorride senza dare una risposta chiara, ma si vede che un pensierino lo sta facendo. E non è l’unico: Mose, divertito, confessa che quasi quasi correrà anche lui, perché alla fine, come abbiamo detto, l’importante è sciare.

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WE ARE ALL SKIMOUNTAINEERS

Nel weekend Enrico mi invita ad aggiungermi al gruppo che con lui sta facendo un corso base di scialpinismo e con il quale ha programmato di andare due giorni in Carinzia, al confine tra Austria e Slovenia. È una banda eterogenea, che va dallo studente all’imprenditore. Tutti entusiasti di praticare questo giochino del salire in cima a una montagna per poi sciarla. La meta per la notte è la Klagenfurter Hütte, un rifugio frequentatissimo dagli scialpinisti locali, che spesso salgono qui senza andare oltre, una passeggiata in versione invernale con sci e pelli al seguito. Puro plaisir, come direbbero in Francia. Nonostante ciò, noto come il setup medio degli austriaci sia diverso da quello a cui siamo abituati, decisamente più improntato sulla sicurezza. Una buona metà di loro, infatti, utilizza ancora vecchi attacchi Diamir o comunque attacchini con sgancio certificato, e tantissimi sulle spalle hanno zaini airbag nonostante percorrano tranquilli itinerari di fondovalle. Passiamo due giorni di corsi tranquilli, a fare campi Artva e a chiacchierare alla sera davanti (ahimé) a un flusso ininterrotto di boccali di birra. Alla fine tra una Guida come Mose, abituato a sciare su pendii a 50°, e un principiante che sta imparando a fare le inversioni in salita non c’è poi così tanta differenza: il motivo per cui escono al mattino con gli scarponi nei piedi è lo stesso. Entrambi vogliono spostare un po’ più in là i propri limiti con le capacità che hanno a disposizione e quelle che sono disposti ad acquisire. Provare quel pizzico di brivido e di leggerezza, che non dipende da quanto è ripida la parete che stai sciando, ma da quello che ti senti dentro tu. In questi stessi luoghi cominciò a frequentare la montagna anche Steve House, uno dei più forti alpinisti al mondo, vincitore di un Piolet d’Or grazie alla salita della parete Rupal sul Nanga Parbat. Dall’America Steve arrivò in Slovenia per un programma di scambio con la sua università e poco dopo comincio a frequentare il Club Alpino Sloveno, iniziando così a maneggiare picche e ramponi. Da allora torna a scalare periodicamente sulle Giulie, come l’anno scorso quando Mose e Dade lo incontrarono alla base di una cascata di ghiaccio. Manco a dirlo, in quel periodo Dade stava leggendo proprio la sua biografia!

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TAKE A WALK ON THE WILD SIDE

Visitare il versante sloveno di Sella Nevea è un’esperienza che trascende dai vincoli del tempo e dello spazio. Noi ci arriviamo sciando il Krnica, un classico fuoripista che in mille metri di dislivello attraversa un ampio vallone e un bosco di faggi. La stazione intermedia della funivia che sale da Bovec sembra essere uscita da Blade Runner. Fuori dal piazzale è parcheggiata una berlina che ci chiediamo come abbia fatto ad arrivare fin lì. Poco più in là, in bella mostra, container e rottami arrugginiti ci accolgono mentre saliamo le scale che ci portano all’interno della stazione, il cui pavimento è ancora di legno. L’ovetto nel quale entriamo è poco più grande di un box doccia e sotto di noi vediamo scorrere il versante assolato, crivellato di cavità carsiche a poche decine di metri dalle piste. Mose mi spiega che è un po’ come sciare in ghiacciaio: alcune grotte sono enormi e ben visibili, ma altre, più piccole, possono essere coperte dalla neve e già più di una volta degli sciatori sono stati recuperati dopo esserci caduti dentro. Verso la fine passiamo a fianco del pendio dove fino a poco tempo fa veniva disputata una gara di freeride. Pendio per modo di dire, sarebbe più corretto definirla una specie di Rupe Tarpea, la scarpata dalla quale venivano gettati i bambini spartani: un centinaio di metri di dislivello di cui una buona parte è composta da barre rocciose. Praticamente il vincitore era colui chi arrivava al fondo sulle proprie gambe, o almeno con il minor numero di fratture. Nel fondovalle luccica l’acqua azzurra dell’Isonzo, la stessa che un secolo fa era tinta dal rosso del sangue dei ragazzi mandati a difendere il fronte dalle truppe austroungariche. La Prima Guerra Mondiale qui c’è stata per davvero: basti pensare che uno degli elementi decisivi della disfatta di Caporetto fu un tunnel poco sotto di Sella Nevea che gli austriaci utilizzarono per spostare armi e uomini senza farsi vedere dagli italiani appostati al colle. Più lontano, invece, a brillare è il Golfo di Trieste, anche lui testimone di storie di confine e di guerra. Penso per un attimo a quanto sia cambiato questo angolo di Alpi, dove una volta ci si sparava letteralmente addosso, e ora si passa da un Paese all’altro camminando con i ramponi su di una cresta.

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I RIGATONI AL SALTO DI ROBERTO

L’ultima sera andiamo a cena all’Alte Hütte a Campo Rosso. Con noi c’è la famiglia Cecon: Sandro, Daniela e il figlio Zeno. Zeno è stato un compagno di spedizione di Mose in Pakistan e normalmente fa il maestro a Tarvisio, dove ha fondato la scuola di sci Evolution3Lands nella quale insegna anche Beatrice. Qualche anno fa si è fermato a un soffio dall’élite mondiale del freeride arrivando sesto al circuito del Freeride World Qualifier. Suo padre Sandro è, in poche parole, un pioniere dello scialpinismo qui nelle Giulie, con più di quarant’anni di esperienza: basti pensare che i primi rilievi li ha fatti nel 1975. Poco dopo al tavolo ci raggiunge Roberto Del Negro, proprietario e cuoco del ristorante, che ci fa ordinare i suoi rigatoni al salto. Intorno a questa ricetta scorre buona parte della storia alpinistica della valle. Prima dell’Alte Hütte, infatti, Roberto gestiva una taverna che era di fatto un punto di riferimento fisso per i giovani scapestrati come Sandro che si divertivano ad andare su e giù dai monti con mezzi e tecniche a dir poco rudimentali, come degli sci lunghi mezzo metro importati dall’Austria con i quali cercavano di scendere nei canali sopravvivendo in qualche modo fino al fondo. Lo stesso Roberto era uno dei capisaldi della piccola ma agguerrita tribù, essendo presidente del CAI locale. I rigatoni al salto, con panna e ragù, sono la ricetta che si era inventato allora da cucinare alla sera, quando i novelli alpinisti rientravano alla base affamati come lupi, e più di una volta erano obbligati a dargli una mano ai fornelli data l’affluenza. I rigatoni di Sandro si raffreddano mentre lui non smette di parlare di quei tempi pionieristici: nei suoi racconti scorrono aneddoti sui mitici attacchi Zermatt, compagni di gita che lavoravano in segreto per lo spionaggio sovietico, sciatori sloveni che, anziché usare le pelli di foca, salivano a piedi con gli Elan RC da 2,10 sullo zaino. Alcuni dettagli mi fanno capire quanto all’epoca andare in montagna fosse un connubio perfetto tra spirito pratico e attrezzatura approssimativa; ad esempio, per aumentare la tenuta degli sci da fondo, che loro utilizzavano per gite scialpinistche, si usava riempire la soletta di puntine da disegno, una sorta di squama di pesce ante litteram degli attuali sci. Le pareti dell’Alte Hütte sono di per sè un pezzo di storia: nelle fotografie sono ritratti volti noti come Messner, Casarotto e Kukuckza, in mezzo a una miriade di altri ragazzi barbuti con occhiali da ghiacciaio, camicie a quadretti e volti sorridenti dopo l’ennesima giornata di esplorazione in montagna. Ripenso ai ragazzi con i quali ho sciato in questi giorni, negli stessi luoghi, perdendoci nel fare cose nuove esattamente come quarant’anni fa. Sorrido da solo, mentre davanti a me due generazioni di sciatori si raccontano storie di neve e di tracce che finiscono chissà dove. Lunga vita allo sci selvaggio.

