Soul Silk
SONDALO, OTTOBRE 2018 — IL TELEFONO SQUILLA
È il mio amico Yanez. Dopo i soliti convenevoli di chi non si sente da qualche tempo, mi dice: «Avrei un’idea un po’ strana, vorrei fare un viaggio diverso dal solito e mi ispira l’Oriente, magari la Via della Seta». Abbraccio di slancio l’idea e conveniamo che la bici sarebbe il mezzo ideale. Pervaso da una sorta di delirio di onnipotenza rilancio dicendo che sarebbe un peccato non abbinare qualche montagna e il progetto inizia a prendere forma.
VALTELLINA, INIZIO APRILE 2019 — TUTTO PRONTO, ANZI NO
Mancano meno di due settimane alla partenza e mancano soprattutto molte delle cose essenziali. La nostra e-Bike e il carretto artigianale sono ancora in fase di ultimazione a Torino e a Trento, non ci sono i visti per la Cina, dobbiamo fare gli ultimi vaccini, pensare a come raccontare la nostra avventura. Ci sono ancora tanti dubbi e poche certezze. In casa una catasta di oggetti da portare, in disordine quanto i nostri pensieri. Nel mezzo c’è anche il lavoro, da portare a termine prima possibile in vista della lunga assenza. Il conto alla rovescia spaventa, ma suona liberatorio dallo stress di dover pensare a troppi aspetti, troppo complessi per poter essere risolti.
LIVIGNO, 18 APRILE — SI PARTE
La salita notturna con le pelli al Piz dal Canton con l’amico Max per vedere l’alba e la discesa in parapendio dal Carosello 3000 assomigliano, per me, a un film già visto. La differenza è che oggi, fatta colazione, non si torna a casa. Presa la bici rimasta a dormire al Montivas, inizio a realizzare che oggi è il grande giorno. Sale l’emozione, saluto gli amici a Livigno, riempio le borse con le ultime cose e comincio a pensare: lo sto facendo davvero.
FALCADE, 20 APRILE — MARMOLADA
È stata una giornata grandiosa. Sole, amici, una nuova vetta raggiunta con gli sci, la prima ufficiale del nostro viaggio con la bandiera dell'ADMO (Associazione Donatori di Midollo Osseo), di cui siamo testimonial. Il tutto dopo essermi incontrato ieri con Yanez a Mezzolombardo e aver raggiunto a Moena gli amici della Scufoneda per una serata di festa. Il progetto prende forma, siamo entrambi un po’ smarriti nel trovarci catapultati in questa nuova realtà senza aver mai provato né i mezzi né avere fatto esperienza di tutti gli altri aspetti organizzativi di un viaggio così complesso. Ma l’insieme rende tutto molto elettrizzante.
LOGATEC, 23 APRILE — ARRIVEDERCI ITALIA
Siamo in Slovenia, ora non giochiamo più in casa. La pioggia è battente, le strade insidiose, i freni non vanno e affrontiamo le discese come funamboli incoscienti. Maciniamo chilometri ogni giorno, dall’alba al tramonto, sono giornate interminabili. Le soste diurne sono funzionali solo a ricaricare le batterie, visto che i pannelli solari non riescono ad aiutarci con queste condizioni. E le sere le passo a lavorare al pc e a preparare i report per sponsor, giornalisti e account social fino a notte. Ci fa male un po’ dappertutto, schiena, piedi, sedere, ginocchia, ma la motivazione è alta e siamo abituati a sopportare. Puntiamo verso l’ex Jugoslavia, ma ben lontani dalle ridenti coste turistiche e pure dalle belle montagne, per le quali dovremo attendere le terre balcaniche.
BIVACCO DEL MUSSALA, 2 MAGGIO — PROFUMO DI VETTA
Stasera bivacchiamo nel locale invernale del rifugio ai piedi del Monte Mussala (2.925 metri), il più alto della Bulgaria, nel massiccio del Rila. Ci abbiamo messo un’ora per poter utilizzare questo rustico locale a causa del ghiaccio e della neve che lo hanno invaso e di certo non è il posto più accogliente dove abbia dormito. Tuttavia l’idea di non doverci preoccupare di cercare un albergo, fare il check-in, cercare una sistemazione per il carretto e svuotarlo per poi ricaricarlo il mattino seguente mi fa sentire rilassato. È bello avere solo uno zaino. Il meteo anche oggi non è dei migliori, ma la salita fino a qui è stata relativamente semplice. Un po’ di portage iniziale e poi pendii abbastanza dolci. Domani saliremo in vetta per l’alba. Manca qualche centinaio di metri alla cima, alcuni da fare con gli sci ai piedi, altri senza, visto che si tratta di una cresta attrezzata, ma siamo ottimisti che sarà una gran giornata.
UCHISAR, 12 MAGGIO — I CAMPANILI DELLE FATE
È tornato il sole, fa caldo. Dopo un mese di pioggia continua sembra di essere in vacanza. Anche il panorama e l’ambiente ci riempiono gli occhi dopo tanti chilometri a pedalare su stradoni persi nel nulla e accompagnati solo dal rumore dei camion e del muezzin che cinque volte al giorno diffonde le litanie musulmane dai minareti delle innumerevoli moschee. Yanez, che odiava la pioggia, sembra rinato e in Turchia iniziamo a sentirci un po’ a casa. I chilometri giornalieri non sono calati, ma i nostri dolori sì. Tra noi e la bici stiamo iniziando finalmente ad avere la meglio noi. Oltre le caratteristiche formazioni di tufo e i campanili delle fate, all’orizzonte, svetta imponente l’Erciyes che con i suoi 3.916 metri è la vetta più alta dell’Anatolia. L’idea che quella sarà la nostra prossima metà e che ci andremo in bici fa salire un’emozione difficile da poter descrivere.
KAYSERI, 14 MAGGIO — IL GIGANTE DELL’ANATOLIA
Tornare a mettere gli sci è stato fantastico. Abbiamo lasciato i carretti a Kayseri e, sci in spalla, siamo saliti di primo mattino in bici fino al passo, a circa 2.000 metri, dove, seguendo le ultime lingue di neve, abbiamo iniziato a risalire le piste del comprensorio sciistico. Dopo alcune centinaia di metri di dislivello, abbandonate le piste, per alcuni avvallamenti e su dolce pendenza ci siamo via via portati ai piedi del pendio finale, maestoso e illibato. Il sole, complice l’esposizione a Est, stava già scaldando la neve, le condizioni erano ottimali e abbiamo iniziato a risalire il canale di accesso ai pendii soprastanti con numerosi dietrofront. La pendenza cresce in progressione dai 30° fino ai 40° finali per arrivare alla cresta sommitale che conduce brevemente alla vetta sciistica. Salire questo imponente vulcano con lo sguardo che pian piano spaziava a perdita d’occhio su tutta l’Anatolia fino a lambire le coste del Mar Nero a Nord e del Mediterraneo a Sud è stata una sensazione che non potrò dimenticare, qualcosa di nuovo. Poi la discesa, su firn perfetto, con le nostre tracce a disegnare solitarie il ripido pendio sommitale. Arte del divertimento. Da lì in poi è stata una lenta perdita di quota, godendosi la giornata di sole e la brezza dell’aria sul viso.
KHULO, 21 MAGGIO — FANGO
Sì, siamo a Khulo, piccolo e povero abitato rurale sperduto tra le montagne della Georgia. Il meteo è tornato tiranno e le strade, qui in gran parte sterrate, sono lingue di fango. Non ho mai amato il fango e doverlo affrontare con una bici a quattro ruote è una prova di pazienza prima ancora che di abilità o forza. L’unico conforto è il fatto di sapere che dopo tre settimane di Ramadan qui il vino c’è, ma rimane una magra consolazione. Purtroppo non abbiamo tempo per aspettare che il meteo e le strade migliorino, non possiamo fare soste e ci rendiamo conto che riuscire a stare al passo con la tabella di marcia è davvero impegnativo.
CAMPI DI SABIRKEND, 27 MAGGIO — L’UOMO DEL GELSO
Oggi è stata una giornata diversa. Siamo entrati in Azerbaigian senza sapere cosa ci aspettava. Lasciavamo uno stato post sovietico, la Georgia, e tornavamo in uno stato musulmano. Questo era tutto ciò che sapevamo. Si tratta di un Paese arido, rurale, con piccoli e rari villaggi così distanti tra loro che questa sera non siamo riusciti ad arrivare da nessuna parte per dormire. Ci siamo così fermati vicino alla strada, sotto ad alcuni alberi di gelso, nei campi. Con i nostri carretti non possiamo allontarci dalle strade e siamo costretti a cercare giacigli di fortuna per la notte, sperando che non vengano a cacciarci, come è già successo. Giusto il tempo di iniziare ad accamparci ed ecco che vediamo una macchina farsi largo tra i radi albusti. Scende un uomo con due bambini e inevitabilmente si dirige verso di noi. Iniziamo a far finta di voler togliere il disturbo chiedendo scusa, ma con autorevolezza, alzando le mani, ci ferma. Non parla la nostra lingua, non parla inglese, ma ci ha visto e ha capito tutto. Ci indica i campi, il frutteto e ci fa capire che è tutto suo. E tra la nostra incredulità ci fa segno di sedere, di rimanere. Si allontana un attimo per poi tornare con delle more di gelso tra le mani, per noi, in segno di ospitalità, con un sorriso che non potrò dimenticare. Non avrei mai immaginato di trovare una popolazione così calorosa e ospitale. Abbiamo visto gente che ci salutava dalle case, dai tetti, dai campi, dalle auto. Pronti a offrirci il thè, o meglio il cay, per poi circondarci, incuriosita e sorridente.
MAR CASPIO, 1 GIUGNO — LA NAVE FANTASMA
Tutti i forum online che avevamo letto su questo traghetto, che non è null’altro che una nave cargo, nonché l’unica via per attraversare il Mar Caspio, ne parlavano come di una sorta di nave fantasma. E ora abbiamo capito il perché. Quando ieri mattina ci siamo recati al porto ci hanno detto di ripassare dopo pranzo, per farci poi riferire che potevamo acquistare i biglietti e che forse la nave ci sarebbe stata la sera seguente o il giorno successivo. Sembrerebbe anche semplice a raccontarlo, se non fosse che quasi nessuno parla l’inglese ed estorcere ogni informazione equivaleva a una trattativa. Decidiamo di optare per una doppia, visto il costo esiguo, e attendiamo il mattino seguente per chiamare il porto e avere qualche certezza in più. Dopo vari tentativi, a mattino inoltrato pensiamo di aver capito di doverci presentare alle nove. Qui il condizionale è d’obbligo viste le profonde difficoltà a comunicare. Morale della favola, dopo ore passate seduti per terra, l’imbarco è avvenuto alle due di notte, per salpare quasi alle sei. In camera 32 gradi, umidità non calcolabile e nessuna finestra. La prima notte sono svenuto per qualche ora prima di fuggire, mentre Yanez vagava per la nave. La seconda notte l’ho passata direttamente all’aperto, sul ponte. Sui social postavo foto dalla barca, il tramonto, praticamente una crociera. La realtà invece parla di una giornata passata a tentare di lavorare al pc in una sala con più di 30 gradi, film anni ‘70 in lingua russa in tv, attorniato da camionisti uzbeki e kazaki. E pensare che avevo passato metà viaggio in attesa della prima giornata di riposo.
DESERTO UZBEKO, 9 GIUGNO — C’ERA UNA VOLTA L’ASFALTO
Se il deserto kazako inizialmente era parso inospitale, era comunque un luogo con il quale abbiamo imparato a convivere. Il deserto uzbeko no. In Kazakistan la temperatura superava i 40 gradi all’ombra, ma era un caldo secco. Qui la sera la temperatura rimane ben oltre i 30 gradi e l’umidità sale alle stelle, togliendoci l’unico momento di conforto. In più le zanzare, sì, pure loro, a rendere la notte insofferente. Di giorno, oltre al caldo afoso, le mosche che ci attorniamo e la perenne disidratazione che il bere acqua e bevande quando ci sono 40 gradi non attenua minimamente. Infine l’asfalto. Che non c’è più. Le perfette strade kazake sono un lontano ricordo. Viaggiamo a 15 chilometri all’ora se va bene, cercando vanamente di schivare le buche sebbene con quattro ruote risulti impossibile. Nuvole di polvere e auto che sorpassano senza alcuna regola. Qui non esiste il codice della strada, forse perché nemmeno esiste la strada.
KAZAKISTAN, 4 GIUGNO — INCONTRI RAVVICINATI CON IL DESERTO
Siamo nel deserto da tre giorni. Il primo abbiamo percorso circa 80 chilometri per arrivare alla città di Aktau e devo ammettere che è stato anche figo. Lingue di asfalto perfette a perdersi dritte fino all’orizzonte. Il silenzio, l’idea del nulla, qualche cammello. Poi il caldo che pian piano è salito ma, complice la compagnia di due ciclisti canadesi e un australiano incontrati in traghetto, è stato sopportabile. Il secondo giorno abbiamo familiarizzato con le aree d’ombra (un gazebo di cemento) ogni 40 chilometri, con il doversi organizzare per le scorte idriche e con la notte nella steppa. Oggi, il terzo, iniziamo a capire perché gli altri ciclisti abbiano preso il treno. Quando nel deserto tira vento, il vento tira contrario. Sempre. Visto che oggi abbiamo percorso poco più di 100 chilometri nel nulla, nessun punto di ristoro, nemmeno una parvenza di curva. Alienante.
OLMALIQ, 21 GIUGNO — IL RAGAZZO CHE CORREVA NEI CAMPI
A un certo punto ho visto un ragazzino che correva nei campi poco davanti a noi. Sembrava una gazzella. Mi sono subito chiesto perché corresse visto che in quei posti il tempo sembra essersi fermato e la fretta è un termine usato solo da noi rari occidentali. Poi, a un certo punto, ci siamo scambiati uno sguardo da lontano e ho capito. Ho capito che stava correndo per arrivare alla strada in tempo per salutarmi. Ho rallentato, mi sono fermato, gli ho dato la mano, come qui si suole fare. Ci siamo guardati negli occhi e poi… e poi non ci siamo detti nulla. Forse perché non avevamo nulla da dirci. O forse perché in fondo ci eravamo già detti tutto.
UZBEKISTAN, 18 GIUGNO — NON È POI COSÌ LONTANA SAMARCANDA
Mi ricordo da piccolo quando ascoltavo questa frase della celebre canzone di Vecchioni e sinceramente, oggi, mi verrebbe voglia di chiamarlo e farci due chiacchiere al riguardo. Tuttavia la soddisfazione di essere finalmente arrivati in questa storica e importante città della Via della Seta fa passare ogni cosa in secondo piano. Anche oggi, come ogni volta che siamo in città, mi sono svegliato alle cinque per uscire a fotografare l’ora blu e l’alba. Sebbene la stanchezza e il bisogno di riposare non manchi, la motivazione è stata più forte. Una città magica, intrisa di storia e ancora scevra dal turismo di massa. Una città vera e popolata da persone che ogni giorno scopriamo più ospitali e di cuore. E sono contento per Yanez che può festeggiare meritatamente il suo compleanno qui a Samarcanda! Ora ci crediamo, la via è ancora lunga, ma il grosso del deserto è passato e forse sta per cominciare la parte più bella del viaggio.
CAMPO BASE DEL PIK LENIN, 30 GIUGNO — YURTE
Queste strane tende sono gli unici elementi che spezzano l’ampiezza dei verdi prati del Kirghizistan. Sinuose lingue di asfalto risalgono ardite i passi montuosi fino a sfiorare i 4.000 metri, collegando i radi villaggi. Bambini, cavalli e pace fino a perdita d’occhio, d’udito e di pensiero. I giorni scorsi abbiamo coperto la parte conclusiva della Pamir Highway, una delle strade più alte e affascinanti del mondo, fino al villaggio di Sary Tash. Un paese indietro nel tempo, come molte delle zone incontrate in questo ultimo mese di viaggio. Qui si usa ancora l’abbaco, i bambini giocano scalzi lungo le strade e ti sorridono. E le persone lasciano che siano il tempo e la natura a scandire la loro giornata nonché la loro vita. All’orizzonte la bianca muraglia, la catena del Pamir, con le vette che superano i 6.000 metri e determinano il clima di questa regione. Tra esse il Pik Lenin che, con i suoi 7.134 metri, è la nostra prossima meta. Oggi siamo arrivati al campo base a circa 3.600 metri e non è stato facile. La strada sterrata, che poi è diventata un sentiero di montagna e infine la pioggia, che da un po’ avevamo dimenticato, ci hanno reso molto impegnativa la giornata. Ma siamo qui, tra tende e yurte, pronti finalmente a rimettere gli sci in attesa che domani arrivino i nostri due amici dall’Italia.
