Andrea Gallo, il futuro ha un cuore antico

Ho conosciuto Andrea Gallo di persona l’anno scorso, sciando insieme a Gressoney. Dico di persona, perché se uno è torinese e va un po’ in montagna, il suo nome di sicuro l’ha già letto da qualche parte, probabilmente sulle guide Finale 8.0 o Polvere Rosa. Oppure sulle relazioni di falesie storiche come Striature Nere o l’Orrido di Chianocco, spauracchio dei climber sabaudi chiamati a confrontarsi con gradi e stili di una volta, quelli su cui si è espresso Andrea come scalatore e chiodatore. O ancora, per chi avesse qualche anno in più del sottoscritto, l’ha trovato sulle pagine della defunta rivista Alp, della quale è stato collaboratore e fotografo per anni. È stato anche l’artefice, insieme ad altri, della creazione della Finale Ligure che conosciamo oggi, un modello di turismo outdoor che ha fatto scuola e che permette agli sciatori tristi di sopravvivere all’autunno e di risvegliarsi in primavera. Insomma, da attore prima e narratore poi, Andrea Gallo è sul pezzo da trent’anni e, anche ora che lavora nei video musicali (il binomio video maker outdoor - musica trap è qualcosa di assurdo e romantico allo stesso tempo) continua a martellare sugli argomenti a lui cari da sempre, quando non è occupato in cose più serie, ad esempio andare in skate o sciare a Punta Indren. Con la scusa di andare ad accaparrarmi una copia della nuova guida Finale 51, sono andato a trovarlo a Gressoney Saint-Jean per capire cosa ci fosse dietro a un nome scritto sulla copertina di un libro.

DOMANDA SEMPLICE E COMPLICATA ALLO STESSO TEMPO: CHE STRADA HAI PERCORSO FINO A OGGI?

«Ho cominciato a scalare nel 1981, prima ho praticato la scherma, lo sci agonistico e lo skateboard, sempre col mio modo di fare le cose, ovvero tuffandomici dentro. Sono uno che si infogna e, anche quando ero piccolo, se mi appassionavo a qualcosa, mi allenavo sei giorni a settimana. Sono migliorato abbastanza in fretta, a quell’epoca si scalava al Palavela a Torino ed eravamo la prima generazione che si allenava con un’ottica sportiva. Insieme ad altri ho avuto la fortuna di ritrovarmi al centro dell’azione, ho partecipato alla storica Sportroccia a Bardonecchia nell’85 e parallelamente ho cominciato a collaborare con la neonata rivista Alp, per la quale tenevo la cronaca della libera. Ho avuto la fortuna di vivere in un periodo molto bello che è durato fino alla fine del decennio, almeno per quello che riguarda le gare di arrampicata. La magia si è interrotta quando è stata creata una nazionale vera e propria, e di colpo sono spuntati dal nulla stemmini e allenatori mai visti in giro prima: ciò che prima era spontaneo, iniziava di colpo a venire incanalato, analogamente a quanto è successo nello snowboard qualche anno dopo. Nel ’92 ho smesso con le gare e ho scalato ad alto livello su roccia fino al ’97, l’anno in cui la fotografia, che prima era un passatempo da falesia, è diventata qualcosa di più serio. Il primo viaggio ufficiale da fotografo di arrampicata è stato in Sardegna, per scattare l’apertura di Hotel Supramonte con Rolando Larcher. Avevo già avuto qualche esperienza con il ciclismo, a un certo punto all’inizio degli anni ’90 correvo nel cross-country: dopo aver vinto il campionato ligure mi hanno spostato negli élite e lì mi sono ritrovato in mezzo a una mandria di bufali inferociti. Ero passato dal vincere le gare della domenica a gareggiare con gente che aveva corso il Tour de France. La prima guida di Finale invece è uscita a fine anni ’80, edita da Alessandro Gogna, poi ho continuato fondando una mia piccola casa editrice. Nel ’97 è uscita Polvere Rosa, che ai tempi è stata la prima guida italiana prettamente di freeride, ispirandoci a un volume su Chamonix. Tolti gli anni in cui ho scalato ad alto livello, ho sempre sciato, con qualche parentesi su snowboard e monosci. Il primo decennio del 2000 lo ricordo come il periodo più figo per la fotografia di arrampicata, perché avevo modo di girare con gli interpreti di ogni specialità: Mauro Calibani e Marzio Nardi sul bouldering, Rolando Larcher sulle vie lunghe, Anna Torretta e Bubu Bole sul ghiaccio e misto e tutto quello che passava nel mezzo».

E POI A UN CERTO PUNTO SEI PASSATO AI VIDEO.

«Sì, merito delle prime reflex che potevano anche registrare filmati. Mentre scattavi, iniziavi a girare qualche secondo, che poi un pezzetto alla volta si sono trasformati in video veri e propri. È diventato un lavoro quando, un po’ per caso, sono finito a fare il location manager per un video di Tony Hadley - l’ex frontman degli Spandau Ballet - che voleva filmare un paesaggio innevato nel Vallone di Loo. In quell’occasione avevo con me uno dei primi droni consumer in commercio all’epoca e, in modo un po’ naïf, abbiamo fatto qualche ripresa con quello. È piaciuto un sacco, e la settimana dopo mi sono ritrovato a filmare J-Ax con un drone più serio che avevamo praticamente spacchettato il giorno prima, bluffando sulle mie effettive capacità di pilotarlo. Morale, mi sono ritrovato da un giorno all’altro a passare dagli scalatori al mondo del rap italiano, con ragazzi spesso poco più che ventenni: Gué Pequeno, Marracash, Nesli e altri. Sono dei fighi che lavorano tutto il giorno, e per me entrare in quel mondo è stata una rivoluzione, una contaminazione con altri linguaggi e culture. Nella musica ogni volta si lavora su un’idea nuova, mentre nel mondo dell’arrampicata spesso ci si chiude al mondo esterno, impostando la narrazione unicamente sulla performance. Ad esempio, lo skate è influenzato costantemente dal mondo dell’arte e della musica, le cose si fondono assieme, mentre l’arrampicata è rimasta autocelebrativa e autoreferenziale».

COME CAMBIA LA PRATICA E LA NARRAZIONE DELLE DIVERSE ATTIVITÀ CHE TI APPASSIONANO? ESISTONO PUNTI IN COMUNE?

«L’arrampicata, appunto, la trovo tanto chiusa. Se pensi ai siti d’informazione di riferimento, siamo ancora lì a pubblicare il compitino dello scalatore, chiamato a scrivere di se stesso: da un lato è bello, dall’altro appiattisce i livelli, a questo punto siamo tutti bravi, non c’è mai stata una reale valutazione giornalistica delle imprese. Immagina come possa un mondo di questo tipo, non ancora capace di creare un sito realmente giornalistico, aprirsi ad altre culture. Così come il filone delirante delle autobiografie di alpinisti, quelle di cui ci si ricorda sono ben poche: Twight, qualche inglese e poco altro. Invece lo skate è aperto a tante cose, lo sci è su una linea di mezzo. Ad esempio il freeride permette a un atleta di essere professionista anche senza partecipare alle competizioni, come accade anche nel surf. Nella scalata, a parte Sharma, Favresse, Villanueva e pochi altri, i professionisti sono quasi sempre agonisti omologati tra loro. Ce la meniamo sulla performance, e il più forte diventa anche il più figo, senza accennare allo stile. Nello sci invece abbiamo figure come Bruno Compagnet che, anche senza ormai essere al top, lo vedi sciare e pensi questo non sbaglia una curva. Lo stesso avevo pensato guardando Piergiorgio Vidi: quello è sciare. Poi mi piace anche il ragazzino che fa 100 giri in aria, anche se non è il mio mondo. Nell’arrampicata invece è tutto sul grado, lo vedi anche nella pratica: vai in falesia e sono tutti appesi cercando di provare qualcosa di più duro, anziché puntare a muoversi bene su un 6c. Purtroppo anche il freeride sta deviando su questo: una volta il World Tour era interpretare una linea su una montagna, ora è saltare meglio degli altri. Serve l’idea del vecchio surfista, quello che gira a sessant’anni col longboard e si muove in un modo che fa girare tutti gli altri in line-up. Manca anche il culto dell’attrezzo, uno come Mariacher dovrebbe essere riverito come Takayama (uno storico shaper hawaiiano). Lo stesso vale per lo sci, a parte qualche eccezione, con degli sci di dieci anni fa ci si fa solo ridere dietro, mentre nel surf certe tavole sono eterne. Tra tutte, l’arrampicata mi sembra l’attività meno creativa. Una possibilità stava nascendo con il moderno boulder indoor, simile al parkour, ma una cosa del genere non doveva finire nelle gare, ma diventare una specialità a sé. Nella pratica, però, i punti di incontro ci sono solo perché i praticanti sono gli stessi. Ma se uno scala e scia, quest’ultima per lui sarà la ricreazione. Su roccia devi per forza andare a metterti alla prova, perché vuoi trovare lungo. Bisognerebbe recuperare l’idea di farsi piacere, un po’ come sugli sci. La corsa al grado e il mettersi in discussione - a tutti i livelli, principianti compresi - non fa crescere l’arrampicata».