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87 anni di Mezzalama

Come ci si vestiva e che attrezzatura si usava in passato per partecipare alla regina delle gare di scialpinismo, il Mezzalama? Ecco la risposta alla vostra curiosità.

1933

Per trovare l’attrezzatura degli anni Trenta ci siamo rivolti ad Amedeo Macagno: giornalista, esperto, ma soprattutto collezionista di sci. Di tutte le epoche, di ogni disciplina. Ne ha migliaia. E dal 1992 organizza anche una gara di sci d’epoca (che ha pure brevet- tato nel 1998) sulle piste della Via Lattea, in Piemonte, nelle ultime edizioni sulle nevi di Sauze d’Oulx.

SCI / Sono di legno finlandese, tra i più am- biti. Negli anni Trenta si sceglievamo misure più corte per lo scialpinismo rispetto alla di- scesa, tra 180 e 200 centimetri, con un peso, lamine e attacco di alluminio compreso, in- torno ai 3,5 chili.

ATTACCHI / Dopo le chiusure in cuoio, una ri- voluzione arrivò proprio nel 1933 con l’attac- co Kandahar, inventato da Guido Reuge. Un paio di dettagli: sotto il piede c’è una fessura per fissare in modo più serrato lo scarpone con un laccetto, lo stesso schema anche nel- la parte posteriore per bloccare lo scarpone in modo da non sciare a telemark in discesa.

PELLI / Erano davvero di foca. Anche se non tutti erano d’accordo sull’utilizzo, ma non perché fossero di foca, ma perché riteneva- no che ogni sciatore di livello dovesse salire senza ausili sotto gli sci! Tra questi puristi anche lo stesso Ottorino Mezzalama.

© Federico Ravassard

1971

Con i fratelli Aldo e Roberto, Gianfranco Stella ha vinto il primo Mezzalama del dopoguerra, nel 1971. Da Asiago si sono trasferiti in Valle d’Aosta, al Centro Sportivo Esercito, arruolati come fondisti. E tutti erano anche in Nazionale. Lo scialpinismo era lo sport di fine stagione dopo le classiche della Scandinavia. Gianfranco e Aldo con Palmiro Serafini hanno vinto il Mezzalama anche nell’edizione del 1973.

SCI / Lo sci era quello da fondo: per lo scialpinismo veniva portato alla Tua di Biella per essere laminato. Per una maggiore sicurezza in discesa su fondo ghiacciato, ma soprattut- to per strutturare di più lo sci viste le tante rotture.

SCARPONI / Come quelli da fondo, ma con una sporgenza nel tallone per poter agganciare i ramponi. Una curiosità: sopra la scarpa, per evitare il freddo, veniva aggiunta una calza di lana appositamente tagliata. Uno stratagemma rubato ai fondisti scandinavi.

PICCOZZE / Nella foto ne vedete due. Nella prima edizione è stata usata quella più lunga poi, visto che non c’era una regola precisa sull’utilizzo, in quelle successive se ne sceglieva una più corta, alla fine anche di pochi centimetri, ancora più piccola della seconda che vedete nella foto.

© Stefano Jeantet

1997

A Bormio per tutti Enrico Pedrini è il Chicco. Arriva dal fondo, dove ha vestito i colori della Nazionale ben otto anni. Con Fabio Meraldi e Omar Oprandi ha vinto il Trofeo Mezzalama nel 1997. E in coppia con Meraldi si è aggiudi- cato anche quattro edizioni della Pierra Menta, dal 1995 al 2000. Guida alpina, si occupa anche della sicurezza della pista Stelvio in occasione delle gare di Coppa del Mondo di sci alpino a Bormio.

SCI / Il modello è della Ski Trab: lunghezza 180 cm, peso di circa 1,3 chili, 61 sotto il piede. I primi scarponi erano i Dynafit TLT, adattati con un velcro al posto del gancetto del gambetto. Poi sono arrivati i primi Gignoux in carbonio.

ARTVA / L’apparecchio di ricerca in valanga è diventato obbligatorio proprio nel 1997, ma in quella edizione era stato dato alle squadre anche un telefono portatile, visto che la Omnitel era tra gli sponsor e il telefonino era anche tra i premi per i vincitori...

TUTA / Le tute dedicate solo allo scialpinismo sarebbero arrivate dall’intuizione di Valeria Colturi. Si utilizzavano anche quelle da fondo della Nazionale, in lycra, passate in sartoria per inserire una cerniera centrale e due tasche per poter sistemare le pelli.

© Marco Andreola

2017

Di Mezzalama Matteo Eydallin ne ha vinti quattro, il primo nel 2009, gli altri tre consecutivi nel 2013, 2015 e 2017. Classe 1985, di Sauze d’Oulx, portacolori dell’Esercito, nel palmarès anche le altre classiche della Grande Course: Pierra Menta, Patrouille des Glaciers, Tour du Rutor e Adamello Ski Raid. Ha vinto anche quattro ori ai Mondiali e la Coppa del mondo nell’individual.

RAMPONI / Il nuovo modello Skimo Race del- la Camp ha un sistema di allacciatura privo del classico archetto frontale, sostituito da un fermo che una volta regolato per i pro- pri scarponi rende ancora più veloci i cambi d’assetto.

SCI / Il nuovo Dynastar Pierra Menta F-Team pesa 640 grammi nella misura da 160 cm. Anima ultra-leggera in Dynacell (materia- le derivante dall’industria aerospaziale), tre volte più leggera del legno di Paulownia. Tec- nologia Carbon Ply con fibre di carbonio appiattite e intrecciate per un maggiore ritorno elastico.

OCCHIALI E MASCHERA / Sono firmati dallo stesso Eyda nel nuovo progetto Steppen: occhiale (giallo trasparente con lente specchiata) e maschera (rosa e gialla) nel suo stile, per non passare inosservati. Info: sportiscrew.com

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© Federico Ravassard

 


Kilian alla sfida delle 24 ore

I rumour si susseguono da settimane, dunque ora c’è la conferma ufficiale: Kilian Jornet, dopo avere corso in 29’59’’ una 10 km su strada, è pronto per una nuova avventura, lontano da quelle per le quali è conosciuto. Il 21 o 22 novembre (queste le prime date ipotizzate, ma tutto dipenderà dalle condizioni meteo) scenderà sulla pista di atletica di Måndalen, in Norvegia per correre per 24 ore consecutive. La pista misura 400 metri e Kilian ogni quattro ore invertirà il senso di corsa. Il precedente record è stato stabilito nel 1997 da Yiannis Kouros, che ha percorso 303,506 chilometri in 24 ore. La Norvegia, dove vive Jornet, è relativamente immune dalla pandemia COVID-19. Tuttavia, per rispettare le precauzioni sanitarie, lo stadio sarà chiuso agli spettatori durante l’evento. Ci si aspetta che le temperature scendano fino a zero gradi Celsius di notte e oscillino tra 8-15 gradi durante il giorno.

«La motivazione è quella di uscire dalla mia zona di comfort, provare sfide diverse e vedere cosa sono in grado di fare, sia che si tratti di arrampicare in alta quota o, in questo caso, di correre su terreno pianeggiante» ha raccontato Kilian. «È divertente scoprire le esperienze diverse che posso realizzare, e allenarmi in piano è un buon test e un'opportunità per imparare in termini di nutrizione e ritmo, e poi provare ad applicare questi risultati a diverse attività, come ai progetti di alpinismo».

Ai piedi di Kilian la nuova Salomon S/LAB Phantasm, una scarpa da corsa su strada ultraleggera che sarà lanciata nella primavera 2021. Con design dinamico (drop di 6 mm) sviluppato con i migliori atleti, la S/LAB Phantasm, si concentra su peso, traspirabilità e una transizione rapida che si ottiene con un profilo rocker curvo e, poi, grazie alla schiuma più leggera e reattiva di Salomon, chiamata Energy Surge. Una tomaia quasi invisibile in TPU Mesh conferisce alla scarpa un design leggero e traspirante. Pesa solo 199 grammi.

