Yannick Boissenot, dentro l’azione

Fotografia. Catene montuose. Montagna. Fotografia in montagna. Un legame spesso forte, ampiamente sviscerato, analizzato e sempre in continua evoluzione. A volte ci si trova in montagna per un’ascensione o una discesa e si documenta la giornata con scatti più o meno numerosi, cellulare di ultima generazione o reflex digitale. Obiettivi, inquadrature, filtri. Trofeo effimero di un ricordo o ricerca dell’attimo perfetto.

Fin dalle prime immagini della fine del XIX secolo, popolate di personaggi che affrontavano salite e ghiacciai con abbigliamento e attrezzature che ora paiono rudimentali, fu chiaro che si apriva un mondo grazie alla possibilità di riprodurre fedelmente quegli ambienti di sublime bellezza e le persone che vi si muovevano. In ambiente alpino, tanto più durante le attività che si possono praticare in quota, non sono pochi gli alpinisti e i fotografi professionisti che sembrano essere più attratti dagli scatti che possono immortalare con le luci che solo l’aria sottile sa regalare, rispetto alla vetta stessa. Da quando poi la fotografia è diventata strumento alla portata di tutti, non c’è chi, dal semplice escursionista fino all’alpinista estremo, non abbia provato il desiderio di riportare a casa con sé le immagini delle cime e delle azioni che su di esse si compiono. La potenza degli scatti catturati dagli alpinisti sulle montagne più alte e remote, ma anche da semplici escursionisti sulle vette che vediamo dalla finestra di casa.

Una delle citazioni più note in cui anche l’alpinista del week-end può ritrovarsi in merito al suo legame tra monti e fotografia è quella che Guido Rey fece in tempi non sospetti nel suo Alpinismo Acrobatico: «…l’antipatico gingillo meccanico che rechiamo sui monti, legato alle spalle, è divenuto per noi un compagno utile e fedele che, ad un nostro cenno, guarda e ritiene con memoria più sicura della nostra; un compagno che malediciamo cento volte nella salita, che pesa, ci preme il fianco o sbatacchia sulla schiena, […] la piccola scatola racchiude nel suo segreto alcune rapide visioni che sono tesori, […] un attimo fuggente della vita».

Smettendo di essere così aulici, non ricordo chi, ma probabilmente un saggio, diceva a proposito della fotografia in montagna contemporanea: «professionisti e amatori, esattamente come nel porno…» tutti con il proprio gingillo al collo o in tasca. Non penso quindi che si possa rendere giustizia alla fotografia, anche a quella alpina, con una definizione stringente. È ibrida, mutevole, nasconde molteplici motivazioni che spingono sia l’amatore sia il professionista a scattare. È arte dopotutto la fotografia. Anche in montagna. Il quindicenne Yannick le montagne le aveva davanti. Ci viveva, in montagna. Nato a Bourg-Saint-Maurice, Yannick ha imparato a sciare, fare snowboard, skateboard e arrampicare nella vicina Les Arcs, in Savoia. Quasi per caso i suoi genitori in quel periodo adolescenziale gli regalarono la prima fotocamera digitale. Arrivarono subito gli esperimenti a immortalare i suoi amici e successivamente la specializzazione in una scuola di arti audiovisive a Montpellier. Fotografia e montagna: ed eccoci qui a chiacchierare con Yannick Boissenot. Molti infatti scattano fotografie in montagna, ma pochi sono a proprio agio come Yannick a immortalare action sport praticandoli davvero insieme ai protagonisti, in equilibrio sulle lamine degli sci su una linea estrema del massiccio del Monte Bianco o su una parete extraeuropea.

© Damiano Levati/Storyteller Labs

Cameraman e fotografo di montagna, Yannick è diventato un testimone chiave della verticalità. Un nome nuovo che ha saputo conquistare un proprio spazio gradualmente sul campo, sciando, arrampicando e regalando storie attraverso le immagini che cattura in prima persona, direttamente dal centro dell’azione. Cosa non troppo scontata. Amante dello sci, specie quello estremo, come mezzo di esplorazione e condivisione, nell’ultimo periodo ha deciso di ampliare le inquadrature iniziando a cimentarsi con il parapendio. Le sue immagini e i suoi film sono miscellanee delle passioni verticali che porta avanti a Chamonix e nei suoi viaggi. Del suo lavoro dice: «quando faccio un film, il mio obiettivo è condividere le emozioni!». Sembra facile, ma far sognare chi guarda, come chi legge, è tutt’altro che banale. Abbiamo fatto due chiacchiere per conoscere chi sta dietro l’obiettivo di redpointmovie.com e il suo modo di andare per pareti.

Yannick nel 2020: chi sei? Dove sei? Cosa stai facendo? Insomma, iniziamo come al solito dalle presentazioni.

«Sono nato a Les Arcs, una località sciistica abbastanza famosa. Ho iniziato a sciare a tre anni come tutti i bambini di quelle valli. Dopo dieci anni di sci e gare ho capito che la competizione non faceva per me, avevo bisogno di essere più libero, ho provato lo snowboard, il telemark per molti anni e a 19 anni sono tornato sugli sci per quello che amo di più in questo momento: lo ski de pente! Ora ho 36 anni, sono uno sciatore supportato da Salewa e Black Crows, un cameraman specializzato in alpinismo, spedizioni, e arrampicata e sono anche allenatore del club di arrampicata di Ginevra. Yannick nel 2020? È a casa, come molti purtroppo. Ma mi godo in tranquillità le montagne e la famiglia. Avrei dovuto essere in Perù per una spedizione alpinistica con i miei amici Thomas Huber e Stephan Siegrist quest’estate, ma a causa del Covid abbiamo cancellato tutto a giugno. Avendo più tempo, ho deciso di imparare a usare il parapendio, quindi negli ultimi tre mesi… sono stato in volo. Se ci penso, negli ultimi quattro anni non sono mai stato a casa (2019, 2018 in Pakistan; 2017 in Perù) quindi sono stato abbastanza felice di rimanere a Chamonix. Sono sposato da sabato scorso (questa intervista è di settembre, ndr) e ho un bambino di 18 mesi».

Lo sci è sempre stato molto importante?

«Negli ultimi anni è diventato la ricerca della linea che non era mai stata disegnata. Esplorazione. Ovviamente amo le giornate in neve fresca, lo sci o lo snowboard tra gli alberi, in foresta. Giornate selvagge di puro divertimento, ma di sicuro, da quando mi sono trasferito a Chamonix dieci anni fa, il mio modo di vedere lo sci è cambiato. Quando sono arrivato qui ero motivato a provare a sciare su tutte le linee, tutto era così enorme, specie arrivando da una stazione sciistica classica come Les Arcs. Presto mi sono trovato a studiare per tutto il tempo nuovi progetti o le king lines che vorrei sciare. Il gioco è studiarle ed essere pronti quando ci saranno le buone condizioni.

A volte la neve si attacca alla roccia o al ghiaccio per uno o due giorni, poi magari basta anche per dieci anni».

Hai saputo coniugare la tua passione per alpinismo e sci con la fotografia, cosa ti ha portato ad avvicinarti alle arti visive?

«Ho iniziato seriamente 12 anni fa. Mi sono specializzato nelle foto e nei video di sport estremi. Praticando steep skiing, alpinismo e arrampicata, posso essere veramente vicino all’azione, soprattutto quando seguo atleti professionisti come Thomas Huber, Victor Delerue, Simon Gietl. È fantastico riuscire a combinare queste due passioni. Quando esco per un servizio non mi accorgo che in realtà sto lavorando».

Il 2020 non è stato un periodo facile con i problemi e le restrizioni connesse al Covid-19. Come hai trascorso il tuo tempo?

«I due mesi a casa sono stati davvero frustranti e credo che sia stato lo stesso per tutti. Ho passato dei bei momenti con il nostro bambino e l’altro figlio di mia moglie di otto anni. Il tempo è stato sempre bello, abbiamo un giardino, quindi non mi posso lamentare più di tanto. Soprattutto pensando ad alcune persone che vivono in un piccolo appartamento in una grande città, non stavamo giocando allo stesso gioco. Inoltre il piccolo ha deciso di iniziare a camminare proprio durante il lockdown, un bel da fare!».

Alpinista e papà, cosa è più impegnativo?

«Di sicuro essere papà! Mi piace pensare che la cosa più incredibile sarà il momento in cui potrò trasmettergli la mia passione e condividere del tempo insieme in montagna! Abbiamo fatto il nostro primo bivacco di famiglia durante l’estate: è stato fantastico».

La montagna è davvero una buona opzione in ottica social distancing?

«Certo, ma non a Chamonix. A questo proposito, con i miei sponsor sono felice di aver trovato un buon equilibrio. Non sono ossessionati da ciò che è social e preferiscono i contenuti e i progetti di qualità lontani dal meccanismo quickly done, well done, purtroppo in voga».

La maggior parte degli accessi all’alta quota nell’area di Cham si effettua con impianti e funivie, non il massimo per il distanziamento sociale. Alla fine del lockdown però gli impianti sono rimasti chiusi ma, dopo l’isolamento forzato, in paese eravamo tutti super affamati di aria aperta e di poter tornare in montagna, così abbiamo iniziato apartire da valle a piedi, magari anche prima della mezzanotte per essere alla base delle pareti prima del sorgere del sole, come si fa in primavera. Alla fine si facevano uscite con 2.500-3.000 metri di dislivello. Faticoso, insolito per Chamonix, ma non andava affatto male! Questa è anche una delle ragioni per cui mi sono avvicinato al parapendio: meglio volare che scendere camminando dopo aver sciato o scalato una parete».

Un posto isolato a Chamonix?

«Sembra un paradosso, ma in certi giorni, magari un po’ fuori stagione, andate nella zona del Refuge d’Argentière. Ci sono talmente tante possibilità, seppur così evidenti, pendii facili esposti a Sud o le grandi pareti del circo Nord che, conoscendo bene i luoghi, rischierete di non trovare nessuno. Per me è un posto unico nel massiccio del Monte Bianco».

Ultimamente grandi dislivelli quindi. Un trend di un certo alpinismo, insieme alla velocità. Qual è il tuo stile?

«Non sono un ragazzo che vive quel genere di competizione. Non voglio sapere sempre quanto dislivello ho fatto in un anno o quanto ore ho impiegato per una cima. Però mi piacciono i progetti sfidanti, in cui mettersi in gioco: percorrere più pareti in sequenza, salire one-push direttamente da valle, ma per favore: nessun cronometro con me in montagna. E poca ostentazione. Anche il mondo dei media e dei social media a mio avviso non ha spinto gli sport di montagna nella giusta direzione. Mi sarebbe piaciuto diventare un atleta del mondo dello sci durante gli anni ’90.

A questo proposito, con i miei sponsor sono felice di aver trovato un buon equilibrio. Non sono ossessionati da ciò che è social e preferiscono i contenuti e i progetti di qualità lontani dal meccanismo quickly done, well done, purtroppo in voga».

So che ti piace molto viaggiare per sciare e scalare in posti remoti. Raccontaci il tuo viaggio ideale.

«Se potessi tornerei in Pakistan durante la primavera per sciare. Sono già stato diverse volte, ma sempre con progetti alpinistici. È un paese meraviglioso. Il mio sogno sarebbe quello di poter sciare su una vetta vergine di 6.000 o 7.000 metri: ci sono così tante opzioni.

La gente è sempre stata più attratta dagli Ottomila, mentre tanti posti non sono mai stati visitati e nascondono un potenziale enorme. Amo la cultura e le persone del Karakorum».

Hai sciato e fotografato anche in Perù: un altro terreno di gioco storicamente speciale per lo sci estremo.

«Penso che il Perù sia stato un buon passo da fare prima di sciare in Himalaya. Avvicinamenti brevi da Huaraz che ti concedono di scoprire cos’è lo sci ripido a 6.000 metri... e non è facile.

Abbiamo sciato Artesonraju (6.025 m) e Tocllaraju (6.032 m) impiegando due giorni ogni volta e ce ne sono voluti tre per lo Scudo sullo Huascaran Sur (6.768 m). Poi quando hai finito ti ritrovi in hotel a bere birra e mangiare del buon cibo a mille metri sul livello del mare. Non è la stessa partita quando stai al campo base a 5.000 metri come in Himalaya».

I tuoi progetti quindi guardano al Pakistan?

«Una linea che non posso far a meno di sognare è il Laila Peak. Mi piacerebbe sciarlo dalla cima, senza doppie, in buone condizioni, il modo come va fatta una discesa del genere. Anche nell’area del Bianco ho ancora molti sogni. Linee che non vorrei svelare e che vorrei aprire o anche discese majeur da ripetere. Se dovessi dirtene una, sono sempre stato attratto dal Macho al Mont Blanc du Tacul».

Quindi ecco la meta del prossimo viaggio?

«Non lo so. In realtà in Pakistan stiamo portando avanti anche un altro progetto, raccogliendo attrezzatura, sci, snowboard, abbigliamento tecnico qui a Chamonix da inviare laggiù per fare conoscere le gioie di questi sport ai bambini del posto. Julien Pica Herry, che è il mio migliore partner con il suo snowboard, è il principale promotore di questo progetto. Pica conosce alla perfezione l’Hunza Valley in Pakistan. Se non ci saranno problemi con le restrizioni e i blocchi legati alla pandemia, dovremmo andare sul posto il prossimo febbraio con altri cinque o sei amici. L’idea è quella di insegnare ai local come usare sci e tavole, passando del buon tempo insieme».

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Il lato B di La Grave

The Backyardigans (la serie televisiva in Italia è stata nominata Gli Zonzoli, ma la traduzione letterale di backyard è giardino dietro casa o, volendo, cortile) è un programma televisivo per bambini dei primi anni duemila di cui fino a qualche anno fa ignoravo l’esistenza. È un cartone animato su una banda di amici che utilizzano l’immaginazione per inventarsi avventure indimenticabili... senza lasciare il giardino di casa, il loro parco giochi. Il mio amico peruviano Koky, che viveva accanto a me, me ne parlava in continuazione mentre si meravigliava per le sciate che facevamo insieme proprio dietro le nostre case, al di là delle creste e delle cime che vedevamo dalla finestra, nei giorni di gloria polverosa. All’epoca vivevo già da dieci anni nel piccolo villaggio di Ventelon e apprezzavo molto questo lato di La Grave, il versante soleggiato e innocuo della valle, oscurato dalla fama dei pendii raggiungibili con la telecabina. Però l’allegoria di Koky mi ha fatto rivivere quella magia dell’esplorazione intorno a casa con l’innocenza di un bambino e mi ha riportato ai primi ricordi che ho dello sci.

Quando mia madre mi ha messo per la prima volta gli scarponi di cuoio a tre anni, facendomi provare la sensazione di scivolare, era proprio dietro casa nostra, nel mio giardino. La periferia di Toronto è corrugata da collinette appena sufficienti per provare l’effetto della forza di gravità con gli sci ai piedi, ma è stato il morso della mela che mi ha spinto verso le località sciistiche più vicine, fino a quando sono diventato uno ski bum, fuggendo dalla folla delle piste. Scoprire il mondo con gli sci è stato il mio romanzo di formazione e mi ha permesso di fare esperienze in molti parchi giochi. Eppure quei ricordi così vividi della prima infanzia, quando esploravo con gli sci il bosco nel burrone dietro casa, sono sempre rimasti tra le esperienze più importanti per la mia crescita.

Non tutti quelli che rimangono stregati dalle incredibili possibilità sciistiche nella montagna aperta offerte dalla telecabina di La Grave finiscono per fermarsi qui. Man mano che vivevo alle pendici di un comprensorio così intenso, ne venivo completamente sopraffatto, ma parte del fascino è dovuto al forte contrasto di questa realtà con quella che ho vissuto in Canada. Lì per trovare lo stesso terreno devi andare in posti lontani e isolati, oppure in costosi e lussuosi resort senza alcun legame con la terra. La mia passione per lo sci avventuroso si è sempre risolta in lunghi e faticosi viaggi in auto. La Grave ha saputo conservare e valorizzare il suo patrimonio e uno stile di vita in montagna che ha messo in ombra il percorso scontato di molti sciatori verso uno stile di vita da era nucleare. La Grave mi ha mostrato la speranza di poter mettere in pratica il mio vecchio e romantico sogno di non lavorare e di coltivare il cibo durante l’anno, in modo da poter sciare, mangiare e dormire (e fare un po’ di festa) in inverno.

© Ptor Spricenieks

Ho incontrato Mathieu Bonnetbleu nei miei primi anni a La Grave. All’epoca era un vero ski bum e c’era molta affinità tra di noi, così il passo per diventare uno dei miei più preziosi compagni di gita è stato breve. Mi piaceva il modo di ragionare elementare di Mathieu. Lui ammassava nella sua piccola baita di pietra il cibo a km zero che aveva coltivato o comprato e poi sparivamo per diversi giorni, portandoci dietro patate locali, formaggio, pane e bottiglie di vino al posto dei noodle o del ramen confezionati. Con il passare degli anni Mathieu si è completamente evoluto, dimenticando la telecabina e diventando pastore. In un batter d’occhio ha messo su famiglia, fattoria, una piccola mandria di capre e 300 pecore Merinos. Non solo ha finito per sciare dove viveva, ma ha anche vissuto dove sciava... Il suo parco giochi dietro casa è diventato sede di lavoro e fonte di vita. La scelta permaculturale* di Mathieu è stata la leva per fare di qualcosa frivolo e infantile come lo sci il mio stile di vita.

La mia fantasia del parco giochi dietro casa si è materializzata quando mi sono sposato e abbiamo costruito il nostro nido a Ventelon. Appena dietro le mura c’è una montagna con pendii erbosi frequentata solo dal bestiame, dai cervi, dalle volpi... e dagli altri backyardigan. Il nostro lato soleggiato della valle è perfetto per far crescere l’aglio in primavera, fornisce l’energia solare ideale e in inverno permette comunque di mettere gli sci e toglierli in giardino appena qualche centimetro di neve ricopre l’erba. Qui gli elementi hanno rimodellato il mio ego. Fuori dal bosco i venti costanti creano onde di neve simili ai pipe dei park. Questo spirito ha alimentato la sciata interiore e influenzato lo stile e le aspirazioni. Ho iniziato a non avere più bisogno di sciare tutti i giorni perché stavo eliminando ciò che volevo dimenticare andando a sciare. L’immobilità fertilizzava la sensibilità verso la natura e la qualità delle sessioni di sci.

Lo scorso inverno è stato bello nel mio parco giochi. Con Ryan Koupal di 40 Tribes Backcountry, con il quale da dieci anni porto gruppi a sciare nei parchi giochi più esotici, abbiamo creato il primo Mystery Trip. Chi si è iscritto ha iniziato l’avventura nella sua immaginazione, all’atto dell’iscrizione, sapendo solo che sarebbe stato accolto a Ginevra e avrebbe sciato con me e un’altra Guida locale... da qualche parte. L’esuberanza giovanile del mio amico e Guida alpina Joe Vallone ha funzionato perfettamente durante il nostro pigiama party di una settimana al Refuge du Goléon. Joe, grazie al suo background freestyle, incarna perfettamente lo stile ludico dello sci che trae il massimo profitto dal nostro parco giochi e dal cameratismo delle notti in rifugio intorno a un tavolo. Nessun ha sentito la mancanza della telecabina.