Andrea Gallo su Hyaena

C’È UNA RICERCA COMUNE NEGLI SPORT CHE PRATICHI O CHE HAI PRATICATO?

«Lo sci è la mia religione, l’attività che mi fa stare meglio. I ricordi più belli sono legati al piacere fisico di un dato momento, il colore e la portanza della neve, la sensazione della curva, e via così. Quello che cerco sono le condizioni ideali, anche per limitare i rischi. Nella scalata, passato il periodo della corsa al grado, quello che cercavo era la fluidità nei movimenti su tiri più facili, fino a renderla quasi un’attività aerobica: ad esempio salire un 7a in modo continuo, senza fermarsi e senza tentennare. La ricerca nello skate invece è legata alla struttura: su certe rampe magari provo dei trick, nelle pool più grosse invece mi limito a percorrere linee e godo lo stesso. Un minimo comune denominatore può essere il movimento inteso come flusso continuo, che magari cercavo anche quando, andando a correre, mi sforzavo per mantenere un passo costante. Nello sci di sicuro questa sensazione è più facile da trovare».

SECONDO TE COSA SI È GUADAGNATO NEL TEMPO? E COSA SI È PERSO?

«Si è guadagnata una maggiore comunicazione. Prima era tutto lasciato al sentito dire, adesso le informazioni girano e il racconto delle azioni avviene in tempo quasi reale. Magari nello scialpinismo si è persa l’attenzione al capire dove sei e cosa stai facendo, affidandosi solo a ciò che si legge o si sente. Poco fa due ottimi sciatori hanno sciato la Nord del Lyskamm, e qualcuno li ha seguiti a distanza di qualche giorno senza avere realmente idea delle condizioni, basandosi unicamente su qualche storia di Instagram. A metà parete hanno tolto gli sci. Ecco, bisogna stare attenti a non lasciare che il virtuale prevalga sulla propria esperienza. A livello di pratica, però, le sensazioni che si provano sono le stesse di venti o trent’anni fa, non bisogna lasciarsi influenzare dalla quantità di informazioni a disposizione. È come avere un’edicola con tanti giornali, non dobbiamo per forza leggerli tutti. Però è bello avere una scelta così ampia a disposizione, no? Quello che si è perso, al massimo, è la voglia di conoscere la storia dei propri sport, chi erano gli scalatori e gli sciatori venuti prima di noi. Ma capisco che sono argomenti di nicchia, e forse se non ci interessano è anche un po’ colpa delle riviste del settore, mentre, ad esempio, su Surfer ci sono continuamente articoli sugli shaper del passato».

IL MODELLO OUTDOOR DI FINALE È RIPRODUCIBILE IN ALTRE LOCALITÀ?

«Finale è il risultato di una congiunzione di più fattori. Il luogo è unico, neanche il Garda si avvicina: c’è il mare, il clima giusto per andarci in inverno, le pareti che non possono essere create dal nulla. C’è la macchia mediterranea, riesci a scalare in luoghi che sono davvero selvaggi, mentre ad esempio ad Arco ci sono i meleti e le case sempre in vista. Questo ha fatto si che negli anni ’80 un gruppo di persone venisse attratto dal Finalese, forse perché scappavamo tutti da qualcosa e volevamo trovare riparo in quell’angolo magico. Il volerlo mantenere selvaggio non è stato un atto di snobismo, ma di rispetto. Per lo stesso motivo non si sono scavati appigli, soprattutto in quel periodo che è stato veramente dannoso per altre località. Qualche caratteristica di Finale è esportabile, ma la sua anima è unica. E la sua ascesa non è stata nemmeno casuale, perché abbiamo sempre remato per farla conoscere al pubblico di tutto il mondo, anche perché i nostri business giravano su quello. E poi, questo è importante, va detto che tutto è partito da persone mosse prima dalla passione e poi dall’aspetto commerciale. Se si procede con l’ordine inverso, le cose non funzionano. È una serie di tasselli che si sono incastrati fra loro, aiutati dal fascino unico di Finale: anche se vai a scalare ad Albenga, alla sera poi ti sposti a Finalborgo, che una volta, all’inizio, chiamavamo Finalbronx per le condizioni in cui era ridotto. Mi auguro che nascano altre Finali, perché sarebbe un bene per tutti, ma solo Finale ha quel qualcosa che ti attira, e tanti ci cascano. Si sono creati almeno 300 o 400 posti di lavoro e, facendo due conti, conosco una cinquantina di persone che hanno comprato casa lì. Alcune peculiarità sono spiegabili, altre sono legate al fascino intrinseco, lo stesso vale per le differenze fra Chamonix e Courmayeur: una è la città degli alpinisti, l’altra quella delle pellicce. È stata una botta di culo che certe persone si siano ritrovate lì al momento giusto arrivando da fuori, come Alessandro Grillo, scalatore, e Fulvio Balbi, che ha creato dal nulla i sentieri per la mountain bike, e magari gli imprenditori alberghieri che li supportavano. Negli ultimi anni sono di sicuro arrivati i problemi legati al flusso di visitatori, ma è compito di chi c’è ora trovare le soluzioni, prima ancora di porre divieti. Non siamo arrivati allo scontro con l’amministrazione, ma al punto degli attriti, e sarebbe un peccato arrivare a rompere il gioco».

È USCITA LA TUA NUOVA GUIDA CARTACEA DI FINALE. COME LO VEDI IL FUTURO DI QUESTO TIPO DI PUBBLICAZIONI, SOPRATTUTTO SE RAPPORTATO AL DIGITALE?

«Io avevo immaginato un passaggio al digitale già parecchi anni fa, pensando di sostituire l’edizione 2011 con un’applicazione, anche per una questione di sostenibilità. Però poi creare un libro di carta significa rendere reale un sogno, la fotografia stampata su una doppia pagina vive in un altro modo. L’app esiste già, collegata alla guida, ma non ha riscosso molto successo. Mi sono mosso nello stesso modo anche per il volume sui sentieri mtb, presagendo gli stessi risultati, e sono stato disatteso: il ciclista non vuole il libro, non gliene frega nulla. Lui vuole unicamente la traccia gps, incredibile. Lo stesso vale per Polvere Rosa, l’unico modo per venderla è farla su carta. In quel caso preferisco non inserire alcun riferimento gps, perché poi uno si fida ciecamente e magari passa su una placca a vento con i risultati del caso. Probabilmente ai ciclisti non importa avere una guida cartacea perché hanno una mentalità più sportiva: non vogliono sapere chi abbia tracciato quel trail, mentre invece sulla roccia e sulla neve i nomi degli apritori - e quindi chi gli ha dato una dignità - sono fondamentali. Probabilmente è un pubblico più preparato, se hai scelto di andare a scalare o a sciare hai già fatto una scelta enorme, mentre la bici è alla portata di tutti sin da bambini. Spesso chi pedala ha una minore attenzione per l’ambiente e per la sua salvaguardia, e non tende a legarsi a una determinata località al punto da trasferirsi. Sono meno sognatori, se vogliamo dirlo. Per la nuova guida ho lavorato anche con le ultime generazioni di scalatori finalesi, neo-maggiorenni, una serie di ragazzi fighissimi: conoscono la storia, utilizzano i social ma non ne sono dipendenti, fanno esperienze lavorative all’estero, insomma, sono sicuramente più aperti di chi c’è stato prima. Ecco, loro, che vivono i social con serenità, allo stesso tempo apprezzano le cose scritte, e vedendoli penso: lunga vita alla carta. Forse, poi, una guida cartacea diventa anche un’alternativa a un mondo dove tutto va consumato in fretta e furia. Era molto attesa, anche perché è una celebrazione di un gruppo di persone che hanno contribuito allo sviluppo di Finale. A parte qualche riga di introduzione, non volevo assolutamente parlare di me, ma degli altri, perché dev’essere una guida di tutti. C’è stata un’ottima collaborazione anche con Tomassini, che redige l’altra guida del Finalese, perché le informazioni di entrambi combaciassero, ad esempio sui nomi dei tiri o i loro gradi».

PARLIAMO DEI MALEDETTI E SANTI GRADI: I TUOI SONO CONOSCIUTI PER ESSERE PIÙ DURI DELLA MEDIA.