CAMPO 1 DEL PIK LENIN, 12 LUGLIO — ARIA SOTTILE
Sono stati 12 giorni intensi, passati tra il campo base, il campo uno e quelli alti autogestiti. Un’esperienza sicuramente diversa dal solito e che appare ancora più strana se pensiamo al fatto che sia stata vissuta nel bel mezzo di un viaggio in bici. Dai 40 gradi del deserto ai -20 o più dell’ultimo campo. Dal livello del mare a oltre 6.000 metri in due settimane. Avevamo voglia di rompere la routine ciclistica, sebbene qui in Kirghizistan le ore pedalate scorressero leggere come non mai. I dieci chilometri a piedi per giungere ai 4.350 metri del campo uno lungo un sentiero di montagna, affiancati dai portatori a cavallo, incredibili equilibristi, ci hanno proiettato in una nuova dimensione. Al campo uno abbiamo passato molti giorni nella nostra tenda e nella yurta della piccola agenzia alla quale ci eravamo affiancati dove Nabi, le cuoche e gli altri ci hanno fatto sentire parte di un’unica famiglia. Abbiamo raggiunto il campo due per attrezzarlo in autonomia, siamo saliti un paio di volte sullo Yuhina Peak, una vetta di 5.100 metri sopra il campo uno, sia per il piacere di farlo che per acclimatamento. E abbiamo via via osservato e capito come funzionasse la vita in spedizione. Peccato che ci mancasse la cosa più importante, ossia il tempo. Il tempo di aspettare che le condizioni fossero quelle ottimali. Quest’anno la copertura nevosa è molto buona, complice il fatto di essere arrivati il giorno stesso dell’apertura del campo base. Tuttavia siamo praticamente gli unici con gli sci, vista la scarsa sciabilità della lunga cresta per la vetta e le difficoltà oggettive e logistiche di scendere dalla parete Nord. Ci abbiamo comunque provato dal campo tre a raggiungere la vetta, forzando la situazione, ma freddo e vento forte ci hanno portati a dover desistere nonostante la cima fosse lontana all’orizzonte ma a sole alcune centinaia di metri di dislivello. Decisione sofferta, ma credo saggia. Non si trattava di tener duro, ma di rischiare salute e congelamento ai piedi. Rimane rammarico, ma anche consapevolezza. Il Lenin viene venduto come uno dei 7.000 più facili, non presentando tratti alpinistici particolarmente difficili, ma l’esposizione al vento della lunga cresta sommitale, insieme alla sottovalutazione, ne fa una delle montagne con più morti ogni anno.
KASHGAR, 20 LUGLIO — SE QUESTO È IL FUTURO, NE HO PAURA
Eravamo preparati all’idea dei severi controlli cinesi e all’idea che qui la musica sarebbe cambiata, tanto che avevamo saggiamente deciso, dopo il Pik Lenin, di lasciare ai nostri amici italiani tutto il materiale alpinistico e non necessario, regalare il carretto e procedere solo con le borse. Tuttavia mai avremmo pensato di trovare una situazione così surreale. Punti di controllo, check-point a ogni entrata e uscita del Paese. Check-point a ogni ingresso stradale. Telecamere a ogni incrocio, pure sulle ciclabili, poliziotti antisommossa armati a presidiare paesi e città, sottopassi, piazze e ogni luogo di assembramento. Veniamo trattati come se fossimo dei ricercati, fermati e schedati a ogni spostamento con l’obbligo di dimostrare provenienza e destinazione tramite prenotazioni o altri documenti. Vorrebbero che avessimo una guida turistica per controllarci, forse anche nei pensieri. Per strada siamo perennemente fermi per ore per questi motivi. Purtroppo la regione dello Xinjiang, soprattutto nell’ultimo decennio, è stata teatro di forti repressioni a causa della richiesta di maggiore autonomia. Anche la comunicazione è molto difficile, nessuno parla inglese e, a differenza delle altre popolazioni, qui comunicare a gesti o per intuizione pare impossibile. Siamo ormai diventati maestri di Google Translate, ma è difficile lo stesso perché basta una parola non compresa e il dialogo salta. Nei poveri Paesi orientali ho avuto spesso la sensazione di viaggiare nel passato, ma se questo è il futuro, ne ho paura. La tecnologia ha preso il posto della capacità di comprensione, riflessione, comunicazione. Automatizzazione di pensieri e comportamenti. Per il resto qui è pieno di motorini elettrici e di mercati trattandosi di una delle città storiche della Via della Seta. Anche la cucina, se si evitano certi piatti inquietanti, non è per nulla male. I giorni scorsi abbiamo percorso un tratto della Karakorum Highway, la strada asfaltata più alta al mondo, tra possenti montagne di terra rossa, valli immense e ghiacciai. Quante terre inesplorate, ho pensato. Un peccato che questi ambienti vengano preclusi, non salvaguardati, da questo regime.
OSH, 25 LUGLIO — UN VIAGGIO NON È UNA GARA
Quando siamo partiti non sapevamo bene da dove saremmo rientrati, ma pensavo da qualche città cinese, se tutto fosse andato bene. Invece siamo di nuovo qui a Osh, in Kirghizistan, in attesa del volo di rientro. Ci abbiamo provato a proseguire il viaggio nel cuore della Cina, ma non ci è stato permesso o meglio, non alle condizioni che per noi erano fondamentali, quelle che hanno ispirato, mosso e caratterizzato l’intero viaggio. In primis la libertà. Non è stata una scelta facile, ma un viaggio non è una gara, con una meta da raggiungere a ogni costo, è un’avventura che dev’essere vissuta secondo il fluire degli eventi e seguendo i propri ideali di viaggio. Proseguire verso oriente in quel clima che non ci stimolava, oltre a crearci numerose difficoltà, non aveva senso. Abbiamo quindi deciso di rientrare verso il Kirghizistan da un altro passo montuoso per compiere un interessante giro ad anello, ma anche questo ci è stato impedito dalle assurde restrizioni e regole cinesi, costringendoci quindi al rientro in Kirghizistan dalla via di andata. Varcato il confine una sensazione di libertà ha ripreso a pervaderci, abbiamo di nuovo pedalato accarezzati dal vento, gustandoci l’ultimo tramonto, l’ultimo soffio di avventura. Della quale spero ricorderemo per sempre ogni momento, ogni difficoltà, ogni sorriso, ogni cultura non solo vista, ma vissuta.
NUMERI
100 giorni di viaggio totali
9.700 chilometri percorsi in bici
90.000 metri di dislivello positivo 12 Stati attraversati 17,4 chilometri la velocità media in bici 557 le ore pedalate
2.000.000 le pedalate stimate 21 le forature di gomme totali 24 le gomme cambiate tra carretti e biciclette 3 il numero dei raggi rotti
2.735 il massimo dislivello fatto in un giorno tra bici e sci 218 i chilometri della tappa più lunga centinaia le persone e i sorrisi incrociati infinite le emozioni vissute
TOGLIETEMI TUTTO MA NON IL MIO CARRETTO
Il nostro carretto durante il viaggio era un po’ come la borsa di Mary Poppins. E non ne abbiamo mai saputo il peso effettivo, stimato forse in 80 chili totali. Un ritrovato di tecnologia artigianale tanto funzionale e robusto quanto problematico per l’ingombro e la struttura pensata per renderlo facilmente chiudibile, ma proprio per questo difficile da svuotare. Abbiamo scelto il telaio in acciaio e non alluminio per la paura che si potesse rompere e di non poterlo quindi saldare. Mentre la scelta del policarbonato è stata dettata dalla necessità di leggerezza e di resistenza agli urti. Al suo interno c’era di tutto. Il materiale da scialpinismo, con i nostri sci Ski Trab Magico.2 le cui punte fuoriuscivano, scarponi Scarpa Alien RS, artva, pala e sonda, ramponi, piccozza, casco, zaini, imbrago e corda da ghiacciaio della Camp. Poi avevamo il necessario per campeggiare, quindi la tenda e il sacco a pelo Camp, più il sacco bivacco monoposto della Outdoor Research, fornellini, pentole. La Karpos ci ha fornito i vestiti per ogni situazione, dal deserto all’alta quota, dalla bici allo scialpinismo; i guanti, diversi modelli per ogni temperatura, erano di OR, il casco e le scarpe da bici e da tempo libero Scott. Computer, materiale fotografico, ricambi e attrezzi di ogni tipo per la bici, oltre al pannello fotovoltaico sul tetto e la centralina energetica annessa all’interno, pochi effetti personali, una borsa con alcuni medicinali, viveri e riserve idriche, soprattutto per il deserto, completavano il fardello.
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Alle 19 la prima del film sulla spedizione al Mount Logan di Millerioux & co
Seicento chilometri a piedi, 200 sugli sci e 330 di rafting sul Columbia River. La spedizione al Mount Logan di Helias Millerioux, Alexandre Marchessau, Thomas Delfino e Gregory Douillard, nelle parole dello stesso Millerioux «è stata una delle mie spedizioni preferite, un mix di bellezza, impegno e paesaggi incredibili». Da quell’avventura di 52 giorni in Alaska è stato prodotto un film, Mount Logan, che verrà proiettato per la prima volta in live screening questa sera alle 19, in diretta dalla sede di Scott Sports e con la presenza di Helias, Alexandre e Thomas. Il film sarà trasmesso sul canale Youtube e direttamente sul sito internet di Scott Sports.
Scialpinismo in crescita, ma pesano le restrizioni degli ultimi DPCM
È un po’ il mantra di inizio stagione: sciare nelle località sciistiche sarà più difficile e allora si assisterà a una crescita dello scialpinismo. Quello che, nei limiti degli stock disponibili, è successo negli Stati Uniti a marzo, dove in alcune zone il lockdown è stato più leggero ed è iniziato dopo rispetto a noi. Ma è davvero così? E la vendita di attrezzatura e abbigliamento per hiking e trail running in estate come è andata? Lo abbiamo chiesto a tre negozianti specializzati che si trovano in zone geografiche diverse.
«Fino a un paio di settimane fa c’era un buon interesse sullo scialpinismo, anche se in parte era collegato con la chiusura e i mancati acquisti di marzo-aprile» dice Diego Cavallo di Cavallo Centro Sport di Borgo San Dalmazzo che in questi giorni presidia il negozio, lasciato aperto dall’ultimo DPCM, ma desolatamente vuoto. «Oggi è entrata una persona, appena il contagio ha iniziato a salire e sono arrivate le nuove misure si è fermato tutto, mentre l’estate è andata bene, soprattutto per l’hiking: è in parte cambiata la clientela ma la stagione è stata comunque interessante».
Anche Danilo Noro di XL Mountain di Settimo Vittone, vicino a Ivrea, è tranquillo in negozio, dove in questi giorni arrivano soprattutto corrieri con la merce. «Fino a un paio di settimane fa c’era moltissimo interesse, uno degli ultimi sabati prima dell’entrata in vigore del DPCM è stata una giornata da record, poi si è fermato tutto». È interessante conoscere meglio la clientela che ha affollato i negozi in autunno. «Prevalentemente nuova, in arrivo dalla pista, con poca esperienza nella scelta dei materiali per lo skialp» dice Danilo. XL Mountain si trova lungo la strada per le località valdostane e c’è una parte di clientela che ha ricercato l’attrezzatura da scialpinismo per evitare di prendere gli impianti di risalita, risalendo lungo le tracce aperte accanto alle piste del Monterosa Ski, ma con l’obiettivo poi di ridiscendere in pista. «C’è stata anche tanta richiesta per bambini e ragazzi, ma in carenza di attrezzatura alcuni hanno ripiegato sullo sci di fondo» conclude Danilo che conferma i buoni numeri estivi dell’hiking e del trail.
«Fino a inizio/metà ottobre c’è stato molto interesse, sia nel negozio fisico che sul sito internet, con aumenti a due zeri nelle vendite di attrezzatura per lo scialpinismo, oggi il punto vendita è chiuso, il sito fa registrare ancora numeri alti e tanto interesse, ma le vendite si sono quasi fermate del tutto» dice Ivan Divenuto, che gestisce Memo Alpine Outwear di Campo Tures, in Alto Adige. La sensazione, come è avvenuto in estate, almeno da queste parti, è che sia in crescita l’attrezzo ma più fermo l’abbigliamento. «In estate abbiamo assistito ad aumenti notevoli nella vendita di scarpe da hiking, mentre non è stato così per l’abbigliameno: è arrivata tanta clientela nuova che non poteva fare a meno delle scarpe tecniche e probabilmente si è arrangiata per l’abbigliamento, magari senza avere obiettivi troppo specifici» conclude Ivan. Più che la neve si aspetta qualche decisione per capire cosa e quando sarà possibile fare, questo è il mantra del momento.
La velocità dietro casa
Alcune delle domande che avevo in mente per François trovano praticamente risposta nelle telefonate intercorse per organizzare questa chiacchierata. «Domani è perfetto, ma se per te va bene sentiamoci nel primo pomeriggio, al mattino sono impegnato». Poi scopri che al mattino sono impegnato stava per domani mattina vado a farmi un giretto sulla cresta Triftjigrat sul versante Nord del Breithorn Occidentale: approccio in sci partendo ovviamente da Cervinia, discesa sul lato svizzero, salita della cresta e sciata su Cervinia. Roba easy, quattro ore. Una mattinata appunto. François d’altronde non ha bisogno di grosse presentazioni, lo avevamo già incontrato qualche numero addietro per parlare sempre del suo modo leggero e veloce di andare in montagna. Un modo che lo ha portato a compiere diversi exploit sulle montagne del mondo, dall’Alaska all’Himalaya. Figlio d’arte per eccellenza: i cognomi Cazzanelli, da parte di papà, e Maquignaz, da parte di mamma, sono legati da più di un secolo al mestiere di Guida alpina e all’alpinismo. Nessuna forzatura quindi ha fatto sì che la sua strada seguisse le orme tracciate dai propri avi già da ben cinque generazioni, diventando membro delle Guide del Cervino nel 2012, a soli 22 anni.
Se l’alpinismo apparteneva già al suo DNA, il motore lo ha invece costruito a partire dalle gare di scialpinismo giovanile e poi nella Sezione Militare di Alta Montagna del Centro Sportivo Esercito di Courmayeur. François lo avevo incontrato solo una volta in falesia a Finale, a Bric Scimarco; penso che nemmeno si ricordi, avevamo scambiato qualche parola con amici comuni. Già sapevo chi era e in quel periodo si stava rimettendo da un incidente al braccio occorsogli durante la spedizione al Kimshung, in Himalaya. Rimasi colpito dalla naturalezza con cui si muoveva anche in un periodo di non particolare forma. Era a suo agio nel mondo verticale e lo lasciava percepire. Penso che per lui l’andare in montagna sia così: una cosa naturale, veloce e leggera, fast & light (F&L) appunto.
François ha saputo portare questo suo modo di muoversi nel proprio alpinismo, a partire dalle montagne di casa, dalla sua valle, la Valtournenche. Ha spesso cercato l’avventura uscendo dalla porta di casa, sulle sue montagne, dal Cervino a quelle meno altisonanti, ma non meno affascinanti, disegnando storie che sanno di grande alpinismo classico ma rivisitato in un nuovo modo, veloce ed efficace. Delle imprese a tutti gli effetti, in estate e in inverno, con i suoi compagni. Muoversi veloci, su terreno sempre più tecnico, è certamente una delle direzioni che l’alpinismo moderno sta prendendo, dagli alpinisti d’élite come François e via via allargando la base tra gli adepti non professionisti. Il F&L fa sentire più liberi, apre nuove possibilità, a patto di essere umili e preparati. Andare veloci, ma senza la fretta di farlo subito. E penso che la persona che abbiamo davanti sia quella giusta per parlarne: François è il nostro uomo.
Ormai una parte dell’alpinismo di punta sta seguendo la direzione della velocità. Cosa rappresenta questa filosofia per te? Ti ci ritrovi?
«Con Kilian ci sentiamo e me lo ha chiesto anche lui, ogni tanto ne abbiamo parlato. Mi ritrovo in un alpinismo fast & light, perché mi sento a mio agio. Se devo scegliere una parola, penso possa essere libertà. Che è la sensazione che mi regala l’andare per monti in questo modo».
Da dove arriva secondo te questo modo di muoversi in montagna? Chi sono stati i precursori?
