Arrivare

Quando siamo arrivati a Santa Caterina per trasferirci nella casa che avevamo visto solamente in fotografia era già notte. Edoardo aveva guidato senza tregua e io avevo le gambe addormentate per aver tenuto Ombra in braccio per tutto il tempo del viaggio. Nella Fiestina eravamo riusciti a far entrare tutte le nostre cose. Abbiamo dovuto rinunciare a un paio di sci, a due chitarre e a uno spazio sul sedile posteriore per far stendere Ombra. Di certo non era considerabile fra le cose utili ma non indispensabili che ci avrebbero potuto portare più avanti. Era anche per lui che avevo deciso di andare a vivere lì. Sulla strada provinciale che da Bormio porta a Santa Caterina – strada che spesso d’estate viene chiusa per via della frana del Ruinon, isolando così i 200 abitanti del paese – una volta superato Sant’Antonio si inizia ad entrare nell’area più selvaggia della Valfurva. Non c’è più nessuna luce ad illuminare il cammino, se non quella delle stelle che risplendono in lontananza, nel fazzoletto di cielo che i fitti boschi di conifere che vestono entrambi i lati della valle non riescono a coprire. Se si abbassano i finestrini e si mette la faccia fuori nell’aria fredda della notte, l’unico rumore che si sente è il sibilo del fiume che scorre nella direzione opposta. Bisogna guidare piano in questo tratto, pronti a frenare in caso che un cervo attraversi la strada prima di sparire nello stesso buio dal quale è arrivato. Dopo qualche chilometro il cielo si riprende il suo spazio e di fronte agli occhi di chi guida prende forma un’enorme piramide bianca da cui non si riesce più a staccare lo sguardo: è il Pizzo Tresero, la vetta che domina e protegge la valle e che ha la stessa sagoma che tracciamo sul foglio da bambini quando ci viene chiesto di disegnare una montagna. La notte in cui siamo arrivati in Valfurva la luna era già sorta e rifletteva tutta la sua luce sull’immensa parete che ci trovavamo davanti. È strano guidare per centinaia di chilometri fra nebbia e asfalto e poi ritrovarsi di fronte a qualcosa di così grande e vivo. Abbiamo proseguito fino all’indirizzo che ci avevano dato senza riuscire a dire una sola parola; la bocca tirata nel sorriso di chi sente di essere finalmente nel posto giusto.

Quando Edoardo e io abbiamo deciso di passare l’inverno insieme a sciare il più possibile non avevamo idea di dove andare; abbiamo scritto su un foglio di carta il nome di cinque località che, almeno a una prima apparenza, avevano le caratteristiche che secondo noi dovesse avere il posto in cui volevamo trascorrere la stagione. Per prima cosa, volevamo trovarci in un posto dove almeno la quota promettesse neve al momento dell’arrivo di ogni precipitazione. Poi ci interessava stare lontani dal turismo di massa e pagare un affitto ragionevole. Cercavamo un inverno più lungo possibile in cui sciare fino a non poterne più sopportare nemmeno l’idea. Non so perché – forse perché avevamo usato l’ordine alfabetico – ma Santa Caterina era l’ultima della lista. Abbiamo trovato casa quando ormai avevamo perso ogni speranza e, per quanto fosse difficile accorgersene nel caldo di Roma, l’inverno stava già bussando alla porta. Indossavamo ancora i pantaloncini quando abbiamo caricato la macchina di borsoni e speranze e ci siamo messi in viaggio verso Nord. Verso l’inverno. Non avevamo la minima idea di quello verso cui stavamo andando incontro a testa bassa, e senza guardarci indietro.