«Quando si è cominciato a gradare a Finale abbiamo preso come riferimento la Francia, con le valutazioni di allora. Se andavi a scalare in Verdon o a Buoux i gradi erano quelli, e noi li abbiamo semplicemente importati. Poi, in un preciso momento storico, in Spagna hanno cominciato ad ammorbidire i gradi e quando scalatori italiani hanno iniziano a valutare allo stesso modo le nuove falesie la gradazione è esplosa. Qualcuno ha voluto accorciare il metro per correre più veloce, a dirla tutta. Ora, anche a Finale, ci sono falesie storiche gradate in un certo modo e altre, più recenti, in un altro. Quello che io definisco grado in euro o in lire. La colpa è di chi ha gradato prima o di chi l’ha fatto dopo? Ci sono scalatori della mia generazione che fanno l’8c ora, e magari non lo facevano venticinque anni fa. La cosa figa di quegli anni lì è che scalavamo forte senza sapere quanto, e ce ne siamo accorti solo dopo, perché all’epoca non ci interessava così tanto. Quando ho chiodato Hyaena (8b) all’epoca scalavo sul 7c o poco più, ma avevo visto degli appigli e in qualche modo di lì si passava. Abbiamo cominciato a interessarci ai gradi quando è arrivata la concezione di onsight, che misurava effettivamente il valore dello scalatore: se uno il tiro ce l’ha dietro casa può provarlo quanto vuole, se ci si fa un solo giro sopra si capisce quanto è forte effettivamente. Sono molto competitivo, ed effettivamente sapere se quello su cui ti stai sfidando è un 7c, un 7c+ o un 8a ha una certa importanza. Poi forse avremmo potuto fare di più, ma cercavamo l’unicità delle sensazioni, piuttosto che la loro ripetizione. Siamo stati influenzati un casino da Marco Bernardi, uno che, arrivato all’apice dell’alpinismo, ha smesso, poi è arrivato a essere uno dei climber più forti del suo periodo e ha smesso anche lì... perché per lui ciò che contava era l’esperienza, la prima volta. L’importante è avere gradi uniformi nella stessa falesia, che poi questa sia più o meno dura di altre è un valore aggiunto e una forma di rispetto della storia. Un giorno a Finale dei ragazzi di un corso Guide scalavano su un 6c con facilità, mentre sul 6c+ di fianco non arrivavano in catena: uno dei due aveva qualcosa che non andava, evidentemente».

QUALI SONO I MIGLIORI RICORDI DA FOTOGRAFO E DA SCALATORE CHE HAI, SU ROCCIA E SU NEVE?

«Mi ricordo il giorno in cui ho fotografato Mauro Bubu Bole su Bellavista, alla Cima Ovest di Lavaredo. Ero salito sulla statica che pendeva dal bordo del tetto per 200 metri nel vuoto, staccata per una settantina di metri dalla parete, una cosa agghiacciante. Quando Bubu è arrivato al tiro del tetto (8c su chiodi, ndr) la scena era spettacolare, mi vengono i brividi ancora adesso. Aveva fatto una leggera nevicata la notte, la neve diffondeva la luce del sole ed ero con un gruppetto di fedeli di Mauro che l’aveva seguito fin lì. In quel momento, scattando, ho pensato che era proprio quello che volevo fare nella vita. Sulla neve ne ho tanti, se proprio dovessi isolare un momento mi viene in mente una linea al Colle Ranzola, più che un momento, mi vengono in mente due curve fatte in quel punto lì, sulla neve giusta, farina fredda che porta bene, zucchero. Da scalatore, anche perché all’epoca ero infognato di cose mentali, mi ricordo perfettamente il giorno in cui ho fatto Hyaena dal mattino alla sera, così come una volta in cui ho gareggiato contro Jerry Moffatt a Vienna. Due anni prima ero affacciato sul bordo del Verdon ad ammirarlo su Papy Onsight, e ora stavo scalando contro di lui. Rimpianti non ne ho, perché credo che qualsiasi cosa succeda, è perché in quel momento hai preso la decisione che ti sembrava più giusta».

ULTIMA DOMANDA. UNA COLONNA SONORA RAP E TRAP PER UN VIDEO DI MONTAGNA?

«Senza Dio di Gué Pequeno, con cui ho collaborato per il video, mi piace. Mi piace anche Nonostante tutto di Gemitaiz e qualcosa di Sferaebbasta. Di quelli attuali userei qualcosa di Salmo e di Clementino, e poi ci sono i pilastri, Gué, i Club Dogo, Marracash. In un film che sto realizzando sulla storia di Finale, invece, vorrei utilizzare la musica originaria dell’epoca -Hyaena è un album dei Siouxsie and the Banshees - per raccontare anche un po’ com’erano quegli anni, perché, ecco, di lì alla fine è passata anche un po’ la vita, la mia e quella di altri».

Avrei continuato a parlare per ore con Andrea, ma già così probabilmente ho fatto passare brutti momenti a Claudio, il direttore, e Greta, l’art director, obbligati a impaginare un’intervista fiume pochi giorni prima di andare in stampa. Beh, il succo è questo: Andrea, come altri, è una figura che chi va in montagna deve conoscere, perché è tra coloro che hanno creato e raccontato la storia di ciò che ci piace fare e magari in cui crediamo per provare a essere persone migliori. Insomma, bisogna conoscere la storia di ciò che c’è stato prima di noi, sulla roccia, sulla neve, ma anche in tutto il resto, perché è l’unico modo per capire il presente e sapere dove andare in futuro.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 125

© Federico Ravassard

Skialper amarcord

Quindici anni da bordo pista nelle gare di skialp non sono pochi. Diciamo che una volta questa rivista si occupava contemporaneamente di fondo e di scialpinismo con qualche ritaglio per il telemark ed era normale per quei tempi incontrare atleti in gara che praticavano entrambe le discipline. Solitamente la nostra coppia, composta da me e Idlaba, armata di macchine fotografiche e cineprese, andava a piazzarsi nei punti cruciali dei percorsi per ottenere le immagini migliori. Per quanto riguarda il fondo il problema era il sole: trovare una postazione che almeno per qualche ora venisse baciata dalla luce per ottenere scatti esclusivi e suggestivi di passaggi in gara. Nello skialp era sufficiente che uno dei due si portasse in quota per attendere l’arrivo degli atleti in posizioni esclusive. Ed è proprio da questo coinvolgimento a un metro dagli atleti in gara che abbiamo colto sensazioni, commenti, incitamenti che chi rimane al traguardo non riesce a catturare. Alcuni ci sono rimasti impressi.

Il primo Kilian e Lenzi

Qualche giorno prima degli Europei di scialpinismo di Morzine-Avoriaz del 2007 ero in Alto Adige per seguire un Campionato Italiano Giovani di fondo: era come sempre mia intenzione cogliere le indicazioni che venivano da queste gare per ricercare il nuovo campione, quello in grado di primeggiare in Coppa del Mondo appena diventato grande. In particolare la mia attenzione era rivolta a Damiano Lenzi, atleta azzurro della leva giovanile. Il motivo era semplice: questo ragazzo della Val d’Ossola manifestava grande interesse per lo skialp e in qualche occasione lo avevamo visto all’opera in alcune manifestazioni minori. L’equazione era piuttosto semplice: un giovane abituato a stramazzarsi di fatica nelle gare di fondo - Lenzi era forte in tecnica classica - avrebbe potuto fare sfracelli nello scialpinismo in cui la componente fatica e motore erano altrettanto importanti. A detta del suo allenatore, Vincenzo Trozzi, del Centro Italia, il ragazzo era piuttosto dotato e mal volentieri gli dava l’approvazione per praticare lo skialp, anche se verso fine inverno gli concedeva il nulla osta quasi come un premio per quanto si era impegnato nel fondo.

E così Lenzi si era guadagnato la partecipazione agli Europei di Morzine-Avoriaz con gli altri azzurrini a difendere i colori dell’Italia. Il giorno del vertical ho raggiunto una postazione a metà percorso in un punto in cui presumevo che il plotone si fosse già sgranato e che gli atleti migliori avessero preso il largo. Idalba un po’ più in basso, appena fuori dal bosco. Pronti, via! Da dove ero piazzato potevo seguire dall’alto il serpentone che velocemente risaliva. Più gli atleti si avvicinavano e più si delineavano le posizioni di testa in base ai colori delle tutine. Qualcosa non quadrava: nella mia assoluta certezza che Lenzi dovesse mangiarsi tutti, proprio grazie al suo grande allenamento nel fondo, non era in testa… Davanti a me è transitato uno spagnolo pressoché sconosciuto seguito da un francese, un po’ staccato Damiano Lenzi, visibilmente provato dal forcing dei due battistrada. Il ragazzo con la tuta della Spagna era Kilian Jornet Burgada.

Ed ecco a voi Laetitia Roux

Durante lo stesso vertical, dopo i Giovani sarebbero transitati i Senior, che avevano la partenza più in basso. Giusto il tempo di scendere e prendere la seggiovia per raggiungere il traguardo e di qui riprendere ancora un po’ di quota per scattare qualche bella foto dell’arrivo dei grandi. Guardando verso valle lungo il tracciato di gara cercavo di individuare l’inconfondibile teoria degli atleti in salita, ma non c’era ancora nessuno all’orizzonte salvo la sagoma di una ragazza con una vistosa tutina color prugna e una folta capigliatura nera a cespuglio. «Bah, sarà fuori gara, oppure un’apripista…».

In realtà aveva anche il numero e intanto saliva con quello strano ancheggiamento nel caricare lo sci che avanzava che l’avrebbe resa inconfondibile per anni. Laetitia Roux, Equipe de France. Nei giorni successivi avrebbero provveduto a dotarla di una tutina della nazionale per la gara individuale e per intanto alle sue spalle, a debita distanza, arrancavano atlete del calibro di Pedranzini e Martinelli. Questa edizione degli Europei in Francia ci aveva portato due astri nascenti nel firmamento dello skialp.

