Le piccozze divorano la via con fame inesauribile. Si alternano veloci a mordere il ghiaccio sottile. Poi a graffiare la roccia nascosta appena sotto. È freddo. Ripido. Pauroso. Ed è solo l’inizio. Potrebbe essere tutto lì, davanti e sopra di lui. Potrebbe non servirgli altro che quella parete di vetro, il gesto che ripete e la tensione che lo affila per sentirsi vivo. E invece la velocità per un attimo rallenta, perde il dominio. Dani si ferma. Quasi scordasse di essere lassù, artigliato al velo di acqua solida che gli impone massima rapidità, si volta indietro. Si prende il suo tempo, sorride. There it is… the Alaskan sun, dice piano. Il giallo arancio del sole sboccia dal buio dell’orizzonte ancora assonnato. Tende un nastro lunghissimo sopra tutte le valli e lo annoda sulla fronte infreddolita di Dani e dell’amico, che da qualche ora salgono la parete Est del Mooses’s Tooth, nel cuore dell’Alaska Range.

Loro sono Dani Arnold e David Lama, uno svizzero, l’altro austriaco, e non hanno tempo per commuoversi. Buttano quello sguardo al sole, giusto il tempo di sentirsi felici, e poi via. Ancora su. Perché nelle quarantott’ore che stanno per vivere, in questa primavera 2013 già densa di alto alpinismo, firmeranno un’impresa destinata a farsi ricordare. Bird of prey, Uccello rapace. Una nuova via sull’inviolata Headwall di questa montagna tanto estetica quanto sperduta, posata nel mezzo di un ghiacciaio che solo i monomotore osano sfiorare. Millecinquecento metri di linea importante. Qualcosa che neppure loro si aspettavano di trovare. E forse di saper affrontare.

«Perdere David è stato durissimo» mi confessa Dani senza aggiungere tante parole. È passato ormai un anno da quando il compagno di avventure è volato verso la sua cima più alta, rapito da una valanga nel parco nazionale di Banff. Dani è da poco tornato dalla Siberia, dove ha vissuto nuove esperienze e ha risollevato il sipario sullo spettacolo che deve andare avanti, ma le cose restano difficili da accettare. «Quando è morto non ho voluto crederci, è stata una cosa che mi ha devastato». Eppure, in questo continuo filo di rasoio, restano pur sempre eventualità da mettere in conto. Succedono, e spesso. «È stato un dolore enorme dire addio anche all’amico Hansjörg Auer, che era con David quel giorno. Ma questa è la vita. E ho dovuto accettare e ingoiare anche il male che mi ha fatto salutare per sempre una persona come Ueli Steck». La montagna usa terapie d’urto per dialogare con gli umani, si sa. Tutti ne sono coscienti. Ma quella volta di Ueli, la perdita è andata oltre. Ha separato, verrebbe da dire, due parti del tutto. Ueli e Dani, due svizzeri, due velocisti della montagna. Due amici. Due rivali. Due talenti che si inseguivano e si raggiungevano, poi si sfuggivano, si cercavano e si osservavano. Si stimolavano a vicenda e non si invidiavano mai. «Non l’ho mai visto come un concorrente e ho sempre cercato di fare la mia strada» ricorda oggi Dani. Ma le cronache non possono nascondere quell’eterno rincorrersi sulle stesse cime. L’ossessione per le stesse pareti.

© Thomas Monsorno

Era il 2011 quando Dani Arnold, allora ventisettenne, rubò per qualche tempo lo scettro all’amico sulla Nord per eccellenza. Due ore e ventotto minuti per lasciarsi alle spalle tutta la via Heckmair, superare una ventina di cordate e mettere piede sulla cima di sua maestà l’Eiger. Venti minuti in meno del record che già era di Ueli. E che poi, nell’affannoso vortice, a lui sarebbe tornato senza altri rivali per poco più di cinque minuti. Un niente. Oggi la Guida alpina Dani Arnold da Urner di Bienne, villaggio montano della Schächental, Canton Uri, tiene in pugno tre delle sei grandi pareti Nord d’Europa. Cervino, Grandes Jorasses, Cima Grande di Lavaredo. Su ognuna il suo è il tempo più rapido di chiunque nella storia. Sono i tasselli di un puzzle fatto di speed record conquistati con la sola fisicità. Nessun dispositivo di sicurezza, niente corde né imbraghi, nessun friend, niente moschettoni, niente di niente. Solo scarpette e casco. E gas aperto a mille, nel puro stile di quel free solo che ha stregato anche il cinema di Hollywood.