«Sono così tanti chilometri che non riesco nemmeno a visualizzarli» afferma Kilian. «Ho visto gli splits di Yiannis quindi voglio stare al passo il più a lungo possibile. Conosco la velocità che devo mantenere ogni ora, quindi conosco il ritmo per ogni chilometro e ogni giro. Naturalmente, le prime 10 ore saranno un po' più veloci e poi rallenteranno ora dopo ora, quindi ho un piano preciso e so quanto dovrò correre ogni ora. La cosa importante è non avere problemi muscolari ed essere in grado di mangiare senza avere grandi momenti critici». Kilian ha lavorato molto di più sulla velocità. «Ho lavorato principalmente sulla velocità perché le mie gambe non sono abituate a muoversi così speditamente. Per prepararmi, ho svolto tre giorni di allenamento sulla velocità ogni settimana in pista o su strada. Ma la forma con cui corri in pianura è molto diversa da come corri in montagna, dove sei più in alto, passi sopra gli ostacoli e metti i piedi in posti diversi a seconda del variare del terreno». Gran parte della ricerca durante l'allenamento si è concentrata sulla riduzione al minimo degli infortuni che potrebbero derivare dal movimento ripetitivo della corsa su terreno piatto. Infatti Kilian è stato costretto a ritardare il progetto nelle ultime settimane a causa di alcuni fastidiosi infortuni muscolari che si sono verificati prima della sua prima gara su strada di 10 km, la famosa gara di Hytteplanmila in Norvegia. «Penso che la sfida più grande sia essere in grado di allenarsi in modo coerente e non avere infortuni perché il passaggio al terreno piatto è molto difficile per i muscoli. L'allenamento è stato un po' frustrante negli ultimi mesi, passando da un infortunio all'altro. Mi sono allenato bene e poi mi sono infortunato e avrei dovuto riposare. Dopo la gara di 10 km ho dovuto interrompere l'allenamento e recuperare. Ora il piano è quello di fare una buona settimana di allenamento e vedere come si sente il mio corpo, quindi fare riposare i tessuti muscolari e recuperare per il progetto».

© Vegard Breie

Soul Silk

SONDALO, OTTOBRE 2018 — IL TELEFONO SQUILLA

È il mio amico Yanez. Dopo i soliti convenevoli di chi non si sente da qualche tempo, mi dice: «Avrei un’idea un po’ strana, vorrei fare un viaggio diverso dal solito e mi ispira l’Oriente, magari la Via della Seta». Abbraccio di slancio l’idea e conveniamo che la bici sarebbe il mezzo ideale. Pervaso da una sorta di delirio di onnipotenza rilancio dicendo che sarebbe un peccato non abbinare qualche montagna e il progetto inizia a prendere forma.

VALTELLINA, INIZIO APRILE 2019 — TUTTO PRONTO, ANZI NO

Mancano meno di due settimane alla partenza e mancano soprattutto molte delle cose essenziali. La nostra e-Bike e il carretto artigianale sono ancora in fase di ultimazione a Torino e a Trento, non ci sono i visti per la Cina, dobbiamo fare gli ultimi vaccini, pensare a come raccontare la nostra avventura. Ci sono ancora tanti dubbi e poche certezze. In casa una catasta di oggetti da portare, in disordine quanto i nostri pensieri. Nel mezzo c’è anche il lavoro, da portare a termine prima possibile in vista della lunga assenza. Il conto alla rovescia spaventa, ma suona liberatorio dallo stress di dover pensare a troppi aspetti, troppo complessi per poter essere risolti.

© Giacomo Meneghello

LIVIGNO, 18 APRILE — SI PARTE

La salita notturna con le pelli al Piz dal Canton con l’amico Max per vedere l’alba e la discesa in parapendio dal Carosello 3000 assomigliano, per me, a un film già visto. La differenza è che oggi, fatta colazione, non si torna a casa. Presa la bici rimasta a dormire al Montivas, inizio a realizzare che oggi è il grande giorno. Sale l’emozione, saluto gli amici a Livigno, riempio le borse con le ultime cose e comincio a pensare: lo sto facendo davvero.

FALCADE, 20 APRILE — MARMOLADA

È stata una giornata grandiosa. Sole, amici, una nuova vetta raggiunta con gli sci, la prima ufficiale del nostro viaggio con la bandiera dell'ADMO (Associazione Donatori di Midollo Osseo), di cui siamo testimonial. Il tutto dopo essermi incontrato ieri con Yanez a Mezzolombardo e aver raggiunto a Moena gli amici della Scufoneda per una serata di festa. Il progetto prende forma, siamo entrambi un po’ smarriti nel trovarci catapultati in questa nuova realtà senza aver mai provato né i mezzi né avere fatto esperienza di tutti gli altri aspetti organizzativi di un viaggio così complesso. Ma l’insieme rende tutto molto elettrizzante.

LOGATEC, 23 APRILE — ARRIVEDERCI ITALIA

Siamo in Slovenia, ora non giochiamo più in casa. La pioggia è battente, le strade insidiose, i freni non vanno e affrontiamo le discese come funamboli incoscienti. Maciniamo chilometri ogni giorno, dall’alba al tramonto, sono giornate interminabili. Le soste diurne sono funzionali solo a ricaricare le batterie, visto che i pannelli solari non riescono ad aiutarci con queste condizioni. E le sere le passo a lavorare al pc e a preparare i report per sponsor, giornalisti e account social fino a notte. Ci fa male un po’ dappertutto, schiena, piedi, sedere, ginocchia, ma la motivazione è alta e siamo abituati a sopportare. Puntiamo verso l’ex Jugoslavia, ma ben lontani dalle ridenti coste turistiche e pure dalle belle montagne, per le quali dovremo attendere le terre balcaniche.

BIVACCO DEL MUSSALA, 2 MAGGIO — PROFUMO DI VETTA

Stasera bivacchiamo nel locale invernale del rifugio ai piedi del Monte Mussala (2.925 metri), il più alto della Bulgaria, nel massiccio del Rila. Ci abbiamo messo un’ora per poter utilizzare questo rustico locale a causa del ghiaccio e della neve che lo hanno invaso e di certo non è il posto più accogliente dove abbia dormito. Tuttavia l’idea di non doverci preoccupare di cercare un albergo, fare il check-in, cercare una sistemazione per il carretto e svuotarlo per poi ricaricarlo il mattino seguente mi fa sentire rilassato. È bello avere solo uno zaino. Il meteo anche oggi non è dei migliori, ma la salita fino a qui è stata relativamente semplice. Un po’ di portage iniziale e poi pendii abbastanza dolci. Domani saliremo in vetta per l’alba. Manca qualche centinaio di metri alla cima, alcuni da fare con gli sci ai piedi, altri senza, visto che si tratta di una cresta attrezzata, ma siamo ottimisti che sarà una gran giornata.

UCHISAR, 12 MAGGIO — I CAMPANILI DELLE FATE

È tornato il sole, fa caldo. Dopo un mese di pioggia continua sembra di essere in vacanza. Anche il panorama e l’ambiente ci riempiono gli occhi dopo tanti chilometri a pedalare su stradoni persi nel nulla e accompagnati solo dal rumore dei camion e del muezzin che cinque volte al giorno diffonde le litanie musulmane dai minareti delle innumerevoli moschee. Yanez, che odiava la pioggia, sembra rinato e in Turchia iniziamo a sentirci un po’ a casa. I chilometri giornalieri non sono calati, ma i nostri dolori sì. Tra noi e la bici stiamo iniziando finalmente ad avere la meglio noi. Oltre le caratteristiche formazioni di tufo e i campanili delle fate, all’orizzonte, svetta imponente l’Erciyes che con i suoi 3.916 metri è la vetta più alta dell’Anatolia. L’idea che quella sarà la nostra prossima metà e che ci andremo in bici fa salire un’emozione difficile da poter descrivere.