Mezzalama 2003, Gignoux come un cieco

Edizione epica che molti ricorderanno per il gran freddo e per il vento che ha sferzato le creste per tutto il giorno. A farne le spese la fortissima squadra composta da Gignoux, Brosse e Pellissier che ha dovuto arrendersi agli svizzeri Elmer, Farquet, Zurbrugg. Quel giorno siamo saliti da Gressoney per immortalare il passaggio delle squadre nel famigerato Canale dell’Aquila che per l’occasione già al mattino si presentava disseminato di gobboni, residuo dei passaggi dei freerider che frequentano la zona. In verità quando la gara si avvicinava ero certo di veder transitare gli amici francesi in testa e invece sono state le tutine rosse degli svizzeri a passare per prime. Dopo qualche minuto ecco Jean Pellissier da solo: qualcosa non andava. Poi Brosse che cercava di guidare a valle un irriconoscibile Gignoux in evidente difficoltà che non ce la faceva a districarsi nel mare di cunette del canale. Proprio lui che del terzetto era certamente il migliore in discesa.

Appena giunto al traguardo ho potuto conoscere il motivo della debacle: il vento forte aveva strappato le lenti a contatto del nostro caro ingegnere. Questo guaio, unito al congelamento di un orecchio, lo aveva reso cieco e privo di equilibrio. Qualcuno a bordo pista commentò che il francese era talmente cotto da non reggersi in piedi in discesa. Ma non era così! Durante le riprese di un DVD sulla tecnica dello skialp ho potuto apprezzare le grandi qualità di Pierre, sempre in grado di superare con eleganza e padronanza ogni difficoltà, dallo sci ripido ai salti, alle nevi impossibili. Beh, quella volta è andata così.

© Enrico Marta

Cazzi e Pippo, una coppia fortissima

Siamo nel 2009, Filippo Righi e François Cazzanelli fanno parte della nazionale giovani. Uno spilungone con la faccia simpatica, l’altro più piccolino con la faccia perennemente preoccupata. La Pierra Menta 2009, come da tradizione, prevede che i Giovani gareggino gli ultimi due giorni dei quattro previsti per i Senior. E, come da programma, in una limpida mattina di marzo gli atleti sono impegnati nella zona del Col de Dard. E noi dove siamo? Ovviamente nei punti salienti, in alto, ad attendere il passaggio degli uni e degli altri. Non si tratta di una sola salita e di una discesa, ma di diversi saliscendi con vari cambi pelli. E proprio in occasione del passaggio dei primi Giovani abbiamo il piacere di trovare la coppia Cazzanelli - Righi in testa. Ci passano accanto e, nonostante la fatica, il loro è un incitamento reciproco e continuo.

«Dai Pippo tieni duro!»

«Vai Cazzi non mollare, credici!»

«Osa Cazzi, osa!».

Simpaticissimi nel loro modo di affrontare la difficile prova. Quell’anno, osa che ti osa, si sono piazzati al secondo posto della classifica generale di categoria alle spalle dei due Gachet, che correvano in casa, distaccati di un minuto e venti. Altra bella impresa della premiata ditta Cazzi e Pippo è stata quella del Mezzalama dello stesso anno, quando portarono a termine il percorso gareggiando fuori classifica per il limite di età. Il terzetto era completato da Michele Boscacci. Nelle immagini della partenza si notano i tre atleti con la divisa della nazionale che partono in contemporanea con i grandi, ma cinquanta metri più a monte. La loro gara rimarrà memorabile dal momento che il tempo finale li farà rientrare ampiamente fra le prime dieci squadre. Negli anni seguenti Righi ha mollato e Cazzanelli si è dedicato anima e corpo all’alpinismo, cogliendo gli importanti risultati che oggi tutti conosciamo. D’altronde il suo mentore e allenatore Camandona lo diceva già allora: «François diventerà un grande hymalaista, ha la stoffa».

© Enrico Marta

Le grandi performance di Guido Giacomelli

Che dire di Guido? Difficile dargli una collocazione precisa: troppo estroso per una gara a squadre, troppo impulsivo per una tattica di gara, troppo taciturno per un normale rapporto con i giornalisti e la stampa nonché con gli altri skialper. Eppure Guido mi è sempre piaciuto un sacco: per me è stato il campione più limpido che abbia mai incontrato nello skialp e sì che di atleti ne ho conosciuti - perché lui aveva un qualcosa in più che lo rendeva diverso e gli faceva improvvisare delle prestazioni che nessuno si poteva aspettare. Lo ricordo ventenne nell’Esercito, ma ci rimane giusto il periodo della ferma: non aveva il carattere per sopportare la disciplina e i ritmi della caserma. Dopo un paio di stagioni eccolo ritornare alla ribalta e di lì in avanti regalarci perle di eccezionale livello.

Ha fatto copia con il buon vecchio Lunger che probabilmente gli voleva anche un sacco di bene per accettare le sue accelerazioni in salita e i folli inseguimenti in discesa nei confronti delle altre squadre, come per voler dire: «Ci sono sempre io qui, dove credete di andare». Ricordo un passaggio in punta al Meriggio alle calcagna di Brunod e Reichegger - Lunger ormai aveva perso terreno e sarebbe arrivato con qualche minuto di ritardo -; mentre io ero intento a scattare foto dell’ultimo tratto di salita con croce di vetta in prospettiva, non ho potuto assistere al primo tratto di discesa, che partiva dopo pochi metri. Però quando ho sentito un boato da stadio ho capito che era successo qualcosa di grosso. Infatti il nostro Guido si era buttato dritto sul primo plateau innevato senza curarsi del fatto, non trascurabile, che al fondo la neve finiva in una traccetta di erba e sassi. Quel giorno il boato è stato giustificato dal fatto che in quel tratto senza neve lui c’era entrato agli ottanta all’ora e ne era anche uscito indenne. Agli Europei dell’Alpago lo abbiamo visto correre su un tratto di cresta seguito da una discesa in neve alta sul versante Nord della montagna: quel giorno le cose non sono andate come al solito e il nostro campione ci ha rimesso un ginocchio. Ripresosi dall’incidente, credo la stagione successiva, ai Mondiali di Claut, mi hanno raccontato dei collaboratori che nell’ultimo tratto di discesa prima del paese il tracciato prevedeva il passaggio in un punto in cui c’era poca neve e la poca che c’era era coperta da trucioli di legno dove avevano lavorato i boscaioli. Un tratto che imponeva attenzione e prudenza, ma per Guido era un invito a nozze e proprio su quei trucioli, dritto per dritto, ha infilato i battistrada che non hanno nemmeno potuto accorgersi del suo arrivo alle spalle. E questi erano discesisti del calibro di Bon Mardion… Stupendo, ineguagliabile campione che ha sempre buttato il cuore oltre l’ostacolo.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 129 DI APRILE 2020

© Enrico Marta

Avevamo tutto e non lo sapevamo

Sono partito da Torino poco più di un’ora fa, diretto verso le Alpi Marittime. Quando mi fermo per un caffè ad Andonno rimango un attimo sorpreso dalla barista che, a disagio, mi avverte che non potrò berlo al bancone.
È il 9 marzo, il giorno prima la Lombardia è stata dichiarata zona rossa e anche da queste parti si teme che sia solo questione di giorni prima che i divieti di circolazione si estendano anche al resto del Paese. L’appuntamento a Valdieri è con Paolo e Mattia, il primo Guida alpina, il secondo Maestro di sci, ma prima di tutto amici e fini conoscitori della Valle Gesso, in provincia di Cuneo. Siamo stati invitati da un altro amico comune, Cis, a trascorrere un paio di giorni al Valasco e realizzare un reportage che in un anno normale sarebbe servito a promuovere la zona del Parco Naturale Alpi Marittime in vista della stagione dello scialpinismo primaverile. La settimana precedente in tutta Italia le attività commerciali hanno cominciato a chiudere per evitare situazioni di assembramento, qua invece non c’è stato molto lavoro da fare: da queste parti l’isolamento sociale è una normalità, special- mente in questo periodo dell’anno.