«Forse ti stupirò, ma personalmente ritengo che sia una storia con origini antiche. Pensa che Luigi Carrel negli anni ’30 teneva un libretto dove si annotava tutti i tempi delle salite al Cervino da Valtournenche. Però secondo me le origini vanno cercate in grandi personaggi degli anni Ottanta: uno dei più grandi è stato senza dubbio Erhard Loretan, tra i primi a capire che a volte la chiave del successo per salire sugli Ottomila era scalare in velocità. Poi Profit, il suo tempo sull’Integrale di Peuterey è ancora un riferimento. Anche Patrick Berhault con le idee dei concatenamenti».
Arrivi dallo scialpinismo agonistico e da una famiglia di Guide. È stata una crasi naturale la tua?
«Sì, le due cose si sono poi fuse. Ho iniziato con gli itinerari alpinistici, più tecnici in senso stretto e poi mi è venuto il tarlo che arriva dallo skialp di percorrere le vie in velocità, di muovermi veloce in montagna».
Che limiti ha il F&L su terreno tecnico?
«Più il terreno diventa tecnico, più essere veloci e leggeri diventa una specialità riservata a un’élite alpinistica. Ti basti pensare alle salite in velocità sul Nose. Fantascienza! Ovvio che su terreno via via più tecnico parte del tempo deve essere impiegato per proteggersi, per assicurarsi, per fare sosta. Anche nell’alpinismo però c’è voglia di confrontarsi con il tempo, ma personalmente non penso che vada cercata la velocità per confrontarsi con un tempo, ma perché invece è in grado di offrirti la possibilità di godere di un maggior numero di prospettive stando in montagna. Spesso si vuole correre senza saper camminare: per muoverti veloce in montagna ritengo che sia fondamentale avere un curriculum alpinistico classico. Ci devi passare, devi essere un alpinista. Succede lo stesso nelle grandi gare di scialpinismo: per vincerle, per andare forte, non bastano i metri di dislivello che puoi macinare a bordo pista. Devi essere uno scialpinista».
E i limiti imposti dal materiale?
«Il materiale va spiegato. Va chiarito quando è il momento di utilizzarlo, in funzione delle condizioni del momento. Tanta gente si porta dietro quello sbagliato. Me ne accorgo anche come Guida».
La velocità è sicurezza o comporta dei rischi?
«Bisogna imparare a muoversi con del margine, lasciarsi sempre un 20 per cento. Questo l’ho imparato da Kilian. È quello che ti fa portare a casa la pelle. E poi non è trascurabile il fatto che muoversi veloci significa stare meno in giro e conseguentemente meno esposti ai pericoli oggettivi: l’ho imparato negli anni, specie con il mio mestiere di Guida alpina».
È appena trascorso un periodo di lockdown e tutti ci siamo trovati a dover limitare gli spostamenti, rimanendo più nelle vicinanze. Tu hai sempre valorizzato la tua valle, vero?
«Sono attaccato alla mia valle, è la mia terra, casa mia. Ho la fortuna di osservare le montagne tutto l’anno. Così facendo, con le diverse luci che sa regalare ogni stagione, si riesce sempre a scoprire qualcosa di nuovo, un risvolto, un dettaglio, un diedro, una fessura. E questo mi motiva per immaginare altre avventure».
A cosa si presta meglio la Valtournenche? Anche al di là del Cervino, c’è ancora qualcosa da scoprire?
«Dipende dalla fantasia dell’alpinista. È conosciuta per lo sci, ma abbiamo chiodato falesia, aperto vie di ghiaccio e misto. Per l’arrampicata e l’outdoor in generale credo che abbia un potenziale molto alto».
Lo hai dimostrato con l’ultima traversata, il primo concatenamento invernale delle Catene Furggen, Cervino, Grandes Murailles e Petites Murailles. Raccontaci tutto, come è nata l’idea?
«L’idea ha iniziato a prendere forma parlando con mio papà che aveva fatto la prima invernale della traversata delle Grandes e Petites Murailles. È una cresta che vedo dal letto, nel vero senso della parola, ce l’ho davanti agli occhi. Tutti i tentativi li avevo già fatti con Francesco Ratti. Nel 2017, la prima volta, forse non avevamo ben idea di che cosa ci aspettava, nel 2018 c’era troppa neve. Nel 2019 abbiamo commesso un errore di valutazione cercando giorni non freddi. Il caldo ci ha fermato tra la Punta Ester e la Punta Lioy: neve marcia a 3.800 metri e cornici poco rassicuranti».
Il percorso come lo hai studiato? L’hai definita una cresta di proporzioni himalayane, giusto?
«È una cresta enorme, comprende in totale 20 vette: la più alta è quella del Cervino con i suoi 4.478 metri. Per le sue dimensioni, per le altezze e per i passaggi vertiginosi la cresta è sicuramente una delle più spettacolari delle Alpi: misura circa 51 chilometri ininterrotti con 4.800 metri di dislivello positivo. Nel 2019 avevamo incluso anche la Dent d’Hérens, poi abbiamo capito che ci avrebbe fatto perdere troppo tempo. Non ho vergogna a dire che abbiamo capito che dovevamo tenere un profilo più basso e accontentarci di passare per il Colle delle Grandes Murailles, evitando la vetta di questo quattromila e rimanendo proprio sul confine naturale della Valtournenche».
Ti confesso che apprezziamo molto quando un alpinista come te ci confida che ha tenuto un approccio più conservativo, valutando condizioni e limiti. Ti fa onore. Ora passiamo ai dettagli tecnici, raccontaci nei particolari questa vostra avventura.
«Memori dei nostri errori, quest’anno abbiamo scelto i giorni più freddi dell’inverno. Siamo partiti il 20 gennaio dal rifugio Theodulo con una temperatura di -23 gradi e, raggiunto il bivacco Bossi, abbiamo proseguito sulla cresta del Furggen fino alla spalla di Furggen per poi deviare sulla via Piacenza. Sulla Piacenza ci siamo trovati ad affrontare alcune lunghezze non banali che ci hanno impegnato parecchio. Finalmente, alle quattro del pomeriggio in punto, siamo arrivati in vetta al Cervino. Da qui siamo scesi e abbiamo pernottato alla Capanna Carrel, a 3.830 metri, raggiunta alle cinque e mezza e perfetta per trovare riparo dal vento forte che ha soffiato per tutta la notte. Una prima giornata in cui tutto è filato per il verso giusto. L’indomani la sveglia è suonata alle quattro e alle sei siamo partiti per per quello che sarebbe stato il giorno più impegnativo».
Il secondo giorno?
«Sì, un sacco di vento e temperature basse. Siamo scesi al Colle del Leone e poi abbiamo affrontato il traverso del Leone fino al Colle del Breuil. Da qui in sequenza: Punta Maria Cristina (3.708 m), Punta Maquignaz (3.841 m), Punta Carrel (3.841 m), Punta Bianca (3.918 m) dove abbiamo dovuto affrontare condizioni difficili, con neve alla vita e poi ghiaccio nero. Finalmente alle cinque e mezza abbiamo raggiunto il bivacco Perelli, a 3.831 metri».
Diciamo non proprio un’esperienza plaisir…
«Il terzo giorno alle sei abbiamo deciso di partire: sempre vento e freddo sui -20 gradi. Obiettivo il bivacco Paoluccio. Si comincia con la Punta Margherita (3.905 m), poi la Punta dei Cors (3.849 m) e finalmente il bivacco Ratti dove ci è scappata una piccola pausa per mangiare qualcosa. Poi Punta Ester, di nuovo con molta neve e infine ecco il posto dove ci siamo ritirati l’anno scorso, la Punta Lioy (3.816 m), la porta di quella che abbiamo soprannominato la fossa dei leoni, ovvero la forcella che separa la Lioy dai Jumeaux. Un angolo un po’ tetro della cresta, dove dico sempre che le prospettive vengono totalmente capovolte. Non proprio un bel posto. Arrivati al colletto la neve però era perfetta e abbiamo raggiunto agevolmente la Punta Giordano (3.872 m). La cresta in questo punto è davvero ariosa, un coltello che ci ha costretto ad attrezzare delle calate in doppia e poi, con due tiri, siamo arrivati sulla Punta Sella, a 3.872 metri. Erano le cinque del pomeriggio e finalmente abbiamo visto che la cresta davanti a noi iniziava a scendere, ma il bivacco Paoluccio era ancora lontano. Lo abbiamo raggiunto con le frontali alle otto, stanchi ma ormai con la consapevolezza che c’erano buone possibilità di arrivare a valle il giorno seguente. Entrati nel bivacco sembrava di essere in un altro mondo: le temperature si sono alzate e il Paoluccio, a differenza del Perelli, era asciutto e senza neve. Da valle Damiano, il fotografo, ci ha avvertito che le condizioni meteo stavano per cambiare: sveglia puntata alle cinque con l’obiettivo di terminare l’opera».
Ultimo giorno: 23 gennaio, come è andata?
«Alle sette fuori dal bivacco: sulle Petites Murailles la neve era perfetta e la temperatura non più estrema: in tre ore abbiamo raggiunto il Mont Blanc du Créton (3.406 m). Dopo non molto abbiamo visto il bivacco Florio, lì abbiamo capito che era fatta! Ci siamo slegati, abbiamo tolto il casco e raggiunto il Col des Dames e giù nel Vallone di Vofrède, tutto su buona neve. A valle abbiamo stappato una bottiglia di Prosecco. E poi pizza!».
Domanda più tecnica: il materiale usato?
«Una corda da 50 metri, una serie di friend, quattro viti da ghiaccio, tre piccozze in due per consentire al primo di cordata di procedere in sicurezza nei tratti di ghiaccio più difficili, ramponi Grivel G12, una scelta di chiodi a lama utilissimi sulla roccia delle Grandes Murailles, un sacco a pelo a testa. Tranne che per la prima notte alla Carrel, dove abbiamo sfruttato il comfort del locale riservato alle Guide, avevamo dietro tutto il cibo e il gas per il fornello per i quattro giorni: poco meno di 15 chili di zaino».
Qualche piccolo segreto?
«Mi mettevo gli scaldini nel sacco a pelo tutte le notti (ride, ndr), una conseguenza del fatto che avevamo volutamente scelto i giorni più freddi di tutto l’inverno».
Come ti sei allenato?
«Niente di specifico, ti direi andando tanto in montagna. Ho comunque fatto dry-tooling e tanti metri con le pelli per allenare il fiato».
Qualche aneddoto?
«La notte al bivacco Perelli: dopo il secondo giorno, con quel vento che ci aveva schiaffeggiati durante tutto il percorso, siamo arrivati e abbiamo trovato la porta semi-aperta, con tutto il bivacco invaso dalla neve. Abbiamo dovuto spiccozzare e liberare un posto per dormire: una notte bella fredda. Avrei fatto qualsiasi cosa per scaldarmi… non pensare male, non proprio qualsiasi!».
Oltre che alla storia dell’alpinismo, sei attento anche alla storia delle montagne?
«È molto importante, specie per una montagna che sento mia. È qualcosa che si tramanda. Nel web si trovano molte informazioni ormai, ma a volte sono poco attendibili e si perdono dei dettagli che invece i racconti dei local ti sanno dare. A questo proposito vi invito a leggervi la storia di questa cresta che ho riportato sul mio sito. Si parte dal 1940 fino ad arrivare all’invernale di mio padre Valter nel 1985 e al mio giro in velocità con Kilian Jornet nell’agosto del 2018».
Possiamo dire che il tuo è un alpinismo classico?
«Penso di sì, perché sento che è il terreno dove riesco a esprimermi come voglio, un terreno tecnico dove non si muove uno skyrunner puro, ma che mi consente di essere veloce ed efficace. Sento che qui la velocità può aprirmi davvero molti orizzonti. È questo ciò che mi piace».
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Quelli della notte
È nata nel 2010 con una formula diversa e ora, alla decima edizione, è diventata una grande classica dello skialp in pista e in notturna, come la Sellaronda nelle Dolomiti. La Monterosa Skialp, che nel 2020 ha visto crollare i record maschili e femminili e la partecipazione di tutti gli atleti top, non è solo una gara con 120 coppie che si sfidano nella notte sulle piste del MonterosaSki, ma un evento che prende forma il giorno dopo che è finita l’edizione precedente. E Franco Torretta, direttore d’esercizio della Monterosa SpA, oltre che appassionato skialper, lo sa bene.
Qual è il calendario degli organizzatori della gara?
«L’organizzazione parte immediatamente dopo la chiusura dell’edizione precedente, con la definizione delle collaborazioni con gli enti istituzionali (Regione, comuni di Ayas e Gressoney La Trinitè, sci club, consorzi turistici) e gli accordi con gli sponsor. Da aprile a dicembre io ed Henri Grosjeaques ci occupiamo di verificare ed eventualmente integrare il materiale di pista, di predisporre i pacchi gara e i ricordi per i volontari, la strategia comunicativa con MonterosaSki, i piani B per la gara con percorso ridotto o modificato a seconda delle condizioni meteo o di innevamento, di pensare possibili alternative al percorso originale (per esempio per il 2021 si sta ragionando su una diversa partenza da Gressoney), di stabilire la data».
Quanti volontari coinvolgete?
«Circa 80 per la gestione dell’ufficio gara, di partenza, arrivo, delle 14 zone di cambio assetto, per i ristori e la tracciatura. Gli enti esterni coinvolti sono i Vigili del Fuoco, il Soccorso Alpino, il Corpo Forestale della Valle d’Aosta e il 118. La sola preparazione dei pacchi gara (chip, spille, pettorali, buoni pasto, gadget) coinvolge circa cinque persone per un giorno, tre giorni prima della competizione; della sala congressi per l’accoglienza, cena e la premiazione si occupano i Vigili del Fuoco volontari nei tre giorni precedenti la gara, mentre per predisporre il parterre alla partenza e arrivo e smontarlo ci vogliono cinque persone per circa un giorno di lavoro».
Come segnalate il percorso?
«Con 620 bandiere verdi per la salita, 620 bandiere rosse per la discesa, 30 bandiere gialle per le parti a piedi e 200 torce luminose per i cambi di direzione in pista e le zone di cambio; inoltre ci sono tre palloni luminosi e 30 fari per le zone di cambio».
Quanti mezzi sono coinvolti nella preparazione delle piste e quanto ci vuole?
«Dieci battipista tra le 17,15, orario di chiusura al pubblico delle piste di sci, e le 18, su un percorso di circa 30 chilometri».
E il dopo?
«La rimozione di tutto il materiale in pista, per esempio bandiere, reti, illuminazione, e la battitura delle piste inizia verso mezzanotte e dura per circa due ore».
Che cosa vuol dire sicurezza?
«Abbiamo due medici rianimatori, tre defibrillatori, due ambulanze (ad Ayas e Gressoney) e 15 pisteur sul percorso. La gara è a coppie in modo che il compagno possa dare l’allarme al primo punto di controllo, è obbligatorio l’artva per ricercare un eventuale disperso a bordo pista, come lo smartphone acceso per dare l’allarme e poi vengono registrati i pettorali a ogni cambio assetto per poter seguire ogni squadra».
MonterosaSki è una delle località pioniere in Italia, con itinerari dedicati alla risalita con sci e pelli a bordo pista, quali sono i numeri dell’offerta?
«Abbiamo predisposto quattro itinerari con dislivelli da 550 a 650 metri. Lo skipass giornaliero costa 10 euro e lo stagionale 70 euro, con la possibilità dell’acquisto in prevendita a 60 euro. La stagione 2019/20 ha visto la vendita di 380 stagionali e 3.750 giornalieri contro 380 stagionali e 3.500 giornalieri l’anno precedente. Chi acquista lo stagionale partecipa a un concorso con in palio premi per un valore di circa 3.000 euro, tra cui due paia di sci Ski Trab».
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Io e Ueli
C’è un detto piuttosto famoso che suggerisce di non incontrare mai i propri idoli, perché c’è molta più certezza che dubbio di rimanere delusi, di vedere crollate le colonne portanti su cui abbiamo costruito le nostre verità: o peggio, le nostre più intime emozioni. Personalmente non ho mai completamente corso questo rischio, quello di veder crollare il simulacro di qualcuno che ponevo sopra all’umano, non ho mai avuto idoli, non mi piaceva il nome nemmeno quando avevo l’età in cui sognavo il motorino. Io ho sempre preferito i maestri. Un maestro, da magister, è colui il quale conosce così tanto una disciplina da poterla insegnare agli altri, o più precisamente, con l’aiuto della Treccani: chi eccelle in un’arte, in una scienza, in una disciplina, o in singole forme d’arte e manifestazioni di cultura, così da poter essere considerato una guida, un caposcuola. Ecco perché cercavo, il più delle volte in maniera inconscia e irrazionale, un maestro nelle cose che facevo: mi sentivo studente della disciplina e non avevo paura di incontrare un caposcuola, una guida: io ne avevo viscerale bisogno. E dall’adolescenza ai trent’anni avevo due passioni che mi muovevano a fare passi avanti nella conoscenza: la letteratura e la montagna. Per la prima ho corso il rischio del contatto con il magister, era Mario Rigoni Stern e mi ha insegnato, attraverso i suoi racconti e poi di persona, il vero significato delle parole umiltà, conoscenza, saggezza, selvaticità e salvazione. Attraverso i lemmi dei suoi racconti sono cresciuto e grazie a loro in special modo ho trovato la maniera di assestarmi, collocarmi più obliquo che storto in questo mondo.