KAYSERI, 14 MAGGIO — IL GIGANTE DELL’ANATOLIA

Tornare a mettere gli sci è stato fantastico. Abbiamo lasciato i carretti a Kayseri e, sci in spalla, siamo saliti di primo mattino in bici fino al passo, a circa 2.000 metri, dove, seguendo le ultime lingue di neve, abbiamo iniziato a risalire le piste del comprensorio sciistico. Dopo alcune centinaia di metri di dislivello, abbandonate le piste, per alcuni avvallamenti e su dolce pendenza ci siamo via via portati ai piedi del pendio finale, maestoso e illibato. Il sole, complice l’esposizione a Est, stava già scaldando la neve, le condizioni erano ottimali e abbiamo iniziato a risalire il canale di accesso ai pendii soprastanti con numerosi dietrofront. La pendenza cresce in progressione dai 30° fino ai 40° finali per arrivare alla cresta sommitale che conduce brevemente alla vetta sciistica. Salire questo imponente vulcano con lo sguardo che pian piano spaziava a perdita d’occhio su tutta l’Anatolia fino a lambire le coste del Mar Nero a Nord e del Mediterraneo a Sud è stata una sensazione che non potrò dimenticare, qualcosa di nuovo. Poi la discesa, su firn perfetto, con le nostre tracce a disegnare solitarie il ripido pendio sommitale. Arte del divertimento. Da lì in poi è stata una lenta perdita di quota, godendosi la giornata di sole e la brezza dell’aria sul viso.

© Giacomo Meneghello
© Giacomo Meneghello

KHULO, 21 MAGGIO — FANGO

Sì, siamo a Khulo, piccolo e povero abitato rurale sperduto tra le montagne della Georgia. Il meteo è tornato tiranno e le strade, qui in gran parte sterrate, sono lingue di fango. Non ho mai amato il fango e doverlo affrontare con una bici a quattro ruote è una prova di pazienza prima ancora che di abilità o forza. L’unico conforto è il fatto di sapere che dopo tre settimane di Ramadan qui il vino c’è, ma rimane una magra consolazione. Purtroppo non abbiamo tempo per aspettare che il meteo e le strade migliorino, non possiamo fare soste e ci rendiamo conto che riuscire a stare al passo con la tabella di marcia è davvero impegnativo.

CAMPI DI SABIRKEND, 27 MAGGIO — L’UOMO DEL GELSO

Oggi è stata una giornata diversa. Siamo entrati in Azerbaigian senza sapere cosa ci aspettava. Lasciavamo uno stato post sovietico, la Georgia, e tornavamo in uno stato musulmano. Questo era tutto ciò che sapevamo. Si tratta di un Paese arido, rurale, con piccoli e rari villaggi così distanti tra loro che questa sera non siamo riusciti ad arrivare da nessuna parte per dormire. Ci siamo così fermati vicino alla strada, sotto ad alcuni alberi di gelso, nei campi. Con i nostri carretti non possiamo allontarci dalle strade e siamo costretti a cercare giacigli di fortuna per la notte, sperando che non vengano a cacciarci, come è già successo. Giusto il tempo di iniziare ad accamparci ed ecco che vediamo una macchina farsi largo tra i radi albusti. Scende un uomo con due bambini e inevitabilmente si dirige verso di noi. Iniziamo a far finta di voler togliere il disturbo chiedendo scusa, ma con autorevolezza, alzando le mani, ci ferma. Non parla la nostra lingua, non parla inglese, ma ci ha visto e ha capito tutto. Ci indica i campi, il frutteto e ci fa capire che è tutto suo. E tra la nostra incredulità ci fa segno di sedere, di rimanere. Si allontana un attimo per poi tornare con delle more di gelso tra le mani, per noi, in segno di ospitalità, con un sorriso che non potrò dimenticare. Non avrei mai immaginato di trovare una popolazione così calorosa e ospitale. Abbiamo visto gente che ci salutava dalle case, dai tetti, dai campi, dalle auto. Pronti a offrirci il thè, o meglio il cay, per poi circondarci, incuriosita e sorridente.

MAR CASPIO, 1 GIUGNO — LA NAVE FANTASMA

Tutti i forum online che avevamo letto su questo traghetto, che non è null’altro che una nave cargo, nonché l’unica via per attraversare il Mar Caspio, ne parlavano come di una sorta di nave fantasma. E ora abbiamo capito il perché. Quando ieri mattina ci siamo recati al porto ci hanno detto di ripassare dopo pranzo, per farci poi riferire che potevamo acquistare i biglietti e che forse la nave ci sarebbe stata la sera seguente o il giorno successivo. Sembrerebbe anche semplice a raccontarlo, se non fosse che quasi nessuno parla l’inglese ed estorcere ogni informazione equivaleva a una trattativa. Decidiamo di optare per una doppia, visto il costo esiguo, e attendiamo il mattino seguente per chiamare il porto e avere qualche certezza in più. Dopo vari tentativi, a mattino inoltrato pensiamo di aver capito di doverci presentare alle nove. Qui il condizionale è d’obbligo viste le profonde difficoltà a comunicare. Morale della favola, dopo ore passate seduti per terra, l’imbarco è avvenuto alle due di notte, per salpare quasi alle sei. In camera 32 gradi, umidità non calcolabile e nessuna finestra. La prima notte sono svenuto per qualche ora prima di fuggire, mentre Yanez vagava per la nave. La seconda notte l’ho passata direttamente all’aperto, sul ponte. Sui social postavo foto dalla barca, il tramonto, praticamente una crociera. La realtà invece parla di una giornata passata a tentare di lavorare al pc in una sala con più di 30 gradi, film anni ‘70 in lingua russa in tv, attorniato da camionisti uzbeki e kazaki. E pensare che avevo passato metà viaggio in attesa della prima giornata di riposo.

DESERTO UZBEKO, 9 GIUGNO — C’ERA UNA VOLTA L’ASFALTO

Se il deserto kazako inizialmente era parso inospitale, era comunque un luogo con il quale abbiamo imparato a convivere. Il deserto uzbeko no. In Kazakistan la temperatura superava i 40 gradi all’ombra, ma era un caldo secco. Qui la sera la temperatura rimane ben oltre i 30 gradi e l’umidità sale alle stelle, togliendoci l’unico momento di conforto. In più le zanzare, sì, pure loro, a rendere la notte insofferente. Di giorno, oltre al caldo afoso, le mosche che ci attorniamo e la perenne disidratazione che il bere acqua e bevande quando ci sono 40 gradi non attenua minimamente. Infine l’asfalto. Che non c’è più. Le perfette strade kazake sono un lontano ricordo. Viaggiamo a 15 chilometri all’ora se va bene, cercando vanamente di schivare le buche sebbene con quattro ruote risulti impossibile. Nuvole di polvere e auto che sorpassano senza alcuna regola. Qui non esiste il codice della strada, forse perché nemmeno esiste la strada.

KAZAKISTAN, 4 GIUGNO — INCONTRI RAVVICINATI CON IL DESERTO

Siamo nel deserto da tre giorni. Il primo abbiamo percorso circa 80 chilometri per arrivare alla città di Aktau e devo ammettere che è stato anche figo. Lingue di asfalto perfette a perdersi dritte fino all’orizzonte. Il silenzio, l’idea del nulla, qualche cammello. Poi il caldo che pian piano è salito ma, complice la compagnia di due ciclisti canadesi e un australiano incontrati in traghetto, è stato sopportabile. Il secondo giorno abbiamo familiarizzato con le aree d’ombra (un gazebo di cemento) ogni 40 chilometri, con il doversi organizzare per le scorte idriche e con la notte nella steppa. Oggi, il terzo, iniziamo a capire perché gli altri ciclisti abbiano preso il treno. Quando nel deserto tira vento, il vento tira contrario. Sempre. Visto che oggi abbiamo percorso poco più di 100 chilometri nel nulla, nessun punto di ristoro, nemmeno una parvenza di curva. Alienante.