«La rinuncia consapevole alla sicurezza è qualcosa di speciale – mi confida Dani – Nella nostra vita cerchiamo di rendere tutto sempre più sicuro, il che è positivo. E gli alpinisti che rinunciano al materiale di sicurezza solo perché lo ritengono fonte di rischi si espongono a un gioco molto, molto pericoloso. Per me è diverso. Quando io arrampico in free solo devo sentirmi sicuro al cento per cento di poterlo fare: la fiducia è un punto chiave». Anche la sicurezza, a pensarci bene, lo è. Da una deriva l’altra, in fondo, e viceversa. «Sì. La sicurezza è in assoluto la cosa più importante. Ogni persona deve decidere fino a che punto vuole spingersi. Tuttavia, esiste sempre un rischio residuo di cui ognuno deve essere consapevole. Il segreto per affrontarlo? Formazione, preparazione ed esperienza. Le montagne sono belle, ma non bisogna mai scordare che sono anche pericolose».

E se qualcuno si lascia vincere dal desiderio di emulare? «Ognuno ha il diritto di fare le cose come vuole. Ma a un solo patto: che la vita di nessun altro sia messa a rischio». Resta il fatto che quel che dicono è vero: la pericolosità affascina. E infatti per Arnold la via più bella di sempre è un nome quasi sconosciuto che però gli ha fatto passare le pene dell’inferno. Anubis, in Scozia. Un 8a+ di misto aperto da Dave MacLeod nel 2010. «Perché è la mia preferita? Perché è molto difficile e non è ancora stata ripetuta. Ci sono pochissimi percorsi al mondo che sono così tecnicamente impegnativi. Naturalmente anche i free solo e i tentativi in velocità sono molto importanti per me. Ma sono un alpinista e ogni tanto voglio fare non solo salite rapide, ma anche nuove vie o percorsi molto difficili». E allora naturale che col tempo il cuore si sia posato sulle grandi classiche. Sulla ricerca di un nuovo primato proprio dove le leggende dell’alpinismo avevano scritto la storia. Cervino, via Schmid, parete Nord. Nell’anno del secolo e mezzo dall’ascesa di Whymper, Dani è svolazzato in cima, questa volta aggiungendo all’attrezzatura piccozze e ramponi, nel tempo di una libellula, un’ora e quarantacinque minuti dove gli umani impiegano una mezza giornata buona. E poi la Cima Grande di Lavaredo lungo la mitica via, classe 1933, Comici-Dimai. Cinquecentocinquanta metri di linea impegnativa, simbolo dell’arrampicata in Dolomiti, sfrecciati via nel tempo di una messa, e neppure solenne. Quarantasei minuti e trenta secondi. Circa due in meno del record precedente e quanto i nomi qualunque impiegherebbero sì e no per fare qualche tiro. Ma neanche poi tanti.

Dani ogni volta arriva in cima senza sorrisi. Quasi fosse irrispettoso ridere lassù, a celebrare un tempo alla portata di nessuno. Non sorride, ma trasmette felicità. Ferma il cronometro e si accuccia, riposa, si guarda intorno e tiene un po’ la testa fra le mani. A pensare cosa, solo lui lo sa. «L’Eiger per me è stato come un trampolino di lancio. La Cima Grande, dal canto suo, è stata un’ottima esperienza. Speravo di essere così veloce, ma non pensavo fosse possibile. Delle Jorasses invece sono particolarmente orgoglioso: è una parete davvero grande». Il ricordo sul Massiccio del Monte Bianco è datato fine luglio 2018. Lungo la via Cassin sullo Sperone Walker, Dani Arnold volteggia ancora una volta al ritmo di una farfalla, per poi pungere come una vespa. Proprio come insegnava Muhammad Ali. Alle dieci meno venti del mattino è a 3.300 metri d’altitudine, alle 11 è a 4.000. Alle 11.27 il pungiglione si conficca sulla Punta Walker, a un’altezza di 4.208 metri. In due ore e quattro minuti Arnold chiude il cerchio e firma un nuovo successo sotto l’egida del Pro Team di Mammut. Ma la domanda resta: perché? «È più una sfida personale. Questa dell’arrampicata leggera e veloce è una tendenza che si sta sviluppando sempre più, ma io la vedo come una forma di lotta contro me stesso. Per me è molto importante essere bravi in tutte le discipline degli sport di montagna e credo che ci voglia un ottimo livello in ogni ambito per avere la sicurezza di arrampicarsi senza una corda».