Per la seconda, il magister per me come per molti - credo - è stato papà. Sulle sue spalle abbiamo visto i primi sentieri di montagna, con lui ci siamo alzati la mattina presto, abbiamo preso il sentiero che era ancora buio, percorse tracce conosciute e poi altre, meno battute, mano a mano che si cresceva. Ma poi viene il momento che forse cresci davvero, senti di volerti spingere un po’ oltre, un po’ più in su alla ricerca di quell’altrove più materico che astratto, benché effimero. Per me sono state la letteratura di montagna prima, l’arrampicata poi, a muovere quel desiderio di salire, andare, consumare libri, pelle sui polpastrelli e coltivare sogni; di essere quella generazione post Nuovo Mattino ma pre qualcos’altro, con il desiderio di andare in montagna con un approccio che fosse culturale e rispettoso, ma moderno. Evoluto nei mezzi, sia quelli più materiali che quelli filosofici.
Ho incontrato, ma meglio sarebbe dire che mi sono scontrato con il simulacro Ueli Steck, nel 2008, attraverso quel video della salita della Via Heckmair in 2 ore, 47 minuti e 33 secondi: più di un’ora in meno rispetto alla sua stessa salita di un anno prima. Non avevo le competenze per capire interamente, intendo nella sua completezza, il valore di quel tempo e dubito tutt’oggi che siano più di dieci le persone che all’epoca riuscirono a comprendere che si era di fronte a un passaggio del Rubicone, a un nuovo assassinio del drago, senza scomodare gli dei (o gli idoli). Io ricordo fotogramma per fotogramma le movenze di Ueli, le sue espressioni e quella sua particolare tecnica di salire, anche su pendii molto verticali, correndo e utilizzando le piccozze come semplici pesi di bilanciamento per la parte superiore del corpo, piccozze che seguono il suo poco armonico incedere sempre dinamico in ogni movenza, mai statico. Da lì in poi Ueli Steck è stato per tutti The Suisse Machine e difficilmente la storia ricorda un soprannome più azzeccato.
Ammetto oggi di averlo preso in giro, più di qualche volta, per quella che credevo fosse una tecnica sopraffine studiata in maniera precisa e maniacale, ma ho poi scoperto essere molto più semplicemente la sua naturale postura, la sua maniera di camminare per andare a prendere un caffè, prim’ancora che di correre lungo la parete Nord dell’Eiger. A quasi trent’anni o giù di lì mi sono trovato spesso a prendere un caffè con Ueli Steck, anzi a dirla tutta mi sono trovato sempre nella condizione di vedere la sua faccia fare capolino dalla porta dell’ufficio e sentire le parole Simone, mi offri un caffè?. Quando la vita ti concede il sogno e il privilegio di lavorare fianco a fianco, come pari, a quella persona che avevi scoperto essere il tuo maestro, beh, sei fortunato davvero. Ho fatto il responsabile marketing per un’azienda, SCARPA, che aveva Ueli Steck come principale testimonial, l’atleta più importante e il responsabile dello sviluppo dei prodotti per l’alpinismo; insieme al team di ricerca e sviluppo capitanato da Davide Parisotto, Ueli formava una squadra che oscillava tra la follia, il genio e il passo successivo a questi.
Io ho comunque continuato a vederlo quel video del 2008, una sera anche a cena con Ueli, che nel frattempo era diventato qualcosa come un amico, anche se intimamente non sono mai riuscito a pensarlo o vederlo come tale. Un maestro non può diventare un amico, non lo credo possibile. Ho continuato a vedere quel video perché era parte del passato e il legame con la realtà, era quello che mi teneva connesso e concentrato e mi permetteva di lavorare con lui. Ho visto Ueli passare ore provando e riprovando a secco in ufficio ogni prototipo per trovare lo spessore giusto di un’intersuola, immaginare quale dovesse esserne la densità del materiale. L’ho ascoltato trasferire dettagliatamente le sensazioni che provava con un sottopiede in carbonio su un piede e uno in materiale caricato carbonio, quindi meno rigido, sull’altro. Una volta, per provare quella che sarebbe stata non una calzatura, ma un prototipo che era la rappresentazione materica di quel suo concetto in divenire, sempre nuovo ed evoluto di alpinismo, ha fatto l’integrale della Cresta di Peuterey in 15 ore e 55 minuti. Alla ricerca di… nessun exploit. Era solo un test per fare un ulteriore step di evoluzione al Rebel Ultra, così si chiamava quella scarpa, che non era già più uno scarpone da alpinismo, ma piuttosto una scarpa da trail evoluta.
Era tanto un maniaco della precisione quanto, talvolta, completamente fuori dagli standard e anche un po’ impacciato in quelle che sono le cose quotidiane, a noi più normali. Dormivamo spesso nello stesso appartamento, tre stanze messe a disposizione da SCARPA quando facevo tardi in ufficio (sempre, in pratica) che condividevo con gli ospiti che venivano in azienda. Con alcuni era divertente, con Ueli era uno spasso e accadeva sempre qualcosa di assurdo: uno dei must era l’allarme che partiva la mattina a causa delle sue uscite a orari impossibili per andare a fare allenamento: anche venti chilometri di corsa attorno ad Asolo prima dell’alba. Poi una doccia, dieci ore con il team prodotto, e quasi sempre guidava la sera stessa fino a casa, per non perdere l’alba della mattina dopo e andare a provare i prototipi che aveva appena sviluppato. Ricordo che tutti i discorsi erano incentrati sui materiali, ogni dettaglio doveva essere più leggero; un’ossessione quella verso la leggerezza che non era mai fine a se stessa, ma racchiudeva anzi una necessità ed era un primigenio stimolo a migliorarsi, darsi obiettivi in cui l’asticella doveva sempre alzarsi di almeno due tacche. Ci siamo ubriacati anche, qualche volta. Il piano era uscire a cena in un posto di cui non ricordo il nome, ma era comodo a piedi e si trovava a tre minuti dall’ufficio. Al rientro c’era sempre una birra gelata in frigo prima di andare a dormire; una volta abbiamo anche dormito testa-piedi sul letto matrimoniale perché nell’altra stanza c’era Heinz Mariacher.
A cena, se eravamo da soli, riuscivo ad avere il coraggio di chiedergli qualcosa di più personale, altrimenti parlavamo più in generale dei progetti futuri, qualche volta del rinnovo del contratto o delle gare di trail, che faceva come allenamento fisico e mentale per le salite in stile veloce sugli Ottomila. Come la Sud dell’Annapurna, 28 ore da campo base a campo base; impensabile e impossibile, fino al 9 ottobre del 2013, utilizzando calzature pensate per attività a quote molto più basse, leggere come una scarpa per andare al Bianco, con una ghetta che aveva una zip di chiusura a spirale, sviluppata da Ueli e Simone in gran segreto. Questo sistema faceva sì che il piede non subisse nessuno stress durante la scalata, nessuna forza doveva essere dispersa, neanche quella (minima) assorbita da una normale zip centrale durante l’ascesa; ogni dettaglio era funzionale al suo gesto e tendeva alla perfezione, dalla mescola del battistrada fino al disegno della ghetta. Il nome della zip fu battezzato all’unanimità, davanti alla macchina del caffè, con Ueli appena tornato dalla spedizione: ovviamente onion closure. Dopo l’Annapurna ci inventammo un’intervista sotto il portico della bellissima casa di Cristina Parisotto sulle colline di Asolo, con vista sulla rocca di epoca medievale. Era difficile trovare qualcuno che potesse avere la sensibilità e le parole giuste da condividere con Ueli. Dopo quella tremenda e visionaria corsa di 28 ore su una delle pareti più spaventose al mondo, pensammo che fosse necessario avere un alpinista, anziché un giornalista. Hervé (Barmasse) disse che sarebbe stato un onore per lui e così quella che nasceva come un’intervista si trasformò in una chiacchierata tra due ragazzi, con Ueli che raccontò con estrema lucidità la salita, le sue sensazioni e quella fredda consapevolezza che si prova dopo un’esperienza così intensa: consapevolezza che lo tormentò per un po’, dopo l’Annapurna.
Ma l’immagine che ricorderò sempre di Ueli non è questa, non è nemmeno una tra le decine di foto che ho selezionato per i cataloghi in quegli anni. Non è una delle foto che ancora custodisco, prese dalle consuete gare di linguacce dopo cena, non è la sua faccia sorridente e sorniona quando entrava in ufficio. C’è una foto in cui corre nella Valle del Khumbu, lo scatto è di Dan Patitucci ed è così perfetto che prende il momento esatto in cui il tallone del piede davanti e la punta del piede dietro non toccano il terreno. Ho sempre adorato quella foto, ancora prima che Ueli mi raccontasse di quell’allenamento mattutino al cospetto dell’Ama Dablam su uno dei suoi sentieri preferiti. A pochi chilometri da quel luogo, il 30 aprile del 2017, una pira ha illuminato per sempre la valle del Khumbu, e le sue faville si sono posate su alberi, rocce e torrenti. Io credo che lì da qualche parte risieda anche la sua anima. E che corra veloce, e leggera.
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Scialpinismo (R)etico
Un passo, un altro, bastoncini in sincro, bastoncini che reggono tutto il tuo peso, le braccia stanche, le gambe dure. Il respiro, il solo suono del tuo respiro e delle pelli che si aggrappano all’elemento bianco e candido che ti riempie di gioia infantile e che allo stesso tempo cela i mostri della tua mente. Pensi di potercela fare? Le gambe, in loro risiedono saggezza e consapevolezza, ma il più delle volte non sei capace di ascoltare ciò che provano a sussurrarti. Sarà che sei impegnata a sentire il suono del tuo respiro e non puoi permetterti di perdere il ritmo. Prima o poi spezzerò il fiato, prima o poi i muscoli si scalderanno. Il cuore batte all’impazzata e non sai più se è perché stai sputando sangue o se sei emozionata come una quindicenne imbarazzata e tremolante di fronte al ragazzo dei suoi sogni.
I tuoi gesti sono pesati, misurati, calibrati al dettaglio. Gesti che ancora non sono automatici e che richiedono la tua massima concentrazione. Batti il pendio, stacca gli sci. Metti il casco, leva le pelli. Non una volta che le riattacchi dritte sulla plastica. Non una. Chiudi gli scarponi: troppo lenti, troppo stretti. Zaino in spalla, sci ai piedi. Inspira, espira. Vai. Sei qui per questo. Butti le punte verso il basso e in un momento tutto scompare: il dolore, la preoccupazione di non farcela, la paura. Senti le lamine rompere la neve sottile, fai una curva, poi un’altra, prendi velocità. Forse troppa? Non importa: stai planando. Sei la neve, sei una pernice, sei un gipeto. Quattro. Quattro dannate curve e tutta la fatica non ha più senso, o forse ha finalmente senso. So perché sono qui. Come ci sono arrivata?
L’inverno è alle porte e mi chiedo come farò a trascorrere i prossimi mesi in furgone. Potrei installare un riscaldamento ma non ne ho molta voglia. Altro gasolio nell’atmosfera, oltre tutto quello che d’estate mi porta in giro tra passi alpini con salite in prima. Il mio stile di vita, per quanto semplice ed essenziale, richiede molto all’ambiente e sento di dover fare una pausa per restituire qualcosa a questo mondo. Quest’estate sono andata a trovare i miei nonni nella casa di montagna di famiglia. Dopo cena tornavo a dormire nel furgone che avevo parcheggiato in giardino, chiudevo il portellone e tutto quello che c’era fuori svaniva per un’intera notte. Ero improvvisamente a casa con Ombra appallottolato a terra sul tappetino e mio padre che era venuto a trovarmi. Parlavamo, giocavamo a backgammon. Io perdevo il più delle volte e cercavo di rosicare il meno possibile.
Una mattina mia nonna, incuriosita come tutti dalla mia vita, mi chiese dove avrei preso casa l’inverno seguente. Bella domanda, non saprei - Beh, mica vorrai far dormire il tuo cane al freddo? Così, grazie a questa simpatica considerazione di nonna Angela, avevo un’altra ragione per parcheggiare il furgone per qualche mese. Meno gasolio nell’atmosfera, più caldo per il povero Ombra. Le mie priorità si sono subito delineate: quattro mura isolate dalla civiltà (non si può certo passare dalla vita in furgone alla vita in condominio), sciare ogni giorno e provare in punta di piedi a creare meno danni possibili al nostro pianeta. Ma nessuno ha la palla di vetro e ogni anno non sappiamo se la neve arriverà, quando arriverà e soprattutto dove. Chi vive come me, nomade della neve, ogni stagione invernale fa una scommessa e ne accetta le conseguenze. Prende la cartina delle Alpi, studia altitudini e statistiche, punta un dito e parte.
Il mio furgone resterà coccolato dal clima tiepido del centro Italia, assopito per qualche mese. Io, invece, mi dirigo verso mete più frizzanti. Arrivo a Santa Caterina Valfurva il primo dicembre, alle porte dell’inverno meteorologico. Apro le porte della baita che mi, ci ospiterà per i prossimi mesi. È piccola, accogliente, perfetta sostituta della mia casa a quattro ruote. Spesso mi viene chiesto se mi farò lo skipass stagionale. No. Questo sarà l’inverno del non chiedere niente alla natura. Sarà l’inverno in cui mi modello alla sua volontà. Sarà l’inverno del cuore gonfio e delle gambe stanche. Ha senso passare un inverno in una località sciistica senza usare gli impianti di risalita? Forse no, ma penso lo abbia per me. I primi mesi sono quelli del vento e della difficoltà. Faccio fatica a riprendere confidenza con gli sci e sicuramente un po’ di ore in pista velocizzerebbero il processo. Ma questo è anche l’inverno della pazienza e del lasciare che le cose avvengano con i loro tempi. Arriverà anche la neve, ti sentirai più confidente. Aspetta. Vogliamo tutto e subito. Lavoriamo tutta la settimana come dei matti e il week-end prendiamo le nostre auto cariche di sci e bisogno di evadere e ci dirigiamo verso il resort più vicino. Abbiamo solo quei giorni per sciare e se la neve non c’è, poco importa: la compriamo. Proviamo anche a comprare il tempo, tutto il tempo che impiegheremmo per salire con i nostri mezzi, viaggiando su eco-mostri che un giorno, quando farà troppo caldo anche solo per sparare, resteranno dove sono. Una ferita che non può più essere rimarginata.
Ammetto che sia bello poter fare 20 run in fresca senza dover batter traccia per ore, godendosi solo la discesa e sono certa che non posso chiedere a tutti di provare come me a trascorrere un inverno secondo i ritmi della natura. Il tempo, quello no che non lo possiamo comprare. Sarò una scrittrice scannata, un’eterna principiante, ma ho un cuore gonfio e del tempo da investire sulle mie gambe. Ho salito tanti metri quanti ne ho sciati. Alcuni li ho solo scesi. Incapace per il dolore di impostare una curva decente. Ho pellato piano, in silenzio, attenta al respiro della natura. Ho visto le aquile volarmi vicino, ho visto Ombra annusare l’aria e rizzare le orecchie attento al movimento dei branchi di camosci. Ho pellato veloce, a volte, e riso insieme agli amici. Ho visto Ombra sparire correndo in mezzo alla neve fresca, l’ho sentito piangere per la fatica e mugugnare dalla gioia pura del semplice andare veloce verso il basso. Ora sento i rumori di una primavera che arriva precoce e che sta sciogliendo la neve che ho spalato intorno alla baita. Vorrei chiedere alla natura di rallentare un attimo e aspettarmi. Ma non posso, non voglio, questo è l’inverno che dedico a lei. E alle mie gambe. Quattro. Quelle quattro dannate curve mi hanno restituito già tutto. Quattro curve tracciate su una tela immacolata. La luce del tramonto che colora il pendio. La neve fresca che ti innalza dal suolo.
Stai planando.