© Giacomo Meneghello

OLMALIQ, 21 GIUGNO — IL RAGAZZO CHE CORREVA NEI CAMPI

A un certo punto ho visto un ragazzino che correva nei campi poco davanti a noi. Sembrava una gazzella. Mi sono subito chiesto perché corresse visto che in quei posti il tempo sembra essersi fermato e la fretta è un termine usato solo da noi rari occidentali. Poi, a un certo punto, ci siamo scambiati uno sguardo da lontano e ho capito. Ho capito che stava correndo per arrivare alla strada in tempo per salutarmi. Ho rallentato, mi sono fermato, gli ho dato la mano, come qui si suole fare. Ci siamo guardati negli occhi e poi… e poi non ci siamo detti nulla. Forse perché non avevamo nulla da dirci. O forse perché in fondo ci eravamo già detti tutto.

UZBEKISTAN, 18 GIUGNO — NON È POI COSÌ LONTANA SAMARCANDA

Mi ricordo da piccolo quando ascoltavo questa frase della celebre canzone di Vecchioni e sinceramente, oggi, mi verrebbe voglia di chiamarlo e farci due chiacchiere al riguardo. Tuttavia la soddisfazione di essere finalmente arrivati in questa storica e importante città della Via della Seta fa passare ogni cosa in secondo piano. Anche oggi, come ogni volta che siamo in città, mi sono svegliato alle cinque per uscire a fotografare l’ora blu e l’alba. Sebbene la stanchezza e il bisogno di riposare non manchi, la motivazione è stata più forte. Una città magica, intrisa di storia e ancora scevra dal turismo di massa. Una città vera e popolata da persone che ogni giorno scopriamo più ospitali e di cuore. E sono contento per Yanez che può festeggiare meritatamente il suo compleanno qui a Samarcanda! Ora ci crediamo, la via è ancora lunga, ma il grosso del deserto è passato e forse sta per cominciare la parte più bella del viaggio.

CAMPO BASE DEL PIK LENIN, 30 GIUGNO — YURTE

Queste strane tende sono gli unici elementi che spezzano l’ampiezza dei verdi prati del Kirghizistan. Sinuose lingue di asfalto risalgono ardite i passi montuosi fino a sfiorare i 4.000 metri, collegando i radi villaggi. Bambini, cavalli e pace fino a perdita d’occhio, d’udito e di pensiero. I giorni scorsi abbiamo coperto la parte conclusiva della Pamir Highway, una delle strade più alte e affascinanti del mondo, fino al villaggio di Sary Tash. Un paese indietro nel tempo, come molte delle zone incontrate in questo ultimo mese di viaggio. Qui si usa ancora l’abbaco, i bambini giocano scalzi lungo le strade e ti sorridono. E le persone lasciano che siano il tempo e la natura a scandire la loro giornata nonché la loro vita. All’orizzonte la bianca muraglia, la catena del Pamir, con le vette che superano i 6.000 metri e determinano il clima di questa regione. Tra esse il Pik Lenin che, con i suoi 7.134 metri, è la nostra prossima meta. Oggi siamo arrivati al campo base a circa 3.600 metri e non è stato facile. La strada sterrata, che poi è diventata un sentiero di montagna e infine la pioggia, che da un po’ avevamo dimenticato, ci hanno reso molto impegnativa la giornata. Ma siamo qui, tra tende e yurte, pronti finalmente a rimettere gli sci in attesa che domani arrivino i nostri due amici dall’Italia.

© Giacomo Meneghello

CAMPO 1 DEL PIK LENIN, 12 LUGLIO — ARIA SOTTILE

Sono stati 12 giorni intensi, passati tra il campo base, il campo uno e quelli alti autogestiti. Un’esperienza sicuramente diversa dal solito e che appare ancora più strana se pensiamo al fatto che sia stata vissuta nel bel mezzo di un viaggio in bici. Dai 40 gradi del deserto ai -20 o più dell’ultimo campo. Dal livello del mare a oltre 6.000 metri in due settimane. Avevamo voglia di rompere la routine ciclistica, sebbene qui in Kirghizistan le ore pedalate scorressero leggere come non mai. I dieci chilometri a piedi per giungere ai 4.350 metri del campo uno lungo un sentiero di montagna, affiancati dai portatori a cavallo, incredibili equilibristi, ci hanno proiettato in una nuova dimensione. Al campo uno abbiamo passato molti giorni nella nostra tenda e nella yurta della piccola agenzia alla quale ci eravamo affiancati dove Nabi, le cuoche e gli altri ci hanno fatto sentire parte di un’unica famiglia. Abbiamo raggiunto il campo due per attrezzarlo in autonomia, siamo saliti un paio di volte sullo Yuhina Peak, una vetta di 5.100 metri sopra il campo uno, sia per il piacere di farlo che per acclimatamento. E abbiamo via via osservato e capito come funzionasse la vita in spedizione. Peccato che ci mancasse la cosa più importante, ossia il tempo. Il tempo di aspettare che le condizioni fossero quelle ottimali. Quest’anno la copertura nevosa è molto buona, complice il fatto di essere arrivati il giorno stesso dell’apertura del campo base. Tuttavia siamo praticamente gli unici con gli sci, vista la scarsa sciabilità della lunga cresta per la vetta e le difficoltà oggettive e logistiche di scendere dalla parete Nord. Ci abbiamo comunque provato dal campo tre a raggiungere la vetta, forzando la situazione, ma freddo e vento forte ci hanno portati a dover desistere nonostante la cima fosse lontana all’orizzonte ma a sole alcune centinaia di metri di dislivello. Decisione sofferta, ma credo saggia. Non si trattava di tener duro, ma di rischiare salute e congelamento ai piedi. Rimane rammarico, ma anche consapevolezza. Il Lenin viene venduto come uno dei 7.000 più facili, non presentando tratti alpinistici particolarmente difficili, ma l’esposizione al vento della lunga cresta sommitale, insieme alla sottovalutazione, ne fa una delle montagne con più morti ogni anno.

KASHGAR, 20 LUGLIO — SE QUESTO È IL FUTURO, NE HO PAURA

Eravamo preparati all’idea dei severi controlli cinesi e all’idea che qui la musica sarebbe cambiata, tanto che avevamo saggiamente deciso, dopo il Pik Lenin, di lasciare ai nostri amici italiani tutto il materiale alpinistico e non necessario, regalare il carretto e procedere solo con le borse. Tuttavia mai avremmo pensato di trovare una situazione così surreale. Punti di controllo, check-point a ogni entrata e uscita del Paese. Check-point a ogni ingresso stradale. Telecamere a ogni incrocio, pure sulle ciclabili, poliziotti antisommossa armati a presidiare paesi e città, sottopassi, piazze e ogni luogo di assembramento. Veniamo trattati come se fossimo dei ricercati, fermati e schedati a ogni spostamento con l’obbligo di dimostrare provenienza e destinazione tramite prenotazioni o altri documenti. Vorrebbero che avessimo una guida turistica per controllarci, forse anche nei pensieri. Per strada siamo perennemente fermi per ore per questi motivi. Purtroppo la regione dello Xinjiang, soprattutto nell’ultimo decennio, è stata teatro di forti repressioni a causa della richiesta di maggiore autonomia. Anche la comunicazione è molto difficile, nessuno parla inglese e, a differenza delle altre popolazioni, qui comunicare a gesti o per intuizione pare impossibile. Siamo ormai diventati maestri di Google Translate, ma è difficile lo stesso perché basta una parola non compresa e il dialogo salta. Nei poveri Paesi orientali ho avuto spesso la sensazione di viaggiare nel passato, ma se questo è il futuro, ne ho paura. La tecnologia ha preso il posto della capacità di comprensione, riflessione, comunicazione. Automatizzazione di pensieri e comportamenti. Per il resto qui è pieno di motorini elettrici e di mercati trattandosi di una delle città storiche della Via della Seta. Anche la cucina, se si evitano certi piatti inquietanti, non è per nulla male. I giorni scorsi abbiamo percorso un tratto della Karakorum Highway, la strada asfaltata più alta al mondo, tra possenti montagne di terra rossa, valli immense e ghiacciai. Quante terre inesplorate, ho pensato. Un peccato che questi ambienti vengano preclusi, non salvaguardati, da questo regime.