I miei due figli hanno imparato a sciare nel nostro giardino. Mentre crescono e li guardo costruire kicker e camminare per fare i loro 50 metri di sciata in neve fresca quando si depositano 20 centimetri sull’erba, sto chiudendo un cerchio. C’è un senso di completezza perché ho capito quello che mi motiva. Più tempo passo nel mio parco giochi, più sembra grande. Sciare non significa per forza complicazione. Le cose semplici sono in sinfonia alla Mandelbrot. I frattali** del mondo interno si muovono all’infinito sempre più dentro, diventando intricati man mano che si va nel dettaglio. L’immaginazione ci porta lì, soprattutto in questi giorni in cui il mondo esterno, ancora convalescente dalla malattia mitologica del XIX secolo, sembra chiudersi intorno a noi. C’è sempre spazio per divertirsi di più nel parco giochi se sei un backyardigan.

*La permacultura è un insieme di pratiche mirate con il fine di progettare e gestire il nostro habitat in modo che soddisfi i bisogni primari (cibo, fibre ed energia) salvaguardando la stabilità e sostenibilità degli ecosistemi naturali.

**Ente geometrico caratterizzato dalle dimensioni non intere e dalla proprietà di riprodurre l’ente di partenza a ogni scala. L’insieme di Mandelbrot, dal nome del matematico Benoît Mandelbrot, è uno dei frattali più popolari

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© Ptor Spricenieks

Onde

Questo articolo è un estratto del racconto originale pubblicato sul numero 1 di AA Arcipelago Altitudini. AA ha le fattezze di un libro, ma nell’idea di periodicità è inteso come una rivista, è un contenitore di racconti, ma anche di saggi narrativi, di poesie, di foto reportage e di graphic novel con tema la montagna nei suoi diversi aspetti e significati. Un insieme di tante storie eterogenee e voci diverse, in cui scrittori affermati si affiancano a esordienti, componendo un vero e proprio affresco, un racconto sfaccettato e originale sulla montagna, per scoprirla, approfondirla e per lasciarsi ispirare. 19 euro – 224 pagine. Curatore: Teddy Soppelsa.

Chi lo fa per amore, chi per desiderio, chi per narcisismo, chi per sentirsi giovane. Io lo faccio per noia, solo fottutissima noia. La ragione è che non ne posso più di scendere le autostrade di neve. Un giorno dalla seggiovia guardo i puntini che disegnano la stessa traccia con gli stessi sci e lo stesso lasciapassare sullo stesso identico monotono piatto insulso tappeto di neve da cannone e trabocco di noia. «Sono così anch’io?», mi chiedo fissando gli scarponi di plastica lattescente, e piuttosto di fare il puntino torno indietro con la seggiovia. Fuori pista non posso andare perché ci sono i sassi: i puntini sciano sulla striscia di carta igienica. Non so niente del surf da neve. Neanche il nome, infatti non si chiama così. Mi documento, leggo storie, trovo qualche commento esaltato e qualcuno poetico e scopro che il mondo della discesa è diviso in due come quello della scalata. La gente come me ha cominciato a sciare con gli sci, due e distinti, ispirandosi all’eleganza dei vecchi maestri, invece i più giovani imparano direttamente sulla tavola, sorprendente metafora del nuovo pensiero. La tecnica dello sci deriva da una concezione lineare, classica, cartesiana, mentre lo snowboard s’ispira a un pensare obliquo e laterale, postmoderno, che ha un corrispettivo urbano nello skateboard. Le due filosofie non si parlano, sono mondi separati. All’inizio lo chiamavamo surf, effettivamente, e lo consideravamo lo sport dei pazzi d’oltreoceano. Capelli lunghi, faccia abbronzata, brache larghe e cervello allentato. La filosofia della tavola veniva dall’America ed era molto diversa dalle tavole sempre apparecchiate di casa nostra. Il surf arrivava dalle nevi e dagli sciatori anarchici degli Stati Uniti, anche se nessuno conosceva l’inventore, e saliva dal mare, dove era nato in altre sembianze per cavalcare le creste.

Il senso originario era appunto solcare le onde di neve, scivolando di bolina su un pezzo di legno incurvato. Non sciare, ma navigare. Gli sciatori scendono e i surfisti navigano, solcano, galleggiano. Sciare e navigare sono due parole diverse, e le parole sono importanti. Se fossi stato attento alle parole! Lo snowboard arriva sulle Alpi negli anni Ottanta, espugnando un nocciolo di curiosi e di coraggiosi. Il popolo delle piste li guarda ghignando come si guardano i circensi e i numeri da circo. L’attrezzo piatto non si arrende e cerca faticosamente di conquistare il mercato europeo, di guadagnare immagine e fiducia, quindi inciampa, barcolla, si rialza e finalmente decolla negli anni Novanta, adattandosi al pubblico di quaggiù. Il surf di noialtri elabora un pensiero facile, che è la pratica sulle piste battute, demone e spauracchio degli sciatori tradizionali, e coltiva un pensiero complesso che è la navigazione sui campi di neve intonsa, che una volta si chiamava «vergine» in onore del maschilismo alpino. È su quella neve che il surfista che ha rinunciato a essere un macho disegna tracce e inventa attraversamenti.

L’attrezzo è concepito per veleggiare negli spazi aperti, dicono gli adoratori della buona tavola. Serve a navigare i mari di neve fresca, non a grattugiare le piste. Attratto dalla filosofia decido di sperimentare il nuovo linguaggio. Ci arrivo per caso, come succede per le cose importanti della vita. Basta non dire di no. Una domenica di febbraio salgo a Prali in Val Germanasca, che è il vecchio rifugio dei valdesi dove i montanari dalla testa dura hanno mantenuto un comprensorio a misura d’uomo e di portafoglio. A Prali si scia bene e si spende poco. A Prali c’è una di quelle seggiovie di una volta che parti giovane e arrivi vecchio, però almeno hai il tempo per pensare. Anche dalla seggiovia vetusta di Prali si vedono i puntini che disegnano la pista di sci, ma oggi non si vedono perché è salita la nebbia. In cima alla seggiovia c’è un bar un po’ triste come tutti i bar degli sciatori, vicino al bar ci sono i cartelli delle piste battute e oltre i cartelli c’è la mia trappola.

«Allora vuoi provare?» dice Andrea.

«Sono venuto per provare, no?».

«Allora buttati, socio».

Per provare per prima cosa bisogna inchiodarsi alla tavola, ed è già un passaggio difficile. Gli sci te li metti ridendo, li domini, invece la tavola ti cattura e sei in balia. Servo patetico e obbediente. Cerchiamo un posto in piano, lontano dagli sguardi indiscreti. Facendo la faccia dell’esperto scambio gli sci con la tavola di Andrea Giorda, vecchio compagno d’avventure, che si prende anche i bastoncini lasciandomi solo e imbullonato all’attrezzo. Lui scende scodinzolando e io sono un cane di marmo. Scultura ingloriosa. Si è messo a nevicare e viene giù cattiva, di traverso, come quando ti sale la voglia di essere a casa. Tra un’ora chiudono gli impianti e io resto qui come un fesso, penso in cima alla pista, un monumento all’imperizia umana. Oppure mi tolgo l’asse maledetto e scendo a piedi, come fanno i bipedi. Quello lo so fare bene. Alle quattro del pomeriggio sono bloccato sul vertice invisibile della pista rossa, contento che nessuno mi veda, in precario equilibrio trasversale sulla tavola di Andrea. Nevica più forte. Sono sudato. Da un’ora sto inginocchiato in faccia al pendio cercando l’equilibrio. Ogni volta che provo a tirarmi su ricado come un fantoccio sulle ginocchia. Ho i menischi marci, nevica, tira vento e fa sera. Tempo da lupi, e qui ci sono i lupi. Erano decenni che non m’inginocchiavo davanti a qualche cosa. Aggrappandomi alla neve bagnata cerco l’ancoraggio che non esiste. Se avessi capito la filosofia saprei che non c’è appoggio nel surf, c’è solo il vuoto. Bisogna imparare a volare. La tavola serve a quello. Mi rigiro faccia a monte, scivolo, gratto, derapo. La discesa è alle spalle. Eterna. Minacciosa. Per la prima volta affronto una montagna senza vederla. Massaggiandomi il ginocchio tumefatto concludo che per oggi non ce n’è. Scenderò a piedi. Prendo la tavola sotto braccio e divallo come un reduce di Russia. Per dare un senso alla situazione mi dico che bisognava provare per rinunciare. Sono uno stupido, rido di me stesso. Eppure c’era scritto su tutte le riviste, che la tavola fa male all’ego, ma io ho sottovalutato le parole. Bastava leggere meglio, bastava credere alle disgrazie degli altri.

L’apprendimento dello snowboard in età adulta è una regressione sconvolgente. Le tecniche acquisite in trent’anni di vita sportiva sono inutili, anzi peggio, sono controproducenti. Più ne sai più non vai. Più ti gonfi più ti fai del male. Ti ripeti che sei nato con gli assi ai piedi, che sai sciare da quarant’anni, che ci andavi ogni festa comandata invece della messa, che come Smilla conosci la neve farinosa, ventosa, gessata, bianca come una sposa o sporca da chiedere scusa, e invece non sai niente di tavole e di neve e di volare, sei solo un pivello che annaspa sulla pista numero sei. Hai meno chance del principiante che eri da bambino, infinitamente di meno, perché lui aveva la mente libera mentre a te tocca prima disimparare, umiliarti, dimenticare: piede destro e piede sinistro, peso a valle, piegamento, rotazione… Addio regole, addio ragionamento simmetrico. Per pensare da surfer devi vuotare la testa e riempirla con qualcos’altro. Allora guardi gli altri che volano sul pendio e ripeti «diamine è così facile!, guarda quello com’è grasso, quello è solo un ragazzino, quell’altro magari lavora in banca, non vedi che basta voltare le spalle e la tavola gira da sola!». E invece non hai capito niente, ruoti il busto, strappi la curva e sbatti la faccia sulla neve. Ti rialzi, prendi velocità, pieghi, ruoti, strattoni e cadi. Ti rialzi, strappi, t’inclini, bestemmi e sbatti di nuovo. È come se un energumeno ti tenesse le caviglie e un altro energumeno ti desse lo spintone. Una bella domenica.

Arrivo in fondo alla pista numero sei al buio e finalmente restituisco la tavola al mio amico. Portatela via, non voglio vederla mai più. Lui dice che è così per tutti: tre giorni di agonia e una vita di felicità. Non gli credo. Tre giorni e resusciti, dice. Non lo ascolto nemmeno. Ridammi i miei sci, grande millantatore, cerchiamo una tavola vera e facciamoci una birra. Naturalmente non demordo, adesso è una questione di orgoglio. Per notti e giorni penso agli errori commessi: sono sicuro di avere imparato. Mi lecco le ferite e mi accarezzo l’ego. La domenica seguente affitto una tavola ancora più cattiva, una putrella blu metallizzato, e scelgo una giornata ancora meno misericordiosa, con la neve dura e gelata. Fa bello e fa freddo, è inverno. Questa notte il vento ha spazzato il tappetino di farina, ma io ormai sono un veterano e ho seminato buoni propositi. Basta lanciarsi, genuflettersi e raccogliere. Va peggio della prima volta, perché i polsi fanno ancora male, la schiena è a pezzi e ho deciso di fregare la gravità. Quindi cado di continuo. L’energumeno non ha pietà. Ne esco più bastonato di domenica scorsa. Ma Andrea ha detto tre giorni, che ci vogliono tre giorni per disegnare le prime curve, così aspetto l’alba magica della resurrezione e alle prime ore del terzo giorno sono di nuovo in cima al calvario. Questa volta ho affittato una tavoletta ridicola, corta e marroncina, l’ho battezzata Truciolo, pesa poco e si piega tanto. Eppure non si fa domare e io mi sento un manico di scopa. Alle dieci del mattino ho già le ginocchia fradice. Quel gran bugiardo di Andrea. Rivoglio le mie gambe, ridatemi due gambe.

Sulla pista c’è una specie di chalet e gli sciatori hanno appoggiato alla parete decine di attrezzi. Le tavole da surf sono poche, cromate e seducenti. Le guardo, le odio. Aggiungo la mia tavoletta beige e la fisso come una fidanzata che ha tradito. Nel bar ordino un génépy e bevo d’un fiato per dimenticare. Invece continuo a pensarci, perché ormai è una battaglia tra me e lei, la tavola. Anzi lui: Truciolo. È guerra tra il pensare diretto e il pensare laterale. Possibile che sia così fottutamente bello da vedere e così fottutamente difficile da fare? Dopo il bicchierino della resa una voce bisbiglia all’orecchio: «Non hai capito? Funziona se non ci pensi troppo. Abbandonati, lasciati andare!». La vocina ha ragione, ma è solo filosofia. E non conosco neanche un filosofo che sappia vivere o surfare. Comunque ascolto la vocina e alleggerito dall’alcol faccio un ultimo tentativo. È uscito il sole e la pista sembra un tavolo da biliardo. I pendii luccicano di farina bianca, le creste si stanno scrollando la neve di dosso. Adesso che sono ubriaco mi sento meglio. Appena inforco la tavola la sento più leggera, malleabile, quindi la lascio fare e lei misteriosamente comincia a obbedire. Che fai adesso? Giri? Truciolo ruota docile sotto gli scarponi, rispondendo alle traiettorie del mio pensiero. Io lo penso e lui lo fa. Cazzo era un gioco facile, non c’era niente da imparare.

Quando il surfer in erba chiude la prima curva senza cadere pensa: «Che stupido, ero già capace». Più che apprendere il gesto bisognava liberarlo. La tavola asseconda le menti libere e non perdona la violenza. Lo sci era il pensiero forte della discesa, lo snowboard è una distrazione femminile. La tavola non si domina con i quadricipiti ma con la dolcezza, accarezzando il pendio sulla superficie, senza graffiare, senza far male. La tavola è come l’arco nelle mani dell’arciere: non è il braccio a scagliare la freccia, il dardo si scaglia da sé. Il saggio zen insegna che «con l’estremità superiore dell’arco l’arciere fora il cielo, all’estremità inferiore è appesa la terra fissata con un filo di seta. Se il colpo parte con una forte scossa c’è il rischio che il filo si spezzi. Per il volitivo e il violento la frattura diventa allora definitiva e l’uomo resta irrimediabilmente nello spazio intermedio tra il cielo e la terra».

Pochi in Europa hanno ascoltato i maestri dello snowboard. Con il passare degli anni la filosofia è scivolata rapidamente verso soluzioni sintetiche, verso tavole sempre più corte, arcuate e nervose, gobbe artificiali, trampolini di neve compattata, snowpark per le esibizioni acrobatiche. Nell’immaginario collettivo il surfer è diventato il ragazzino che gratta, derapa e rimbalza a bordo pista, il funambolo della discesa, la palla da flipper che taglia le gambe agli sciatori per bene, l’indisciplinato utente delle piste, il teppista. Porta pantaloni a vita bassa, scarpe da astronauta e giganteschi giacconi per nascondersi dai grandi.

Io continuo a vestirmi da sciatore alpinista e comincio a navigare i valloni delle Alpi occidentali con il mio vecchio compagno di cordata. Monviso, Monginevro, Monte Rosa, nevi in rosa. Riscopriamo la magia della neve fresca, l’odore gelido della farina e la gioia del mare aperto. Le nostre tavole solcano onde zuccherose d’inverno e campi di neve trasformata in primavera. Nella farina facciamo il disegno e sul firn ci divertiamo senza lasciare traccia. Abbiamo dei vantaggi sugli sciatori. Quando gli assi sprofondano noi galleggiamo, in crosta ce la caviamo, sulla neve marcia voliamo. Le tavole da surf tratteggiano linee diverse dagli sci, creano altre geometrie. Il diverso pensiero genera segni differenti. Si scendono dislivelli fantastici e si scopre un’altra montagna, disegnandola e ridisegnandola come i bambini con quelle lavagnette magiche: scrivi, scrivi e poi cancelli tutto.

L’avventura è quella cosa: passare e cancellare la traccia. Per assaggiare l’avventura devi spingerti oltre la pista segnata e battuta, se c’è un confine devi superarlo, se trovi un divieto devi trasgredirlo. Ma l’avventura è per pochi e la navigazione in neve fresca pretende coraggio. Bisogna essere molto amici dell’inverno e della montagna per distinguere fra il tracciato sicuro e il pendio da valanga, e bisogna farlo molto in fretta, con i tempi della discesa. La neve fresca non è programmabile, la fresca è anarchica, scende dal cielo e copre il segno che c’era prima. La neve fresca non è né sintetica né pop, infatti il mercato usa la seduzione dei grandi spazi per catturare i nuovi adepti e poi li mette in fila sulle piste. Ti faccio vedere il mare, te lo faccio perfino annusare, e dopo t’incateno all’ombrellone. Non bisogna essere dei filosofi per esercitare l’avventura con la tavola da snowboard, comunque si fa della filosofia. La tavola è rovesciamento logico, trasgressione sintattica e reinvenzione estetica. Si vola con il vento e ci s’impantana nel mucchio.

Per me la buona tavola in neve fresca è stata una liberazione della mente. L’evasione da una cella chiusa. Per qualche inverno ho partecipato al nuovo pensiero, anche se si trattava già di uno sguardo minoritario, e forse lo era sempre stato, superato in un lampo dalle convenzioni sintetiche che abilmente ci seducono e subdolamente ci fregano.

© Achille Mauri

L'importanza delle cose semplici

Ci sono nella vita quelle persone che ti scombinano la testa. Certo è che mai avrei pensato di trovarle quassù. Si attribuisce sempre troppa importanza alle cose complesse quando invece, a metterci davvero in crisi, sono quelle più semplici. Per le cose complesse spesso si possono studiare e imparare degli schemi da ripetere con precisione aritmetica. Si può fare un passo indietro dalle cose intricate senza il timore di essere giudicati codardi o di sentirsi tali. Più che altro, la verità è che dalle cose complesse si accetta di lasciarsi confondere. Più difficile è accettare che sia il piacere di un’alba, con i suoi primi raggi di calore, a crearci confusione.

Dopo una notte fredda e umida trascorsa in tenda, com’è facile trovarne qui in Valsesia, il semplice sorgere di un nuovo giorno risveglia un appagamento tale da mettere in discussione la nostra percezione del comfort e, per diretta conseguenza, il nostro modo di sentire le cose della vita. Questo io ho amato del Checco di Otro. E per questo io lo ringrazio: per il modo in cui è capace di sentire le cose della vita. Per come sa farmi dubitare del modo comune di viverla.