Il Rifugio Valasco è conosciuto per la sua architettura bizzarra, che ne racconta anche la storia. Nato come reale casa di caccia per la famiglia Savoia alla fine dell’800, venne riconvertito a caserma durante le due Guerre Mondiali, per poi essere ceduto dalla principessa Iolanda di Savoia a privati che lo convertirono ad alpeggio, fino a che un incendio negli anni ’90 non lo distrusse parzialmente. Dopo un decennio di abbandono, il suo restauro ne permise la riapertura al pubblico nel 2008, creando una base logistica perfetta per spezzare i lunghi trasferi- menti richiesti per sciare in Valle Gesso. A vederla da una cartina l’area compresa tra la Valle Stura e la Valle Vermenagna non sembra particolarmente estesa: a complicare la vita, però, ci pensa una fittissima rete di valli laterali e creste decisamente lontane dal fondovalle, oltre che strade spesso chiuse fino a primavera inoltrata a causa della neve. Per farla breve, per divertirsi con gli sci in Valle Gesso bisogna camminare parecchie ore, ma sono proprio quelle ore a garantire la solitudine che in altre zone è ormai una chimera. Tanto per smentire quanto è stato appena scritto, l’occasione per divertirci è decisamente comoda: proprio di fronte al rifugio si snoda infatti un canale non ancora sciato e Cis aspettava solo un po’ di compagnia per andare a metterci il naso. Dopo un caffè partiamo dal Valasco portandoci dietro un asse di legno, ci servirà ad attraversare un ruscello senza dover allungare inutilmente fino al ponte situato in fondo alla piana. Il canale è stretto, ma mai ripido. Si snoda attraverso pareti di granito rossastro che sono una delle caratteristiche della zona, ben riassunte dalla Cresta Savoia che si snoda qualche chilometro più a monte. Trecento metri, poco più o poco meno. Pochi per essere l’obiettivo di una giornata, ma abbastanza per rientrare in una concezione di scialpinismo che in Italia stenta ancora ad avere seguito: anziché voler programmare la gita in funzione di una cima precisa, in alcune aree ha più senso fare l’avvicinamento iniziale e solo dopo decidere dove puntare gli sci, in base all’appetito e al menù del giorno. Come, ad esempio, la valle del Valasco, dove sono presenti pendii di qualsiasi esposizione e inclinazione.

© Federico Ravassard

Scendiamo uno alla volta, dandoci il cambio alla guida del gruppo. Le pareti che ci circondano sono alte, si potrebbe credere di essere ben altrove. Anche se poi, a pensarci bene, le Marittime hanno ben poco da invidiare ad altri massicci, qui la quota relativamente modesta viene compensata dalle abbondanti nevicate, merito proprio della vicinanza con il Mediterraneo, e la morfologia complicata sembra essere studiata apposta per soddisfare desideri di pornografia scivolatoria. Rientriamo al Valasco per l’ora di pranzo, qualcuno nel frattempo dà un’occhiata alle news per capire l’evolvere della situazione nel resto del mondo, ovvero tutto ciò che è situato a valle delle Terme di Valdieri. Matti, al secolo Mattia Tosello, storce il naso: da oggi chiudono le stazioni di sci, di fatto la stagione lavorativa per lui finisce qui. Ex agonista nel centro sportivo dell’Esercito, Mattia ha passato una vita a masticare porte e neve barrata, prima come atleta e poi come allenatore, per poi decidere di cambiare aria, esasperato dall’agonismo vissuto male, quello fatto di genitori ossessionati dai risultati dei figli. Nel 2012 ha messo in piedi uno dei primi corsi di freeski rivolto esclusivamente a quei ragazzi in cerca di alternative
al classico sci club, diventando in seguito anche istruttore nazionale di telemark. Poco prima vederlo scendere nel canale è stata una gioia per gli occhi: il peso si spostava veloce da una lamina all’altra, il busto e le gambe in assorbimento e pronti a correggere la direzione con un’esplosività che solo chi ha sciato ad alti livelli in pista può avere. A scacciare le preoccupazioni ci pensa Cis, stappando una bottiglia di prosecco. Anche lui, Andrea Cismondi, da qualche parte conserva una giacca con la patacca da allenatore, ma da anni ha deciso di voltare pagina lavorando prima al vicino Rifugio Morelli e poi, ottenuta la gestione del Valasco, decidendo per la prima volta di tenerlo aperto anche nella stagione invernale, nonostante i disagi che questo comportava. Prima di tutto una continua vigilanza sulla sicurezza dell’accesso: la mulattiera creata per gli spostamenti dei Savoia si snoda sotto il tiro delle valanghe che con grandi nevicate scendono spontaneamente dai fianchi del Monte Matto, una delle vette più alte delle Marittime. Da un paio d’anni nella gestione è affiancato da Luca Rabbia e insieme hanno dato il via all’avventura di Casa Savoia, un altro rifugio situato alle Terme di Valdieri, qualche chilometro più a valle, solitamente utilizzato come punto di partenza nei mesi centrali dell’inverno. A queste due attività Cis e Luca dedicano anima e corpo, coccolando gli ospiti con vini scelti nelle cantine di mezzo Piemonte e Jacuzzi tatticamente riempite di acqua calda per il post-gita.

Dopo una cena sontuosa con arrosto innaffiato da Dolcetto e Barolo, Paolo apre una cartina per capire dove andare il giorno dopo, lasciandosi aiutare nella scelta dell’itinerario dalla selezione di zuccherini del rifugio. Su, giù, di qua, di nuovo su. L’idea è di compiere una traversata per concatenare alcune delle mete più classiche della zona, portandoci nella valle parallela alla nostra, sotto l’ombra dell’Argentera e arrivare sci ai piedi a Casa Savoia, dove passeremo la notte. Proviamo a calcolare i chilometri e ci viene da ridere, pensando alle ore che staremo in giro. Cis nel frattempo controlla nervoso il telefono, fino a quando arriva la notizia che cambierà il corso della nostra primavera, e per nostra si intende quella dell’intero Paese: in conferenza stampa il premier Conte ha appena dichiarato lo stato di lockdown in tutta Italia in risposta all’aggravarsi dell’epidemia. Ci guardiamo negli occhi consci che ora la situazione si farà parecchio complicata, per dirla con un eufemismo. In altre parole: siamo tutti fottuti. Decidiamo che rimarremo fuori fino a mercoledì, come avevamo già pianificato, in modo da terminare il lavoro sulla Valle Gesso e dare un senso all’essere venuti fino a qui grazie alla collaborazione tra il rifugio e l’ente del Parco delle Marittime. Per un po’ ci arrovelliamo scherzosamente per capire se la quarantena possa essere effettuata legalmente al Valasco: dopotutto, avremmo cibo e vino per un paio di mesi. Il buonsenso e le disposizioni del Soccorso Alpino - di cui, tra l’altro, fanno parte sia Cis che Pallo - ci fanno comunque capire che la giornata di domani ce la dovremo godere in ogni suo minuto perché non ne capiteranno di simili a breve. Gli unici altri ospiti del Valasco oltre a noi sono dei belgi con una Guida di Chamonix. La maggior parte dei passaggi qui, mi racconta Cis, è di sciatori francesi in traversata dalla stazione di Isola 2000, vicino al Colle della Lombarda. La disposizione dei rifugi e degli impianti si presta particolarmente a questo tipo di itinerario e anche noi, volendo, potremmo rimanere in giro per una settimana senza mai dormire nello stesso posto, tenendo conto di strutture aperte e bivacchi. Prima o poi, magari.

© Federico Ravassard

Martedì 10 marzo partiamo presto, ripetiamo il giochetto dell’asse di legno sul ruscello e puntiamo verso la Val Morta, che risaliremo fino al Colletto di Valasco. Mi guardo intorno, di qua ci ero già passato qualche anno fa, ma ora mi sembra di guardare tutto con un altro sguardo, più curioso. Andrea mi racconta che buona parte delle cime intorno a noi sono ancora da esplorare in chiave sciistica: solo dalla piana del rifugio, infatti, partono una quindicina di gite classiche, senza contare poi le discese di ripido che fanno gola a molti quando si verificano buone condizioni in primavera: il Tablasses, la Testa del Claus, la Testa di Bresses sono solo alcuni dei nomi che Pallo e Mattia mi sciorinano parlando delle discese che piacciono a loro: ripide, ma allo stesso tempo sciabili, non pareti esposte su cui salvare la pelle una curva saltata dopo l’altra. Le discese su cui aprire il gas, per intenderci. Passato il colle ci fermiamo per una pausa. Da qui ci separeremo: Luca e Cis, visto lo stato delle cose, devono riassettare il rifugio e sistemare alcune cose per i prossimi mesi in cui rimarrà chiuso. Noi continuiamo per il Colle di Fremamorta, seguendo una traccia vecchia di chissà quanti giorni. Di fronte a noi l’orizzonte è occupato dalla mole dell’Argentera, vicino a lui si stagliano il Corno Stella e la Catena della Madre di Dio. Nomi che a qualcuno possono dire poco, ma se si possiede un briciolo di cultura alpini- stica si sa bene che, nonostante la loro quota passi di poco i tremila metri, su queste cime si può trovare lungo, molto lungo. In fondo si srotola la gorgia della Ghiliè, da cui scenderemo fra qualche ora, una delle cime su cui si ammassano gli scialpinisti a maggio, lasciando campo libero su tutto il resto. Cambio assetto, panino, crema solare, giacca e via. La discesa dura troppo poco, specialmente quando si tratta di stare dietro a due amici che condividono parecchie passioni, tra cui quella per le curve a raggio ampio. Ripelliamo, direzione Vallone Ciriegia. Siamo soli, soli davvero, il telefono non prende e in giro non si vedono tracce, men che meno altri esseri umani. Se fossimo già su una delle cime di fronte a noi - come la Nasta, o il Mercantour laggiù in fondo - potremmo vedere l’acqua del Golfo di Nizza luccicare sotto il sole di mezzogiorno che ci sta cuocendo a fuoco lento. Credo che la testa fumi anche per altri motivi, che hanno a che fare con la cosa che affronteremo nei prossimi mesi, letteralmente chiusi in casa mentre negli ospedali i posti letto non saranno mai abbastanza.