© Giacomo Meneghello

OSH, 25 LUGLIO — UN VIAGGIO NON È UNA GARA

Quando siamo partiti non sapevamo bene da dove saremmo rientrati, ma pensavo da qualche città cinese, se tutto fosse andato bene. Invece siamo di nuovo qui a Osh, in Kirghizistan, in attesa del volo di rientro. Ci abbiamo provato a proseguire il viaggio nel cuore della Cina, ma non ci è stato permesso o meglio, non alle condizioni che per noi erano fondamentali, quelle che hanno ispirato, mosso e caratterizzato l’intero viaggio. In primis la libertà. Non è stata una scelta facile, ma un viaggio non è una gara, con una meta da raggiungere a ogni costo, è un’avventura che dev’essere vissuta secondo il fluire degli eventi e seguendo i propri ideali di viaggio. Proseguire verso oriente in quel clima che non ci stimolava, oltre a crearci numerose difficoltà, non aveva senso. Abbiamo quindi deciso di rientrare verso il Kirghizistan da un altro passo montuoso per compiere un interessante giro ad anello, ma anche questo ci è stato impedito dalle assurde restrizioni e regole cinesi, costringendoci quindi al rientro in Kirghizistan dalla via di andata. Varcato il confine una sensazione di libertà ha ripreso a pervaderci, abbiamo di nuovo pedalato accarezzati dal vento, gustandoci l’ultimo tramonto, l’ultimo soffio di avventura. Della quale spero ricorderemo per sempre ogni momento, ogni difficoltà, ogni sorriso, ogni cultura non solo vista, ma vissuta.

NUMERI

100 giorni di viaggio totali

9.700 chilometri percorsi in bici

90.000 metri di dislivello positivo 12 Stati attraversati 17,4 chilometri la velocità media in bici 557 le ore pedalate

2.000.000 le pedalate stimate 21 le forature di gomme totali 24 le gomme cambiate tra carretti e biciclette 3 il numero dei raggi rotti

2.735 il massimo dislivello fatto in un giorno tra bici e sci 218 i chilometri della tappa più lunga centinaia le persone e i sorrisi incrociati infinite le emozioni vissute

TOGLIETEMI TUTTO MA NON IL MIO CARRETTO

Il nostro carretto durante il viaggio era un po’ come la borsa di Mary Poppins. E non ne abbiamo mai saputo il peso effettivo, stimato forse in 80 chili totali. Un ritrovato di tecnologia artigianale tanto funzionale e robusto quanto problematico per l’ingombro e la struttura pensata per renderlo facilmente chiudibile, ma proprio per questo difficile da svuotare. Abbiamo scelto il telaio in acciaio e non alluminio per la paura che si potesse rompere e di non poterlo quindi saldare. Mentre la scelta del policarbonato è stata dettata dalla necessità di leggerezza e di resistenza agli urti. Al suo interno c’era di tutto. Il materiale da scialpinismo, con i nostri sci Ski Trab Magico.2 le cui punte fuoriuscivano, scarponi Scarpa Alien RS, artva, pala e sonda, ramponi, piccozza, casco, zaini, imbrago e corda da ghiacciaio della Camp. Poi avevamo il necessario per campeggiare, quindi la tenda e il sacco a pelo Camp, più il sacco bivacco monoposto della Outdoor Research, fornellini, pentole. La Karpos ci ha fornito i vestiti per ogni situazione, dal deserto all’alta quota, dalla bici allo scialpinismo; i guanti, diversi modelli per ogni temperatura, erano di OR, il casco e le scarpe da bici e da tempo libero Scott. Computer, materiale fotografico, ricambi e attrezzi di ogni tipo per la bici, oltre al pannello fotovoltaico sul tetto e la centralina energetica annessa all’interno, pochi effetti personali, una borsa con alcuni medicinali, viveri e riserve idriche, soprattutto per il deserto, completavano il fardello.

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La velocità dietro casa

Alcune delle domande che avevo in mente per François trovano praticamente risposta nelle telefonate intercorse per organizzare questa chiacchierata. «Domani è perfetto, ma se per te va bene sentiamoci nel primo pomeriggio, al mattino sono impegnato». Poi scopri che al mattino sono impegnato stava per domani mattina vado a farmi un giretto sulla cresta Triftjigrat sul versante Nord del Breithorn Occidentale: approccio in sci partendo ovviamente da Cervinia, discesa sul lato svizzero, salita della cresta e sciata su Cervinia. Roba easy, quattro ore. Una mattinata appunto. François d’altronde non ha bisogno di grosse presentazioni, lo avevamo già incontrato qualche numero addietro per parlare sempre del suo modo leggero e veloce di andare in montagna. Un modo che lo ha portato a compiere diversi exploit sulle montagne del mondo, dall’Alaska all’Himalaya. Figlio d’arte per eccellenza: i cognomi Cazzanelli, da parte di papà, e Maquignaz, da parte di mamma, sono legati da più di un secolo al mestiere di Guida alpina e all’alpinismo. Nessuna forzatura quindi ha fatto sì che la sua strada seguisse le orme tracciate dai propri avi già da ben cinque generazioni, diventando membro delle Guide del Cervino nel 2012, a soli 22 anni.

Se l’alpinismo apparteneva già al suo DNA, il motore lo ha invece costruito a partire dalle gare di scialpinismo giovanile e poi nella Sezione Militare di Alta Montagna del Centro Sportivo Esercito di Courmayeur. François lo avevo incontrato solo una volta in falesia a Finale, a Bric Scimarco; penso che nemmeno si ricordi, avevamo scambiato qualche parola con amici comuni. Già sapevo chi era e in quel periodo si stava rimettendo da un incidente al braccio occorsogli durante la spedizione al Kimshung, in Himalaya. Rimasi colpito dalla naturalezza con cui si muoveva anche in un periodo di non particolare forma. Era a suo agio nel mondo verticale e lo lasciava percepire. Penso che per lui l’andare in montagna sia così: una cosa naturale, veloce e leggera, fast & light (F&L) appunto.

François ha saputo portare questo suo modo di muoversi nel proprio alpinismo, a partire dalle montagne di casa, dalla sua valle, la Valtournenche. Ha spesso cercato l’avventura uscendo dalla porta di casa, sulle sue montagne, dal Cervino a quelle meno altisonanti, ma non meno affascinanti, disegnando storie che sanno di grande alpinismo classico ma rivisitato in un nuovo modo, veloce ed efficace. Delle imprese a tutti gli effetti, in estate e in inverno, con i suoi compagni. Muoversi veloci, su terreno sempre più tecnico, è certamente una delle direzioni che l’alpinismo moderno sta prendendo, dagli alpinisti d’élite come François e via via allargando la base tra gli adepti non professionisti. Il F&L fa sentire più liberi, apre nuove possibilità, a patto di essere umili e preparati. Andare veloci, ma senza la fretta di farlo subito. E penso che la persona che abbiamo davanti sia quella giusta per parlarne: François è il nostro uomo.

© Damiano Levati/Storyteller-Labs

Ormai una parte dell’alpinismo di punta sta seguendo la direzione della velocità. Cosa rappresenta questa filosofia per te? Ti ci ritrovi?

«Con Kilian ci sentiamo e me lo ha chiesto anche lui, ogni tanto ne abbiamo parlato. Mi ritrovo in un alpinismo fast & light, perché mi sento a mio agio. Se devo scegliere una parola, penso possa essere libertà. Che è la sensazione che mi regala l’andare per monti in questo modo».

Da dove arriva secondo te questo modo di muoversi in montagna? Chi sono stati i precursori?