In una realtà così tremendamente occidentale, trovare un uomo tanto essenziale nella sua scelta è disarmante. Conversare con lui, ogni volta, mi fa mettere in discussione quel poco che nei miei 26 anni so delle cose. Francesco Enzio, conosciuto come il Checco di Weng, è una ex Guida alpina, Maestro di sci di fondo, Soccorritore e Tecnico di elisoccorso, fedele da sempre al Monte Rosa. Vive dal 2014 a Weng, una minuscola frazione della Val d’Otro, in una modesta baita Walser. Pochi lussi, tanti sacrifici, e un asino di nome Libero. Sei lettere che da sole basterebbero a descrivere il mondo del Checco. È un uomo che ascolta. Non solo quello che hai da dire, ascolta la vita in questa valle impossibilmente verde, ascolta chi sei prima delle parole che dici.

Dopo molte stagioni da rifugista sul tetto d’Europa, alla Capanna Regina Margherita sulla Punta Gnifetti del Monte Rosa, diventa Guida alpina esercitando la professione più come stile di vita che come lavoro. Non ama parlare di sé perché ha capito presto, e questo ve lo dico io che l’ho guardato negli occhi, che ogni volta che ci si concentra sul proprio ego piuttosto che offrirsi agli altri, si perde una preziosa occasione di crescita. Ad ogni modo qualcosa di lui mi ha detto, con e senza parole.

Immaginare la Val d’Otro se non ci si è mai stati è una di quelle cose complesse di cui vi ho parlato all’inizio. A Ovest della gente di Alagna, in Valsesia, un ripido ma accessibile sentiero porta a prati verdi, radi come tappeti appena tessuti e decorati da modeste abitazioni in legno e pietra che incantano gli uomini già dal XIII secolo. Un bel dipinto incorniciato da roccia, ghiaccio e larici. Gli oltre 3.000 metri di roccia del Corno Bianco sono i primi a essere svegliati dal sole del mattino e sorvegliano dall’alto l’interna vallata e i suoi villaggi Walser. Vivere di montagna è un’espressione che oggi si usa perlopiù per intendere qualcuno che, grazie alla mansione che in montagna svolge, guadagna abbastanza da garantirsi un mantenimento. A sufficienza per tirare a campare, come diremmo noi montanari. A Otro il vivere di montagna ha un significato nuovo. Un uomo che impara a vivere con le cose che la natura gli dà, a non pensare a quello che potrebbe fare con le cose che non ha. Dimenticandosi proprio di quelle cose.

Linda è una delle tre figlie di Checco, quella di mezzo. Occhi colore del ghiaccio e lo sguardo di una donna in rinascita. Con quegli occhi dice È stata dura ma ce l’ho fatta. E ce la farò sempre. T’investe di positività, ma di quella conquistata con i denti, a botte di sorrisi. Non è spensierata perché senza pensiero, è spensierata perché anche lei, quassù, ha imparato a sentire le cose della vita. Linda ama suo padre, profondamente. Per lei è il minimo partire da Alagna (500 metri di dislivello più in basso) con ciaspole, sci, o scarponcini, per portare la spesa al papà. Un rapporto ammirevole, figlio dell’educazione delle loro montagne. Ma torniamo a quello che davvero confonde. A quella complessa semplicità che spiazza. Alla gente non importa sapere che cos’è la vita, vogliono solo sapere come attraversarla mentre la vivono. Questo luogo, queste persone, lo suggeriscono senza dire nulla. Si impara molto di più quassù, in montagna, sul sentire le cose, che da tutti gli psicologi, sociologi e antropologi del mondo. In sintesi la Val d’Otro è vento che culla i pensieri, sole che scalda la pelle, picchi e creste che abbracciano e belle persone con cui ridere, ballare, bere e mangiare. Davvero ci serve molto altro? Mi sono sempre chiesta perché siano stati creati luoghi e cuori così semplicemente belli, se gli uomini possono essere tanto complicati.

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Dentro il van

Sulle montagne che fronteggiano Leukerbad la neve si è coricata a cumuli. Ne è scesa tanta, per giorni, senza scegliere il suo dove. Ora ricopre ogni cosa. Ed è questione di metri tradursi in un gioco o in un pericolo, anche se lei a queste cose non ha il tempo di pensare. La mano che bussa al mio van infreddolito è decisa. Non mi lascia il tempo di aprire che già l’ordine mi investe. Go a-w-a-y. Sillabico, glaciale, senza nemmeno lo spazio per un punto esclamativo. In pochi minuti bisogna uscire, non c’è tempo da perdere. Sulla parete alle nostre spalle il sottile confine fra gioco e pericolo oscilla con il pendolo di una daisybell. E ora la neve caduta senza badare al dove fa i conti con un’esplosione che potrebbe finirci sulla testa. Forse seppellirci. Insomma, correre al meeting point per metterci in sicurezza è l’ordine teutonico da rispettare. Dobbiamo lasciare tutto e allontanarci. Cinque minuti di tempo, ma è una scelta che non riesco a fare. Incosciente, forse, ma quel che abbandono non è solo una carrozzeria su quattro gomme. È la mia casa. Per di più, nuova di pacca.

Un van è come un figlio. Quando lo scegli, lo vivi fino in fondo. Non è il tuo mezzo di trasporto, non è il tuo status symbol. Non è solo il viaggio alternativo. È ciò che ti rappresenta. E contiene te stesso. Lasciarlo lì, a un ignoto destino esplosivo, è dura quanto lasciarci il cuore. Vorresti scappare ma anche no. Obbedire agli ordini, ma salvare anche il tuo tutto. Cinque minuti di tempo, ma non è facile. Ci penso più del dovuto, i solleciti mi incalzano, poi la scelta si esaurisce. Si incrociano le dita, e si va. Mentre ti volti a guardarlo, capisci quale sia la prima cosa che impari quando giri il tuo piccolo mondo su quattro ruote. Il tuo mezzo è tutto. È casa. E quando il fine è lieto come lì a Leukerbad, dove la neve sceglie di vomitare la sua cascata lontano dal tuo pensiero, è come se a scampare il pericolo fossi tu. Se oggi mia nonna mi vedesse vagare per mare e monti a bordo di una scatola mobile, lo so cosa direbbe. Che sono una singra. Una zingara. Ai suoi tempi solo il matto del villaggio non le avrebbe dato ragione. Sarebbe dura farle capire che io in quel contenitore ambulante oggi ho tutto quello che lei considerava prezioso della sua casa solida in muratura. Un bagno, l’acqua calda che scorre, un letto, un fornello e un piccolo spazio tutto mio. Non ci crederebbe mai, che in meno di dieci metri quadri posso vivere. E non sentire la mancanza di niente. Tanta gente non ci crede ancora oggi. Non posso biasimare nessuno. Comprendere un diverso stile di vita e di viaggio, apparentemente scomodo e macchinoso, non è facile. Potrei dire che serve provare, ma le complicazioni logistiche rischierebbero di scoraggiare le buone intenzioni. Allora posso solo dire che bisogna crederci. Nella consapevolezza, fin da principio, che di queste vite ci sono tante declinazioni, non tutte ugualmente ostiche. E che comunque, mi scuso per il qualunquismo, non sono a priori cose per tutti.

Io ci sono ormai dentro fino al collo. E in quest’annata assurda flagellata da un minuscolo ma immane virus, so che la mia scelta diventerà quella di tanti. Sempre di più, in un mondo che già da anni si stava moltiplicando. Vivere l’inverno sportivo a bordo di un van, o se volete furgone, che poi la sostanza è sempre quella, vuol dire trovare non la strada giusta, ma la strada furba. Quella che permette di unire tutti i puntini del disegno immaginario: senso di evasione, spirito d’avventura, autodeterminazione, mancanza di vincoli. E - voilà la novità - totale distanziamento sociale, che detto così pare brutto. Ma in fondo è quel che questo mondo strano e folle oggi ci chiede, senza tanti complimenti. La moda la chiama vanlife, vita in van, e gli Stati Uniti ci marciano su ormai da anni. Modaioli, fighi, assuefatti a Instagram all’ennesima potenza, i suoi volti sono storie da copertina patinata. Figli del mondo surfer che nelle spiagge californiane offrono giacigli da sogno per i loro nostalgici Volkswagen serie T, sono la fotografia di un senso hippie vestito di modernità. Nelle traduzioni invernali, ancor più accentuato: braga molla e buriola fashion, prende la forma dei freeskier stile Teton Gravity, perennemente innamorati dei monovolume del Volk. Del popolo. Ma da 50.000 euro a colpo, parola di listino.

© Federico Ravassard

La complessità di questo variegato mondo parte da qui. Nella coesistenza fra una tribù nostalgica ed essenziale, affezionata ai vecchi furgoni paffuti da Era dell’Acquario, e un mondo alternativo ma comunque borghese. Ricercatore di un’estetica nuova, ispirata a un bisogno di libertà che è figlio dell’abbondanza e di una voglia di fuga dal troppo. E che si alimenta di soluzioni apparentemente freak, ma sostanzialmente consapevoli, spesso costose. Questa superficiale contraddizione nasconde in realtà una coerenza ineffabile ai più, tanto da diventare spesso fonte di diffidenze. Spirito selvaggio e mezzi di ultima generazione sono in effetti le due facce di una sola ricerca estetica, che vuole mantenere il suo fondamento filosofico ma allo stesso tempo essere all’altezza delle esigenze di comfort e vivibilità, soprattutto d’inverno. Si tratta comunque di un punto di arrivo, questo va detto. Io oggi, forse presuntuosamente, mi annovero con il mio compagno nel grande popolo dei vanlifer, peraltro non permanente, ma a questo risultato siamo approdati solo al termine di un lungo percorso. Nel 2018, anno del nostro personale apice, abbiamo trascorso nove mesi su dodici sul nostro furgone camperizzato (battezzato Thor per una smodata passione per il Nord e per un certo bisogno di ingraziarci i voleri degli dei norrøni), ma più di vent’anni fa lo spirito wild già reclamava la sua parte.

Erano i tempi della combo tenda-macchina, un classico da età studentesca ma troppo poco per affrontare avventure sempre più intense nella natura. E allora, via di furgone allestito un po’ così: due sacchi a pelo buttati sul cassone in legno, zaini sotto la testa e chilometri a gogò. In pancia, paste alla carbonara e zuppe liofilizzate da cuocere sul micro camping gas. Vien da sé che non erano ere di pesanti trasferte invernali, salvo mettere in conto il rischio ibernazione. A quelle siamo arrivati con il tempo, buttando gli sci nel Range Rover preparato da offroad spinto e tuffandoci a fine giornata nel materasso morbido della Maggiolina (la mitica tenda da tetto) montata sulle barre portatutto. Una vita facile? No. Poetica sì. Romantica anche. Ma semplice no. La grande intuizione della tenda da tetto apribile vive nella sua praticità: avere una simil-camera da letto sempre a disposizione, ovunque si vada, è cosa che sa di rivoluzionario. Ma farci vita invernale in modo confortevole, mi scusino gli appassionati del genere, anche no. Serve posizionare il kit apposito, un telo esterno dotato di isolante, dotarsi di sacchi a pelo simil-himalayani e sperare in temperature clementi. Soluzioni fai da te per posizionare riscaldatori a 12 volt, riscaldatori Webasto con prolunghe e stufette a gas rientrano più nella letteratura degli sperimentatori che nella realtà delle cose. Ma tutto (non parliamo poi con un generatore esterno del quale bisogna solo sopportare il rumore) si può fare, ragionando in modalità homemade.

Restano comunque validi gli svantaggi evidenti della soluzione Maggiolina winter-mode, che richiede sempre il trasporto di una scala telescopica e che non offre spazi living coperti. Piove? Nevica? Per passare dalla tenda all’auto serve comunque esporsi alle intemperie. E per i pasti, chiudersi nel baule a costo di contorsioni. Sorvolando, grazie al buon cuore della natura, sulla parentesi wc. Su quest’ultimo, e non proprio secondario, dettaglio il nostro percorso a tappe ha fatto sosta nel periodo del furgone camperizzato fai-da-te. Sospinti dalla voglia di comfort, la soluzione outdoor dei nostri anni di mezzo ha preso le sembianze di un Renault Master color fuoco, allestito in modo artigianale con un letto quasi-matrimoniale sul retro. Doghe simil-bancale modellate dal falegname di fiducia sorreggevano un materasso su misura ogni weekend dell’anno, dal venerdì sera alla domenica. Poi tutto spariva per far posto ai carichi da lavoro, secondo l’uso conforme del mezzo. Per il caldo nessun passo avanti rispetto alla soluzione Maggiolina, essendo un autocarro privo di riscaldamento sul retro. Ma per il wc, entusiasmo a mille: erano i tempi del portapotty, piccolo water da barca che poteva essere comodamente sfruttato anche nella solitudine buia del cassone, sigillati ermeticamente dal mondo esterno. Sciacquone a pompetta manuale, disgregante miracoloso contro ogni tipo di produzione, e la sacra funzione sempre espletata al cospetto del cielo è così diventata un gesto privato e borghese. Anche nella rustica atmosfera del nostro arancio-van.

C’è una tribù, nel mondo furgonato, che esula da ragionamenti collettivi. Sono i VW-addicted. I fan dei furgoni Volkswagen, refrattari ad evoluzioni camperistiche e a concessioni a marchi alternativi. Fra i freeskier e gli skialper è una delle soluzioni più diffuse e amate, molto freak ma anche molto pratica. Dal Multivan al California, versione Westfalia o con letto smontabile, per loro il van è un’auto di uso quotidiano ma anche una casa mobile. Non comoda come un camper, ma agile come un mezzo compatto. È una firma sulla neve, un marchio che designa senza esitazioni l’appartenenza a una community. E soprattutto, è una scelta equipaggiata per affrontare anche le condizioni più fredde: merito di una semplice batteria servizi, che può allo stesso tempo alimentare luci, un eventuale frigo e la ventola di un Webasto.

Eccola, la parola magica. Webasto, l’irrinunciabile, la variabile tra freddo e caldo. La fonte di vivibilità nei giorni delle sciate invernali. Un bruciatore alimentato dal gasolio del serbatoio, una ventola spinta dalla corrente, bocchettoni di calore interni: la semplice formula di questo strumento, chiamato così in onore del brand più noto ma ricco di varianti, è la carta che lo rende vincente. Perché con un consumo tutto sommato economico garantisce la cosa più preziosa di cui un vanlifer, soprattutto invernale, ha bisogno: il calore.

© Federico Ravassard

È stata quella volta al Monginevro, in una gelida serata di neve, che anche noi abbiamo compreso l’importanza di quel che normalmente è scontato. Avevamo da poco Thor, furgonato puro su Citroen Jumper, ultimo step del nostro climax di mezzi outdoor, quando il caldo all’improvviso ci ha abbandonati. Era la fine di una giornata di fantastico sci fuoripista. E non ci sono volute molte ore perché il gelo artigliasse ogni cosa.

Sapete cosa accade quando in un camper la temperatura scende sotto i 5 o 6 gradi? Una valvola chiamata Elasi si apre e il centinaio di litri di acqua contenuta nella grande vasca che alimenta gli impianti idraulici viene riversato a terra. Non è un dispetto del diavolo. È un accorgimento di sicurezza, per evitare che i tubi possano congelare e rompersi, provocando danni di entità improponibili. A quel tempo noi allietavamo il nostro nuovo van con il riscaldamento a gasolio, ma il timer che avevamo impostato, quel giorno non è scattato. L’alternativa di cui disponevamo, una stufa a gas chiamata Truma che tendevamo a trascurare per il consumo eccessivo di bombole che imponeva, non era allertata. E così, durante la nostra assenza sciistica, il termometro è sceso. Fino a sbloccare la ghigliottina delle acque. Lasciandoci al freddo e a bocca asciutta.

Viaggiare, e passare del tempo, su un van d’inverno richiede una certa attitudine allo sgamo. Bisogna essere svegli e imparare i trucchi che possono salvare le penne e il portafogli. Capire perché quella volta al Monginevro il Webasto non si fosse innescato, cosa che può accadere a chiunque, è stato un esercizio teorico e scientifico che ha richiesto tempo al mio compagno. Ma alla fine la soluzione è arrivata. E sta nella legge che in Europa impone la presenza di una percentuale di biodiesel, ovvero di olio vegetale, nel gasolio. A temperature molto basse, la paraffina contenuta nel diesel congela, questo si sa. E questo è il motivo per cui noi avevamo messo l’apposito additivo: quel che non sapevamo è che anche il biodiesel tende a diventare gelatinoso. E che nei piccoli tubi del Webasto ne bastava davvero poco perché il filtro si intasasse. Da allora, svelato l’arcano, ad ogni pieno invernale uniamo un antialghe per evitare l’inconveniente. E ci sacrifichiamo a spendere di più per usare solo il diesel migliore, che con meno zolfo tende a risparmiare altri guai.

Se a questo punto pensate che gestire un van, soprattutto al freddo, sia cosa da meccanici specializzati, sappiate che avete ragione. Anche io nel tempo ho imparato cose che voi umani nemmeno potete immaginare. Ho imparato ad esempio che sono meglio le gomme termiche delle quattro stagioni e che bisogna sempre avere con sé due paia di catene, da posizionare davanti e dietro, perché su mezzi così pesanti le discese e le curve possono diventare anche molto critiche. Ho imparato che due batterie servizi sono il minimo sindacale, perché il riscaldamento a gasolio va sempre lasciato acceso basso, accettando che ciucci elettricità come certi ciucciano tracce a tradimento. Ho imparato che i pannelli solari sono irrinunciabili per sostare in libera. Per caricarsi devono ricevere i raggi in modo perpendicolare, quindi tutto va ben calcolato, soprattutto se sono montati su un tetto a soffietto. E devono essere tenuti puliti, magari spazzolati con una scopa telescopica se ha nevicato. E se fa brutto per giorni, devono essere rimpiazzati con un’alternativa, perché al frigo e al Webasto non importa da dove arrivi la corrente: una colonnina, un piccolo generatore, alla peggio il motore acceso. Ma qualcosa va studiato. Ho imparato che ingegnarsi per trovare soluzioni innovative e intelligenti è divertente, oltre che utile. Un esempio? Un colpo di genio, e il mio compagno ha trasformato il portabici in un portasci verticale sul retro del van. Doppia resa, mezza spesa. E ho imparato anche che nei casi estremi, quando il pilota è anche un viaggiatore invernale di quelli duri e puri, bisogna investire per dotare il van delle soluzioni giuste. Assetto 4x4, gomme chiodate e thermotop, ovvero il kit per tenere caldo il motore. Il mio amico Elia Bertozzi, che si è sparato un viaggio invernale in solitaria nella Lapponia finlandese sul suo James Cook del 1997, era perfettamente equipaggiato. Eppure in un giorno di tormenta a -34 gradi si è ritrovato per ore prigioniero del suo van, con i portelloni ghiacciati che non si aprivano più. E ha dovuto inventarsi la vita per tenere calda la meccanica contro la ferocia del vento artico.