© Eva Toschi

Scoprire

Nonostante sapessimo che l’inverno ci aveva preceduti di qualche settimana, vederlo e soprattutto sentirlo era tutta un’altra faccenda. Tutto, dalle cime, ai boschi, ai prati per la pastura, era ricoperto di neve. Non avevamo idea di cosa ci fosse sotto quel velo; e a dire la verità nemmeno ci importava. Ci è bastato un giorno per capire che per qualche mese il sole non sarebbe riuscito a superare le montagne di 3.000 e più metri che sovrastano il fondovalle, lasciandoci tra ombra e ghiaccio la maggior parte della giornata. Per cercare il sole, bisognava salire, ma non sapevamo bene dove. Lo scialpinismo in inverno, almeno qui, non è molto considerato. Sarà il freddo, le giornate corte, le crepe del ghiacciaio coperte da uno strato di neve ancora troppo sottile, ma le uniche tracce di salita che si vedono in giro per la valle sono quelle strette e veloci di chi si allena per le gare. Tra queste, abbiamo imparato a riconoscere le tracce di discesa dritte e sicure di Robert Antonioli. Abbiamo scoperto un mondo fatto di risalite in fresca e di discese in pista. Ma non lo abbiamo capito. Così come non abbiamo capito perché nessuno andasse a cercare discese vergini nascoste in quale angolo della valle, lontane dal – seppur relativo – caos del resort. Per noi andare a sciare in quei posti non solo era un desiderio, ma una necessità. Avevo deciso di non prendere gli impianti per tutto l’inverno, per cui se avessi voluto sciare avrei dovuto faticare. Ma a me andava bene, così come a Edoardo e, soprattutto, a Ombra, che nonostante avesse visto la neve per la prima volta, sembrava essere nato per venire insieme a noi in 30 centimetri di neve fresca. E poi per cercare qualche raggio di sole dovevamo salire. La prima volta che abbiamo messo le pelli non avevamo idea di dove andare, così siamo saliti sulle piste ancora chiuse seguendo i piloni della funivia. Quel giorno ho visto un ermellino bianco sbucare dalla neve e correre via. Quando è iniziata la stagione e il selvaggio è diventato battuto non ne ho più visto uno.

Non riuscendo a reperire un granché di informazioni su gite fattibili in inverno, abbiamo iniziato a seguire i nostri occhi e il nostro naso. Andavamo alla scoperta, indicando un punto e dicendo all’altro che ne dici se saliamo di qua?. Ci sono state volte in cui i nostri occhi ci hanno tradito; altre in cui abbiamo sciato la neve che avevamo annusato dal basso, altre ancora in cui, una volta arrivati dove volevamo, abbiamo scoperto che dietro l’angolo era ancora più bello. Il posto che in assoluto ci ha regalato le discese più belle di inizio inverno è stato il Dosso Tresero: il colle sotto la cima che ci aveva fatto sognare la notte in cui siamo arrivati e, prendendo gli ultimi raggi di sole, ci ha fatto scoprire cosa significa sciare la luce. Certo, non direi che è fra le perle nascoste della valle, ma il Dosso è stata la nostra ancora di salvezza nelle giornate in cui era troppo pericoloso andare da qualche altra parte, o nei pomeriggi in cui siamo riusciti a rubare qualche ora al lavoro.

Spesso per fare una pellatina siamo partiti da casa con gli sci ai piedi e abbiamo risalito la strada che porta al Ghiacciaio dei Forni, che rimane chiusa l’inverno. Poi ha smesso di nevicare per diverse settimane e la strada è tornata a essere d’asfalto e se volevamo andare su, dovevamo camminare quattro chilometri con gli sci in spalla. L’inverno in Valfurva è un po’ la stagione delle strade – per fortuna chiuse e innevate – perché prima di trovare una parete da sciare devi accollarti chilometri di strada in leggera salita in cui prendi quota lentamente. Noiosamente. Forse è anche questo il motivo per cui raramente abbiamo incontrato qualcuno; perché non tutti hanno voglia – e tempo – di pellare per ore e per chilometri per poi godersi quattro, cinque, nei casi fortunati seicento metri di discesa. Per quanto bella, e polverosa, sia.