«Forse ti stupirò, ma personalmente ritengo che sia una storia con origini antiche. Pensa che Luigi Carrel negli anni ’30 teneva un libretto dove si annotava tutti i tempi delle salite al Cervino da Valtournenche. Però secondo me le origini vanno cercate in grandi personaggi degli anni Ottanta: uno dei più grandi è stato senza dubbio Erhard Loretan, tra i primi a capire che a volte la chiave del successo per salire sugli Ottomila era scalare in velocità. Poi Profit, il suo tempo sull’Integrale di Peuterey è ancora un riferimento. Anche Patrick Berhault con le idee dei concatenamenti».

Arrivi dallo scialpinismo agonistico e da una famiglia di Guide. È stata una crasi naturale la tua?

«Sì, le due cose si sono poi fuse. Ho iniziato con gli itinerari alpinistici, più tecnici in senso stretto e poi mi è venuto il tarlo che arriva dallo skialp di percorrere le vie in velocità, di muovermi veloce in montagna».

Che limiti ha il F&L su terreno tecnico?

«Più il terreno diventa tecnico, più essere veloci e leggeri diventa una specialità riservata a un’élite alpinistica. Ti basti pensare alle salite in velocità sul Nose. Fantascienza! Ovvio che su terreno via via più tecnico parte del tempo deve essere impiegato per proteggersi, per assicurarsi, per fare sosta. Anche nell’alpinismo però c’è voglia di confrontarsi con il tempo, ma personalmente non penso che vada cercata la velocità per confrontarsi con un tempo, ma perché invece è in grado di offrirti la possibilità di godere di un maggior numero di prospettive stando in montagna. Spesso si vuole correre senza saper camminare: per muoverti veloce in montagna ritengo che sia fondamentale avere un curriculum alpinistico classico. Ci devi passare, devi essere un alpinista. Succede lo stesso nelle grandi gare di scialpinismo: per vincerle, per andare forte, non bastano i metri di dislivello che puoi macinare a bordo pista. Devi essere uno scialpinista».

E i limiti imposti dal materiale?

«Il materiale va spiegato. Va chiarito quando è il momento di utilizzarlo, in funzione delle condizioni del momento. Tanta gente si porta dietro quello sbagliato. Me ne accorgo anche come Guida».

La velocità è sicurezza o comporta dei rischi?

«Bisogna imparare a muoversi con del margine, lasciarsi sempre un 20 per cento. Questo l’ho imparato da Kilian. È quello che ti fa portare a casa la pelle. E poi non è trascurabile il fatto che muoversi veloci significa stare meno in giro e conseguentemente meno esposti ai pericoli oggettivi: l’ho imparato negli anni, specie con il mio mestiere di Guida alpina».

È appena trascorso un periodo di lockdown e tutti ci siamo trovati a dover limitare gli spostamenti, rimanendo più nelle vicinanze. Tu hai sempre valorizzato la tua valle, vero?

«Sono attaccato alla mia valle, è la mia terra, casa mia. Ho la fortuna di osservare le montagne tutto l’anno. Così facendo, con le diverse luci che sa regalare ogni stagione, si riesce sempre a scoprire qualcosa di nuovo, un risvolto, un dettaglio, un diedro, una fessura. E questo mi motiva per immaginare altre avventure».

A cosa si presta meglio la Valtournenche? Anche al di là del Cervino, c’è ancora qualcosa da scoprire?

«Dipende dalla fantasia dell’alpinista. È conosciuta per lo sci, ma abbiamo chiodato falesia, aperto vie di ghiaccio e misto. Per l’arrampicata e l’outdoor in generale credo che abbia un potenziale molto alto».

Lo hai dimostrato con l’ultima traversata, il primo concatenamento invernale delle Catene Furggen, Cervino, Grandes Murailles e Petites Murailles. Raccontaci tutto, come è nata l’idea?

«L’idea ha iniziato a prendere forma parlando con mio papà che aveva fatto la prima invernale della traversata delle Grandes e Petites Murailles. È una cresta che vedo dal letto, nel vero senso della parola, ce l’ho davanti agli occhi. Tutti i tentativi li avevo già fatti con Francesco Ratti. Nel 2017, la prima volta, forse non avevamo ben idea di che cosa ci aspettava, nel 2018 c’era troppa neve. Nel 2019 abbiamo commesso un errore di valutazione cercando giorni non freddi. Il caldo ci ha fermato tra la Punta Ester e la Punta Lioy: neve marcia a 3.800 metri e cornici poco rassicuranti».

Il percorso come lo hai studiato? L’hai definita una cresta di proporzioni himalayane, giusto?

«È una cresta enorme, comprende in totale 20 vette: la più alta è quella del Cervino con i suoi 4.478 metri. Per le sue dimensioni, per le altezze e per i passaggi vertiginosi la cresta è sicuramente una delle più spettacolari delle Alpi: misura circa 51 chilometri ininterrotti con 4.800 metri di dislivello positivo. Nel 2019 avevamo incluso anche la Dent d’Hérens, poi abbiamo capito che ci avrebbe fatto perdere troppo tempo. Non ho vergogna a dire che abbiamo capito che dovevamo tenere un profilo più basso e accontentarci di passare per il Colle delle Grandes Murailles, evitando la vetta di questo quattromila e rimanendo proprio sul confine naturale della Valtournenche».

Ti confesso che apprezziamo molto quando un alpinista come te ci confida che ha tenuto un approccio più conservativo, valutando condizioni e limiti. Ti fa onore. Ora passiamo ai dettagli tecnici, raccontaci nei particolari questa vostra avventura.

«Memori dei nostri errori, quest’anno abbiamo scelto i giorni più freddi dell’inverno. Siamo partiti il 20 gennaio dal rifugio Theodulo con una temperatura di -23 gradi e, raggiunto il bivacco Bossi, abbiamo proseguito sulla cresta del Furggen fino alla spalla di Furggen per poi deviare sulla via Piacenza. Sulla Piacenza ci siamo trovati ad affrontare alcune lunghezze non banali che ci hanno impegnato parecchio. Finalmente, alle quattro del pomeriggio in punto, siamo arrivati in vetta al Cervino. Da qui siamo scesi e abbiamo pernottato alla Capanna Carrel, a 3.830 metri, raggiunta alle cinque e mezza e perfetta per trovare riparo dal vento forte che ha soffiato per tutta la notte. Una prima giornata in cui tutto è filato per il verso giusto. L’indomani la sveglia è suonata alle quattro e alle sei siamo partiti per per quello che sarebbe stato il giorno più impegnativo».

Il secondo giorno?

«Sì, un sacco di vento e temperature basse. Siamo scesi al Colle del Leone e poi abbiamo affrontato il traverso del Leone fino al Colle del Breuil. Da qui in sequenza: Punta Maria Cristina (3.708 m), Punta Maquignaz (3.841 m), Punta Carrel (3.841 m), Punta Bianca (3.918 m) dove abbiamo dovuto affrontare condizioni difficili, con neve alla vita e poi ghiaccio nero. Finalmente alle cinque e mezza abbiamo raggiunto il bivacco Perelli, a 3.831 metri».

Diciamo non proprio un’esperienza plaisir…

«Il terzo giorno alle sei abbiamo deciso di partire: sempre vento e freddo sui -20 gradi. Obiettivo il bivacco Paoluccio. Si comincia con la Punta Margherita (3.905 m), poi la Punta dei Cors (3.849 m) e finalmente il bivacco Ratti dove ci è scappata una piccola pausa per mangiare qualcosa. Poi Punta Ester, di nuovo con molta neve e infine ecco il posto dove ci siamo ritirati l’anno scorso, la Punta Lioy (3.816 m), la porta di quella che abbiamo soprannominato la fossa dei leoni, ovvero la forcella che separa la Lioy dai Jumeaux. Un angolo un po’ tetro della cresta, dove dico sempre che le prospettive vengono totalmente capovolte. Non proprio un bel posto. Arrivati al colletto la neve però era perfetta e abbiamo raggiunto agevolmente la Punta Giordano (3.872 m). La cresta in questo punto è davvero ariosa, un coltello che ci ha costretto ad attrezzare delle calate in doppia e poi, con due tiri, siamo arrivati sulla Punta Sella, a 3.872 metri. Erano le cinque del pomeriggio e finalmente abbiamo visto che la cresta davanti a noi iniziava a scendere, ma il bivacco Paoluccio era ancora lontano. Lo abbiamo raggiunto con le frontali alle otto, stanchi ma ormai con la consapevolezza che c’erano buone possibilità di arrivare a valle il giorno seguente. Entrati nel bivacco sembrava di essere in un altro mondo: le temperature si sono alzate e il Paoluccio, a differenza del Perelli, era asciutto e senza neve. Da valle Damiano, il fotografo, ci ha avvertito che le condizioni meteo stavano per cambiare: sveglia puntata alle cinque con l’obiettivo di terminare l’opera».