© Federico Ravassard

Dalla cima del Ciriegia scendiamo di poco, l’acquolina di trovare neve migliore sul costone che sovrasta la gorgia della Ghiliè ci fa rimettere le pelli per la terza volta da quando siamo partiti. Spelliamo al sole, l’aria ora è tiepida. Parlare di isolamento sociale in questo momento, lontani chilometri da tutti e da tutto, sembra una presa in giro. La discesa è una danza con le contropendenze, la neve è bruttina ma in fondo quegli etti in più che ci portiamo su sci e scarponi servono proprio a questo. Al Piano della Casa ci fermiamo a goderci ancora un po’ di sole, prima di parecchi chilometri nel fondovalle all’ombra. Riempiamo le borracce nel torrente e ci fumiamo una sigaretta. Vogliamo sentirci liberi ancora per un po’. A Casa Savoia ci arriviamo non molto prima del tramonto. L’ultima serata libera ce la godiamo in una tinozza di acqua calda, che qui sgorga naturalmente. Si parla di sciate passate e di quelle future, perché in fondo gli sciatori sono, prima di tutto, amanti dei piccoli sogni che si concretizzano in qualche centinaio di metri di neve appiccicati a una montagna. Mercoledì mattina prepariamo gli zaini a malincuore. Abbiamo un’ultima cosa da fare prima di rinchiuderci in casa per le prossime settimane: andare a salutare il Lourousa, la linea simbolo delle Marittime. Risaliamo il Gias delle Mosche in silenzio, conosciamo già questo luogo. Quando arriviamo al Gias Lagarot ci fermiamo a un masso sul quale ci sdraiamo a crogiolarci al sole per un po’, prima di tornare giù a valle, verso la vita reale e i suoi problemi. Forse sullo stesso masso si era fermato anche Heini Holzer nel 1973, dopo aver risalito il Lourousa con gli sci sulle spalle e aver firmato così una storica prima. Dall’altra parte della valle la caotica parete sud del Monte Matto sembra essere stata disegnata apposta per esaltare l’estetica pura del Canalone. Cervellotica e solare la prima, razionale e ombroso il secondo. Una ti intima di fare curve strette e controllate, l’altro ti chiede di aprire il gas se ti senti all’altezza.

Qualche ora più tardi sono a Torino. La via di casa è deserta, scarico sci e scarponi mentre il termometro dell’auto dice che ci sono 25 gradi. Nel frattempo, intorno a me, il mondo si sta fermando per ricominciare a vivere. A distanza di un mese, vorrei poter bussare sulla spalla del mio me indaffarato e un po’ triste che apre il portone tenendo gli scarponi con due dita infilate nelle scarpette. Vorrei dirgli di stare molto attento a quello che succederà nei prossimi giorni, a non lasciare che l’atmosfera malsana creata dal virus lo contamini. Intorno a lui le persone si comporteranno nei modi più assurdi, c’è chi diventerà molto buono e chi molto cattivo. Ci guarderemo dalle rispettive finestre e pretenderemo di sapere tutto dell’altro. Perderemo un po’ di muscoli, ma soprattutto impareremo a conoscerci meglio, o semplicemente in un altro modo. Ci mancheranno gli amici. Poi, se tutto andrà nel verso giusto, miglioreremo come persone. E quindi come sciatori.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 129 DI APRILE 2020

© Federico Ravassard

Modello Val Maira

Qua e là, tra Alpi e Appennino, esistono una miriade di piccoli borghi dove negli ultimi anni per resistere allo spopolamento si è scelto di puntare su modelli slow, dove l’esclusività non è data tanto da listini fuori misura, quanto dall’isolamento (parola ormai sdoganata, ma fino a pochi mesi fa realmente apprezzata solo da pochi) e dal numero limitato di strutture ricettive, in controtendenza ai modelli mordi-e-fuggi in cui tutto, dal prezzo della camera ai metri quadrati liberi in spiaggia, viene tirato al minimo. Uno di questi borghi è Chiappera, in fondo alla Val Maira, ma sarebbe più corretto parlare di tutta la valle come destinazione slow, che si propone come modello da seguire per il turismo alpino del futuro. Per capire più da vicino il modello Val Maira, Federico Ravassard è stato in valle e ne è uscito un reportage che pubblichiamo su Skialper 132 di ottobre-novembre.

«A illustrarmi il piccolo miracolo della Val Maira in un giorno di settembre è Stefano Busso che, innamorato da sempre di questi luoghi, ha deciso di (ri)dare vita alla vecchia scuola di Chiappera, trasformandola in un albergo diffuso con annesso ristorante. Le aule, completamente smantellate, sono diventate stanze per gli ospiti, così come alcuni fienili e baite nei paraggi. La Scuola (sì, l’ha chiamata proprio così) è la sintesi delle idee che hanno reso unica questa valle, a partire dal numero di stanze, limitato ad appena dieci, che la rendono la struttura più grande (ma sarebbe più corretto dire meno piccola) di Chiappera. Questa limitazione è dovuta anche a vincoli regionali istituiti nel 1973 che proibiscono tuttora nuove costruzioni a favore del ripristino degli edifici storici, congelando il borgo a com’era mezzo secolo fa».

© Federico Ravassard

E pensare che alla fine degli anni ‘80 Chiappera era una frazione ormai diroccata, frequentata solo dai pochi alpinisti che bazzicavano fra Torre Castello e la Rocca Provenzale. La svolta arrivò in modo fortuito con una coppia di escursionisti tedeschi, giunti qui senza un ben precisato motivo, che si innamorarono all’istante di queste montagne deserte. Andrea e Maria Schneider persero la testa al punto di decidere di aprire la prima struttura per turisti dopo decenni di abbandono, con l’idea di iniziare a promuovere un turismo basato su numeri piccoli, valorizzazione del territorio e della cucina locale. Così è nata la rete dei Sentieri Occitani, basandosi sui percorsi che durante il Medioevo collegavano i centri dell’Occitania, un’area estesa dai Pirenei al cuneese in cui, secoli prima dell’Unione Europea, popoli diversi tra loro erano uniti da una lingua e una cultura comune. E la valle è diventata un santuario dello scialpinismo, ma questa è un’altra storia.

© Federico Ravassard

Lettera da Valdez

Si può vivere in barca a vela e andare a sciare la mattina e magari il pomeriggio sfruttare la brezza e girovagare per baie? La risposta è sì, soprattutto se ti trovi in un posto come l’Alaska dove le onde sono vicinissime alla neve polverosa. Ed è quello che fa Gabriella Palko, giovane speaker della radio locale e freerider, che ha iniziato a vivere su una barca a vela per caso.

«Casa e abitazione sono due cose diverse e l'abitazione è arrivata in forma fluttuante. Il vecchio e logoro veliero di nome Whisper è entrato nella mia vita grazie a un meccanico dai capelli unti e dal cuore gentile. Mi ha offerto la nave come rifugio temporaneo e ho finito per viverci per un anno e mezzo. La semplicità, l'intimità, la magia racchiusa tra le pareti di vetroresina che custodiscono le storie di una manciata di altre anime che avevano occupato quello spazio galleggiante prima di me mi hanno attirato e hanno cambiato la mia vita. Sentendomi per metà sicura della scelta, per l’altra metà pazza, ho comprato la mia barca a vela, più funzionale, lo scorso settembre. Si chiama Zephyr, ed è da qui che ho la grande fortuna di scrivere».

© Gabriella Palko

Gabriella è una delle protagoniste delle lettere da di Skialper 132 di ottobre-novembre e scrive la sua missiva da Valdez. Lo fa raccontando di come ha vissuto i giorni più duri del lockdown dalla usa particolare casa e di come la solitudine da scelta sia diventata un obbligo. «Sono abituata a stare da sola. Mi considero un membro abbastanza indipendente della specie umana, so apprezzare la solitudine, ma ho anche fiducia nella comunità. Improvvisamente mi sono ritrovata a vivere in solitudine non solo per scelta, ma anche perché costretta. Tutto a un tratto ho provato il terrore puro e il vero senso della solitudine, ma anche quello della libertà e della liberazione». E poi è arrivata l’estate, l’estate della libertà. «È stata la migliore opportunità per diventare più intima possibile con il mio palcoscenico, il territorio vasto e magico delle Chugach Mountains e del Prince William Sound. Ho continuato a lavorare alla radio per tutta l'estate, per garantirmi un reddito e un senso di normalità. Ma il resto del tempo l'ho passato nella mia piccola casa in barca, navigando verso Nord e facendomi strada attraverso le acque, sulle spiagge e sulle montagne del grande giardino dell'Alaska».

E ora? «Ora, se volete scusarmi, c'è il sole e c'è una brezza da sfruttare!».