Sei tu, i tuoi sci, ma improvvisamente sei anche la neve e la luce e l’aria che ti sposta i capelli.
Il tempo non esiste più.
Il fondo valle nemmeno si vede.
La fatica è un ricordo lontano.
Non avevi bisogno di dare un senso al tuo inverno. Ma l’hai appena trovato. Pensavi di restituire qualcosa alla natura ma anche questa volta è più quello che hai preso che quello che hai dato. In fondo cosa sono due gocce di sudore e un po’ di lacrime? Non so dove sarò il prossimo inverno. Non so se sarò migliorata tecnicamente, né so se farò un po’ meno fatica in salita. So che non investirò i miei soldi in uno skipass stagionale. Certo è che le mie scelte non cambieranno lo stato delle cose. Verranno costruite nuove seggiovie, nuove funivie che portano dritte verso il cielo. Voleranno nel cielo elicotteri che vomiteranno turisti inconsapevoli su cime selvagge. Ma io ho il mio tempo. E le mie gambe.
E questo basta.
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A close call con Jesper Petersson
In tutti gli sport, ciclicamente, si incontrano quei giocatori che per il modo con cui impattano sul gioco possono essere definiti a tutti gli effetti un crack. Sono atleti di gran classe, che portano qualcosa di mai visto, di nuovo per estro o disciplina. Ronaldo, Inter, campionato italiano 1998, per intenderci. So che con questa citazione mi sto attirando le ire della dirigenza di Skialper, ma se devo portare l’esempio di cosa sia un crack in uno sport non penso che ci sia niente di più evidente e non troppo remoto per spiegarlo. Perdonatemi. Anzi no, vi sto parlando di Ronaldo, quello vero, non ho niente da farmi perdonare. Una cosa simile è capitata anche nello sci sulle pendici del Monte Bianco. Qualche anno fa si è costituito un team formidabile di due sciatori che hanno iniziato a macinare discese. In maniera impressionante, con una dedizione e una costanza che li ha resi un vero e proprio crack nell’ambiente.
In primavera non di rado nei bar sui due lati del Monte Bianco è capitato di sentire dire Sono arrivati! Hanno iniziato. Addirittura - lo giuro - una volta mi sono trovato nel bel mezzo di una colorita conversazione: Sono arrivati i mangiapesce! Adesso non si scherza più; naturalmente con riferimento poco lusinghiero al forte team finnico-svedese che aveva appena iniziato a tritare anche quell’anno in maniera seriale tutti i più bei pendii estremi del Bianco. Negli ultimi sei o sette anni Mikko Heimonen e Jesper Petersson hanno collezionato un’attività fantastica in termini di discese. Sono diventati uno dei riferimenti dello steep skiing a Chamonix e ciò non è semplice data la concorrenza. Abbiamo parlato con Jesper: trent’anni, svedese, determinato a lasciare parlare i fatti ma al tempo stesso molto equilibrato. E forse equilibrato è il termine che meglio lo descrive, almeno a un primo impatto. Pochi fronzoli, disponibile. Fa piacere incontrare persone così.
Jesper, sei uno degli sciatori più prolifici di Chamonix negli ultimi anni. Siamo curiosi di sapere qualcosa di più su di te, a partire, come si fa nelle più tradizionali interviste, da dove arrivi e come hai scelto Chamonix. parlaci insomma di chi è davvero Jesper Petersson.
«Beh, sono un ragazzo di trent’anni che arriva da Karlstad, nel centro della Svezia. Attualmente vivo a Lund, nella parte meridionale del Paese. Lavoro come elettricista in una grande compagnia elettrica. Ho trascorso gli ultimi sette inverni a Cham, ai piedi del Monte Bianco, dove ho cercato di sciare il più possibile. Devo dire che scio da quando ho quattro anni, ma che praticavo questo sport al massimo un paio di settimane l’anno, fino a quando sono arrivato a Chamonix. Non sono mai stato un garista e non ho mai partecipato a competizioni, ma ho sempre sciato per divertimento. Però esercitarmi e allenarmi mi piace molto, fa parte del mio DNA».
Lavori in estate e sci per gli altri sei mesi l’anno: ti consideri dunque uno skibum?
«I primi anni sì, mi vedevo come uno skibum. Oggi piuttosto come un mountain athlete anche se, non avendo sponsor particolari che mi pagano, non sono un vero professionista, ma forse potrei dire un professional skibum».
Solitamente quando ritorni sulle Alpi? E cosa fai negli altri periodi dell’anno? Come ti prepari per la stagione sciistica?
«Negli ultimi sei anni ho sempre trascorso circa sei mesi a Cham solo per sciare e salire montagne. Normalmente arrivo in dicembre e me ne vado a giugno. La maggior parte delle linee che vogliamo sciare vanno in condizioni tra aprile e giugno. Mi piace utilizzare gli altri mesi per sciare ed entrare in forma. La stagione 2019 è stata un po’ più corta perché ho dovuto lavorare a lungo e sono poi andato in spedizione in Alaska. Fuori stagione, come detto, lavoro in Norvegia e in Svezia, cercando di mettere da parte più soldi possibili in modo da poter sciare tutto l’inverno senza lavorare. Normalmente mi alleno dalle cinque alle venti ore a settimana, soprattutto correndo, andando in mountain bike o in palestra».
Nel massiccio del Monte Bianco hai sciato tutte o quasi le linee principali, spesso con il tuo socio Mikko Heimonen. puoi raccontarci di più della vostra amicizia? Si dice che sia uno sciatore veramente di alto livello…
«Mikko è uno sciatore molto talentuoso e motivato, forse il migliore al mondo quando si parla di curvare su neve dura e ripida. Io e lui portiamo avanti una profonda amicizia: è 23 anni più vecchio di me, ma è uno dei miei migliori amici. Non dobbiamo parlare molto tra di noi, ci conosciamo così bene e abbiamo spesso gli stessi obiettivi che tutto diventa facile. L’ho incontrato per la prima volta nel 2013 sulla parete Nord dell’Aiguille du Midi: ci siamo parlati e abbiamo deciso di sciare insieme il giorno dopo. Da quel momento in poi abbiamo disegnato molte linee ed esplorato il massiccio del Monte Bianco senza Guide, sponsor o elicotteri. Siamo semplicemente due amici che amano praticare lo sci e stare fuori in montagna con gli sci».
Quindi confermi che i compagni giusti sono molto importanti sul terreno ripido?
«Hai bisogno di un buon partner per sciare così tante cime come abbiamo fatto io e Mikko. Nessuno dei due avrebbe sciato tutte quelle linee se non avesse avuto l’altro. Quando sei un buon team, ogni operazione è più facile, dal controllare il meteo, fino a prendere la giusta decisione in posti difficili».
Cosa ti ha portato a diventare uno steep skier? O un alpinista?
«Lo sci ripido è un palcoscenico amatoriale: noi non siamo degli sciatori o climber professionisti. Siamo un mix tra le due attività: devi essere anche alpinista se vuoi diventare un buon steep skier! Mi vedo come uno sciatore, ma ho abbastanza esperienza di scalate e di alpinismo. La ragione per cui mi sento più uno sciatore è che su un pendio sono più a mio agio con gli assi nei piedi piuttosto che con i ramponi».
L’avventura nel gruppo del Monte Bianco che ricordi più volentieri?
«Certamente quando abbiamo sciato la parete Nord dell’Aiguille Blanche de Peuterey. È una meravigliosa parete glaciale che trattiene la neve per pochi giorni durante la stagione e nemmeno tutti gli anni. Non è stata la più grande o ripida linea tra quelle percorse, però il fatto che sembri così vicina e contemporaneamente così lontana, lì nel selvaggio versante della Brenva, la rende speciale».
Invece la tua linea perfetta nelle Alpi, ammesso che non l’abbia già sciata?
«La mia dream line è stata quella nel Couloir Nord-Est del Col Armand Charlet. Lo abbiamo sciato nell’aprile 2016, con timing perfetto e condizioni pazzesche dalla cima in fondo. Non penso di aver mai chiuso una big line così con quelle condizioni».
Pensi che ci sia ancora spazio per vero sci d’avventura qui sulle alpi? O bisognerà guardare altrove, più in quota, come in Alaska, Ande o Himalaya?
«Questo tipo di sci sulle Alpi è diventato quasi la normalità. La gente vuole spingere i propri limiti fuori dalla zona di comfort. Nei prossimi dieci o vent’anni vedremo persone sciare in Himalaya così come ora stanno facendo sulle Alpi. Gli sciatori e gli alpinisti sono sempre più in forma, vivono in maniera più salutare e utilizzano materiali sempre più leggeri. Inoltre l’aumento delle temperature dalle nostre parti significa inverni più corti e meno nevosi. Tutti questi fattori faranno sì che diventerà sempre più naturale guardare verso le montagne più alte del mondo. Sulle Alpi se vuoi l’avventura devi innalzare il livello, ma s’innalza anche quello di rischio».
Noi di Skialper amiamo particolarmente quando gli sci diventano uno strumento per esplorare i luoghi: qual è la tua idea di viaggio e come lo progetti?
«Quest’anno sono stato in Alaska, che a dire il vero è stata la mia prima esperienza con gli sci al di fuori di Chamonix. Ero stato in Kirghizistan per scalare, ma niente di difficile. Abbiamo scelto l’Alaska per sciare semplicemente perché nessuno del nostro team c’era stato prima».
Ci puoi raccontare qualcosa di più dell’Alaska? Quali erano gli obiettivi e cosa avete sciato?
«Il nostro team era composto da me, Enrico Mosetti, Tom Grant e Ben Briggs. L’obiettivo numero uno erano la parete Sud del Denali e la Nord del Mount Hunter. Quest’ultima non l’abbiamo trovata così invitante guardandola dal campo base del Denali, in foto sembrava davvero molto diversa. Abbiamo avuto l’ingenua idea di provare la Sud del Denali direttamente dal campo a 4.200 metri anziché da quello a 5.200. Il tempo instabile, con finestre non più lunghe di un giorno, ha reso la parete difficile da sciare: hai bisogno di almeno due giorni di bel tempo. Quando siamo arrivati in cima, io e Tom, abbiamo aperto il Couloir Messner per la prima volta in questa stagione. Nei giorni precedenti avevamo sciato l’Orient Express partendo un po’ sotto l’inizio della linea, come tour di acclimatamento».
Abbiamo saputo che hai avuto quella che in gergo si definisce una close call durante la discesa della Kahiltna Queen.
«Il nostro ultimo giorno di sci è stato sulla sbalorditiva Kahiltna Queen, una delle più belle e grandi linee su cui abbia mai posato gli sci. Tom Grant e io stavamo cercando di percorrere tutta la discesa senza usare la corda per calate in doppia. Lo sci era davvero ingaggioso e tecnico. Avevamo appena raggiunto il couloir principale, dove le difficoltà erano minori, quando io ho provocato il distacco di una piccola placca a vento isolata. E lì è iniziata una caduta di 800 metri dentro al canale. La neve era sembrata in generale sicura ed è stata una fatalità staccare quella placca. Essere in buona forma e forte fisicamente ma anche avere un casco sulla testa sono i fattori che probabilmente mi hanno salvato la vita. Mi sono rotto il collo con fratture alle vertebre C6 e C7 e sette costole. Forse non riuscirò più ad avere una piena mobilità, ma cercherò di tornare in forma come lo sono stato prima dell’incidente. In futuro scierò di nuovo fuoripista e scalerò».
Dopo alcuni episodi come questo non è sempre facile reagire. Lo sci estremo ha dei rischi, come li gestisci?
«Se trascorri un sacco di tempo in montagna su pendii ripidi, la domanda non è se accadrà qualcosa, ma piuttosto quando accadrà qualcosa. Però se sei preparato e utilizzi tutta la tua esperienza e conoscenza, ritengo che non sia davvero più pericoloso che guidare una macchina ad alta velocità incrociando auto in senso opposto distanti solo qualche metro. Quando sei in montagna occorre sempre considerare e calcolare il rischio intorno a te. Non sempre è garantito che si prenda la decisione giusta, ma ogni decisione cerchiamo di ragionarla. Se salgo una linea dove so di dover trascorrere un sacco di tempo esposto e per esempio vedo che la neve cambia per l’aumento della temperatura, inizio ad avvertire una brutta sensazione e sento di dovermene andare. Poche volte ho avvertito una sensazione di questo tipo al mattino, ma a volte mi capita quasi di mettermi alla prova per cercare di capire se ho questo tipo di sensazioni. Uno può sempre girare i tacchi e tornare indietro, decisione che prendiamo più spesso di quanto la gente pensi. Dietro alle big line ci sono settimane di attesa e un sacco di preparazione».
Cosa cerchi nello sci che pratichi? I grandi pendii, l’estetica di una linea, insomma come decidi i tuoi obiettivi?
«Ho sempre cercato l’avventura, l’estremo, però prestando attenzione a tenermi fuori dai pericoli oggettivi come valanghe e scariche di sassi. Il mio obiettivo è cercare di portare a termine le linee che nessuno pensava possibili ed è quello che intendo continuare a fare quando sarò guarito».
Quale pensi che sia la tua reason why?
«Lo steep skiing è come la meditazione: la sola cosa che pensi quando sei là fuori è la curva successiva. Diventa come una sorta di rilassamento, devi focalizzare la tua attenzione su quel momento e dimenticare tutto il resto. Al giorno d’oggi sciare linee ripide non è più importante come lo era qualche anno fa, è l’avventura stessa quello che conta davvero: scoprire posti nuovi, esplorarli e sciarli con bella neve».
Negli ultimi dieci anni un numero di persone crescente ha iniziato a cimentarsi su pendii sempre più ripidi. Steep is cool, ma con i grandi numeri i rischi aumentano. tu come hai iniziato?
«Dopo un viaggio alpinistico in Kirghizistan nell’estate del 2012, ho deciso di diventare un alpinista migliore e mi sono trasferito a Cham. Naturalmente ho portato con me gli sci, però avevo scelto il Monte Bianco per migliorare le mie capacità alpinistiche. Poi è arrivato l’inverno del 2013: grandi quantità di neve e tutti che scendevano linee ripide! Così ho iniziato dalle discese classiche nel bacino dell’Argentière. È stato subito amore, avevo trovato qualcosa in cui ero bravo fin dall’inizio. Da quel momento ho iniziato ad allenarmi e a dedicarmi anima e corpo allo sci estremo».
Domanda tecnica di rito: il tuo set di attrezzatura preferito?
«Sono un ambassador per Salomon in Svezia e uso scarponi MTN Lab e sci MTN Explore 95. Mi piace muovermi leggero e veloce in montagna, il fast & light mi fa sentire più sicuro».
Un’ultima domanda: per lo sci su pendii ripidi preferisci nevi dure (come per le discese dei pionieri) o morbide e fredde come la powder? Cosa cerchi?
«Generalmente preferisco sempre fare nuove discese per me, non mi piace ripetere le linee. Amo il terreno tecnico e ripido. È importante, quando ti trovi in quel tipo di ambiente, sentirti sicuro per poter spingere a fondo e dunque cogliere il giorno giusto per una determinata linea. Da un punto di vista della sicurezza è meglio la neve assestata e dura come quella che si cercava negli old days, ma sinceramente preferisco la powder. La migliore da sciare è quella che cade umida durante la precipitazione e col freddo del mattino diventa un po’ più fredda e asciutta in superficie. È la neve perfetta e riconosci subito quella sensazione se l’hai già sciata!».
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Andrea Gallo, il futuro ha un cuore antico
Ho conosciuto Andrea Gallo di persona l’anno scorso, sciando insieme a Gressoney. Dico di persona, perché se uno è torinese e va un po’ in montagna, il suo nome di sicuro l’ha già letto da qualche parte, probabilmente sulle guide Finale 8.0 o Polvere Rosa. Oppure sulle relazioni di falesie storiche come Striature Nere o l’Orrido di Chianocco, spauracchio dei climber sabaudi chiamati a confrontarsi con gradi e stili di una volta, quelli su cui si è espresso Andrea come scalatore e chiodatore. O ancora, per chi avesse qualche anno in più del sottoscritto, l’ha trovato sulle pagine della defunta rivista Alp, della quale è stato collaboratore e fotografo per anni. È stato anche l’artefice, insieme ad altri, della creazione della Finale Ligure che conosciamo oggi, un modello di turismo outdoor che ha fatto scuola e che permette agli sciatori tristi di sopravvivere all’autunno e di risvegliarsi in primavera. Insomma, da attore prima e narratore poi, Andrea Gallo è sul pezzo da trent’anni e, anche ora che lavora nei video musicali (il binomio video maker outdoor - musica trap è qualcosa di assurdo e romantico allo stesso tempo) continua a martellare sugli argomenti a lui cari da sempre, quando non è occupato in cose più serie, ad esempio andare in skate o sciare a Punta Indren. Con la scusa di andare ad accaparrarmi una copia della nuova guida Finale 51, sono andato a trovarlo a Gressoney Saint-Jean per capire cosa ci fosse dietro a un nome scritto sulla copertina di un libro.