© Federico Ravassard

Le soluzioni da rivista di design? Quelle che scintillano nelle fotografie di Instagram al suono dell’hashtag vanlife? Interni in perline, arredi da baita luxury, stufa a legna: quelle restano idee estetiche più che pratiche. Bellissime, ma non esattamente efficienti. Pensate solo alla stufa a legna, d’inverno. Girando in libera, magari sotto la neve, dove procacciarsi ciocchi secchi? Meglio portarli da casa, direte voi. Ok, ma quanti? Si rischia di riempire il gavone solo con quelli. E durante il giorno, mentre siete intenti a godervi la vostra lunga scialpinistica, come tenere caldo il van per evitare che le acque si scarichino? O più banalmente, che tutto congeli? La stufa va alimentata, non vive di vita propria. E se non amate il profumo della caligine, sappiate che non è comunque cosa che fa per voi. Oltre a questo mare magnum di insegnamenti in continua evoluzione, il van mi ha regalato anche qualcosa di diverso. Ed è forse la cosa più importante. Obbligandomi a guardare la vita da uno spazio minimale poggiato su quattro ruote, mi ha costretta a rivedere gesti normali. E a dare una nuova visione a tutto quello che sembra banale. Parcheggiare è la cosa più normale del mondo. Un gesto che compiamo tutti migliaia di volte. Ma pensate di dover badare alle inclinazioni, a far sì che la posizione della testa sia più alta dei piedi, che non ci siano piani obliqui che impedirebbero di lavorare e cucinare.

Tutto diventa più complesso. Bisogna pensarci su. A Rothwald, anni fa, abbiamo fatto l’errore di posizionarci proprio a bordo strada, in una bella serata di neve fitta. Niente di più stupido: al mattino lo spazzaneve ci aveva impalato un metro e mezzo di calcestruzzo sulla porta. Uscire è stata un’impresa da titani… e spalare via per ore la colata lavica ormai marmorizzata, beh, una figata proprio. Ma chi ci avrebbe mai pensato? Pensate invece alla doccia. Forse riderete, ma farla sul van d’inverno è qualcosa che va pianificato e attuato con perizia. Bisogna accendere per tempo il boiler, tenendo presente che i litri d’acqua che si scaldano - almeno nel nostro caso - sono una decina in tutto. Bisogna esser certi di aver parcheggiato in piano, o al più in discesa nella direzione dello scarico, per evitare allagamenti interni che sarebbe difficile risolvere. Bisogna allargare con cura la tenda impermeabile, per far sì che gli interni del bagno, le guarnizioni e i bocchettoni del riscaldamento non prendano acqua inutilmente. Bisogna essere capaci di lavarsi in fretta per non sprecare acqua preziosa, chiudendo il getto quando ci si insapona e limitando al minimo i canti spensierati sotto la cascata bollente. Bisogna poi asciugarsi senza bagnare troppo in giro, e a operazione conclusa ripulire tutto quanto al meglio. Magari sfruttando il riscaldamento del bagno per togliere acqua dalla tenda.

E, last but not least, specie per noi donne, bisogna tenere presente che poter usare un phon non è cosa così scontata. Io, ad esempio, non posso usare il mio sul van: l’inverter che abbiamo fatto montare porta corrente a 220V solo fino a 600 watt, il che significa che il mio MacBook gode, ma i miei capelli piangono. Soprattutto ora che sono di nuovo lunghi. Dovrei dotarmi di un phon a potenza inferiore, ma ci impiegherei forse un quadriennio a farmi la piega. E allora, meglio evitare di lavarli d’inverno, se fa molto freddo e non si ha modo di accedere a un bagno con una presa vera. Consiglio che sembrerà poco chic, ma che è comunque molto concreto. Caricare e scaricare le acque e il wc resta un’altra questione mica da ridere. D’inverno, quando tante strutture sono chiuse, è importante essere informati fin dalla partenza sui punti nei quali è possibile farlo. La Svizzera, in cui io ho viaggiato al freddo, ad esempio, non è esattamente camper-friendly. E oltre a essere un susseguirsi di divieti di sosta libera, obbligando spesso a posizionarsi in modo illegittimo o a optare per un camping, è anche poco dotata di servizi discharge&refill. Oggi le app vengono incontro bene a queste problematiche, consigliano aree, indicano dove trovare appoggio. Quel che ancora nessuno sa fare, e forse saprà fare mai, è dare indicazioni su come affrontare psicologicamente tutto questo. Dalla prima all’ultima riga che finora avete letto. Quando mi capita di fare serate con il mio compagno per raccontare alla gente la bellezza della vanlife, a volte concludo leggendo un testo che ho scritto tempo fa. Quel testo, a un certo punto, suona così: sono le parole con cui riaccendo il mio Thor e mi rimetto in partenza, verso una nuova avventura.

Viaggiando ho capito che quello che ti serve per vivere può stare in quattro metri quadri. E probabilmente avanzi ancora spazio. Puoi anche avere i tuoi hobby, portarti dietro le tue attrezzature, ma più di un armadietto non c’è bisogno per infilare te stesso. E se hai un frigorifero, anche piccolo piccolo, e un bagnetto grande come una cabina telefonica, allora quella in cui ti trovi puoi considerarla tranquillamente una casa. Viaggiando ho capito che non è facile viaggiare. Che se sei su un van, non puoi prendere le cose alla leggera. Che l’epoca degli hippy era bella. Ma non portava a nulla se non alla pace di quel momento. Ho capito che devi fare le pulizie come se fossi a casa, forse ancora più spesso. Che devi rifare il letto ogni mattina perché altrimenti sarebbe solo un gran casino. Che quando fai la doccia devi avere la tanica dell’acqua piena. Devi asciugare tutto alla perfezione se non vuoi vivere nell’umidità. E devi rimettere via le cose con precisione, perché se no rischieresti di non girarti più. Ho capito anche che se viaggi a lungo, devi avere persone a casa che ti capiscono e a cui puoi sempre guardare. E devi avere un buon compagno. Uno con cui ti capisci al volo. Che sa fino a dove arrivi tu, e tu sai dove arriva lui. Uno su cui puoi contare. Che sa cosa fare se succede qualcosa, specie se sei un po’ svanita come me. Ma anche che apprezza il tuo essere un giorno qua e un giorno là, sempre in viaggio con la tua mente, perché considera questo il bello di te. Viaggiando ho capito che ci vuole coraggio a partire. Se vuoi, anche follia. Ma c’è una cosa che, più di tutte, devi avere per andare davvero. La curiosità di sapere che cosa ci sia là fuori. Perché solo una volta che conosci, puoi davvero fartene un parere. E quindi parlare. O magari, questo potrai valutarlo solo tu, startene completamente zitto.

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© Federico Ravassard

Alla ricerca di Tom Ballard/2

Il silenzio dell’oblio 

Il primo approccio di Tom all’arrampicata avvenne nel 1993, a cinque anni, alle Calanques in Francia su una semplice via di calcare; anche Gaston Rébuffat aveva mosso i primi passi nell’arrampicata proprio lì. Alison pensava che Tom fosse ancora troppo piccolo per arrampicare, ma appena si allontanò per qualche attimo Tom chiese al padre di farlo provare e Jim acconsentì. Tom salì a piedi nudi sulla placca, una visione che lasciò alquanto sbalordita Alison al ritorno. Tom era stato un bambino molto precoce; all’età di 8 o 9 anni, durante una mattinata di arrampicata con il padre, dopo aver salito un tiro, Jim propose a Tom di farne un altro, indicandolo con il dito e il figlio gli rispose candida- mente di averlo già scalato da solo qualche giorno prima. Studente svogliato, frequentò la scuola solo saltuaria- mente a partire dai 14 anni, prediligendo l’andare a sciare con buone condizioni di neve e divertendosi ad arrampicare nelle giornate di arietta frizzante; amava molto anche la libertà che il bouldering gli concedeva: poteva prendere il suo materasso e andare in giro ad arrampicare, senza bisogno di cercarsi un compagno. 

Fra il 2002 e il 2007 Ballard completò più di 1.000 vie di boulder in Scozia, dedicandosi alla ricerca di nuove vie, alla loro pulizia e anche alla promozione delle stesse, realizzando una piccola guida di quelle della zona di Glen Nevis. Nonostante fosse un curioso e avido lettore, in particolare di libri collegati al mondo dell’arrampicata e dell’alpinismo, Tom non amava frequentare la scuola; la sorella Kate lo ricorda così: «Era sempre fuori casa a esplorare. Era tranquillo, serio in ciò che faceva, ma era anche un ragazzo molto divertente, con un temperamento da bambino». Questa serietà, fin dalla più tenera età, rappresentava uno degli aspetti salienti del carattere di Tom e l’aggettivo tranquillo è una definizione che ricorre spesso nelle conversazioni che lo riguardano. «Tranquillo e solido... è stupefacente quanto fosse tranquillo Tom, anche da bambino: nessun capriccio o pianto, neppure di notte» racconta Jim. Marcin Tomaszewski, compagno di Ballard nel 2017 nell’apertura sull’Eiger della nuova via Titanic (M5 5.10c A3 W14 – N.d.T.: 6b+), vicino a Solitaire e Seven Pillars, lo ricorda così: 

«Tom era un ragazzo tranquillo; non parlava molto, ma le sue imprese parlavano per lui. Aveva moltissima energia: sembrava un vulcano prima dell’eruzione. Era paziente ma al tempo stesso aveva continuamente bisogno di tenersi in azione. Era difficile conoscerlo intimamente, ciò che avvertivo in lui era un sottofondo di tristezza». 

Marco Berti, alpinista di lunga data, amico di Ballard, attribuisce il velo di tristezza, percepito anche da lui in Tom, alla sua infanzia e al trauma subito per la perdita della madre. «Era come se Tom fuggisse da qualcosa ricercando una solitudine, a cui si era abituato fin da piccolo, e che negli anni successivi aveva apprezzato e considerato come la miglior cordata per le sue imprese alpinistiche». Oppure possiamo pensare che Tom, come scrive per se stesso Rébuffat in Starlight and Storm, «sulle montagne si sentisse circondato dal silenzio dell’oblio». 

Alla ricerca della forza 

Dopo i primi successi sull’Eiger con Solitaire e Seven Pillars, Ballard elesse le Alpi a suo terreno di gioco preferito; rimase a Grindelwald con il padre e la sorella per tre anni, ripetendo altre classiche della zona o portando a termine nuove linee sull’Eiger, come Mittellegi Route e Southwest Flank. Nel 2012 Tom e il padre decisero che era giunto il momento di ripartire ed elessero nuovamente a casa il loro furgone; Kate questa volta non andò con loro: aveva imparato a sufficienza il tedesco per poter lavorare come istruttrice di snowboard. 

Nel corso dei quattro anni successivi viaggiarono per tutta l’Europa: Francia, Austria, Svizzera, Germania, ma il luogo dove trascorsero la maggior parte del tempo furono le Dolomiti. Le Dolomiti, che si elevano come minareti in mezzo a verdi colline punteggiate in primavera da milioni di ranuncoli gialli, sembrano essere fatte apposta per offrire all’alpinista, affamato di imprese, l’occasione per lasciare il segno. Ma la roccia friabile - per i pretendenti che la esaminino con occhio più attento - può rappresentare un buon deterrente. Non per Tom Ballard. Tom arrampicò in lungo e in largo per tutta la Val di Fassa, portando a termine un numero incredibile di vie: non tenne mai un elenco di tutte quelle ultimate, ma se lo avesse fatto sarebbe stato indubbiamente sbalorditivo. Dopo la prima estate trascorsa sulle Dolomiti, Luisa Iovane - nel 1986 la prima donna a scalare un 5.13b (N.d.T.: 8a/8a+) - gli domandò quante grandi vie alpine avesse scalato quell’estate e Tom, candidamente, rispose sessanta. «Un’estate di arrampicate per te Tom è come una vita di scalate per tutti gli altri» fu la risposta della Iovane. Nel 2014 scalò la bellezza di 200 vie in Dolomiti, senza contare quelle portate a termine nel resto d’Europa e ne salì centinaia di altre negli anni successivi; oltre la metà delle sue imprese avvennero in free solo. 

Ma nonostante un curriculum alpinistico probabilmente senza pari, Ballard non assurse mai agli onori delle cronache e rimase una figura pochissimo nota nel mondo dell’alpinismo. Heinz Mariacher, storico disegnatore delle scarpette d’arrampicata La Sportiva e in anni più recenti Scarpa, conosceva molto bene Ballard; nel confermare molte delle imprese portate a termine da Tom, Mariacher fornisce anche una spiegazione per la mancanza di attenzione mediatica sulle sue imprese: «Completò molte vie in solitaria nelle Dolomiti, ma si trattava spesso di vie pressoché sconosciute. Per attirare l’attenzione dei media servono le imprese su quelle più note.Tom aveva salito vie pazzesche in zone sperdute delle Dolomiti, su pareti di gran lunga meno famose delle Tre Cime, ma alcune di esse molto più dure e rischiose». Il percorso di crescita alpinistica di Ballard comprese anche il dry-tooling, una tecnica che gli era sempre piaciuta molto. Nell’estate del 2012 completò la seconda salita di quella che viene considerata la più dura via di dry-tooling al mondo: Ironman, un D14+ chiuso nei mesi precedenti a Eptingen, in Svizzera, dal climber tedesco Robert Jasper. Ballard era straordinariamente forte sui tetti: «Tom aveva spalle e core talmente potenti che durante la scalata tutto era perfettamente sotto controllo» ricorda il suo amico Liam Foster, noto alpinista americano. Evitava l’uso della Yaniro - una gamba incastrata sopra un braccio per farla riposare - non per ragioni filosofiche, ma perché la sua conformazione era più adatta alla potenza pura. Il dry-tooling però non rappresentava un traguardo per Tom: 

«Era prima di tutto un alpinista» racconta Jasper «e interpretava il dry-tooling come un allenamento per le imprese in montagna». 

Tom Ballard in Val di Fassa e, a destra, in dry- tooling sulla falesia del Bus del Quai, nei pressi del lago d'Iseo © Rugero Arena

Starlight and Storm 

A partire dal 2015 Tom e Jim si stabiliscono a tempo pieno in Val di Fassa; vivono in un campeggio, al cui interno allestiscono il loro piccolo villaggio. Hanno una tenda comune: un telone verde militare che ricopre una struttura in legno e metallo, bidoni blu, cartoni di latte, contenitori per il cibo e per il materiale d’arrampicata accatastati qua e là; un tavolo pieghevole e sedie da campeggio come unica mobilia. Jim dorme nella tenda più grande, Tom in una tendina tre posti o direttamente sul furgone. Un filo di bandiere tibetane sventola sopra a tutto. La pensione di Jim basta a entrambi per vivere; non hanno bisogno di molto: cibo, gas e l’attrezzatura per le imprese di Tom sono sufficienti. Il materiale di Tom per l’arrampicata è decisamente datato: porta a termine le sue imprese con eccentrici e friend di prima generazione; mette sempre un berretto rosso di Ferrino e utilizza chiodi da roccia fatti a mano da Jim. Per un lungo periodo aveva addirittura usato le piccozze della madre. Fino a quel momento le imprese di Tom non avevano suscitato grande attenzione: «Voleva mantenere un profilo basso» racconta Jim; ma a un certo punto decide che è giunto il momento di andare alla ricerca di sponsor per finanziare i suoi progetti più ambiziosi. Ha un’idea in mente: salire in solitaria tutte le sei grandi pareti Nord delle Alpi durante la stagione invernale; impresa che rappresenterebbe non solo una reinterpretazione di quanto fatto da Alison, ma il suo superamento. «Pensavo che sarebbe stato impossibile» ricorda Jim, ma Tom decide di provarci e ribattezza il progetto Starlight and Storm, un chiaro tributo a Rébuffat. 

Trovato il primo sponsor, un’azienda di calze, il 21 dicembre 2014 ha inizio il progetto, che rischia di terminare già il giorno successivo. L’attenzione di Tom si concentra subito sulla Cima Grande di Lavaredo e il 21 dicembre si porta sotto la via Comici-Dimai, sulla parete Nord; l’aveva salita a vista, in solitaria e senza l’uso della corda nell’estate del 2011. È una giornata di vento intenso, che fin dalla sera prima lo ha preoccupato, ma Tom decide di tentare lo stesso. Sale veloce, autoassicurandosi dove necessario e scendendo poi per recuperare il materiale; arriva in vetta quando sta calando la sera. Al sopraggiun- gere del buio si rende conto di non aver portato con sé la lampada frontale, teme di non riconoscere la via di discesa e opta per un bivacco notturno, sulla roccia sotto una piccola cengia. Durante la notte ha un principio di congelamento alle dita dei piedi; la mattina seguente trova la via di discesa e si reca subito in ospedale per verificare la gravità del congelamento, che fortunatamente non si rivela tale da impedirgli la prosecuzione del progetto. Dopo la Cima Grande di Lavaredo, Tom decide di tentare la salita del Pizzo Badile, lungo la via Cassin. L’apertura della Cassin al Pizzo Badile risale alla fine degli anni ’30; il 14 luglio del 1937 la squadra composta da Riccardo Cassin, Gino Esposito e Vittorio Ratti decide di tentare la vetta del Pizzo Badile dal versante Nord-Est, ancora inviolato. Ma non sono gli unici ad aver maturato quell’idea e sullo stesso versante durante quella giornata stanno salendo anche i comaschi Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi. Al termine del giorno i comaschi, esausti e in cattive condizioni, chiedono alla squadra di Cassin di poter unire le forze e condividere il bivacco, richiesta a cui Cassin acconsente. Il 16 luglio i cinque alpinisti raggiungono la vetta, ma appena iniziata la discesa lungo la parete Sud «Molteni muore di sfinimento» come racconta Rébuffat in Starlight and Storm; gli altri quattro procedono nella discesa «in mezzo a una bufera di neve e a raffiche di vento ghiacciato». «Valsecchi, che non aveva assistito alla morte del compagno, si guarda intorno in cerca di Molteni e, realizzato cosa gli fosse accaduto, scoppia in lacrime, poi si accascia a terra morto anche lui». Così Rébuffat descrive il tragico epilogo. Cassin, Esposito e Ratti riusciranno invece a terminare la discesa, rientrando al Rifugio Sciora. 

Dopo il Pizzo Badile, il 10 febbraio Tom salirà quella che viene considerata come la relativamente più semplice fra le pareti Nord delle Alpi: la via Schmid sul Cervino, che completerà in 2 ore e 59 minuti. La meta successiva è il Monte Bianco per la salita della parete Nord delle Grandes Jorasses; Tom affronta la Colton-Macintyre, mai provata prima. La via su cui Ueli Steck, nel 2008, aveva stabilito il record di velocità in salita, scalando a vista e completandola in 2 ore e 21 minuti. Il tempo di Tom non sarà come quello di Steck, ma neppure così distante: l’8 marzo 2015 Ballard salirà la via Colton-Macintyre impiegando 3 ore e 20 minuti.
«Le condizioni della via erano abbastanza buone. Il passo chiave di ghiaccio era oltre i 90°, uno strapiombo, ma breve. C’era ghiaccio fino alla headwall. La roccia sui tiri finali non era coperta di neve, ma c’erano alcune piccole strisce di ghiaccio da utilizzare con delicatezza» racconterà intervistato da planetmountain.com. 