© Gabriella Palko

 


Covid-19: provare a conviverci

Nel nostro ambiente lo conoscono tutti, o quasi. Francesco Bertolini, che organizza il festival Milano Montagna (che nel 2020 si è preso una pausa a causa della pandemia), è anche uno stimato professionista in campo sanitario e direttore della Divisione di Laboratorio di Ematoncologia all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. L’epidemiologia e l’infettivologia non sono direttamente il suo campo di lavoro, ma da uomo di scienza e medicina in questi mesi è sempre stato molto attento all’evoluzione della pandemia, avendo accesso a studi realizzati da colleghi e le competenze per leggerli oltre le righe. Per questo abbiamo fatto con lui un punto sulla situazione e sui comportamenti da tenere, anche ad uso di scialpinisti e appassionati di outdoor, che pubblichiamo su Skialper 132 di ottobre-novembre. Lo abbiamo intervistato a settembre e da allora c’è stata un’evoluzione, come è normale che sia, ma consigli sui comportamenti e valutazioni generali rimangono validi. Ecco qualche anticipazione.

Allo stato attuale, quali sono le cose che sappiamo con certezza e che è importante che tutti ricordino?  

«Teniamoci discosti e con mascherina al chiuso in luoghi pubblici e anche all’aperto quando non possiamo stare lontano da persone potenzialmente infettive. Siamo collettivamente alle prese con un nuovo virus che si comporta in modo solo molto parzialmente prevedibile. Per venire a capo di altre malattie l’umanità ha impiegato secoli e perso milioni di ammalati inguaribili. Visto con gli occhi dei nostri bisnonni, che in pochi mesi si sia riusciti a generare test diagnostici e a imbastire terapie che iniziano a essere efficaci è davvero oltre le aspettative. A oggi l’impressione è che torneremo un giorno a scambiarci senza problemi le borracce al termine di una bella salita con le pelli, ma è bene non fare troppe previsioni su quando e su come arriveremo a festeggiare questo momento. Sarà perché il patogeno sparirà (con altri coronavirus è successo), sarà grazie a un’ampia diffusione dell’immunità che ridurrà la capacità del virus di fare male o sarà grazie ad un vaccino? È troppo presto per dirlo».     

Quali sono le regole da tenere presente nella vita di tutti i giorni: oltre a mascherine, igiene e distanziamento ci sono altri consigli? 

«Per quel che oggi sappiamo le mascherine (almeno chirurgiche, quelle di sola stoffa servono pochino) hanno molto senso in ambienti chiusi, quando dividiamo lo spazio con altre persone. Sempre in questi ambienti e dopo aver frequentato (anche all’aperto) luoghi pubblici, lavarsi le mani è una cosa utile». 

Quanto contano il luogo e il tempo di esposizione nella probabilità di contrarre il virus e c’è un rapporto con la possibilità di contrarlo in forme più gravi? 

«Esistono delle situazioni in cui il virus si diffonde con grande efficienza. Succede preferibilmente al chiuso, in ambienti umidi e rumorosi dove le persone tendono a parlare a voce alta. Lo sappiamo da esperienze raccolte in alcuni posti di lavoro, su autobus e in ristoranti, ma se state pensando a quelle belle tavolate dove ad alta voce si raccontano tra tanti amici le discese ardite e le risalite, ehm si, occhio perché per un po’ di tempo potrebbe valere la pena di comportarsi diversamente». 

Gita scialpinistica, escursioni, alpinismo, come dovremo cambiare le nostre abitudini per ridurre ragionevolmente i rischi?

«Il rischio zero non esiste, ma in questa pandemia cercare di non ammalarsi è un comportamento socialmente ed eticamente sensato. Auto e rifugi (andando oltre le indicazioni dei vari DPCM, che hanno modificato e potrebbero modificare le regole di comportamento e le presenze in alcuni di questi ambienti, ndr) sono luoghi chiusi, se sono con persone con le quali non convivo, usare una mascherina chirurgica e lavarsi le mani riduce di molto il rischio di trasmissione». 


Su quale nuvola vivevamo per non accorgerci della nostra fortuna?

«Avevo iniziato a scrivere prima del lockdown, esplorando i benefici della solitudine in montagna. E poi la macchina si è fermata. La stazione è diventata silenziosa con la chiusura degli impianti di risalita. La natura sta rivendicando i suoi diritti. La purezza delle forme bianche cede il passo alla pacificazione di un paesaggio blu scuro. Scrivo di nuovo, chiuso tra quattro mura, in piena prigionia. Il cielo è caduto sulle nostre teste in questo resort fantomatico. È una stagione senza tempo che incombe. Il nostro paradiso bianco si sta sciogliendo in un'epidemia di oscurità. Devo ammettere che l'isolamento ha assunto un'altra dimensione, non è più l'idillio che avevo cominciato a descrivere. Avevo pensato che questo periodo mi avrebbe dato ispirazione. Al suo posto, di fronte a me, c'è un grande vuoto. Una pagina, bianca come la neve, e le mie idee che rimbalzano contro i muri».

A scrivere è Maxence Gallot che ha vissuto il lockdown chiuso in un monolocale di 26 metri quadrati nella località sciistica di La Plagne. Così quella reclusione forzata si è trasformata in una riflessione sul nostro mondo, sul modo di vedere lo sci e su come potrà cambiare. Su Skialper 132 di ottobre-novembre pubblichiamo il suo diario dal lockdown, tra delusioni e speranze. «Il mio modo di guardare alla montagna è cambiato. Non ho più fretta di partire alle 9 in punto per prendere la prima cabina e scivolare a capofitto verso le solite linee. È l'elogio della lentezza» scrive Gallot. «Abbiamo sempre avuto l'impressione di dominare il mondo, eccoci ora molto meno potenti e molto più insignificanti – conclude autore - (…) Non combattere contro il tempo ci aiuterà a girare l'orologio più velocemente, a risolvere il puzzle del vuoto, a trovare i pezzi mancanti di questa umanità che sta girando fuori controllo. E poi, quando avremo bisogno di tornare al ritmo della vita, avremo le chiavi per aprire nuove linee».

 


Alta Valtellina: scoprire, riscoprire, condividere

«Quando Edoardo e io abbiamo deciso di passare l’inverno insieme a sciare il più possibile non avevamo idea di dove andare; abbiamo scritto su un foglio di carta il nome di cinque località che, almeno a una prima apparenza, avevano le caratteristiche che secondo noi dovesse avere il posto in cui volevamo trascorrere la stagione. Per prima cosa, volevamo trovarci in un posto dove almeno la quota promettesse neve al momento dell’arrivo di ogni precipitazione. Poi ci interessava stare lontani dal turismo di massa e pagare un affitto ragionevole. Cercavamo un inverno più lungo possibile in cui sciare fino a non poterne più sopportare nemmeno l’idea. Non so perché - forse perché avevamo usato l’ordine alfabetico - ma Santa Caterina era l’ultima della lista. Abbiamo trovato casa quando ormai avevamo perso ogni speranza e, per quanto fosse difficile accorgersene nel caldo di Roma, l’inverno stava già bussando alla porta. Indossavamo ancora i pantaloncini quando abbiamo caricato la macchina di borsoni e speranze e ci siamo messi in viaggio verso nord. Verso l’inverno. Non avevamo la minima idea di quello verso cui stavamo andando incontro a testa bassa, e senza guardarci indietro».

Eva Toschi da tre inverni è ormai una local di Santa Caterina Valfurva. Ha esplorato con sci e pelli ogni versante della valle e nei mesi più freddi ama la zona dei Forni. Perché, con quattro chilometri di strada da fare con le pelli (o con gli sci in spalla) la folla primaverile si dilegua e diventa il regno del silenzio. Perché in Alta Valtellina, non solo in Valfurva, appena oltre gli itinerari più frequentati, c’è un paradiso per pochi.

© Eva Toschi

«L’Alta Valtellina è una zona così ampia e con numerose valli limitrofe che è ancora difficile trovare la ressa sugli itinerari. Tolti quei quattro-cinque classici o altre zone più famose come i Forni o la Val Viola, quando aprono le relative strade, se esci a fare un giro è difficile che trovi tanta gente. Chi non ha le competenze si muove solo sugli itinerari conosciuti e già battuti; chi invece ha un po’ di esperienza e ama muoversi non lo vedi in giro perché va a cercare posti poco conosciuti. Poi va messo in conto che tante valli sono difficili da raggiungere, ma le prospettive sono cambiate grazie all’uso della bici a pedalata assistita con cui si può andare fino a dove in primavera puliscono la strada, metter le pelli e partire. Questo tipo di scialpinismo è ancora di nicchia, ma si sta espandendo. In un raggio di 20 chilometri ci sono montagne, fauna e flora così diversi ed è difficile trovare tanta varietà in un’area relativamente piccola altrove sulle Alpi».

© Giacomo Meneghello

A parlare è Giuliano Bordoni, Guida alpina, local per nascita. Giuliano, dopo avere provato freeride e freetouring, ora si lascia ispirare da quello che lui chiama ski savage, uno ski sauvage, vale a dire alpinismo con gli sci su terreno d’avventura. «Ogni tanto ti capita di ravanare, altre meno e qui sta il bello: sapersi sempre stupire di fronte al risultato finale». Sapersi stupire anche di fronte al risultato finale delle 10 gite suggerite da Giacomo Meneghello, il fotografo autore della maggior parte delle foto del dossier di 18 pagine che dedichiamo all’Alta Valtellina su Skialper 132 di ottobre-novembre. Anche lui, come Eva, è un local acquisito, ma ha imparato velocemente ad amare queste montagne.