DOMANDA SEMPLICE E COMPLICATA ALLO STESSO TEMPO: CHE STRADA HAI PERCORSO FINO A OGGI?
«Ho cominciato a scalare nel 1981, prima ho praticato la scherma, lo sci agonistico e lo skateboard, sempre col mio modo di fare le cose, ovvero tuffandomici dentro. Sono uno che si infogna e, anche quando ero piccolo, se mi appassionavo a qualcosa, mi allenavo sei giorni a settimana. Sono migliorato abbastanza in fretta, a quell’epoca si scalava al Palavela a Torino ed eravamo la prima generazione che si allenava con un’ottica sportiva. Insieme ad altri ho avuto la fortuna di ritrovarmi al centro dell’azione, ho partecipato alla storica Sportroccia a Bardonecchia nell’85 e parallelamente ho cominciato a collaborare con la neonata rivista Alp, per la quale tenevo la cronaca della libera. Ho avuto la fortuna di vivere in un periodo molto bello che è durato fino alla fine del decennio, almeno per quello che riguarda le gare di arrampicata. La magia si è interrotta quando è stata creata una nazionale vera e propria, e di colpo sono spuntati dal nulla stemmini e allenatori mai visti in giro prima: ciò che prima era spontaneo, iniziava di colpo a venire incanalato, analogamente a quanto è successo nello snowboard qualche anno dopo. Nel ’92 ho smesso con le gare e ho scalato ad alto livello su roccia fino al ’97, l’anno in cui la fotografia, che prima era un passatempo da falesia, è diventata qualcosa di più serio. Il primo viaggio ufficiale da fotografo di arrampicata è stato in Sardegna, per scattare l’apertura di Hotel Supramonte con Rolando Larcher. Avevo già avuto qualche esperienza con il ciclismo, a un certo punto all’inizio degli anni ’90 correvo nel cross-country: dopo aver vinto il campionato ligure mi hanno spostato negli élite e lì mi sono ritrovato in mezzo a una mandria di bufali inferociti. Ero passato dal vincere le gare della domenica a gareggiare con gente che aveva corso il Tour de France. La prima guida di Finale invece è uscita a fine anni ’80, edita da Alessandro Gogna, poi ho continuato fondando una mia piccola casa editrice. Nel ’97 è uscita Polvere Rosa, che ai tempi è stata la prima guida italiana prettamente di freeride, ispirandoci a un volume su Chamonix. Tolti gli anni in cui ho scalato ad alto livello, ho sempre sciato, con qualche parentesi su snowboard e monosci. Il primo decennio del 2000 lo ricordo come il periodo più figo per la fotografia di arrampicata, perché avevo modo di girare con gli interpreti di ogni specialità: Mauro Calibani e Marzio Nardi sul bouldering, Rolando Larcher sulle vie lunghe, Anna Torretta e Bubu Bole sul ghiaccio e misto e tutto quello che passava nel mezzo».
E POI A UN CERTO PUNTO SEI PASSATO AI VIDEO.
«Sì, merito delle prime reflex che potevano anche registrare filmati. Mentre scattavi, iniziavi a girare qualche secondo, che poi un pezzetto alla volta si sono trasformati in video veri e propri. È diventato un lavoro quando, un po’ per caso, sono finito a fare il location manager per un video di Tony Hadley - l’ex frontman degli Spandau Ballet - che voleva filmare un paesaggio innevato nel Vallone di Loo. In quell’occasione avevo con me uno dei primi droni consumer in commercio all’epoca e, in modo un po’ naïf, abbiamo fatto qualche ripresa con quello. È piaciuto un sacco, e la settimana dopo mi sono ritrovato a filmare J-Ax con un drone più serio che avevamo praticamente spacchettato il giorno prima, bluffando sulle mie effettive capacità di pilotarlo. Morale, mi sono ritrovato da un giorno all’altro a passare dagli scalatori al mondo del rap italiano, con ragazzi spesso poco più che ventenni: Gué Pequeno, Marracash, Nesli e altri. Sono dei fighi che lavorano tutto il giorno, e per me entrare in quel mondo è stata una rivoluzione, una contaminazione con altri linguaggi e culture. Nella musica ogni volta si lavora su un’idea nuova, mentre nel mondo dell’arrampicata spesso ci si chiude al mondo esterno, impostando la narrazione unicamente sulla performance. Ad esempio, lo skate è influenzato costantemente dal mondo dell’arte e della musica, le cose si fondono assieme, mentre l’arrampicata è rimasta autocelebrativa e autoreferenziale».
COME CAMBIA LA PRATICA E LA NARRAZIONE DELLE DIVERSE ATTIVITÀ CHE TI APPASSIONANO? ESISTONO PUNTI IN COMUNE?
«L’arrampicata, appunto, la trovo tanto chiusa. Se pensi ai siti d’informazione di riferimento, siamo ancora lì a pubblicare il compitino dello scalatore, chiamato a scrivere di se stesso: da un lato è bello, dall’altro appiattisce i livelli, a questo punto siamo tutti bravi, non c’è mai stata una reale valutazione giornalistica delle imprese. Immagina come possa un mondo di questo tipo, non ancora capace di creare un sito realmente giornalistico, aprirsi ad altre culture. Così come il filone delirante delle autobiografie di alpinisti, quelle di cui ci si ricorda sono ben poche: Twight, qualche inglese e poco altro. Invece lo skate è aperto a tante cose, lo sci è su una linea di mezzo. Ad esempio il freeride permette a un atleta di essere professionista anche senza partecipare alle competizioni, come accade anche nel surf. Nella scalata, a parte Sharma, Favresse, Villanueva e pochi altri, i professionisti sono quasi sempre agonisti omologati tra loro. Ce la meniamo sulla performance, e il più forte diventa anche il più figo, senza accennare allo stile. Nello sci invece abbiamo figure come Bruno Compagnet che, anche senza ormai essere al top, lo vedi sciare e pensi questo non sbaglia una curva. Lo stesso avevo pensato guardando Piergiorgio Vidi: quello è sciare. Poi mi piace anche il ragazzino che fa 100 giri in aria, anche se non è il mio mondo. Nell’arrampicata invece è tutto sul grado, lo vedi anche nella pratica: vai in falesia e sono tutti appesi cercando di provare qualcosa di più duro, anziché puntare a muoversi bene su un 6c. Purtroppo anche il freeride sta deviando su questo: una volta il World Tour era interpretare una linea su una montagna, ora è saltare meglio degli altri. Serve l’idea del vecchio surfista, quello che gira a sessant’anni col longboard e si muove in un modo che fa girare tutti gli altri in line-up. Manca anche il culto dell’attrezzo, uno come Mariacher dovrebbe essere riverito come Takayama (uno storico shaper hawaiiano). Lo stesso vale per lo sci, a parte qualche eccezione, con degli sci di dieci anni fa ci si fa solo ridere dietro, mentre nel surf certe tavole sono eterne. Tra tutte, l’arrampicata mi sembra l’attività meno creativa. Una possibilità stava nascendo con il moderno boulder indoor, simile al parkour, ma una cosa del genere non doveva finire nelle gare, ma diventare una specialità a sé. Nella pratica, però, i punti di incontro ci sono solo perché i praticanti sono gli stessi. Ma se uno scala e scia, quest’ultima per lui sarà la ricreazione. Su roccia devi per forza andare a metterti alla prova, perché vuoi trovare lungo. Bisognerebbe recuperare l’idea di farsi piacere, un po’ come sugli sci. La corsa al grado e il mettersi in discussione - a tutti i livelli, principianti compresi - non fa crescere l’arrampicata».
C’È UNA RICERCA COMUNE NEGLI SPORT CHE PRATICHI O CHE HAI PRATICATO?
«Lo sci è la mia religione, l’attività che mi fa stare meglio. I ricordi più belli sono legati al piacere fisico di un dato momento, il colore e la portanza della neve, la sensazione della curva, e via così. Quello che cerco sono le condizioni ideali, anche per limitare i rischi. Nella scalata, passato il periodo della corsa al grado, quello che cercavo era la fluidità nei movimenti su tiri più facili, fino a renderla quasi un’attività aerobica: ad esempio salire un 7a in modo continuo, senza fermarsi e senza tentennare. La ricerca nello skate invece è legata alla struttura: su certe rampe magari provo dei trick, nelle pool più grosse invece mi limito a percorrere linee e godo lo stesso. Un minimo comune denominatore può essere il movimento inteso come flusso continuo, che magari cercavo anche quando, andando a correre, mi sforzavo per mantenere un passo costante. Nello sci di sicuro questa sensazione è più facile da trovare».
SECONDO TE COSA SI È GUADAGNATO NEL TEMPO? E COSA SI È PERSO?
«Si è guadagnata una maggiore comunicazione. Prima era tutto lasciato al sentito dire, adesso le informazioni girano e il racconto delle azioni avviene in tempo quasi reale. Magari nello scialpinismo si è persa l’attenzione al capire dove sei e cosa stai facendo, affidandosi solo a ciò che si legge o si sente. Poco fa due ottimi sciatori hanno sciato la Nord del Lyskamm, e qualcuno li ha seguiti a distanza di qualche giorno senza avere realmente idea delle condizioni, basandosi unicamente su qualche storia di Instagram. A metà parete hanno tolto gli sci. Ecco, bisogna stare attenti a non lasciare che il virtuale prevalga sulla propria esperienza. A livello di pratica, però, le sensazioni che si provano sono le stesse di venti o trent’anni fa, non bisogna lasciarsi influenzare dalla quantità di informazioni a disposizione. È come avere un’edicola con tanti giornali, non dobbiamo per forza leggerli tutti. Però è bello avere una scelta così ampia a disposizione, no? Quello che si è perso, al massimo, è la voglia di conoscere la storia dei propri sport, chi erano gli scalatori e gli sciatori venuti prima di noi. Ma capisco che sono argomenti di nicchia, e forse se non ci interessano è anche un po’ colpa delle riviste del settore, mentre, ad esempio, su Surfer ci sono continuamente articoli sugli shaper del passato».
IL MODELLO OUTDOOR DI FINALE È RIPRODUCIBILE IN ALTRE LOCALITÀ?
«Finale è il risultato di una congiunzione di più fattori. Il luogo è unico, neanche il Garda si avvicina: c’è il mare, il clima giusto per andarci in inverno, le pareti che non possono essere create dal nulla. C’è la macchia mediterranea, riesci a scalare in luoghi che sono davvero selvaggi, mentre ad esempio ad Arco ci sono i meleti e le case sempre in vista. Questo ha fatto si che negli anni ’80 un gruppo di persone venisse attratto dal Finalese, forse perché scappavamo tutti da qualcosa e volevamo trovare riparo in quell’angolo magico. Il volerlo mantenere selvaggio non è stato un atto di snobismo, ma di rispetto. Per lo stesso motivo non si sono scavati appigli, soprattutto in quel periodo che è stato veramente dannoso per altre località. Qualche caratteristica di Finale è esportabile, ma la sua anima è unica. E la sua ascesa non è stata nemmeno casuale, perché abbiamo sempre remato per farla conoscere al pubblico di tutto il mondo, anche perché i nostri business giravano su quello. E poi, questo è importante, va detto che tutto è partito da persone mosse prima dalla passione e poi dall’aspetto commerciale. Se si procede con l’ordine inverso, le cose non funzionano. È una serie di tasselli che si sono incastrati fra loro, aiutati dal fascino unico di Finale: anche se vai a scalare ad Albenga, alla sera poi ti sposti a Finalborgo, che una volta, all’inizio, chiamavamo Finalbronx per le condizioni in cui era ridotto. Mi auguro che nascano altre Finali, perché sarebbe un bene per tutti, ma solo Finale ha quel qualcosa che ti attira, e tanti ci cascano. Si sono creati almeno 300 o 400 posti di lavoro e, facendo due conti, conosco una cinquantina di persone che hanno comprato casa lì. Alcune peculiarità sono spiegabili, altre sono legate al fascino intrinseco, lo stesso vale per le differenze fra Chamonix e Courmayeur: una è la città degli alpinisti, l’altra quella delle pellicce. È stata una botta di culo che certe persone si siano ritrovate lì al momento giusto arrivando da fuori, come Alessandro Grillo, scalatore, e Fulvio Balbi, che ha creato dal nulla i sentieri per la mountain bike, e magari gli imprenditori alberghieri che li supportavano. Negli ultimi anni sono di sicuro arrivati i problemi legati al flusso di visitatori, ma è compito di chi c’è ora trovare le soluzioni, prima ancora di porre divieti. Non siamo arrivati allo scontro con l’amministrazione, ma al punto degli attriti, e sarebbe un peccato arrivare a rompere il gioco».
È USCITA LA TUA NUOVA GUIDA CARTACEA DI FINALE. COME LO VEDI IL FUTURO DI QUESTO TIPO DI PUBBLICAZIONI, SOPRATTUTTO SE RAPPORTATO AL DIGITALE?
«Io avevo immaginato un passaggio al digitale già parecchi anni fa, pensando di sostituire l’edizione 2011 con un’applicazione, anche per una questione di sostenibilità. Però poi creare un libro di carta significa rendere reale un sogno, la fotografia stampata su una doppia pagina vive in un altro modo. L’app esiste già, collegata alla guida, ma non ha riscosso molto successo. Mi sono mosso nello stesso modo anche per il volume sui sentieri mtb, presagendo gli stessi risultati, e sono stato disatteso: il ciclista non vuole il libro, non gliene frega nulla. Lui vuole unicamente la traccia gps, incredibile. Lo stesso vale per Polvere Rosa, l’unico modo per venderla è farla su carta. In quel caso preferisco non inserire alcun riferimento gps, perché poi uno si fida ciecamente e magari passa su una placca a vento con i risultati del caso. Probabilmente ai ciclisti non importa avere una guida cartacea perché hanno una mentalità più sportiva: non vogliono sapere chi abbia tracciato quel trail, mentre invece sulla roccia e sulla neve i nomi degli apritori - e quindi chi gli ha dato una dignità - sono fondamentali. Probabilmente è un pubblico più preparato, se hai scelto di andare a scalare o a sciare hai già fatto una scelta enorme, mentre la bici è alla portata di tutti sin da bambini. Spesso chi pedala ha una minore attenzione per l’ambiente e per la sua salvaguardia, e non tende a legarsi a una determinata località al punto da trasferirsi. Sono meno sognatori, se vogliamo dirlo. Per la nuova guida ho lavorato anche con le ultime generazioni di scalatori finalesi, neo-maggiorenni, una serie di ragazzi fighissimi: conoscono la storia, utilizzano i social ma non ne sono dipendenti, fanno esperienze lavorative all’estero, insomma, sono sicuramente più aperti di chi c’è stato prima. Ecco, loro, che vivono i social con serenità, allo stesso tempo apprezzano le cose scritte, e vedendoli penso: lunga vita alla carta. Forse, poi, una guida cartacea diventa anche un’alternativa a un mondo dove tutto va consumato in fretta e furia. Era molto attesa, anche perché è una celebrazione di un gruppo di persone che hanno contribuito allo sviluppo di Finale. A parte qualche riga di introduzione, non volevo assolutamente parlare di me, ma degli altri, perché dev’essere una guida di tutti. C’è stata un’ottima collaborazione anche con Tomassini, che redige l’altra guida del Finalese, perché le informazioni di entrambi combaciassero, ad esempio sui nomi dei tiri o i loro gradi».
PARLIAMO DEI MALEDETTI E SANTI GRADI: I TUOI SONO CONOSCIUTI PER ESSERE PIÙ DURI DELLA MEDIA.