© Thomas Monsorno

Già. Ma come arrivare tanto in alto? Dani ci scherza quasi su. E racconta di uno stile di allenamento molto freestyle, che non bada a mode o teorie e si alimenta solo delle proprie necessità. «A volte mi alleno molto, a volte faccio fatica a impegnarmi. L’obiettivo è importante per me: se non ho alcun obiettivo, non vedo alcun motivo per allenarmi. Ecco perché trovo fondamentale avere uno scopo nella vita. Quando lo raggiungi, puoi godertelo e festeggiare, e questa fase fa parte proprio del tuo personale traguardo». La pozione magica, comunque, non conta ingredienti segreti. Nessuna dieta specifica (anche se non mangio fast food ogni giorno) e tante ore nel letto: «Ho bisogno di dormire molto. Sono una persona mattiniera e la sera sono per lo più inutilizzabile». Ma neppure l’integralismo porta successo. E infatti, lui lo ammette, «spesso infrango le regole del mio stile di vita. Adoro il cambiamento. E penso che le nuove situazioni ti rendano creativo». La compagnia della moglie Denise, in tutto questo, non è di secondo piano. Con lei Dani arrampica spesso e con lei ha condiviso scalate di alto profilo. «È bellissimo quando possiamo fare grandi esperienze insieme in montagna. Per me gli amici, la famiglia e un posto dove mi sento a casa sono estremamente importanti». Eppure, paradossalmente, partire resta il pallino cruciale. Il chiodo fisso da battere finché ce n’è. Ieri il Broad Peak, primo Ottomila di una carriera giocata tutta su altezze minori, oggi la Siberia. Domani chissà. «Quella in Himalaya è stata una bella esperienza per me, ma non ne sono uscito soddisfatto. Tecnicamente non è assolutamente nulla di impegnativo. Ogni persona con un Ottomila nel cassetto è celebrata come un eroe, ma ci sono molte montagne di duemila metri che richiedono molta più preparazione di una via normale laggiù».

In Siberia, dove Dani è stato da poco con l’amico Martin Echser e dove sono state scattate le foto di questo servizio, le altezze sono ben lontane da quelle dei giganti della Terra. Ma lì il senso di infinito vince su ogni cosa e raggiunge il cielo senza alcuno sforzo. «L’obiettivo di questa spedizione era l’inverno freddo, quello giusto per tentare l’arrampicata su ghiaccio. Il riscaldamento globale sta rendendo le cose sempre più difficili alle nostre latitudini, quindi volevamo esplorare un nuovo posto, dove nessuno avesse mai scalato il ghiaccio». Un obiettivo raggiunto sul lago Bajkal, nella Siberia meridionale, dove di rado se si cerca il freddo ci si imbatte in qualcos’altro. «Abbiamo trovato esattamente quello che cercavamo, un freddo ben più intenso di quello che avevo provato sugli Ottomila: è stato fantastico. Ma anche la curiosità per il Paese, le persone e la cultura è stata un elemento importante di questo viaggio. L’ha arricchito molto».

Insomma: partire, per poi tornare e ripartire ancora. Alla ricerca infinita di qualcosa che non si afferra mai. Ecco la vita di Dani Arnold. «Certo, il periodo della quarantena da Covid-19 mi ha fermato, per forza di cose. Ma non è stato poi così male per me. Ovviamente ho dovuto posticipare una spedizione in Perù, ma la cosa più importante è che sono sempre rimasto in salute. Ora però sono molto felice che tutto stia tornando alla normalità». Un modo per dire, magari eufemisticamente, che quel che giaceva in pentola stia tornando a bollire? «Ho ancora molti progetti – chiude Dani, tra l’ermetico e lo scaramantico – Diciamo che non prevedo un futuro noioso». Insomma, non resta che stare a guardare: qualcosa lascia scommettere che la vespa dalle ali di farfalla si prepari a pungere ancora. Ma non chiedetegli se abbia paura, perché la risposta vi spiazzerà. «La paura è una buona amica, mi protegge» sorride lui. E a pensarci bene, Dani Arnold da Urner di Bienne un qualche segreto doveva pur nasconderlo. Che sia proprio questo, però, nessuno lo sa. E forse non lo saprà mai.

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