Giù al Nord

Può l’Appennino, almeno per un giorno, sembrare il grande nord? Può un fitto bosco di faggi assomigliare a una foresta di aspen del Nord America? Nel giorno giusto tutto è possibile e anche il vento che spira incessante si ferma. «Una piacevole brezza ci accarezza la pelle, una delle tante stranezze di inverni sempre più atipici in Appennino. L’Appennino centrale è caratterizzato da condizioni meteo variabili, ma il climate change ha reso tutto ciò ancora più imprevedibile» scrive Lorenzo Alesi su Skialper 132 di ottobre-novembre.

Tornare sulla catena dei Monti della Laga, Colle del Vento e Monte di Mezzo è un po’ come andare oltre la distruzione del sisma del 2016. Attraversare Amatrice, con il campanile della sua chiesa, unica struttura rimasta in piedi, e gli altri paesi quasi del tutto rasi al suolo per raggiungere Campotosto, da dove iniziano le salite, è come allontanare il passato e riconnettersi al futuro che verrà. Fuori dal bosco si continua a fare traccia risalendo pendii ondulati e dolci su una neve ancora fredda, condizioni insolite per questo posto, dove solitamente le creste sono battute dal vento e la neve è icy e insidiosa. Ma la gioia e le emozioni della discesa giusta sono effimere, e quando meno te l’aspetti, dove meno te l’aspetti puoi vivere una delle più belle giornate sulla neve. «Ogni volta che torno in Appennino vengo su queste montagne, ma condizioni di neve così non le avevo mai trovate» scrive Lorenzo. È tempo di andare: la discesa nella powder, nel canale Sud-Est con vista Gran Sasso e sui pendii dolci e poi nella larga faggeta fino ad arrivare al lago dà un gran gusto. E a testimonianza ci sono le immagini di Alice Linari, che raccontano più di mille parole.

© Alice Linari

Lettera da Sauris

«Sono arrivata quassù forse per destino. Avevo un paio di ore di buco per un’intervista saltata durante una trasferta a Sauris e la voglia di scoprire quella frazione che non avevo mai visto. Era un’occasione da sfruttare anche perché nella valle del Lumiei, dove la Carnia si spinge verso il Cadore, bisogna venirci apposta. Era inizio marzo, c’erano il sole e la neve. Sono salita a Lateis senza davvero sapere cosa aspettarmi. Ho trovato un silenzio tangibile, una cinquantina di case con in mezzo una chiesetta e, intorno, una natura potente. I prati, chiusi da boschi di faggio e di abeti, e poi le montagne, più rocciose e potenti a Sud, più morbide verso Nord. Arrivata in cima, alla borgata Ameikelan, ho notato uno stavolo, una vecchia stalla con il suo fienile, in posizione strategica: non solo davanti al Tinisa, la montagna che protegge Lateis, ma affacciato sul Bivera. Il Bivera si distingue dalle altre Alpi Carniche per la forma svettante, per il tratto di cengia orientale rossa di ammoniti. In sintesi, per la sua bellezza. Da quello stavolo, la vista sul Bivera era indubbiamente perfetta. Sono passati quattro anni e il Bivera ora lo ammiro praticamente da ogni finestra di casa, dallo stavolo scoperto in quella luminosa giornata di marzo».

© Luciano Gaudenzio

A Sauris il distanziamento è da sempre uno dei leit-motiv, lo sa bene Anna Pugliese, che ha scritto per Skialper una delle lettere da che pubblichiamo da Skialper 132 di ottobre-novembre . Di sciate, qui, se ne fanno parecchie. Anche perché si parte dai paesi già a una buona quota: 1.240 metri per Lateis, 1.212 per Sauris di Sotto, 1.398 per Sauris di Sopra. Il distanziamento fisico è garantito: gli abitanti sono meno di 400, c’è turismo, sì, ma non è certo opprimente. Puoi salire e scendere senza incontrare nessuno. «Il problema, spesso, è che ti tocca batter traccia». Quello che fanno Francesca Domini e Marco Stefanuto, che gestiscono un’azienda agricola che crea formaggi di capra e si sono sposati nel maggio del 2011 quasi in sella al Bivera, dove erano saliti con don Piller, il parroco sciatore di Sauris, e il suo cane, Fox. Anche loro sono alcuni dei (pochi) fortunati local. Ne parliamo su Skialper 132 di ottobre-novembre.

© Luciano Gaudenzio

Lettera dal Gennargentu

«Mentre sulle Alpi si cerca di combinare una salita nei giorni seguenti la nevicata, a queste latitudini, forse per paura che la neve si sciolga prima di averla toccata, si parte durante la nevicata stessa. Questo costringe già a tragicomici avvicinamenti in auto, su strade ovviamente non spazzate (in Sardegna si mormora di un fantomatico maialetto delle nevi che ripulisce le strade dopo la nevicata, ma noi non lo abbiamo mai visto!)».

© Maurizio Oviglia

Si può fare scialpinismo sul Gennargentu? Sì, almeno ci si può provare. Ed è un’esperienza che ha a che fare con lo scialpinismo di scoperta e molto con il ravanage. Ne sa qualcosa Maurizio Oviglia, che ha scritto per Skialper 132 di ottobre-novembre una lettera dal Gennargentu, ricordando le tante avventure tra filo spinato, fango e neve che sparisce a vista d’occhio. Oviglia parla del versante settentrionale del Bruncu Spina. «Ricordo una salita al Bruncu Spina da Nord dove, prima di raggiungere un pendio degno di questo nome, dovetti combattere per un’ora su un sentiero a ostacoli costituiti da filo spinato e muretti a secco. Alla base del pendio mi misi la cuffia, attaccai l’ipod con un pezzo di potente jazz rock, e mi sparai i 500 metri per cui ero venuto, tutti d’un fiato. Mi ero finalmente sfogato, ma sulla discesa meglio calare un pietoso velo». Poi sono arrivati i tentativi da Desulo e da Correboi. «Ci saranno stati 5 centimetri di neve e avevo oltrepassato 45 muretti di pietre con filo spinato; non ci crederete ma li avevo contati. In discesa mi si ruppe il vecchio scarpone come fosse un uovo di cioccolato (del resto l’attrezzatura buona l’avevo lasciata a Torino) e cercai di scendere alla meglio nella macchia mediterranea, mirando alla macchina. A un certo punto un cinghiale mi si parò davanti agli sci. Rimasi un attimo interdetto, ero sempre armato di bastoncini, avrei reso cara la pelle. Per fortuna con uno scatto si infilò nel bosco: provai a inseguirlo, a quel punto speravo in un ingresso in paese da eroe. Ma sapeva sciare meglio di me e lo persi…». Ora Maurizio ha smesso di partire con gli sci e le pelli alla scoperta del Gennargentu, ma in fondo quel sue peregrinare tra cinghiali, filo spinato e Mufloni usando gli sci come mezzo di trasporto è uno degli ingredienti che rendono lo skialp così bello, anche quando la neve non è proprio come nelle foto di copertina di Skialper.

© Maurizio Oviglia

Waffle, powder e wilderness

«È come muoversi in una tazza di latte. Il vento soffia, nevica di traverso e ho freddo. Non vedo molto, le croci rosse che segnano il percorso sono l'unico indizio che mi indica dove andare e a volte scompaiono del tutto nella desolazione bianca e infinita. Forse non è stata una buona idea fare un giro con gli sci oggi, ma dopo il lungo viaggio fino a Björkliden, nella Lapponia svedese, 195 chilometri a Nord del Circolo Polare Artico, volevamo sgranchirci le gambe e prendere un po' d'aria fresca».

A scrivere è Mattias Fredriksson, autore anche delle stupende fotografie. Nell’articolo Waffle, powder e wilderness, su Skialper 132 di ottobre-novembre, parliamo del Låktatjåkka Mountain Lodge, una casa di legno nero circondata da enormi muraglie di neve a 1.228 metri sul livello del mare. È il rifugio più alto della Svezia e, per la cronaca, bisogna sapere che la montagna più alta del Paese, il Kebnekaise, è di soli 2.097 metri. Il Låktatjåkka è una base perfetta per spettacolari escursioni in uno degli ultimi angoli selvaggi d’Europa. Oltre che una baita gourmet dove provare dei deliziosi waffle. Dormire al rifugio comporta un’esperienza un po’ diversa per lo scialpinista, perché si è a poche centinaia di metri di dislivello dalle vette, così la maggior parte del dislivello bisogna farla il pomeriggio per rientrare alla base.

«Stare al rifugio trasmette un senso di intimità. Gli ospiti e il personale la sera si incontrano nel soggiorno e nel bar per leggere e parlare. Si arriva a conoscersi tutti, soprattutto perché non c'è internet e gli smartphone non hanno praticamente campo. Invece ci sono un sacco di buoni libri e una selezione sorprendentemente di birra, vino e whisky di qualità. La cucina è di livello e si possono provare i piatti svedesi, a partire dalla carne di renna e alce». Appuntamento in edicola con Skialper di ottobre-novembre.

© Mattias Fredriksson