Ultimo giorno: 23 gennaio, come è andata?

«Alle sette fuori dal bivacco: sulle Petites Murailles la neve era perfetta e la temperatura non più estrema: in tre ore abbiamo raggiunto il Mont Blanc du Créton (3.406 m). Dopo non molto abbiamo visto il bivacco Florio, lì abbiamo capito che era fatta! Ci siamo slegati, abbiamo tolto il casco e raggiunto il Col des Dames e giù nel Vallone di Vofrède, tutto su buona neve. A valle abbiamo stappato una bottiglia di Prosecco. E poi pizza!».

Domanda più tecnica: il materiale usato?

«Una corda da 50 metri, una serie di friend, quattro viti da ghiaccio, tre piccozze in due per consentire al primo di cordata di procedere in sicurezza nei tratti di ghiaccio più difficili, ramponi Grivel G12, una scelta di chiodi a lama utilissimi sulla roccia delle Grandes Murailles, un sacco a pelo a testa. Tranne che per la prima notte alla Carrel, dove abbiamo sfruttato il comfort del locale riservato alle Guide, avevamo dietro tutto il cibo e il gas per il fornello per i quattro giorni: poco meno di 15 chili di zaino».

Qualche piccolo segreto?

«Mi mettevo gli scaldini nel sacco a pelo tutte le notti (ride, ndr), una conseguenza del fatto che avevamo volutamente scelto i giorni più freddi di tutto l’inverno».

Come ti sei allenato?

«Niente di specifico, ti direi andando tanto in montagna. Ho comunque fatto dry-tooling e tanti metri con le pelli per allenare il fiato».

Qualche aneddoto?

«La notte al bivacco Perelli: dopo il secondo giorno, con quel vento che ci aveva schiaffeggiati durante tutto il percorso, siamo arrivati e abbiamo trovato la porta semi-aperta, con tutto il bivacco invaso dalla neve. Abbiamo dovuto spiccozzare e liberare un posto per dormire: una notte bella fredda. Avrei fatto qualsiasi cosa per scaldarmi… non pensare male, non proprio qualsiasi!».

Oltre che alla storia dell’alpinismo, sei attento anche alla storia delle montagne?

«È molto importante, specie per una montagna che sento mia. È qualcosa che si tramanda. Nel web si trovano molte informazioni ormai, ma a volte sono poco attendibili e si perdono dei dettagli che invece i racconti dei local ti sanno dare. A questo proposito vi invito a leggervi la storia di questa cresta che ho riportato sul mio sito. Si parte dal 1940 fino ad arrivare all’invernale di mio padre Valter nel 1985 e al mio giro in velocità con Kilian Jornet nell’agosto del 2018».

Possiamo dire che il tuo è un alpinismo classico?

«Penso di sì, perché sento che è il terreno dove riesco a esprimermi come voglio, un terreno tecnico dove non si muove uno skyrunner puro, ma che mi consente di essere veloce ed efficace. Sento che qui la velocità può aprirmi davvero molti orizzonti. È questo ciò che mi piace».

QUESTO ARTICOLO È USCITO SU SKIALPER 130

© Damiano Levati/Storyteller-Labs

Quelli della notte

È nata nel 2010 con una formula diversa e ora, alla decima edizione, è diventata una grande classica dello skialp in pista e in notturna, come la Sellaronda nelle Dolomiti. La Monterosa Skialp, che nel 2020 ha visto crollare i record maschili e femminili e la partecipazione di tutti gli atleti top, non è solo una gara con 120 coppie che si sfidano nella notte sulle piste del MonterosaSki, ma un evento che prende forma il giorno dopo che è finita l’edizione precedente. E Franco Torretta, direttore d’esercizio della Monterosa SpA, oltre che appassionato skialper, lo sa bene.

© Stefano Jeantet

Qual è il calendario degli organizzatori della gara?

«L’organizzazione parte immediatamente dopo la chiusura dell’edizione precedente, con la definizione delle collaborazioni con gli enti istituzionali (Regione, comuni di Ayas e Gressoney La Trinitè, sci club, consorzi turistici) e gli accordi con gli sponsor. Da aprile a dicembre io ed Henri Grosjeaques ci occupiamo di verificare ed eventualmente integrare il materiale di pista, di predisporre i pacchi gara e i ricordi per i volontari, la strategia comunicativa con MonterosaSki, i piani B per la gara con percorso ridotto o modificato a seconda delle condizioni meteo o di innevamento, di pensare possibili alternative al percorso originale (per esempio per il 2021 si sta ragionando su una diversa partenza da Gressoney), di stabilire la data».

Quanti volontari coinvolgete?

«Circa 80 per la gestione dell’ufficio gara, di partenza, arrivo, delle 14 zone di cambio assetto, per i ristori e la tracciatura. Gli enti esterni coinvolti sono i Vigili del Fuoco, il Soccorso Alpino, il Corpo Forestale della Valle d’Aosta e il 118. La sola preparazione dei pacchi gara (chip, spille, pettorali, buoni pasto, gadget) coinvolge circa cinque persone per un giorno, tre giorni prima della competizione; della sala congressi per l’accoglienza, cena e la premiazione si occupano i Vigili del Fuoco volontari nei tre giorni precedenti la gara, mentre per predisporre il parterre alla partenza e arrivo e smontarlo ci vogliono cinque persone per circa un giorno di lavoro».

Come segnalate il percorso?

«Con 620 bandiere verdi per la salita, 620 bandiere rosse per la discesa, 30 bandiere gialle per le parti a piedi e 200 torce luminose per i cambi di direzione in pista e le zone di cambio; inoltre ci sono tre palloni luminosi e 30 fari per le zone di cambio».

Quanti mezzi sono coinvolti nella preparazione delle piste e quanto ci vuole?

«Dieci battipista tra le 17,15, orario di chiusura al pubblico delle piste di sci, e le 18, su un percorso di circa 30 chilometri».

E il dopo?

«La rimozione di tutto il materiale in pista, per esempio bandiere, reti, illuminazione, e la battitura delle piste inizia verso mezzanotte e dura per circa due ore».

Che cosa vuol dire sicurezza?

«Abbiamo due medici rianimatori, tre defibrillatori, due ambulanze (ad Ayas e Gressoney) e 15 pisteur sul percorso. La gara è a coppie in modo che il compagno possa dare l’allarme al primo punto di controllo, è obbligatorio l’artva per ricercare un eventuale disperso a bordo pista, come lo smartphone acceso per dare l’allarme e poi vengono registrati i pettorali a ogni cambio assetto per poter seguire ogni squadra».

MonterosaSki è una delle località pioniere in Italia, con itinerari dedicati alla risalita con sci e pelli a bordo pista, quali sono i numeri dell’offerta?

«Abbiamo predisposto quattro itinerari con dislivelli da 550 a 650 metri. Lo skipass giornaliero costa 10 euro e lo stagionale 70 euro, con la possibilità dell’acquisto in prevendita a 60 euro. La stagione 2019/20 ha visto la vendita di 380 stagionali e 3.750 giornalieri contro 380 stagionali e 3.500 giornalieri l’anno precedente. Chi acquista lo stagionale partecipa a un concorso con in palio premi per un valore di circa 3.000 euro, tra cui due paia di sci Ski Trab».

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 129

© Stefano Jeantet
© Stefano Jeantet