«Quando si è cominciato a gradare a Finale abbiamo preso come riferimento la Francia, con le valutazioni di allora. Se andavi a scalare in Verdon o a Buoux i gradi erano quelli, e noi li abbiamo semplicemente importati. Poi, in un preciso momento storico, in Spagna hanno cominciato ad ammorbidire i gradi e quando scalatori italiani hanno iniziano a valutare allo stesso modo le nuove falesie la gradazione è esplosa. Qualcuno ha voluto accorciare il metro per correre più veloce, a dirla tutta. Ora, anche a Finale, ci sono falesie storiche gradate in un certo modo e altre, più recenti, in un altro. Quello che io definisco grado in euro o in lire. La colpa è di chi ha gradato prima o di chi l’ha fatto dopo? Ci sono scalatori della mia generazione che fanno l’8c ora, e magari non lo facevano venticinque anni fa. La cosa figa di quegli anni lì è che scalavamo forte senza sapere quanto, e ce ne siamo accorti solo dopo, perché all’epoca non ci interessava così tanto. Quando ho chiodato Hyaena (8b) all’epoca scalavo sul 7c o poco più, ma avevo visto degli appigli e in qualche modo di lì si passava. Abbiamo cominciato a interessarci ai gradi quando è arrivata la concezione di onsight, che misurava effettivamente il valore dello scalatore: se uno il tiro ce l’ha dietro casa può provarlo quanto vuole, se ci si fa un solo giro sopra si capisce quanto è forte effettivamente. Sono molto competitivo, ed effettivamente sapere se quello su cui ti stai sfidando è un 7c, un 7c+ o un 8a ha una certa importanza. Poi forse avremmo potuto fare di più, ma cercavamo l’unicità delle sensazioni, piuttosto che la loro ripetizione. Siamo stati influenzati un casino da Marco Bernardi, uno che, arrivato all’apice dell’alpinismo, ha smesso, poi è arrivato a essere uno dei climber più forti del suo periodo e ha smesso anche lì... perché per lui ciò che contava era l’esperienza, la prima volta. L’importante è avere gradi uniformi nella stessa falesia, che poi questa sia più o meno dura di altre è un valore aggiunto e una forma di rispetto della storia. Un giorno a Finale dei ragazzi di un corso Guide scalavano su un 6c con facilità, mentre sul 6c+ di fianco non arrivavano in catena: uno dei due aveva qualcosa che non andava, evidentemente».
QUALI SONO I MIGLIORI RICORDI DA FOTOGRAFO E DA SCALATORE CHE HAI, SU ROCCIA E SU NEVE?
«Mi ricordo il giorno in cui ho fotografato Mauro Bubu Bole su Bellavista, alla Cima Ovest di Lavaredo. Ero salito sulla statica che pendeva dal bordo del tetto per 200 metri nel vuoto, staccata per una settantina di metri dalla parete, una cosa agghiacciante. Quando Bubu è arrivato al tiro del tetto (8c su chiodi, ndr) la scena era spettacolare, mi vengono i brividi ancora adesso. Aveva fatto una leggera nevicata la notte, la neve diffondeva la luce del sole ed ero con un gruppetto di fedeli di Mauro che l’aveva seguito fin lì. In quel momento, scattando, ho pensato che era proprio quello che volevo fare nella vita. Sulla neve ne ho tanti, se proprio dovessi isolare un momento mi viene in mente una linea al Colle Ranzola, più che un momento, mi vengono in mente due curve fatte in quel punto lì, sulla neve giusta, farina fredda che porta bene, zucchero. Da scalatore, anche perché all’epoca ero infognato di cose mentali, mi ricordo perfettamente il giorno in cui ho fatto Hyaena dal mattino alla sera, così come una volta in cui ho gareggiato contro Jerry Moffatt a Vienna. Due anni prima ero affacciato sul bordo del Verdon ad ammirarlo su Papy Onsight, e ora stavo scalando contro di lui. Rimpianti non ne ho, perché credo che qualsiasi cosa succeda, è perché in quel momento hai preso la decisione che ti sembrava più giusta».
ULTIMA DOMANDA. UNA COLONNA SONORA RAP E TRAP PER UN VIDEO DI MONTAGNA?
«Senza Dio di Gué Pequeno, con cui ho collaborato per il video, mi piace. Mi piace anche Nonostante tutto di Gemitaiz e qualcosa di Sferaebbasta. Di quelli attuali userei qualcosa di Salmo e di Clementino, e poi ci sono i pilastri, Gué, i Club Dogo, Marracash. In un film che sto realizzando sulla storia di Finale, invece, vorrei utilizzare la musica originaria dell’epoca -Hyaena è un album dei Siouxsie and the Banshees - per raccontare anche un po’ com’erano quegli anni, perché, ecco, di lì alla fine è passata anche un po’ la vita, la mia e quella di altri».
Avrei continuato a parlare per ore con Andrea, ma già così probabilmente ho fatto passare brutti momenti a Claudio, il direttore, e Greta, l’art director, obbligati a impaginare un’intervista fiume pochi giorni prima di andare in stampa. Beh, il succo è questo: Andrea, come altri, è una figura che chi va in montagna deve conoscere, perché è tra coloro che hanno creato e raccontato la storia di ciò che ci piace fare e magari in cui crediamo per provare a essere persone migliori. Insomma, bisogna conoscere la storia di ciò che c’è stato prima di noi, sulla roccia, sulla neve, ma anche in tutto il resto, perché è l’unico modo per capire il presente e sapere dove andare in futuro.
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Skialper amarcord
Quindici anni da bordo pista nelle gare di skialp non sono pochi. Diciamo che una volta questa rivista si occupava contemporaneamente di fondo e di scialpinismo con qualche ritaglio per il telemark ed era normale per quei tempi incontrare atleti in gara che praticavano entrambe le discipline. Solitamente la nostra coppia, composta da me e Idlaba, armata di macchine fotografiche e cineprese, andava a piazzarsi nei punti cruciali dei percorsi per ottenere le immagini migliori. Per quanto riguarda il fondo il problema era il sole: trovare una postazione che almeno per qualche ora venisse baciata dalla luce per ottenere scatti esclusivi e suggestivi di passaggi in gara. Nello skialp era sufficiente che uno dei due si portasse in quota per attendere l’arrivo degli atleti in posizioni esclusive. Ed è proprio da questo coinvolgimento a un metro dagli atleti in gara che abbiamo colto sensazioni, commenti, incitamenti che chi rimane al traguardo non riesce a catturare. Alcuni ci sono rimasti impressi.
Il primo Kilian e Lenzi
Qualche giorno prima degli Europei di scialpinismo di Morzine-Avoriaz del 2007 ero in Alto Adige per seguire un Campionato Italiano Giovani di fondo: era come sempre mia intenzione cogliere le indicazioni che venivano da queste gare per ricercare il nuovo campione, quello in grado di primeggiare in Coppa del Mondo appena diventato grande. In particolare la mia attenzione era rivolta a Damiano Lenzi, atleta azzurro della leva giovanile. Il motivo era semplice: questo ragazzo della Val d’Ossola manifestava grande interesse per lo skialp e in qualche occasione lo avevamo visto all’opera in alcune manifestazioni minori. L’equazione era piuttosto semplice: un giovane abituato a stramazzarsi di fatica nelle gare di fondo - Lenzi era forte in tecnica classica - avrebbe potuto fare sfracelli nello scialpinismo in cui la componente fatica e motore erano altrettanto importanti. A detta del suo allenatore, Vincenzo Trozzi, del Centro Italia, il ragazzo era piuttosto dotato e mal volentieri gli dava l’approvazione per praticare lo skialp, anche se verso fine inverno gli concedeva il nulla osta quasi come un premio per quanto si era impegnato nel fondo.
E così Lenzi si era guadagnato la partecipazione agli Europei di Morzine-Avoriaz con gli altri azzurrini a difendere i colori dell’Italia. Il giorno del vertical ho raggiunto una postazione a metà percorso in un punto in cui presumevo che il plotone si fosse già sgranato e che gli atleti migliori avessero preso il largo. Idalba un po’ più in basso, appena fuori dal bosco. Pronti, via! Da dove ero piazzato potevo seguire dall’alto il serpentone che velocemente risaliva. Più gli atleti si avvicinavano e più si delineavano le posizioni di testa in base ai colori delle tutine. Qualcosa non quadrava: nella mia assoluta certezza che Lenzi dovesse mangiarsi tutti, proprio grazie al suo grande allenamento nel fondo, non era in testa… Davanti a me è transitato uno spagnolo pressoché sconosciuto seguito da un francese, un po’ staccato Damiano Lenzi, visibilmente provato dal forcing dei due battistrada. Il ragazzo con la tuta della Spagna era Kilian Jornet Burgada.
Ed ecco a voi Laetitia Roux
Durante lo stesso vertical, dopo i Giovani sarebbero transitati i Senior, che avevano la partenza più in basso. Giusto il tempo di scendere e prendere la seggiovia per raggiungere il traguardo e di qui riprendere ancora un po’ di quota per scattare qualche bella foto dell’arrivo dei grandi. Guardando verso valle lungo il tracciato di gara cercavo di individuare l’inconfondibile teoria degli atleti in salita, ma non c’era ancora nessuno all’orizzonte salvo la sagoma di una ragazza con una vistosa tutina color prugna e una folta capigliatura nera a cespuglio. «Bah, sarà fuori gara, oppure un’apripista…».
In realtà aveva anche il numero e intanto saliva con quello strano ancheggiamento nel caricare lo sci che avanzava che l’avrebbe resa inconfondibile per anni. Laetitia Roux, Equipe de France. Nei giorni successivi avrebbero provveduto a dotarla di una tutina della nazionale per la gara individuale e per intanto alle sue spalle, a debita distanza, arrancavano atlete del calibro di Pedranzini e Martinelli. Questa edizione degli Europei in Francia ci aveva portato due astri nascenti nel firmamento dello skialp.
Mezzalama 2003, Gignoux come un cieco
Edizione epica che molti ricorderanno per il gran freddo e per il vento che ha sferzato le creste per tutto il giorno. A farne le spese la fortissima squadra composta da Gignoux, Brosse e Pellissier che ha dovuto arrendersi agli svizzeri Elmer, Farquet, Zurbrugg. Quel giorno siamo saliti da Gressoney per immortalare il passaggio delle squadre nel famigerato Canale dell’Aquila che per l’occasione già al mattino si presentava disseminato di gobboni, residuo dei passaggi dei freerider che frequentano la zona. In verità quando la gara si avvicinava ero certo di veder transitare gli amici francesi in testa e invece sono state le tutine rosse degli svizzeri a passare per prime. Dopo qualche minuto ecco Jean Pellissier da solo: qualcosa non andava. Poi Brosse che cercava di guidare a valle un irriconoscibile Gignoux in evidente difficoltà che non ce la faceva a districarsi nel mare di cunette del canale. Proprio lui che del terzetto era certamente il migliore in discesa.
Appena giunto al traguardo ho potuto conoscere il motivo della debacle: il vento forte aveva strappato le lenti a contatto del nostro caro ingegnere. Questo guaio, unito al congelamento di un orecchio, lo aveva reso cieco e privo di equilibrio. Qualcuno a bordo pista commentò che il francese era talmente cotto da non reggersi in piedi in discesa. Ma non era così! Durante le riprese di un DVD sulla tecnica dello skialp ho potuto apprezzare le grandi qualità di Pierre, sempre in grado di superare con eleganza e padronanza ogni difficoltà, dallo sci ripido ai salti, alle nevi impossibili. Beh, quella volta è andata così.
Cazzi e Pippo, una coppia fortissima
Siamo nel 2009, Filippo Righi e François Cazzanelli fanno parte della nazionale giovani. Uno spilungone con la faccia simpatica, l’altro più piccolino con la faccia perennemente preoccupata. La Pierra Menta 2009, come da tradizione, prevede che i Giovani gareggino gli ultimi due giorni dei quattro previsti per i Senior. E, come da programma, in una limpida mattina di marzo gli atleti sono impegnati nella zona del Col de Dard. E noi dove siamo? Ovviamente nei punti salienti, in alto, ad attendere il passaggio degli uni e degli altri. Non si tratta di una sola salita e di una discesa, ma di diversi saliscendi con vari cambi pelli. E proprio in occasione del passaggio dei primi Giovani abbiamo il piacere di trovare la coppia Cazzanelli - Righi in testa. Ci passano accanto e, nonostante la fatica, il loro è un incitamento reciproco e continuo.
«Dai Pippo tieni duro!»
«Vai Cazzi non mollare, credici!»
«Osa Cazzi, osa!».
Simpaticissimi nel loro modo di affrontare la difficile prova. Quell’anno, osa che ti osa, si sono piazzati al secondo posto della classifica generale di categoria alle spalle dei due Gachet, che correvano in casa, distaccati di un minuto e venti. Altra bella impresa della premiata ditta Cazzi e Pippo è stata quella del Mezzalama dello stesso anno, quando portarono a termine il percorso gareggiando fuori classifica per il limite di età. Il terzetto era completato da Michele Boscacci. Nelle immagini della partenza si notano i tre atleti con la divisa della nazionale che partono in contemporanea con i grandi, ma cinquanta metri più a monte. La loro gara rimarrà memorabile dal momento che il tempo finale li farà rientrare ampiamente fra le prime dieci squadre. Negli anni seguenti Righi ha mollato e Cazzanelli si è dedicato anima e corpo all’alpinismo, cogliendo gli importanti risultati che oggi tutti conosciamo. D’altronde il suo mentore e allenatore Camandona lo diceva già allora: «François diventerà un grande hymalaista, ha la stoffa».
Le grandi performance di Guido Giacomelli
Che dire di Guido? Difficile dargli una collocazione precisa: troppo estroso per una gara a squadre, troppo impulsivo per una tattica di gara, troppo taciturno per un normale rapporto con i giornalisti e la stampa nonché con gli altri skialper. Eppure Guido mi è sempre piaciuto un sacco: per me è stato il campione più limpido che abbia mai incontrato nello skialp e sì che di atleti ne ho conosciuti - perché lui aveva un qualcosa in più che lo rendeva diverso e gli faceva improvvisare delle prestazioni che nessuno si poteva aspettare. Lo ricordo ventenne nell’Esercito, ma ci rimane giusto il periodo della ferma: non aveva il carattere per sopportare la disciplina e i ritmi della caserma. Dopo un paio di stagioni eccolo ritornare alla ribalta e di lì in avanti regalarci perle di eccezionale livello.
Ha fatto copia con il buon vecchio Lunger che probabilmente gli voleva anche un sacco di bene per accettare le sue accelerazioni in salita e i folli inseguimenti in discesa nei confronti delle altre squadre, come per voler dire: «Ci sono sempre io qui, dove credete di andare». Ricordo un passaggio in punta al Meriggio alle calcagna di Brunod e Reichegger - Lunger ormai aveva perso terreno e sarebbe arrivato con qualche minuto di ritardo -; mentre io ero intento a scattare foto dell’ultimo tratto di salita con croce di vetta in prospettiva, non ho potuto assistere al primo tratto di discesa, che partiva dopo pochi metri. Però quando ho sentito un boato da stadio ho capito che era successo qualcosa di grosso. Infatti il nostro Guido si era buttato dritto sul primo plateau innevato senza curarsi del fatto, non trascurabile, che al fondo la neve finiva in una traccetta di erba e sassi. Quel giorno il boato è stato giustificato dal fatto che in quel tratto senza neve lui c’era entrato agli ottanta all’ora e ne era anche uscito indenne. Agli Europei dell’Alpago lo abbiamo visto correre su un tratto di cresta seguito da una discesa in neve alta sul versante Nord della montagna: quel giorno le cose non sono andate come al solito e il nostro campione ci ha rimesso un ginocchio. Ripresosi dall’incidente, credo la stagione successiva, ai Mondiali di Claut, mi hanno raccontato dei collaboratori che nell’ultimo tratto di discesa prima del paese il tracciato prevedeva il passaggio in un punto in cui c’era poca neve e la poca che c’era era coperta da trucioli di legno dove avevano lavorato i boscaioli. Un tratto che imponeva attenzione e prudenza, ma per Guido era un invito a nozze e proprio su quei trucioli, dritto per dritto, ha infilato i battistrada che non hanno nemmeno potuto accorgersi del suo arrivo alle spalle. E questi erano discesisti del calibro di Bon Mardion… Stupendo, ineguagliabile campione che ha sempre buttato il cuore oltre l’ostacolo.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 129 DI APRILE 2020
Avevamo tutto e non lo sapevamo
Sono partito da Torino poco più di un’ora fa, diretto verso le Alpi Marittime. Quando mi fermo per un caffè ad Andonno rimango un attimo sorpreso dalla barista che, a disagio, mi avverte che non potrò berlo al bancone.