Come penultima vetta, il 14 marzo 2015, scala la parete Nord del Petit Dru, lungo la via Allain-Leininger, impiegandoci 8 ore. Durante tutto quell’inverno, a eccezione di un po’ di equipaggiamento fornito da qualche sponsor, Ballard stava ancora utilizzando la sua attrezza- tura fatta in casa o di seconda mano. «Aveva noleggiato una corda per la parete Nord del Petit Dru» racconta Jim. «Non ne aveva una sufficientemente lunga da usare per la discesa». Al rientro dalle sue imprese Tom ritorna alla sua tenda in Val di Fassa e stende i vestiti bagnati ad asciugare nel locale caldaia del campeggio. Manca una sola settimana alla fine dell’inverno e a Tom non rimane che la parete Nord dell’Eiger. Il 19 marzo salirà a vista la via Heckmair, in free solo, con l’unica eccezione della Traversata Hinterstoisser, passaggio che completerà assicurandosi a corde fisse piuttosto malridotte, lasciate in loco dalle cordate avvicendatesi nel corso degli anni. «Mi sono tolto un enorme peso dalle spalle, sentendomi immediatamente molto meglio» commenta così Tom l’arrivo in vetta. Per ironia della sorte l’impresa concepita, ma non pienamente realizzata da Alison Hargreaves anni prima, viene portata a termine da suo figlio Tom: la prima persona al mondo a salire tutte le sei grandi pareti Nord delle Alpi in una sola stagione. 

Scendendo lentamente e con la massima attenzione dalla vetta dell’Eiger, Tom nota dapprima frammenti di plastica arancione sparpagliati nella neve, poi poco più in là un guanto e più sotto ancora scorge un corpo. Uno sciatore, incontrato poco prima sulla cima, è precipitato battendo la testa su una roccia; il casco arancione si è frantumato nell’urto e il ragazzo è morto. Tom non ha mai visto un cadavere e quella visione gli ricorda quanto pericolosa sia la passione che ha scelto come compagna di vita. La similitudine con quanto accaduto alla madre proprio sull’Eiger, più di vent’anni prima, lo colpisce non poco: «Ci è successa quasi la stessa cosa. È molto triste,  ma al tempo stesso è come aver vissuto un déjà vu» commenterà. Nonostante riconoscesse le similitudini fra alcune circostanze accadute a lui e alla madre, Tom smentirà sempre fermamente di avere voluto realizzare il progetto Starlight and Storm sul filone di quanto fatto da lei. «Penso che una grande motivazione nell’arrampicata gli derivasse dalla morte della madre» commenta Stefania Pederiva, la sua fidanzata «ma, anche con me, Tom l’ha sempre negato». Tuttavia emerge chiara una discrepanza fra le parole e i fatti; negli anni seguenti Tom, in un’intervista al Telegraph, lascerà intendere qualcosa di più: «Da bambino, quando andavo a scuola, dicevo sempre che da grande avrei scalato le montagne per mia madre. Ma dopo ho capito che era un pensiero un po’ sciocco perché lei aveva sempre scalato solo per se stessa. Adesso so che quello che faccio è solo per me stesso: ogni giorno quando esco per arrampicare penso solo a me. Inconsciamente lei è una delle motiva- zioni per cui lo faccio, ma sicuramente non l’unica». Marco Berti, amico intimo e compagno di scalate di Tom, aggiunge ulteriori dettagli: 

«Ogni giorno dicevo a Tom che doveva essere Tom Ballard e non il figlio di Alison Hargreaves. Gli spiegavo che, diventando un grande alpinista, avrebbe potuto parlare più liberamente della madre. Lui era d’accordo, ma gli risultava difficile non seguire il suo esempio. Non era semplice vivere al di fuori della traccia battuta dalla madre». 

Il 6 gennaio del 2015, prima dell’alba, Tom sale la parte inferiore della cresta Nord fino al Colle e alle otto affronta la via Cassin; scala per 11 ore, affrontando tratti su roccia ghiacciata fino all’M7: il terreno misto più difficile che incontrerà nel corso del suo progetto sulle pareti Nord delle Alpi. Passa la notte bivaccando su una piccola cengia, dove Cassin e i suoi compagni avevano trascorso la seconda notte nel lontano 1937; il mattino del 7 gennaio, dopo quattro tiri da 70 metri affrontati autoassicurandosi con la corda e superato un ripido pendio di neve e ghiaccio, Tom raggiunge la cresta Nord. La via Cassin al Pizzo Badile salita da Tom in un giorno e mezzo sarà la salita che richiederà più tempo fra quelle del suo progetto Starlight and Storm. 

bivacco alla Nord del Pizzo Badile, in basso al Cervino © Rugero Arena

Da principe a re 

La vita di Tom cambia in molti sensi dopo Starlight and Storm. Lascia il campeggio e trova un posto solo per lui, nelle vicinanze del luogo in cui vive la sua ragazza, figlia della Guida alpina Bruno Pederiva. Si erano fidanzati nel 2014: «Era cresciuto e voleva maggiore indipendenza» racconta Stefania, «voleva stare un po’ di più per conto suo, sentirsi più autonomo rispetto al padre». Tom e Stefania in quel periodo aprono insieme molte nuove vie, incluso un trittico sul Catinaccio: Scarlet Fever, Baptism of Fire e, la preferita di Stefania, Beauty and the Beast; fanno insieme anche diversi viaggi per andare ad arrampicare in Grecia, in Francia e in Sardegna. Le aziende del settore iniziano a fornire a Tom attrezzatura al top per l’arrampicata e, ancor prima della comunità alpinistica, la gente comune comincia ad accorgersi delle sue imprese. Un reporter del Guardian gli affibbia il soprannome di Re delle Alpi. Nonostante questo, i resoconti sulla stampa delle imprese di Tom tendono ancora a mettere in relazione i suoi successi con quelli raggiunti dalla madre, sebbene, dopo Starlight and Storm, Tom avesse percorso una strada nuova e divergente rispetto a quello di Alison. 

Nel 2015 Ballard fa anche la sua comparsa nella Coppa del Mondo di Arrampicata su Ghiaccio, anche se non otterrà mai grandi risultati: il suo miglior piazzamento rimarrà il quattordicesimo posto a Rabenstein, in Svizzera, nel 2018, dopo aver preso parte alla sua prima e unica semifinale. L’amica Anna Wells, che lo aveva conosciuto proprio durante la prima partecipazione di Tom a una gara del circuito a Bozeman, in Montana, nel dicembre del 2015, commenta così i suoi mediocri risultati nelle competizioni: «Penso che rappresentino una buona testimonianza della personalità di Tom e di quanto poco coltivasse il suo ego, in definitiva semplicemente non gli importava molto dei risultati ottenuti in gara e continuò per la strada che aveva scelto». Ostinandosi anche nel rifiuto dell’utilizzo della figura Yaniro. Nello stesso periodo Tom inizia anche ad attrezzare per il dry-tooling un imponente muro orizzontale in Marmolada, nella falesia che lui chiamerà Tomorrow’s World.  A febbraio 2016 apre quella che viene considerata la via di dry-tooling più dura al mondo: collegando tre difficili vie, aperte in precedenza nella falesia di Tomorrow’s World, completerà A Line Above the Sky, una scalata di 50 metri, che deve la sua difficoltà anche alla posizione orizzontale del tetto della falesia. A differenza di molte vie di dry-too- ling, che offrono una pletora di fori artificiali ricavati per piccozze e piolet-traction, A Line Above the Sky è quasi interamente naturale. Tom, dopo averla aperta, propone il grado D15, un nuovo livello di difficoltà per il dry-tooling; difficoltà che verrà confermata dal climber francese Gaëtan Raymond, dopo la sua ripetizione della via. Liam Foster, che in seguito salirà A Line Above the Sky, ne parlerà in questi termini: «È la più bella via di dry-tooling che io abbia mai scalato. Ha un’estetica fantastica: quando ti siedi nella parte posteriore della falesia e la osservi vedi questa linea come disegnata nel cielo». 

Dopo aver aperto quella che è probabilmente la via più difficile di dry-tooling al mondo, aver portato a termine con successo il progetto Starlight and Storm e aver maturato, in meno di 10 anni, un curriculum alpinistico per cui serve una vita intera, è arrivato per Ballard il momento di concentrarsi su nuovi obiettivi: le grandi montagne lo chiamano.
L’ultima montagna di Alison  Dopo la morte di Alison Hargreaves nel 1995, Tom chiede al padre di «portarlo a vedere l’ultima montagna scalata dalla mamma»; Jim parla della richiesta del figlio durante una conferenza stampa e immediatamente piovono offerte a destra e a manca, da parte di storyteller e filmmaker, per sponsorizzare il viaggio della famiglia Ballard al K2. Jim ne accetta una e parte con i bambini alla volta del Pakistan. Tom compie sette anni durante il viaggio verso il Pakistan; all’arrivo all’hotel K2 a Skardu, lo staff gli fa trovare una piccola sorpresa. «Negli anni seguenti, parlando con Tom di quel viaggio, mi resi conto di quanto i suoi ricordi fossero vaghi» commenterà Jim. Anche Kate ricorda pochissimo dei mesi successivi alla morte della madre. «Non so, avevo solo 4 anni. Piangevo, piango ancora per la sua morte. Penso che il viaggio al K2 fosse il nostro modo per rendere omaggio alla sua ultima dimora sulla Terra» racconta la sorella di Tom. 

Nel 2017 Tom e Kate tornano per la prima volta in Pakistan, dopo il viaggio di commiato del 1995, ma questa volta sono impegnati in una spedizione: Kate in un trekking, mentre Tom arrampicherà con un gruppo composto da Daniele Nardi e altri alpinisti che hanno identificato una serie di obiettivi nella regione del Karakoram. È durante questo viaggio che Tom conoscerà l’alpinista americano Graham Zimmerman. Zimmerman e il suo team sperano di compiere la prima salita del Link Sar, esattamente come Nardi e Ballard. «Fu molto interessante vedere Tom in azione perché era la sua prima esperienza sulle grandi montagne» racconta Zimmerman. Il tentativo di Nardi e Ballard sul Link Sar fallirà, per fortuna senza gravi conseguenze; ma, prima di tornare a casa, Ballard scriverà un resoconto della spedizione sul sito UKClimbing.com: «Siamo sopravvissuti per un pelo al crollo dei seracchi». La prima salita del Link Sar sarà poi portata a termine, nell’estate del 2019, da Zimmerman, Steve Swenson, Chris Wright e Mark Richey. Ballard e Nardi riescono però, insieme a Michele Focchi, ad aprire una nuova via di roccia (Welcome to the Jungle), lunga più di 1.000 metri, fino a una piccola spalla segnata da quella che la cordata ribattezzerà Scimitarra Rossa, per la caratteristica forma della roccia e per il colore della stessa. Dalla cima della loro via vedranno un’altra vetta, di circa 5.600 metri, che chiameranno Alison Peak, in tributo alla madre di Tom. Nonostante la scelta del nome non fosse stata fatta da Tom, anche in questo caso si dimostra vero quanto affermato da Berti, ovvero l’impossibilità per Tom di essere solo Tom Ballard e non il figlio di Alison Hargreaves; non importa quanto distanti da quelli materni fossero i traguardi alpinistici da lui raggiunti: non riusciva a sfuggire all’orbita della carriera materna. 

La cordata Nardi/Ballard aveva funzionato molto bene durante quella spedizione: Tom aveva imparato molto da Nardi, che aveva già scalato cinque Ottomila e tentato quattro volte la salita al Nanga Parbat in invernale. Per questa ragione, un anno più tardi, quando Nardi chiese a Tom di unirsi a lui nel tentativo di salita dello Sperone Mummery, Tom acconsentì. Era affascinato da quella linea di salita e «pensava che fosse venuto il momento di provare l’esperienza dell’alpinismo invernale himalayano» racconta il padre. Come fa notare Zimmerman, Ballard non aveva esperienza sugli Ottomila, ma neppure su montagne da 6.000/7.000 metri; affrontare direttamente un Ottomila, senza questi precedenti passaggi, era certamente possibile per un alpinista tanto dotato naturalmente, ma indubbia- mente un’impresa rischiosa. Jim e le altre persone vicine a Tom rimasero sorpresi dalla sua decisione di andare sul Nanga Parbat e non sul K2. «Penso che Tom abbia resistito fin troppo a lungo al desiderio di andare sul K2» commenta Jim. «Credo che l’abbia fatto dato che sapeva che tutti avrebbero pensato che volesse scalare il K2 perché era la montagna su cui era morta sua madre». Ma nonostante Tom stesse resistendo alla tentazione di andare sul K2, già nel 2015, durante l’intervista con Chalmers aveva dichiarato: «Il K2 è sempre stato il mio sogno. Ho sempre desiderato di arrivare sulla cima di quella montagna. Non so quando, ma certamente prima o poi lo farò». Per un attimo, nel 2010, molto prima di concepire il progetto Starlight and Storm, Ballard si era trastullato con l’idea di tentare il K2, ma la spedizione non si era poi concretizzata. L’ipotesi è che Tom coltivasse il sogno di salire da solo durante la stagione invernale il K2 e che la spedizione sul Nanga Parbat fosse un primo passo in quella direzione. 

Durante l’ultima conversazione che Jim e Tom ebbero, prima della sua partenza, Jim domandò al figlio se pensasse che la spedizione al Nanga potesse rappresentare un punto di svolta per la sua carriera alpinistica. Tom inizialmente non aveva compreso la domanda, ma Jim era andato avanti a spiegare: 

«Credi che facendo bene sullo Sperone Mummery, a prescindere dal fatto che tu raggiunga o meno la vetta del Nanga, le cose per te cambieranno? Pensi che questo rappresenterà un punto di rottura per la tua carriera? E che da quel momento in poi potrai concentrarti sulle grandi montagne himalayane anziché sull’apertura di vie tecniche in solitaria sulle Alpi?». «Forse questo и davvero ciт che penso» rispose Tom. 

Tom Ballard, il sognatore 

Non sapremo mai quale sia stata la vera motivazione che ha spinto Ballard troppo oltre sul Nanga Parbat.  Alex Txikon, che ha identificato i corpi di Nardi e Ballard sulla montagna, la pensa così: «Credo che fossero molto stanchi e infreddoliti. C’era un vento molto forte ed era tardi. In quelle condizioni, se non hai la possibilità di scaldarti, anche il più piccolo errore può essere fatale». Ma Simone Moro non è d’accordo con la disamina di Txikon. Data la ridotta distanza a cui si trovano uno dall’altro i corpi dei due alpinisti e per il fatto che siano entrambi attaccati alla stessa corda, sulla base della sua conoscenza dello Sperone Mummery - per averlo osservato per mesi dal campo base del Nanga - Moro ritiene che siano stati colpiti da uno dei blocchi di ghiaccio che frequentemente cadono sulla via. «Il vero pericolo sul Mummery non sono le classiche valanghe - aggiunge Moro - ma i grossi blocchi di ghiaccio che si staccano dai seracchi sovrastanti, scaricando sulla via». I corpi di Nardi e Ballard sono rimasti sul Nanga Parbat. La famiglia di Nardi ha espresso il desiderio che il corpo di Daniele non venisse recuperato. Probabilmente anche Tom avrebbe preferito questa soluzione per se stesso. Nell’intervista con il Telegraph aveva commentato così il fatto che la madre fosse rimasta sul K2: 

«Preferiremmo che il suo corpo
non venisse ritrovato. È dove si trovava maggiormente a suo agio, quindi vorremmo che rimanesse là». 

Diversi si sono domandati se nelle scelte di Ballard possano aver avuto un ruolo le pressioni degli sponsor. Ma per la sua famiglia, gli amici e anche per i compagni di scalate, è evidente che Tom, anche dopo aver accettato il supporto finanziario di alcuni sponsor, scalasse solo per se stesso, senza alcun condizionamento. «Tom non praticava l’alpinismo per diventare famoso» commenta Stefania, la fidanzata. Zimmerman la pensa allo stesso modo: «La mia impressione è che a Tom non importasse davvero nulla di tutto ciò. Accettava il supporto finanziario degli sponsor per potersi permettere l’equipag- giamento necessario per realizzare le sue imprese, che altrimenti sarebbero risultate troppo costose per lui. Ma il suo percorso come alpinista mi è sempre sembrato molto puro: lo faceva unicamente per se stesso». 

Altri hanno ipotizzato che Nardi avesse convinto un riluttante Ballard al tentativo sul Mummery. Ma Berti, che ha conosciuto Tom in maniera molto più profonda, non è d’accordo, come d’altra parte non lo è Moro. «Non credo che Tom fosse un ragazzo facile da convin- cere. Credo che alla fin fine desiderasse anche lui tentare quella via» afferma Moro. Anche Reinhold Messner si domanda quale sia stata la principale motivazione a spingere Ballard sul Mummery: 

«Forse stava cercando di fare qualcosa
di importante in Himalaya. Probabilmente le imprese che poteva realizzare a casa erano troppo semplici per lui. Non so». 

Due giorni prima della morte di Nardi e Ballard, Stefania Pederiva scrisse a Tom chiedendogli di rinunciare all’impresa e di tornare a casa. Nelle settimane precedenti la spedizione, Stefania aveva detto a Tom di avere un brutto presentimento e che desiderava che lui rinunciasse, qualcosa che non gli aveva mai chiesto. Il 22 febbraio Stefania mandò a Tom un messaggio in cui gli diceva di non essere felice per ciò che stava facendo, un messaggio a cui Tom rispose così: «Se non ti piace ciò che sto facendo, puoi sempre lasciarmi». Quella fu l’ultima comunicazione fra di loro. L’unico libro che Tom portò con sé sul Nanga era I sette pilastri della saggezza, che leggeva per sfuggire alla noia delle giornate trascorse in tenda. Ancora una volta la sua frase preferita è utile nell’offrire una chiave di lettura per la sua perseveranza nell’affrontare i pericoli del Mummery. Affogato in un linguaggio immaginifico, nella frase di T.E. Lawrence si nasconde un ammonimento: «Quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi»; o se vogliamo interpretarla in un altro modo: l’ambizione nel realizzare i propri sogni può rendere ciechi di fronte ai pericoli che si corrono per raggiungerli. Vivere nella traccia lasciata dalla madre, ma cercando di superare i risultati da lei raggiunti, portandoli a un nuovo livello per eclissare la sua opprimente eredità era un’impresa estremamente pericolosa. «Sono profondamente cosciente di vivere all’ombra di mia madre» aveva detto un giorno Tom. «Le persone diranno sempre: Alison Hargreaves è morta sul K2 e bla, bla, bla e poi oh, a proposito, anche il figlio fa l’alpinista. Penso che questa percezione con il tempo potrà cambiare». Tentare lo sperone Mummery in inverno? Era solo un altro modo per alzare il tiro e renderle omaggio. 

*Michael Levy è redattore di Rock and Ice

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Tom al rifugio Leschaux, prima della salita invernale della Nord delle Grandes Jorasses sulla via Colton-Macintyre © Rugero Arena

Alla ricerca di Tom Ballard

Il collegamento si era interrotto all’improvviso, ma Alex Txikon non aveva alcun dubbio: il video che stava guardando mostrava due corpi senza vita; non c’era stato il tempo di scattare una foto, prima che il drone smettesse di trasmettere, ma l’immagine di quei due corpi si era impressa nella sua mente. «Ho riconosciuto i loro zaini, i guanti, i berretti che indossavano e anche la forma dei loro corpi» racconterà dopo. I due corpi, legati alla stessa corda, distanti non più di tre metri l’uno dall’altro, si trovavano a circa 5.800 metri, in un labirinto di rocce e neve. Il primo, ancora appeso alla corda, penzolava all’interno e fuori dall’inquadratura del drone; il secondo, anch’esso attaccato alla corda, giaceva riverso su una roccia, qualche metro al di sotto del suo compagno. Si trattava dei due alpinisti Daniele Nardi e Tom Ballard, di 42 e 30 anni; arrivati in Pakistan alla fine di dicembre del 2018 per tentare la terza salita invernale del Nanga Parbat (8.126 metri) attraverso il leggendario e incompiuto Sperone Mummery. 

La morte di Nardi e Ballard ha avuto un’incredibile eco su quotidiani e riviste di tutto il mondo, anche a causa delle nobili origini alpinistiche di Tom, figlio d’arte di Alison Hargreaves, definita da Reinhold Messner come la più forte fra le alpiniste donne. Hargreaves, dopo essere arrivata vicinissima all’obiettivo di salire per prima, in una singola stagione, le sei grandi pareti Nord delle Alpi, morì nel 1995, insieme ai sei compagni di spedizione, durante la discesa dal K2, in uno degli episodi più drammatici della storia dell’alpinismo, anch’esso protagonista sui quotidiani di tutto il mondo. Tom, che all’epoca della morte della madre era solo un bambino, cresciuto aveva poi ripercorso le tappe della carriera alpinistica di Alison, prima impegnandosi sulle pareti Nord delle Alpi, poi avventurandosi sulle montagne più alte del Pianeta e, proprio come la madre, era conosciuto e apprezzato nell’ambiente alpinistico per le sue imprese in solitaria. Il Nanga rappresentava per Tom il grande salto, forse addirittura troppo grande. Nardi aveva ripetutamente tentato lo Sperone Mummery negli anni precedenti, sviluppando un’autentica ossessione per quella via: la sua decisione di tornare in Pakistan per provare nuovamente la salita non aveva suscitato stupore nell’ambiente alpinistico, a differenza della partecipazione di Ballard. Affrontare per la prima volta un Ottomila, senza essersi mai cimentati su montagne al di sopra dei 6.000 metri, per di più durante la stagione invernale, periodo in cui le temperature diventano rigidissime e le montagne vengono spazzate da venti a 160 chilometri all’ora, significava forse alzare troppo l’asticella. 

Ma per comprendere appieno il livello della sfida portata avanti da Nardi e Ballard occorre considerare non solo le difficoltà dell’alpinismo invernale himalayano (la maggior parte dei 14 Ottomila sono stati saliti in invernale una sola volta), ma anche il fatto che la via scelta per la salita presenta un elevatissimo rischio di valanghe. Lo Sperone Mummery è infatti una costola rocciosa che sale, come la spina dorsale di un drago, dritta verso vetta, dalla parte bassa fino al plateau, che si trova al di sotto della piramide sommitale; una bellissima linea, indubbia- mente, ma estremamente rischiosa. Reinhold Messner e suo fratello Günther sono gli unici ad averla percorsa, prima di Nardi, Ballard ed Elisabeth Revol, la compagna di Nardi nel tentativo di salita del 2013. Nel 1970 i due fratelli Messner dovettero tentare la discesa lungo lo Sperone Mummery, poiché Günther presentava i sintomi del mal di montagna e non sarebbe sopravvissuto a un altro bivacco. 

Alison Hargreaves con Tom e Kate © Murdo MacLeod

Nei giorni del battage mediatico seguito alla scomparsa di Nardi e Ballard, proprio Messner parlerà con la stampa dello Sperone Mummery, definendolo la via più perico- losa sul Nanga Parbat e una scelta obbligata per lui e Günther, poi travolto e ucciso da una slavina nel corso della discesa; una via che, dalle sue stesse dichiarazioni, Messner mai avrebbe tentato in salita, in particolare in inverno, a causa dell’elevatissimo rischio costituito dalle valanghe e dai blocchi di ghiaccio che cadono dai tre seracchi sovrastanti lo Sperone.  Simone Moro, autore della prima salita invernale del Nanga Parbat nel 2016, e unico ad aver salito quattro Ottomila in inverno, ha definito l’impresa in maniera ancor più funesta, sottolineando come tentare lo Sperone Mummery fosse come partecipare a una roulette russa. 

Lo stesso Moro esprimerà in diverse interviste le sue perplessità sulla scelta compiuta da Ballard, evidenziando come la decisione di affrontare per la prima volta un Ottomila in invernale, lungo una via nuova e con il livello di pericolosità dello Sperone Mummery, non fosse proprio la strada maestra per l’inizio di una carriera sulle montagne più alte della Terra. Il tentativo di salita dello Sperone Mummery ha inizio per Nardi e Ballard nel mese di gennaio 2019; i due alpinisti trascorrono la maggior parte dei primi giorni battendo traccia in mezzo alla neve e tentando di non congelarsi. Tom, in un post scritto per il blog dello sponsor Montane, definisce la temperatura talmente rigida da consentirgli, all’interno della tenda, di leggere a malapena il capitolo di un libro, prima che le dita diventino troppo fredde per girare le pagine. Nell’attesa di condizioni meteo più favorevoli, i due alpinisti rimangono al campo base, dove cercano di mantenere la forma fisica con scalate in dry-tooling su qualche masso; l’arrivo di una finestra di alta pressione permette a Nardi e Ballard di piazzare Campo I, Campo II e infine Campo III, a quota 5.700 metri; da un post di Tom sappiamo che il Campo III, anche se ricavato all’interno di un crepaccio, è spazzato da un vento incessante e molto forte. Nei giorni seguenti le incursioni di Tom e Daniele al Campo II e III vengono sempre ostacolate da cattive condizioni meteo: 

«La costante minaccia delle valanghe non ci ha permesso di trascorrere la notte ai Campi II e III» scrive Ballard. A ogni successiva risalita ai campi le tende devono essere estratte da cumuli di neve portata dalle valanghe: «Il timore che il Campo I venisse sommerso ha fatto sì che rientrassimo al campo base: l’enorme valanga che ha travolto, poco dopo, la nostra linea di discesa ci ha confermato la bontà della decisione». Il pomeriggio del 24 febbraio 2019 Daniele Nardi chiama con il telefono satellitare uno dei suoi sponsor in Italia; i dati ricavati da quella chiamata GPS collocano Nardi e Ballard a 6.300 metri di quota. Durante la telefonata Daniele comunica la loro decisione di scendere al Campo IV, a quota 6.000 metri, in modo da potersi rifugiare all’interno della portaledge precedente- mente piazzata, per ripararsi dalla tempesta che sta investendo la montagna. Alle 18.30 l’ultima chiamata di Daniele alla moglie e quella successiva al Campo Base per comunicare la decisione di tentare di abbassarsi ancora di quota, fino al Campo III a 5.700 metri. Dopo quest’ultimo contatto il silenzio cala su Tom e Daniele e viene approntata una squadra per un tentativo di soccorso in quota. La prima settimana trascorre senza possibilità di agire a causa sia delle avverse condizioni meteo che delle tensioni politiche al confine fra India e Pakistan; il 3 marzo Alex Txikon e alcuni compagni di spedizione lasciano il campo base del K2 (dove erano impegnati negli stessi giorni nel tentativo di prima salita invernale) e vengono trasportati in elicottero al campo base del Nanga Parbat nella speranza di identificare la posizione di Nardi e Ballard sulla montagna. 

Nei giorni seguenti, come Daniele e Tom, la squadra di soccorso guidata da Alex Txikon deve più volte scendere al campo base per l’elevatissimo rischio di valanghe, che continuamente investono i campi più alti della via sullo Sperone; gli alpinisti trovano riparo rifugiandosi dentro i crepacci, ma il terreno estremamente instabile rende impossibile proseguire nella salita. Per questa ragione vengono utilizzati i droni per sorvolare lo Sperone e il 5 marzo Txikon avvista i corpi senza vita di Daniele e Tom. Sui media in quei giorni una serie di domande si rincorrono senza sosta. Perché Ballard aveva scelto una via così pericolosa e forse al di fuori della sua portata in termini di esperienza? Che cosa lo aveva indotto a continuare, nonostante avesse potuto sperimentare in prima persona quanto l’impresa fosse rischiosa? Quali ragioni lo avevano spinto a proseguire in un’impresa che sembrava così lontana dalle sue inclinazioni? Tom viene descritto dai suoi compagni di cordata come un alpinista perfettamente consapevole dei rischi e sempre molto attento alla sicurezza; uno di loro, Marco Berti, racconterà in seguito come Ballard fosse solito, sulle vie lunghe in Europa, piazzare chiodi anche su pareti di terzo grado. Ma pure il Ballard delle imprese in solitaria, che scalava con regolarità vie di grado fino al 5.12c (N.d.T.: 7b/7b+) senza corda - una su tutte Master of Disaster a San Nicolò in Trentino - si era sempre mantenuto all’interno di un limite per lui accettabile di sicurezza. Per rispondere a queste domande occorre fare un passo indietro, tornando non solo alle esperienze di Ballard sulle montagne, ma alla storia alpinistica di sua madre. Comprendere le motivazioni di uno dei più prolifici esponenti del free solo del suo tempo e forse anche degli anni precedenti, non è un compito semplice, soprattutto se consideriamo che Ballard ha sempre portato avanti le sue imprese in maniera silenziosa, lontano dal clamore mediatico. Da un lato alcune affermazioni di Tom possono far pensare che l’eredità alpinistica della madre non fosse il principale motore per le sue imprese: 

«Penso che molte persone ritengano che scalando cerchi di avvicinarmi maggiormente a mia madre» aveva sottolineato durante un’intervista, «ma non è così. Io lo faccio solo per me stesso». 

Alison Hargreaves nel 1986 sul Kangtega © Mark Twight

Tuttavia gli obiettivi perseguiti e raggiunti da entrambi durante la loro carriera come alpinisti e il parallelo shakespeariano fra la vita di Tom e quella di sua madre confutano nei fatti le sue affermazioni. È proprio nel tentativo di seguire il percorso della madre, ma al tempo stesso di non esserne in toto definito, che risiede il germe della tragedia consumatasi sullo Sperone Mummery. Con il passare degli anni Tom assomigliava sempre di più a sua madre: le guance rotonde, spesso arrossate dal vento, il collo solido erano indubbiamente quelli di Alison Hargreaves, solo gli occhi azzurro ghiaccio non erano quelli della madre. A vent’anni Tom portava i capelli lunghi fino alle spalle, dopo si fece crescere un sottile pizzetto sul mento. Stefania Pederiva, sua fidanzata per cinque anni, parla di Tom come di un ragazzo dotato in qualsiasi cosa facesse, dall’arrampicata allo sci, ma anche nella scultura e nella fotografia.  Aveva letto e poi riletto dozzine di volte il suo libro preferito, I sette pilastri della saggezza di T.E. Lawrence, da cui era stato tratto il film Lawrence d’Arabia; strabordante di epica, a metà fra l’autobiografia e il romanzo, con un’epigrafe infarcita di misticismo, il libro di Lawrence racconta la sua esperienza di vita come emissario del governo inglese durante la rivolta araba contro l’impero ottomano nella Prima Guerra Mondiale. Stefania racconta di aver più volte tentato di terminare la lettura del voluminoso tomo, di oltre 600 pagine, senza esserci mai riuscita: «Credo che a Tom piacesse perché si ritrovava in quella storia, che rispecchiava il suo modo di vivere lontano dalla società». Ed è forse in una frase del libro di Lawrence, che Tom tanto amava, che possiamo trovare un collegamento con le sue imprese alpinistiche: «Quelli che di notte sognano nei polverosi angoli della propria mente scoprono, di giorno, che era solo vanità; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno a occhi aperti, per attuarlo». 

Forse questa frase per Tom rappresentava la grandiosità dei sogni che aveva concepito per se stesso sulle montagne, sogni da custodire, senza parlarne con alcuno. Nei dieci anni precedenti la sua morte, Tom trasformò alcuni dei suoi sogni in realtà. Per molti dei suoi conoscenti Ballard rappresentava un talento cristallino nel mondo dell’alpinismo, nonostante il Piccolo Principe delle montagne, come lo aveva ribattezzato Stefania, fosse per lo più sconosciuto nel mondo dell’alpinismo di alto livello. Graham Zimmerman, amico e compagno di cordata di Tom, è convinto che la sua morte possa cambiare la situazione, rendendolo oggi famoso per le sue imprese nell’alpinismo: «In America ci sono molti climber che non conoscono Tom, ma penso che negli anni a venire, quando le imprese di Tom verranno rese note, diventerà molto più conosciuto all’interno della comunità alpinistica: le imprese che ha compiuto e i traguardi che ha raggiunto nella sua breve carriera sono incredibili». 

L’arrampicata nel sangue 

Uno dei ritornelli che si sentono più di frequente abbinati al nome di Tom Ballard è quello relativo al fatto che avesse salito l’Eiger già prima di nascere, infatti nell’estate del 1988, al quinto mese e mezzo di gravidanza, l’allora ventiseienne Alison Hargreaves aveva scalato la parete Nord dell’Eiger. Pochi mesi dopo, come raccontano Ed Douglas e David Rose in Le ragioni del cuore. Storia di Alison Hargreaves, Alison, intenta a fare sicurezza al marito Jim Ballard nella falesia locale di Cromford Black Rocks, aveva avvertito le prime contrazioni, che avevano portato alla nascita di Tom il giorno successivo. Due anni più tardi, Alison e Jim – lui stesso appassionato climber e gestore di un negozio d’arrampicata a partire dagli anni ’70 fino all’inizio degli anni ’90 – diedero il benvenuto alla sorella minore di Tom, Kate, portando così il clan dei Ballard a quattro membri. Alison era una climber emergente fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, ma la nascita di Tom coincise con lo spostamento dei suoi interessi verso le grandi montagne himalayane, un terreno di gioco che si rivelò essere quello più adatto alle sue qualità. Durante la sua prima spedizione himalayana, nel 1986, mise a segno diverse ripetizioni e nuove linee sul Kangtega e sul Lobuche East in Nepal come parte di una squadra che comprendeva anche gli americani Jeff Lowe, Mark Twight e Tom Frost. Anche dopo la nascita di Tom e Kate, Hargreaves continuò la sua carriera di alpinista; viveva con la famiglia nel Derbyshire, in Inghilterra: un territorio prevalente- mente collinare interrotto solo dalle alture del Peak District. Tom frequentava la scuola locale, dove «faceva le esperienze tipiche dei bambini della sua età», racconta Jim; ma il normale scorrere della sua esistenza, fatta di giochi con i coetanei e d’inverno di scivolate con lo slittino sulla neve, veniva a volte interrotto da periodi, che potevano durare anche mesi, in cui tutta la famiglia si metteva in viaggio per assistere Alison durante le sue imprese sulle Alpi. 

Nell’estate del 1993, quando Tom aveva quattro anni e Kate due, Alison volle diventare la prima persona ad aver salito in solitaria le sei grandi pareti Nord delle Alpi (Eiger, Pizzo Badile, Grandes Jorasses, Petit Dru, Cima Grande di Lavaredo e Cervino) in una sola stagione. Tutta la famiglia la seguì, vivendo fra la Svizzera, la Francia e l’Italia.
Il progetto di Alison rappresentava una nuova interpretazione del traguardo raggiunto da Gaston Rébuffat negli anni ’50, il primo ad aver salito le sei grandi pareti Nord delle Alpi. Rébuffat, concluso il progetto, nel 1954 aveva raccolto in un libro, dal titolo Étoiles et Tempêtes (pubblicato in inglese con il titolo Starlight and Storm e in italiano con Stelle e tempeste) il resoconto dell’impresa. Al termine del progetto Hargreaves probabilmente spinta nella ricerca di notorietà dal marito manager, decise a sua volta di pubblicare un libro con il resoconto dell’impresa (A Hard Day’s Summer), ma il risultato fu molto diverso dalle aspettative, forse anche a causa del fatto che il progetto non fosse in realtà stato realizzato nella sua interezza. Alison infatti non aveva salito la parete Nord dell’Eiger, ma quella Nord-Est, attraverso la meno impegnativa via Lauper; nonostante questa discrepanza, sia all’epoca che oggi, molte fonti la definiscono come la prima persona ad aver salito in solitaria le sei grandi pareti Nord delle Alpi. 

Il libro contiene anche il racconto di un macabro ritrova- mento avvenuto durante la discesa dalla vetta dell’Eiger; lungo la via infatti Alison si era imbattuta in svariati pezzi di equipaggiamento: una vite da ghiaccio, una piccozza, un guanto e altri piccoli frammenti non perfettamente riconoscibili e alla fine dei detriti aveva identificato il corpo senza vita di un alpinista. Si trattava di un alpinista spagnolo che aveva tentato la salita ed era morto cadendo, una specie di monito agli occhi di Alison sulla pericolosità e i rischi della sua vocazione. Nel corso della sua vita la Hargreaves venne spesso criticata ed etichettata come una madre irresponsabile per le sue imprese alpinistiche, portate avanti anche dopo la nascita dei due figli: un chiaro esempio di discriminazione femminile, dato che raramente lo stesso tipo di accusa viene rivolta ad alpinisti maschi con figli piccoli. L’impresa, quasi riuscita, di scalare in solitaria in una sola stagione le sei grandi pareti Nord delle Alpi rappresentò per Alison un grosso passo avanti in termini di notorietà nel mondo dell’alpinismo; la famiglia si trasferì in Scozia, stabilendosi a Fort William, vicino alla montagna più alta delle isole britanniche: Ben Nevis. Sullo slancio di quell’estate, Alison decise di portare la sfida a un livello più alto: avrebbe tentato la salita all’Everest senza ossigeno supplementare, impresa che era riuscita prima a una sola donna, Lydia Bradley. Esattamente come Tom, 24 anni dopo, Hargreaves non aveva alcuna esperienza al di sopra degli 8.000 metri e neppure dei 7.000, ma con l’intera famiglia appresso, nell’estate del 1994, partì per il Nepal. Tentò la vetta tre volte, arrivando nel secondo tentativo a circa 8.400 metri, ma tornò indietro per la paura di morire congelata. 