È il 9 marzo, il giorno prima la Lombardia è stata dichiarata zona rossa e anche da queste parti si teme che sia solo questione di giorni prima che i divieti di circolazione si estendano anche al resto del Paese. L’appuntamento a Valdieri è con Paolo e Mattia, il primo Guida alpina, il secondo Maestro di sci, ma prima di tutto amici e fini conoscitori della Valle Gesso, in provincia di Cuneo. Siamo stati invitati da un altro amico comune, Cis, a trascorrere un paio di giorni al Valasco e realizzare un reportage che in un anno normale sarebbe servito a promuovere la zona del Parco Naturale Alpi Marittime in vista della stagione dello scialpinismo primaverile. La settimana precedente in tutta Italia le attività commerciali hanno cominciato a chiudere per evitare situazioni di assembramento, qua invece non c’è stato molto lavoro da fare: da queste parti l’isolamento sociale è una normalità, special- mente in questo periodo dell’anno.
Il Rifugio Valasco è conosciuto per la sua architettura bizzarra, che ne racconta anche la storia. Nato come reale casa di caccia per la famiglia Savoia alla fine dell’800, venne riconvertito a caserma durante le due Guerre Mondiali, per poi essere ceduto dalla principessa Iolanda di Savoia a privati che lo convertirono ad alpeggio, fino a che un incendio negli anni ’90 non lo distrusse parzialmente. Dopo un decennio di abbandono, il suo restauro ne permise la riapertura al pubblico nel 2008, creando una base logistica perfetta per spezzare i lunghi trasferi- menti richiesti per sciare in Valle Gesso. A vederla da una cartina l’area compresa tra la Valle Stura e la Valle Vermenagna non sembra particolarmente estesa: a complicare la vita, però, ci pensa una fittissima rete di valli laterali e creste decisamente lontane dal fondovalle, oltre che strade spesso chiuse fino a primavera inoltrata a causa della neve. Per farla breve, per divertirsi con gli sci in Valle Gesso bisogna camminare parecchie ore, ma sono proprio quelle ore a garantire la solitudine che in altre zone è ormai una chimera. Tanto per smentire quanto è stato appena scritto, l’occasione per divertirci è decisamente comoda: proprio di fronte al rifugio si snoda infatti un canale non ancora sciato e Cis aspettava solo un po’ di compagnia per andare a metterci il naso. Dopo un caffè partiamo dal Valasco portandoci dietro un asse di legno, ci servirà ad attraversare un ruscello senza dover allungare inutilmente fino al ponte situato in fondo alla piana. Il canale è stretto, ma mai ripido. Si snoda attraverso pareti di granito rossastro che sono una delle caratteristiche della zona, ben riassunte dalla Cresta Savoia che si snoda qualche chilometro più a monte. Trecento metri, poco più o poco meno. Pochi per essere l’obiettivo di una giornata, ma abbastanza per rientrare in una concezione di scialpinismo che in Italia stenta ancora ad avere seguito: anziché voler programmare la gita in funzione di una cima precisa, in alcune aree ha più senso fare l’avvicinamento iniziale e solo dopo decidere dove puntare gli sci, in base all’appetito e al menù del giorno. Come, ad esempio, la valle del Valasco, dove sono presenti pendii di qualsiasi esposizione e inclinazione.
Scendiamo uno alla volta, dandoci il cambio alla guida del gruppo. Le pareti che ci circondano sono alte, si potrebbe credere di essere ben altrove. Anche se poi, a pensarci bene, le Marittime hanno ben poco da invidiare ad altri massicci, qui la quota relativamente modesta viene compensata dalle abbondanti nevicate, merito proprio della vicinanza con il Mediterraneo, e la morfologia complicata sembra essere studiata apposta per soddisfare desideri di pornografia scivolatoria. Rientriamo al Valasco per l’ora di pranzo, qualcuno nel frattempo dà un’occhiata alle news per capire l’evolvere della situazione nel resto del mondo, ovvero tutto ciò che è situato a valle delle Terme di Valdieri. Matti, al secolo Mattia Tosello, storce il naso: da oggi chiudono le stazioni di sci, di fatto la stagione lavorativa per lui finisce qui. Ex agonista nel centro sportivo dell’Esercito, Mattia ha passato una vita a masticare porte e neve barrata, prima come atleta e poi come allenatore, per poi decidere di cambiare aria, esasperato dall’agonismo vissuto male, quello fatto di genitori ossessionati dai risultati dei figli. Nel 2012 ha messo in piedi uno dei primi corsi di freeski rivolto esclusivamente a quei ragazzi in cerca di alternative
al classico sci club, diventando in seguito anche istruttore nazionale di telemark. Poco prima vederlo scendere nel canale è stata una gioia per gli occhi: il peso si spostava veloce da una lamina all’altra, il busto e le gambe in assorbimento e pronti a correggere la direzione con un’esplosività che solo chi ha sciato ad alti livelli in pista può avere. A scacciare le preoccupazioni ci pensa Cis, stappando una bottiglia di prosecco. Anche lui, Andrea Cismondi, da qualche parte conserva una giacca con la patacca da allenatore, ma da anni ha deciso di voltare pagina lavorando prima al vicino Rifugio Morelli e poi, ottenuta la gestione del Valasco, decidendo per la prima volta di tenerlo aperto anche nella stagione invernale, nonostante i disagi che questo comportava. Prima di tutto una continua vigilanza sulla sicurezza dell’accesso: la mulattiera creata per gli spostamenti dei Savoia si snoda sotto il tiro delle valanghe che con grandi nevicate scendono spontaneamente dai fianchi del Monte Matto, una delle vette più alte delle Marittime. Da un paio d’anni nella gestione è affiancato da Luca Rabbia e insieme hanno dato il via all’avventura di Casa Savoia, un altro rifugio situato alle Terme di Valdieri, qualche chilometro più a valle, solitamente utilizzato come punto di partenza nei mesi centrali dell’inverno. A queste due attività Cis e Luca dedicano anima e corpo, coccolando gli ospiti con vini scelti nelle cantine di mezzo Piemonte e Jacuzzi tatticamente riempite di acqua calda per il post-gita.
Dopo una cena sontuosa con arrosto innaffiato da Dolcetto e Barolo, Paolo apre una cartina per capire dove andare il giorno dopo, lasciandosi aiutare nella scelta dell’itinerario dalla selezione di zuccherini del rifugio. Su, giù, di qua, di nuovo su. L’idea è di compiere una traversata per concatenare alcune delle mete più classiche della zona, portandoci nella valle parallela alla nostra, sotto l’ombra dell’Argentera e arrivare sci ai piedi a Casa Savoia, dove passeremo la notte. Proviamo a calcolare i chilometri e ci viene da ridere, pensando alle ore che staremo in giro. Cis nel frattempo controlla nervoso il telefono, fino a quando arriva la notizia che cambierà il corso della nostra primavera, e per nostra si intende quella dell’intero Paese: in conferenza stampa il premier Conte ha appena dichiarato lo stato di lockdown in tutta Italia in risposta all’aggravarsi dell’epidemia. Ci guardiamo negli occhi consci che ora la situazione si farà parecchio complicata, per dirla con un eufemismo. In altre parole: siamo tutti fottuti. Decidiamo che rimarremo fuori fino a mercoledì, come avevamo già pianificato, in modo da terminare il lavoro sulla Valle Gesso e dare un senso all’essere venuti fino a qui grazie alla collaborazione tra il rifugio e l’ente del Parco delle Marittime. Per un po’ ci arrovelliamo scherzosamente per capire se la quarantena possa essere effettuata legalmente al Valasco: dopotutto, avremmo cibo e vino per un paio di mesi. Il buonsenso e le disposizioni del Soccorso Alpino - di cui, tra l’altro, fanno parte sia Cis che Pallo - ci fanno comunque capire che la giornata di domani ce la dovremo godere in ogni suo minuto perché non ne capiteranno di simili a breve. Gli unici altri ospiti del Valasco oltre a noi sono dei belgi con una Guida di Chamonix. La maggior parte dei passaggi qui, mi racconta Cis, è di sciatori francesi in traversata dalla stazione di Isola 2000, vicino al Colle della Lombarda. La disposizione dei rifugi e degli impianti si presta particolarmente a questo tipo di itinerario e anche noi, volendo, potremmo rimanere in giro per una settimana senza mai dormire nello stesso posto, tenendo conto di strutture aperte e bivacchi. Prima o poi, magari.
Martedì 10 marzo partiamo presto, ripetiamo il giochetto dell’asse di legno sul ruscello e puntiamo verso la Val Morta, che risaliremo fino al Colletto di Valasco. Mi guardo intorno, di qua ci ero già passato qualche anno fa, ma ora mi sembra di guardare tutto con un altro sguardo, più curioso. Andrea mi racconta che buona parte delle cime intorno a noi sono ancora da esplorare in chiave sciistica: solo dalla piana del rifugio, infatti, partono una quindicina di gite classiche, senza contare poi le discese di ripido che fanno gola a molti quando si verificano buone condizioni in primavera: il Tablasses, la Testa del Claus, la Testa di Bresses sono solo alcuni dei nomi che Pallo e Mattia mi sciorinano parlando delle discese che piacciono a loro: ripide, ma allo stesso tempo sciabili, non pareti esposte su cui salvare la pelle una curva saltata dopo l’altra. Le discese su cui aprire il gas, per intenderci. Passato il colle ci fermiamo per una pausa. Da qui ci separeremo: Luca e Cis, visto lo stato delle cose, devono riassettare il rifugio e sistemare alcune cose per i prossimi mesi in cui rimarrà chiuso. Noi continuiamo per il Colle di Fremamorta, seguendo una traccia vecchia di chissà quanti giorni. Di fronte a noi l’orizzonte è occupato dalla mole dell’Argentera, vicino a lui si stagliano il Corno Stella e la Catena della Madre di Dio. Nomi che a qualcuno possono dire poco, ma se si possiede un briciolo di cultura alpini- stica si sa bene che, nonostante la loro quota passi di poco i tremila metri, su queste cime si può trovare lungo, molto lungo. In fondo si srotola la gorgia della Ghiliè, da cui scenderemo fra qualche ora, una delle cime su cui si ammassano gli scialpinisti a maggio, lasciando campo libero su tutto il resto. Cambio assetto, panino, crema solare, giacca e via. La discesa dura troppo poco, specialmente quando si tratta di stare dietro a due amici che condividono parecchie passioni, tra cui quella per le curve a raggio ampio. Ripelliamo, direzione Vallone Ciriegia. Siamo soli, soli davvero, il telefono non prende e in giro non si vedono tracce, men che meno altri esseri umani. Se fossimo già su una delle cime di fronte a noi - come la Nasta, o il Mercantour laggiù in fondo - potremmo vedere l’acqua del Golfo di Nizza luccicare sotto il sole di mezzogiorno che ci sta cuocendo a fuoco lento. Credo che la testa fumi anche per altri motivi, che hanno a che fare con la cosa che affronteremo nei prossimi mesi, letteralmente chiusi in casa mentre negli ospedali i posti letto non saranno mai abbastanza.
Dalla cima del Ciriegia scendiamo di poco, l’acquolina di trovare neve migliore sul costone che sovrasta la gorgia della Ghiliè ci fa rimettere le pelli per la terza volta da quando siamo partiti. Spelliamo al sole, l’aria ora è tiepida. Parlare di isolamento sociale in questo momento, lontani chilometri da tutti e da tutto, sembra una presa in giro. La discesa è una danza con le contropendenze, la neve è bruttina ma in fondo quegli etti in più che ci portiamo su sci e scarponi servono proprio a questo. Al Piano della Casa ci fermiamo a goderci ancora un po’ di sole, prima di parecchi chilometri nel fondovalle all’ombra. Riempiamo le borracce nel torrente e ci fumiamo una sigaretta. Vogliamo sentirci liberi ancora per un po’. A Casa Savoia ci arriviamo non molto prima del tramonto. L’ultima serata libera ce la godiamo in una tinozza di acqua calda, che qui sgorga naturalmente. Si parla di sciate passate e di quelle future, perché in fondo gli sciatori sono, prima di tutto, amanti dei piccoli sogni che si concretizzano in qualche centinaio di metri di neve appiccicati a una montagna. Mercoledì mattina prepariamo gli zaini a malincuore. Abbiamo un’ultima cosa da fare prima di rinchiuderci in casa per le prossime settimane: andare a salutare il Lourousa, la linea simbolo delle Marittime. Risaliamo il Gias delle Mosche in silenzio, conosciamo già questo luogo. Quando arriviamo al Gias Lagarot ci fermiamo a un masso sul quale ci sdraiamo a crogiolarci al sole per un po’, prima di tornare giù a valle, verso la vita reale e i suoi problemi. Forse sullo stesso masso si era fermato anche Heini Holzer nel 1973, dopo aver risalito il Lourousa con gli sci sulle spalle e aver firmato così una storica prima. Dall’altra parte della valle la caotica parete sud del Monte Matto sembra essere stata disegnata apposta per esaltare l’estetica pura del Canalone. Cervellotica e solare la prima, razionale e ombroso il secondo. Una ti intima di fare curve strette e controllate, l’altro ti chiede di aprire il gas se ti senti all’altezza.
Qualche ora più tardi sono a Torino. La via di casa è deserta, scarico sci e scarponi mentre il termometro dell’auto dice che ci sono 25 gradi. Nel frattempo, intorno a me, il mondo si sta fermando per ricominciare a vivere. A distanza di un mese, vorrei poter bussare sulla spalla del mio me indaffarato e un po’ triste che apre il portone tenendo gli scarponi con due dita infilate nelle scarpette. Vorrei dirgli di stare molto attento a quello che succederà nei prossimi giorni, a non lasciare che l’atmosfera malsana creata dal virus lo contamini. Intorno a lui le persone si comporteranno nei modi più assurdi, c’è chi diventerà molto buono e chi molto cattivo. Ci guarderemo dalle rispettive finestre e pretenderemo di sapere tutto dell’altro. Perderemo un po’ di muscoli, ma soprattutto impareremo a conoscerci meglio, o semplicemente in un altro modo. Ci mancheranno gli amici. Poi, se tutto andrà nel verso giusto, miglioreremo come persone. E quindi come sciatori.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 129 DI APRILE 2020
Modello Val Maira
Qua e là, tra Alpi e Appennino, esistono una miriade di piccoli borghi dove negli ultimi anni per resistere allo spopolamento si è scelto di puntare su modelli slow, dove l’esclusività non è data tanto da listini fuori misura, quanto dall’isolamento (parola ormai sdoganata, ma fino a pochi mesi fa realmente apprezzata solo da pochi) e dal numero limitato di strutture ricettive, in controtendenza ai modelli mordi-e-fuggi in cui tutto, dal prezzo della camera ai metri quadrati liberi in spiaggia, viene tirato al minimo. Uno di questi borghi è Chiappera, in fondo alla Val Maira, ma sarebbe più corretto parlare di tutta la valle come destinazione slow, che si propone come modello da seguire per il turismo alpino del futuro. Per capire più da vicino il modello Val Maira, Federico Ravassard è stato in valle e ne è uscito un reportage che pubblichiamo su Skialper 132 di ottobre-novembre.
«A illustrarmi il piccolo miracolo della Val Maira in un giorno di settembre è Stefano Busso che, innamorato da sempre di questi luoghi, ha deciso di (ri)dare vita alla vecchia scuola di Chiappera, trasformandola in un albergo diffuso con annesso ristorante. Le aule, completamente smantellate, sono diventate stanze per gli ospiti, così come alcuni fienili e baite nei paraggi. La Scuola (sì, l’ha chiamata proprio così) è la sintesi delle idee che hanno reso unica questa valle, a partire dal numero di stanze, limitato ad appena dieci, che la rendono la struttura più grande (ma sarebbe più corretto dire meno piccola) di Chiappera. Questa limitazione è dovuta anche a vincoli regionali istituiti nel 1973 che proibiscono tuttora nuove costruzioni a favore del ripristino degli edifici storici, congelando il borgo a com’era mezzo secolo fa».
E pensare che alla fine degli anni ‘80 Chiappera era una frazione ormai diroccata, frequentata solo dai pochi alpinisti che bazzicavano fra Torre Castello e la Rocca Provenzale. La svolta arrivò in modo fortuito con una coppia di escursionisti tedeschi, giunti qui senza un ben precisato motivo, che si innamorarono all’istante di queste montagne deserte. Andrea e Maria Schneider persero la testa al punto di decidere di aprire la prima struttura per turisti dopo decenni di abbandono, con l’idea di iniziare a promuovere un turismo basato su numeri piccoli, valorizzazione del territorio e della cucina locale. Così è nata la rete dei Sentieri Occitani, basandosi sui percorsi che durante il Medioevo collegavano i centri dell’Occitania, un’area estesa dai Pirenei al cuneese in cui, secoli prima dell’Unione Europea, popoli diversi tra loro erano uniti da una lingua e una cultura comune. E la valle è diventata un santuario dello scialpinismo, ma questa è un’altra storia.