Tuttavia il fallimento del 1994 non la scoraggiò, anzi la indusse a tornare in Nepal l’anno seguente - da sola, senza la famiglia - con un progetto ancor più ambizioso: salire l’Everest da sola, senza ossigeno supplementare e senza alcun tipo di supporto: nessun aiuto esterno, nessuna possibilità di utilizzare corde fisse, né le tende di altri alpinisti. L’unico alpinista, fino a quel momento, in grado di compiere un’impresa del genere era stato l’ineguagliabile Reinhold Messner, che fu anche il primo al mondo a scalare tutte le 14 vette degli Ottomila. Ma Alison riuscì nell’impresa, arrivando al punto di rifiutare anche una tazza di tè, come scrisse Alison Osius, editor della rivista Climbing. Hargreaves voleva neutralizzare ogni possibilità di attacco alla sua impresa, per evitare il ripetersi della polemica nata dopo il progetto sulle grandi pareti Nord delle Alpi, e ci riuscì. Più tardi, durante l’estate del 1995, decise di prendere parte a una spedizione per la conquista del K2; all’arrivo della finestra per il tentativo di vetta, la situazione della montagna venne ritenuta eccessivamente pericolosa dagli alpinisti della squadra di Alison e dalle altre spedizioni presenti. Alison vacillò lungamente fra il desiderio di tentare e quello di abbandonare; alla fine, nel pomeriggio del 13 agosto, prese la decisione di portare l’attacco alla vetta, che raggiunse alle 18.45, troppo tardi per trovarsi così in alto sulla montagna. Quello stesso giorno il neozelandese Peter Hillary, dopo aver visto sopraggiungere all’orizzonte nubi inquietanti, aveva rinunciato alla salita; le stesse nubi che avvolsero la montagna nel momento in cui Alison raggiunse la vetta. Durante la discesa la Hargreaves e sei altri alpinisti persero la vita nella terribile bufera che investì la montagna; fra essi anche l’americano Rob Slater, famoso per il suo motto La vetta o la morte, in ogni caso vinco. 

Alison fu strappata dalla montagna da un vento a oltre 160 chilometri all’ora; il corpo identificato a 7.400 metri di quota si presume appartenesse a lei, sebbene la conferma ufficiale non sia mai arrivata. Alison Hargreaves aveva 33 anni. 

A causa della difficoltà di reperire informazioni in tempo reale, Jim Ballard chiamò la redazione della rivista Climbing, nella speranza di ricevere gli ultimi aggiorna- menti sulle condizioni della moglie. Nel lungo servizio pubblicato sulla rivista, Alison Osius racconterà quella telefonata di Jim Ballard, descrivendola in questo modo: «Ballard parlava a voce bassa, come se non volesse farsi sentire dai bambini, che canticchiavano in sottofondo». Kate aveva 4 anni e Tom 6. Cosa ricordano la maggior parte delle persone di quando avevano sei anni? Il momento in cui hanno imparato ad andare in bicicletta per la prima volta? Il profumo della mamma o dell’acqua di colonia del papà? I giochi con gli amici nel cortile della scuola? A Tom rimasero solo immagini sfocate: in un’intervista al giornalista Robert Chalmers nel 2015 disse di «non ricordare quasi nulla della madre» se non che fosse una persona gentile e generosa, anche se fortemente determinata. Sulla scia della morte di Alison infuriò, sui quotidiani britannici, lo stesso dibattito che era seguito alla sua impresa sull’Eiger durante la gravidanza. La domanda ricorrente era se fosse moralmente giusto per la madre di due bambini piccoli tentare la salita al K2. Il Sunday Times pubblicò un articolo dal titolo Il K2 non è per le madri, il Daily Express un altro: La coraggiosa Alison era una buona madre?. Ma Tom non provò mai alcun rancore o risenti- mento verso la madre per aver scelto la via pericolosa della montagna e non essere tornata indietro. «Perché la capisco - spiegò a Chalmers - comprendo perfettamente perché lo facesse. Preferisco che sia morta inseguendo la sua passione che in un altro modo». 


Sopra, Alison Hargreaves
© Mark Twight. A destra, Tom con il padre Jim © Rugero Arena

I pilastri della saggezza 

Quattordici anni dopo, nell’inverno del 2009, Ballard, all’epoca ventenne, affrontò per la seconda volta la parete Nord dell’Eiger, dopo averla salita mentre si trovava ancora nella pancia della madre. Aveva deciso di tentare la ripetizione di Scottish Pillars (5.10 – A3), una via aperta nel 1970 nella zona sinistra della stessa parete. In Scozia Ballard aveva sviluppato una vera passione per le imprese in solo, con o senza corda, sia su roccia che su ghiaccio in inverno. Durante quella stagione, vivendo con il padre e la sorella in un granaio ad Alpiglen, Grindelwald, vicino alla base della montagna, Tom riuscì a risolvere l’inizio della via, ma il cattivo tempo ne limitò di molto i progressi; tuttavia i costanti avanzamenti lo portarono nella tarda primavera a completare la ripetizione. Con quella realizzazione, Tom maturò la consapevolezza di essere in grado di scalare in libera Scottish Pillars, ma anche che c’era il potenziale per l’apertura di una nuova via di fianco a essa; prima che l’estate fosse terminata, aveva raggiunto entrambi gli obiettivi. Battezzò la variante di Scottish Pillars, aperta in libera, Solitaire e aprì la nuova via, in solitaria - con la protezione della sola corda - che chiamò Seven Pillars of Wisdom (ED 5.12b - N.d.T: 7b/7b+). 

Ma più che un semplice gioco di parole, il nome scelto per il battesimo della nuova via rappresentava un chiaro rimando al libro preferito di Tom e un’autentica dichiarazione di intenti: avrebbe realizzato i suoi sogni, ma con lucidità e tenendo gli occhi ben aperti. Nel corso dei sette anni successivi, Jim mantenne fede alla promessa fatta ad Alison: «Qualunque cosa dovesse accadere a uno di noi, non impedirà all’altro di far condurre ai bambini una vita avventurosa»; girando l’Europa, come casa un Volkswagen bianco, Jim e Tom andavano alla ricerca di buone condizioni sulle Alpi. Conducevano una vita modesta: facendosi il tè con una tecnica appresa dagli sherpa in Nepal, giocando a carte, aggiustando l’attrezzatura rotta, sonnecchiando o leggendo e arrampicando; arrampicando in continuazione. 

*Michael Levy è redattore di Rock and Ice

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Continuano i webinar gratuiti sulla prevenzione e la sicurezza

Non sapete cosa fare questa sera? Niente paura, un buon consiglio ve lo diamo noi, soprattutto se avete iniziato ad avvicinarvi allo scialpinismo e alla montagna aperta in questa stagione invernale: un webinar sulla prevenzione e sicurezza negli sport di montagna. Naturalmente gratuito. L’appuntamento - il primo di una serie di quattro - è per questa sera alle 20,30. Organizzato da Mmove, in collaborazione con Ortovox e Garmin, il progetto Safety First riunisce Guide alpine, nivologi e aziende di riferimento per creare una cultura della sicurezza in un momento in cui la frequentazione della montagna, a causa della chiusura degli impianti, è aumentata esponenzialmente. 

Nel menù di questa sera ci sono gli ‘strumenti e le conoscenze per la prevenzione sulla neve’. Interverranno Mauro Girardi di Mmove, il nivologo Gianluca Tognoni (prevenzione su terreno innevato), Giovanni Pagnoncelli di Ortovox (preparazione dello zaino, Luca Sannazzari di Garmin (sicurezza digitale, dispositivo inreach). 

Il 26 febbraio di prevenzione nella salita, per scialpinisti e snowboarder, sempre alle 20,30, il 2 marzo si parla di prevenzione per la discesa, il 5 marzo di come muoversi su terreno innevato senza sci. 

È possibile iscriversi al primo seminario a questo link, mentre per informazioni sugli altri appuntamenti info@mmove.it


Valanghe, quanto è pericolosa la nostra mente?

Senza quasi accorgersene, capita di gestire alcune situazioni tipiche dello skialp e dello sci lontano dalle piste battute secondo procedimenti euristici, cioè attraverso metodi di approccio alla soluzione dei problemi che non seguono un percorso rigoroso ma, piuttosto, affidandoci all’intuito e allo stato temporaneo delle circostanze. Così facendo, siamo portati a prevedere un risultato che tuttavia resta da convalidare. Ovvero la certezza di essere al riparo da una situazione di distacco di valanga non ce l’abbiamo, anzi, con questi comportamenti quasi la escludiamo. Incappiamo appunto nelle cosiddette trappole euristiche. Entrando nello specifico, Igor Chiambretti e Anselmo Cagnati, nell’ambito dei corsi per osservatore nivologico dell’AINEVA (Associazione Interregionale Neve e Valanghe), hanno cercato di classificare i profili psicologici di scialpinisti e freerider e quei meccanismi che inducono anche i più esperti a esporsi a un eccessivo rischio di essere travolti da una valanga. Per semplicità, ecco le più comuni trappole euristiche: 

familiarità: 

siamo sempre passati di qui, è già tracciato. Invece di cercare le scelte e i comportamenti più adatti alla situazione del momento, si tende a ripercorrere scelte precedenti; 

eccesso di determinazione: 

ormai siamo arrivati fin qui, dai che ci siamo, la cima è li sopra. Una volta presa una decisione, le altre devono essere conseguenti a essa perché ormai sembrano più ovvie; 

euforia: 

mamma che polvere che c’è oggi! Giù a cannone!; consenso sociale: 

chi sono io per dire qualcosa, poi passo da sfigato. Si è generalmente più disponibili al rischio in presenza di persone, specie se le stimiamo e ammiriamo, ritenendole più esperte di noi; 

competitività sociale: 

dal francese celodurismo; 

aura dell’esperto: 

sa sciare bene, va sempre in montagna, quindi saprà valutare dov’è il pericolo, fidatevi di me, l’ho già fatta 100 volte; 

istinto gregario – potere del gruppo: 

non so bene chi prende le decisioni, ma siamo in gruppo, se è effettivamente pericoloso qualcuno lo dirà. Più è grande il gruppo, tanto maggiore è il rischio. Oltre al fatto oggettivo dell’au- mento della probabilità di incidente derivante dal numero, aumentano le possibilità di comportamenti indisciplinati e al contempo si riduce molto la percezione del pericolo; 

effetto dell’apprendimento negativo: 

non diamo per scontata la riuscita di una gita anche quando tutto è andato bene poiché non si sa con certezza quanto in realtà si è andati vicini al pericolo; 

sindrome del cavallo: 

ho poco tempo, oggi ho fretta di tornare indietro; 

sindrome dell’orso: 

per chi va da solo. 

Ingannati dal fatto che a volte nella vita quotidiana l’euristica è conveniente, dobbiamo considerare che non va bene in un contesto di alta montagna, con rischio reale e presente. E i numeri dicono che questo vale anche per chi ha una certa esperienza. In quasi tutti gli incidenti da valanga che hanno coinvolto anche vittime educate alle valanghe i malcapitati sono generalmente incorsi in una di queste tre situazioni: 

  1. non sono riusciti a notare indizi evidenti di instabilità;
  2. hanno sovrastimato la loro capacità di affrontare il rischio;
  3. si sono resi conto del pericolo, ma hanno continuato comunque.

Trovare la chiave per risolvere l’enigma decisionale non è certo così immediato. Per questo abbiamo deciso di fare due chiacchiere con qualcuno che di montagna ne macina, e parecchia, che sia d’estate o d’inverno. Un professionista del settore che in quota ci lavora, sia nel campo dell’accompagnamento, che della formazione e del soccorso. Insomma, uno che ha una visione a 360°, completa, perché nei suoi lavori spesso vede i due lati della stessa medaglia. 

Daniele Fiorelli vive in Valmasino, nel regno del granito, dove è nato e cresciuto come alpinista e come professionista proseguendo la tradizione di famiglia. È Guida alpina e Istruttore nazionale delle Guide alpine Italiane, membro del CNSAS con le qualifiche di Istruttore nazionale e tecnico di elisoccorso. Svolge la sua attività su tutto l’arco alpino e all’estero: arrampicata su roccia, ghiaccio, scialpinismo e freeride. Daniele ha recentemente ritenuto che questi argomenti dovessero essere trattati anche nell’ambito della formazione del corso per Aspiranti Guida alpina della Regione Lombardia, di cui è responsabile. Ed eccoci a fare due chiacchiere, con la schiettezza che lo contraddistingue. 

Avvicinandosi l’inizio della stagione abbiamo pensato che fornire agli appassionati di sport sulla neve un piccolo focus sul meccanismo delle trappole euristiche potesse essere utile per tentare di accendere qualche lampadina e far riflettere un po’ su questi meccanismi comportamentali. L’intento, non esaustivo, di aprire un piccolo spunto di riflessione in merito a situazioni in cui tutti ci troviamo. Sei d’accordo col dire nessuno escluso? 

«Certo. Nei meccanismi delle trappole euristiche ci saltan dentro tutti. I neofiti, gli esperti e a volte i professionisti stessi. Nessuno escluso. Permettimi la franchezza, per quanto riguarda le valanghe, specie nello scialpinismo, è meno difficile di quanto si pensi mettere il culo nelle pedate». 

Puoi raccontarci qualche episodio significativo dove l’errore commesso и stato uno dei meccanismi che abbiamo elencato? 

«Sinceramente ne avrei diversi, specie di interventi su cui mi è capitato di lavorare in ambito di Soccorso. Purtroppo non sono episodi belli da raccontare per via di esiti spesso fatali. Preferisco quindi non entrare nei dettagli, ma un esempio che ti posso fare risale a un incidente che ha visto coinvolti due local sulla classica montagna che si fa dopo una nevicata sul lato valtellinese delle Orobie. I due conoscevano bene il percorso. Era un itinerario che percorrevano più volte in stagione, praticamente con qualsiasi condizione di neve. Quando c’è stata la valanga, avevano scelto di percorrere il pendio classico di discesa leggermente più a destra rispetto al solito, la variazione di pendenza non era quasi significativa, eppure... Nel corso del mio lavoro ho visto una marea di casi simili purtroppo. E non solo con persone inesperte, anzi». 

La percezione del rischio passa attraverso diversi aspetti: la conoscenza del rischio stesso, la propensione soggettiva allo stesso di ciascun individuo, le influenze esterne, le valutazioni di probabilità. È un meccanismo estremamente complesso, specie per chi si avvicina allo scialpinismo ed è alle prime armi. Quali sono le trappole euristiche che ritieni piщ frequenti? 

«A mio avviso sono quelle legate alla familiarità perché è assolutamente trasversale, quasi democratica. Tocca tutti, dai meno esperti, ai garisti, ai professionisti. Capita che in montagna, specie su itinerari conosciuti, ci si muova con i paraocchi. Sono stato qui due giorni fa, la conosco come le mie tasche, faccio sempre questo fuoripista dopo le nevicate. Sono tutti ragionamenti che ciascuno di noi fa quasi inconsciamente, ma sono pericolosi. L’abitudine ci porta a pensare meno, ad abbassare il livello di attenzione tralasciando tutto un processo decisionale di scelte che invece va sempre affrontato. In montagna devo sempre ricordarmi di pensare. Altrimenti ci si ritrova sull’altra trappola, l’effetto gregge: riguarda spesso persone meno esperte, vedono tanta gente alla partenza di un itinerario, bella giornata, bella neve, e vanno dietro, seguono la traccia. Questo non ci mette assolutamente al riparo dai pericoli e dai rischi che potrebbero innescare le scelte sbagliate di chi è davanti. Magari il primo gruppo sta proseguendo perché è confortato dalla vostra presenza sull’itinerario! E non mi riferisco solo alle carovane di scialpinisti viste dopo la prima nevicata in Marmolada quest’anno. Anche se poi le condizioni di stabilità permettessero di muoversi su certi terreni in piccoli gruppi, trovarsi in molti su un pendio (inducendo quindi forti sovraccarichi) potrebbe generare spiacevoli sorprese». 

Lo scialpinista deve sempre pensare con la sua testa quindi? 

«Certamente. E se un membro del gruppo ha dei dubbi, anche se non è il più esperto, è utile che li esterni agli altri. Nella trappola che viene definita del consenso sociale il meccanismo che si innesca è quello che a uno o più componenti inizia magari a sorgere un dubbio sulla neve o sull’itinerario. Però sta zitto, non voglio mica passare da sfigato, da primo che si tira indietro. Posto che non bisogna arrivare a questo punto, occorre ragionare con la propria testa e confrontarsi nel gruppo, perché è quando si è con altri che si innesca questa trappola. 

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© Andrea Bormida

Sci-volare con lo ski savage

* Ski Sauvage è il titolo di un libro di François Labande degli anni Ottanta. In copertina abbiamo riportato il termine in francese, in questo articolo lasciamo spazio alla licenza poetica dell'autore. E poi così l'assonanza con ravanage è proprio perfetta.

Scende un fiocco di neve, è lì, sospeso che volteggia leggero senza aver toccato ancora terra. Già da un bel pezzo si sente nell’aria l’odore di neve. Subito vengo sbalzato, catapultato indietro nel tempo, quando, piccolo, scivolavo sul manto soffice e bianco col mio amico del cuore Marco. Avevamo la slitta, il bob, gli sci, la tavola, a volte solo le scarpe. Non importava, noi scivolavamo. Non sapevamo ancora che la neve venisse chiamata polvere, crosta, firn, beton. Non ci importava, la chiamavamo semplicemente neve e noi scivolavamo. Quello sci-volare è rimasto aggrappato nel mio animo insieme al bambino che non voglio che se ne vada mai via. O, forse, è quel bambino che non voglio che se ne vada mai via a voler rimanere aggrappato a quel dolce e magico sci-volare. Questo non lo capirò mai, ma non mi importa finché ci sarà un altro inverno e scenderà quel fiocco di neve.

Radici

Avevo poco più di vent’anni quando decisi di voler diventare una Guida alpina. Per farlo dovevo accedere a una selezione che comprendeva la prova di sci. Dovevo imparare la tecnica nuova, quella della conduzione, ma anche allenarmi sul piano fisico, quindi pensai che il modo migliore fosse quello di iniziare a fare le gare di scialpinismo. All’epoca nessuno dei bormini voleva fare coppia con me, non ero capace di sciare, nessuno mi voleva in squadra. Ho imparato a sciare quando avevo circa cinque anni, ma a poco più di dieci ho abbandonato gli sci per fare il tavolaro, come venivamo definiti negli anni ’90. In quegli anni a Bormio era vietato fare snowboard. Sembra impossibile, ma era così e tra il 2000 e il 2010 era vietato anche fare fuoripista, insomma sono sempre stato un sovversivo. Il freeride non mi è quindi arrivato addosso come sorpresa o intuizione. Ero uno snowboarder, conoscevo bene quella sensazione di libertà, di galleggiare su un pendio vergine. L’ho semplicemente trasferita sugli sci. Mentre lo scialpinismo in Alta Valtellina è sempre stato molto sentito, soprattutto dal punto di vista delle gare, il freeride invece non era ancora un fenomeno di massa. Quindi all’inizio le tracce larghe erano solo dei soliti quattro gatti sovversivi. Le nostre e basta. I primi anni è stato un mondo tutto da scoprire. Poi il fenomeno piano piano è dilagato per finire con l’esplodere anche qui. Adesso già durante una nevicata gli itinerari più famosi vengono subito tracciati. Quell’angolo paradisiaco che avevamo conosciuto alle origini è svanito. Quindi chi ha iniziato dieci, quindici anni fa, ha cominciato a spostarsi un po’ più in là per ritrovare angoli nascosti, prima camminando, poi mettendo le pelli per brevi tratti e infine per lunghe gite. Dal freeride siamo passati al freetouring e quelli più longevi hanno iniziato (o meglio, ricominciato) a fare scialpinismo vero e proprio. Tutto questo grazie anche all’evoluzione dell’attrezzatura: sci larghi come quelli da freeride ma leggeri come quelli da scialpinismo.

© Giacomo Meneghello

Dietro casa

L’Alta Valtellina è una zona così ampia e con numerose valli limitrofe che è ancora difficile trovare la ressa sugli itinerari. Tolti quei dieci classici e quindi le aree più conosciute come i Forni o la Val Viola, quando in primavera aprono le relative strade, il resto rimane poco o per nulla battuto. Chi non ha le competenze si muove solo sui percorsi conosciuti e già battuti; chi invece ha un po’ di esperienza non lo vedi in giro perché va a cercare posti poco frequentati. Certo, poi va messo in conto che tante valli sono difficili da raggiungere, ma le prospettive sono cambiate grazie all’uso della bicicletta a pedalata assistita con cui d’inverno puoi arrivare dove in primavera arriveresti in macchina con la strada pulita dalla neve. Questo tipo di scialpinismo è ancora di nicchia, ma si sta espandendo. In un raggio di 20 chilometri ci sono montagne e scenari, fauna e flora così diversi tra loro che sulle Alpi è difficile trovare tanta varietà in un’area relativamente piccola.

Non smettere mai di divertirti

Ci sono persone che nascono per andare a ripetere e altre che nascono con l’indole indomabile della curiosità e sono alla ricerca di qualcosa di nuovo. Che poi quel qualcosa di nuovo non deve essere obbligatoriamente nuovo, deve essere semplicemente nuovo ai loro occhi. Quello che a me piace tanto dello sci è un’interpretazione che chiamo ski savage, che ha dentro, non solo nella rima, un po’ di ravanage, ma rimane sempre e comunque scialpinismo nella sua forma originale, quella appunto di alpinismo con gli sci su terreno d’avventura. Prendi lo zaino, ci metti dentro un po’ di materiale alpinistico, la tecnica e l’esperienza acquisita negli anni sia in campo sciistico che in quello verticale dell’alpinismo e tanta, tanta curiosità. Ogni tanto ti capita di ravanare di più, altre meno e qui sta il bello: sapersi sempre stupire di fronte al risultato finale. Questo concetto arriva da lontano, arriva da tutte le contaminazioni nel corso degli anni, contaminazioni nate da incontri con amici sciatori, ma anche che arrivano da altre discipline: lo snowboard, lo sci ripido, le cascate di ghiaccio, l’arrampicata. Certo, devi avere un livello tecnico abbastanza alto su tutti i fronti. Perché quello che è ancora vergine magari è piuttosto ripido o devi calarti in doppia o ancora arrampicare su tratti di misto con i ramponi. C’è ancora tanto spazio qui per questo stile e quelli che fanno ski savage nel Bormiese si contano sulle dita delle mani. In inverno quello che voglio trasmettere alle persone che accompagno è racchiuso nella frase di Doug Coombs: il più bravo sciatore è quello che si diverte di più.

Mi piacerebbe vedere i bambini meno impegnati tra i pali e più leggeri sugli sci, mi piacerebbe vedere gli allenatori, ma soprattutto i genitori di quei bambini, gioire della gioia che lo sci può dare e non gioire per dei numeri che appaiono su un cronometro. Chi arriva dal mondo race delle tutine probabilmente si stufa di far gare, ma fortunatamente ha conosciuto il mondo della montagna del quale non riuscirà più a fare a meno. Chi si approccia allo scialpinismo vive ancora lo sci nel modo più semplice e puro per cui è nato: quello di sci-volare. Puoi sciare cent’anni e non avere ancora imparato a sciare, perché lo sci non è altro che la ricerca di quella frazione di secondo in cui sei in equilibrio; magari lo raggiungi una volta ogni cento curve. Sci-volare è un momento in cui non sei né in cielo né in terra, sei lì, nel limbo, e quello è il momento di leggerezza che ricerchi.

E guarda caso quella leggerezza è il tuo punto di equilibrio. Alla fine vai a ricercare qualcosa di primordiale che sentivi quando eri bambino e a quel punto non importa più nulla. Non conta dove scii o su che neve stai sciando. Non esiste più la polvere o la crosta, esiste solo quell’azione di sci-volare e tornare bambino. La neve è sempre bella e sta a te adattarti alla situazione del momento. E quando raggiungi questo grado di consapevolezza inizierai a sciare sempre, in tutte le condizioni. E non smetterai più di divertirti!

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© Giacomo Meneghello

La stagione delle strade

Arrivare

Quando siamo arrivati a Santa Caterina per trasferirci nella casa che avevamo visto solamente in fotografia era già notte. Edoardo aveva guidato senza tregua e io avevo le gambe addormentate per aver tenuto Ombra in braccio per tutto il tempo del viaggio. Nella Fiestina eravamo riusciti a far entrare tutte le nostre cose. Abbiamo dovuto rinunciare a un paio di sci, a due chitarre e a uno spazio sul sedile posteriore per far stendere Ombra. Di certo non era considerabile fra le cose utili ma non indispensabili che ci avrebbero potuto portare più avanti. Era anche per lui che avevo deciso di andare a vivere lì. Sulla strada provinciale che da Bormio porta a Santa Caterina - strada che spesso d’estate viene chiusa per via della frana del Ruinon, isolando così i 200 abitanti del paese - una volta superato Sant’Antonio si inizia ad entrare nell’area più selvaggia della Valfurva. Non c’è più nessuna luce ad illuminare il cammino, se non quella delle stelle che risplendono in lontananza, nel fazzoletto di cielo che i fitti boschi di conifere che vestono entrambi i lati della valle non riescono a coprire. Se si abbassano i finestrini e si mette la faccia fuori nell’aria fredda della notte, l’unico rumore che si sente è il sibilo del fiume che scorre nella direzione opposta. Bisogna guidare piano in questo tratto, pronti a frenare in caso che un cervo attraversi la strada prima di sparire nello stesso buio dal quale è arrivato. Dopo qualche chilometro il cielo si riprende il suo spazio e di fronte agli occhi di chi guida prende forma un’enorme piramide bianca da cui non si riesce più a staccare lo sguardo: è il Pizzo Tresero, la vetta che domina e protegge la valle e che ha la stessa sagoma che tracciamo sul foglio da bambini quando ci viene chiesto di disegnare una montagna. La notte in cui siamo arrivati in Valfurva la luna era già sorta e rifletteva tutta la sua luce sull’immensa parete che ci trovavamo davanti. È strano guidare per centinaia di chilometri fra nebbia e asfalto e poi ritrovarsi di fronte a qualcosa di così grande e vivo. Abbiamo proseguito fino all’indirizzo che ci avevano dato senza riuscire a dire una sola parola; la bocca tirata nel sorriso di chi sente di essere finalmente nel posto giusto.

Quando Edoardo e io abbiamo deciso di passare l’inverno insieme a sciare il più possibile non avevamo idea di dove andare; abbiamo scritto su un foglio di carta il nome di cinque località che, almeno a una prima apparenza, avevano le caratteristiche che secondo noi dovesse avere il posto in cui volevamo trascorrere la stagione. Per prima cosa, volevamo trovarci in un posto dove almeno la quota promettesse neve al momento dell’arrivo di ogni precipitazione. Poi ci interessava stare lontani dal turismo di massa e pagare un affitto ragionevole. Cercavamo un inverno più lungo possibile in cui sciare fino a non poterne più sopportare nemmeno l’idea. Non so perché - forse perché avevamo usato l’ordine alfabetico - ma Santa Caterina era l’ultima della lista. Abbiamo trovato casa quando ormai avevamo perso ogni speranza e, per quanto fosse difficile accorgersene nel caldo di Roma, l’inverno stava già bussando alla porta. Indossavamo ancora i pantaloncini quando abbiamo caricato la macchina di borsoni e speranze e ci siamo messi in viaggio verso Nord. Verso l’inverno. Non avevamo la minima idea di quello verso cui stavamo andando incontro a testa bassa, e senza guardarci indietro.

© Eva Toschi

Scoprire

Nonostante sapessimo che l’inverno ci aveva preceduti di qualche settimana, vederlo e soprattutto sentirlo era tutta un’altra faccenda. Tutto, dalle cime, ai boschi, ai prati per la pastura, era ricoperto di neve. Non avevamo idea di cosa ci fosse sotto quel velo; e a dire la verità nemmeno ci importava. Ci è bastato un giorno per capire che per qualche mese il sole non sarebbe riuscito a superare le montagne di 3.000 e più metri che sovrastano il fondovalle, lasciandoci tra ombra e ghiaccio la maggior parte della giornata. Per cercare il sole, bisognava salire, ma non sapevamo bene dove. Lo scialpinismo in inverno, almeno qui, non è molto considerato. Sarà il freddo, le giornate corte, le crepe del ghiacciaio coperte da uno strato di neve ancora troppo sottile, ma le uniche tracce di salita che si vedono in giro per la valle sono quelle strette e veloci di chi si allena per le gare. Tra queste, abbiamo imparato a riconoscere le tracce di discesa dritte e sicure di Robert Antonioli. Abbiamo scoperto un mondo fatto di risalite in fresca e di discese in pista. Ma non lo abbiamo capito. Così come non abbiamo capito perché nessuno andasse a cercare discese vergini nascoste in quale angolo della valle, lontane dal - seppur relativo - caos del resort. Per noi andare a sciare in quei posti non solo era un desiderio, ma una necessità. Avevo deciso di non prendere gli impianti per tutto l’inverno, per cui se avessi voluto sciare avrei dovuto faticare. Ma a me andava bene, così come a Edoardo e, soprattutto, a Ombra, che nonostante avesse visto la neve per la prima volta, sembrava essere nato per venire insieme a noi in 30 centimetri di neve fresca. E poi per cercare qualche raggio di sole dovevamo salire. La prima volta che abbiamo messo le pelli non avevamo idea di dove andare, così siamo saliti sulle piste ancora chiuse seguendo i piloni della funivia. Quel giorno ho visto un ermellino bianco sbucare dalla neve e correre via. Quando è iniziata la stagione e il selvaggio è diventato battuto non ne ho più visto uno.

Non riuscendo a reperire un granché di informazioni su gite fattibili in inverno, abbiamo iniziato a seguire i nostri occhi e il nostro naso. Andavamo alla scoperta, indicando un punto e dicendo all’altro che ne dici se saliamo di qua?. Ci sono state volte in cui i nostri occhi ci hanno tradito; altre in cui abbiamo sciato la neve che avevamo annusato dal basso, altre ancora in cui, una volta arrivati dove volevamo, abbiamo scoperto che dietro l’angolo era ancora più bello. Il posto che in assoluto ci ha regalato le discese più belle di inizio inverno è stato il Dosso Tresero: il colle sotto la cima che ci aveva fatto sognare la notte in cui siamo arrivati e, prendendo gli ultimi raggi di sole, ci ha fatto scoprire cosa significa sciare la luce. Certo, non direi che è fra le perle nascoste della valle, ma il Dosso è stata la nostra ancora di salvezza nelle giornate in cui era troppo pericoloso andare da qualche altra parte, o nei pomeriggi in cui siamo riusciti a rubare qualche ora al lavoro.

Spesso per fare una pellatina siamo partiti da casa con gli sci ai piedi e abbiamo risalito la strada che porta al Ghiacciaio dei Forni, che rimane chiusa l’inverno. Poi ha smesso di nevicare per diverse settimane e la strada è tornata a essere d’asfalto e se volevamo andare su, dovevamo camminare quattro chilometri con gli sci in spalla. L’inverno in Valfurva è un po’ la stagione delle strade - per fortuna chiuse e innevate - perché prima di trovare una parete da sciare devi accollarti chilometri di strada in leggera salita in cui prendi quota lentamente. Noiosamente. Forse è anche questo il motivo per cui raramente abbiamo incontrato qualcuno; perché non tutti hanno voglia - e tempo - di pellare per ore e per chilometri per poi godersi quattro, cinque, nei casi fortunati seicento metri di discesa. Per quanto bella, e polverosa, sia.

Quando la strada dei Forni era asciutta, abbiamo risalito il Gavia, alla ricerca prima di discese sicure e assolate sul versante meridionale, poi di quelle più ripide e buie sul versante Nord. Man mano che le settimane passavano, lo sci è diventato non solo uno strumento di piacere, ma un mezzo per scoprire il posto sconosciuto che stava diventando casa. Sciando siamo entrati dentro lo sconosciuto, e lo abbiamo fatto nostro. E poi si sa, nelle valli strette e ripide solo quando si sale in alto ci si rende conto di dove si è, quasi casualmente, arrivati.

© Eva Toschi

Condividere

In poco tempo Labbaita (come la chiamiamo noi romani) dove siamo andati ad abitare è passata dall’essere la nostra nuova casa a essere uno spazio condiviso con vecchi amici e nuove conoscenze. Il brutto del vivere in un posto così isolato è il dover dimenticare ogni socialità per qualche mese; il bello che tutti gli amici finiscono col venire a trovarti. Alcuni fine settimana eravamo talmente tanti in casa che non si riusciva a trovar posto sopra la stufa per asciugare le pelli e l’aria era talmente umida e calda rispetto all’esterno da appannare i doppi vetri delle finestre. Labbaita ha creato intorno a sé un gruppo eclettico di scialpinisti invernali che per qualche mese ha girato indisturbato per le montagne della valle incontrando solamente branchi di cervi, o di camosci. Con i nostri amici abbiamo continuato a immaginare, creare, a esplorare.

E proprio il non conoscere, il non avere l’occhio allenato, ci ha permesso di fare cose che l’esperienza non ci avrebbe fatto considerare. Abbiamo salito il Canalino San Giacomo mentre nevicava e non si vedeva un accidenti; abbiamo sciato la neve più bella della stagione sulla Ovest della Dorsale dei Forni poco prima del tramonto. Abbiamo mangiato i pizzoccheri allo Stella Alpina alle quattro del pomeriggio e poi siamo scesi brilli sulla strada ghiacciata fidandoci della sola luce delle nostre frontali. Eravamo i local di un posto che conoscevamo appena, ma non per diritto di nascita o per merito: semplicemente perché eravamo gli unici.

Il primo giorno che hanno aperto al traffico la strada dei Forni ero felice di non dover più salire con le pelli fino al rifugio. Dopo un inverno di risalite la conoscevo a memoria e ne avevo la nausea.

Quando sono arrivata al parcheggio e l’ho trovato pieno di macchine, lo stupore iniziale si è presto trasformato in fastidio, poi in rabbia. Non ho provato la stizza umana del non essere più l’unica, ma la rabbia della montagna che viene amata quando è più seducente e abbordabile, abbandonata quando il rapporto con essa richiede un certo impegno. Mi sono abituata ad avere persone in giro e a raggiungere le vette delle montagne dove ci sono croci e macerie. Mi è anche piaciuto. Ma è quell’inverno di ricerca lenta e solitaria, a volte infame e inconcludente, che, alla fine, mi fa restare qui. 

© Elena Adorni

Riscoprire

Labbaita diventa il punto di ritrovo degli amici lontani. Quando è arrivato il secondo inverno che passavo a Santa Caterina ho avuto paura che l’aver perso lo sguardo innocente di chi entra in un posto la prima volta mi avrebbe tolto il piacere delle nostre uscite invernali. Ma non è successo. Lo sguardo si è fatto più aguzzo, il fiuto più fine e i chilometri di risalita inutile che avevamo macinato l’anno scorso ci hanno permesso di andare più lontano, di guardare con più attenzione e scoprire linee che non eravamo riusciti a vedere. Qualcuna l’abbiamo sciata non sapendo se siamo stati i primi, oppure gli ultimi; altre restano sogni e progetti per gli inverni a venire.

Prima che scoppiasse la pandemia abbiamo inaugurato la stagione di scialpinismo primaverile salendo qualche cima dei Forni, non sapendo se eravamo stati i primi, ma scoprendo poi con amarezza che sicuramente eravamo stati gli ultimi. Adesso stiamo occupando il tempo in attesa di un nuovo inverno fra le vecchie cime. Nuovi angoli che si svelano andando un po’ più in là, lontano dallo sguardo di chi guarda in alto con i piedi piantati a fondovalle. Aspettiamo vecchi amici e nuove conoscenze con le quali continuare a osservare le cime con lo sguardo di chi vede casa, per la prima volta.

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La fine è il mio inizio

«Come l’antica arte giapponese del Kintsugi che ripara con polvere d’oro oggetti rotti là dove hanno le crepe più profonde, così la polvere bianca a Limone ha coperto con eleganza i suoi crepacci terrosi. Osservo questa forza silenziosa e non posso non citare che lui: «Il mondo ci spezza tutti quanti, ma solo alcuni diventano più forti là dove sono stati spezzati». Ernest Hemingway (il mio preferito)».

© Daniele Molineris

L’oro bianco, caduto davvero in abbondanza in questo strano inverno su Limone Piemonte, ha davvero coperto le terribili ferite dall’alluvione autunnale, anche se non ha potuto fare nulla contro i lockdown e la pandemia. Per vedere da vicino una Limone diversa Chiara Guglielmina e il fotografo Daniele Molineris hanno messo sci e pelli e radunato una schiera di local nel comprensorio sciistico quanto mai silenzioso. Una gita per entrare nel genius loci, per parlare con i protagonisti, per guardare avanti senza arrendersi. A fare compagnia a Chiara e Daniele la Maestra di sci Sara Tammaro, Andrea Cis Cismondi che, oltre a gestire due rifugi in zona è anche uno dei più apprezzati testatori della nostra Buyer’s Guide, la Guida alpina Alessio Cerrina, Nino Viale, indimenticato autore della prima discesa sul Coolidge al Monviso e gestore dello Chalet Le Marmotte. «Occhi pacati che celano un passato pazzesco gestiscono ora quello Chalet avvolto nel gelo - scrive Chiara -; ma Nino resta ottimista. D’altronde, sto parlando con lo stesso uomo che quando gli dissero, senza indugi, che la sua idea di discesa non era possibile ribatté: «Le cose impossibili si possono anche fare. Altrimenti saranno tali per sempre».

© Daniele Molineris

All’altezza dello Chalet delle Marmotte un piacevole fuori programma. «Non faccio in tempo a capire i fatti che, mentre nella mente ripeto Rocca dell’Abisso... Rocca... Abisso.... appagando anche il mio lato nerd, Cis ha già tolto le pelli e sta serrando con foga i ganci degli scarponi pronto a sverginare quella meraviglia. Macchiando per primo il lenzuolo. Per sua sfortuna noi altri siamo altrettanto rapidi e d’un tratto siamo tutti e quattro pronti: i bastoni impugnati, la mascherina (quella bella) calata. Ooh! Woosh! Wow Pow! Pow! Yeah! sono i suoni che emettiamo: come bestie, sciamo facendo versi. Un vociare disarmonico contrasta le linee eleganti che tracciamo con i piedi e, nel complesso, lo spettacolo è unico. Come con tante delle cose più belle, il piacere tanto atteso è consumato in fretta, ma il ricordo resta. Dopo quindici curve scarse di pura estasi, incolliamo le pelli alle solette finalmente appagate e risaliamo da dove siamo scesi».

Su Skialper 134 di febbraio-marzo un reportage di 19 pagine su Limone Piemonte. Da non perdere. 

© Daniele Molineris