Quando la strada dei Forni era asciutta, abbiamo risalito il Gavia, alla ricerca prima di discese sicure e assolate sul versante meridionale, poi di quelle più ripide e buie sul versante Nord. Man mano che le settimane passavano, lo sci è diventato non solo uno strumento di piacere, ma un mezzo per scoprire il posto sconosciuto che stava diventando casa. Sciando siamo entrati dentro lo sconosciuto, e lo abbiamo fatto nostro. E poi si sa, nelle valli strette e ripide solo quando si sale in alto ci si rende conto di dove si è, quasi casualmente, arrivati.

© Eva Toschi

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In poco tempo Labbaita (come la chiamiamo noi romani) dove siamo andati ad abitare è passata dall’essere la nostra nuova casa a essere uno spazio condiviso con vecchi amici e nuove conoscenze. Il brutto del vivere in un posto così isolato è il dover dimenticare ogni socialità per qualche mese; il bello che tutti gli amici finiscono col venire a trovarti. Alcuni fine settimana eravamo talmente tanti in casa che non si riusciva a trovar posto sopra la stufa per asciugare le pelli e l’aria era talmente umida e calda rispetto all’esterno da appannare i doppi vetri delle finestre. Labbaita ha creato intorno a sé un gruppo eclettico di scialpinisti invernali che per qualche mese ha girato indisturbato per le montagne della valle incontrando solamente branchi di cervi, o di camosci. Con i nostri amici abbiamo continuato a immaginare, creare, a esplorare.

E proprio il non conoscere, il non avere l’occhio allenato, ci ha permesso di fare cose che l’esperienza non ci avrebbe fatto considerare. Abbiamo salito il Canalino San Giacomo mentre nevicava e non si vedeva un accidenti; abbiamo sciato la neve più bella della stagione sulla Ovest della Dorsale dei Forni poco prima del tramonto. Abbiamo mangiato i pizzoccheri allo Stella Alpina alle quattro del pomeriggio e poi siamo scesi brilli sulla strada ghiacciata fidandoci della sola luce delle nostre frontali. Eravamo i local di un posto che conoscevamo appena, ma non per diritto di nascita o per merito: semplicemente perché eravamo gli unici.

Il primo giorno che hanno aperto al traffico la strada dei Forni ero felice di non dover più salire con le pelli fino al rifugio. Dopo un inverno di risalite la conoscevo a memoria e ne avevo la nausea.

Quando sono arrivata al parcheggio e l’ho trovato pieno di macchine, lo stupore iniziale si è presto trasformato in fastidio, poi in rabbia. Non ho provato la stizza umana del non essere più l’unica, ma la rabbia della montagna che viene amata quando è più seducente e abbordabile, abbandonata quando il rapporto con essa richiede un certo impegno. Mi sono abituata ad avere persone in giro e a raggiungere le vette delle montagne dove ci sono croci e macerie. Mi è anche piaciuto. Ma è quell’inverno di ricerca lenta e solitaria, a volte infame e inconcludente, che, alla fine, mi fa restare qui. 

© Elena Adorni

Riscoprire

Labbaita diventa il punto di ritrovo degli amici lontani. Quando è arrivato il secondo inverno che passavo a Santa Caterina ho avuto paura che l’aver perso lo sguardo innocente di chi entra in un posto la prima volta mi avrebbe tolto il piacere delle nostre uscite invernali. Ma non è successo. Lo sguardo si è fatto più aguzzo, il fiuto più fine e i chilometri di risalita inutile che avevamo macinato l’anno scorso ci hanno permesso di andare più lontano, di guardare con più attenzione e scoprire linee che non eravamo riusciti a vedere. Qualcuna l’abbiamo sciata non sapendo se siamo stati i primi, oppure gli ultimi; altre restano sogni e progetti per gli inverni a venire.

Prima che scoppiasse la pandemia abbiamo inaugurato la stagione di scialpinismo primaverile salendo qualche cima dei Forni, non sapendo se eravamo stati i primi, ma scoprendo poi con amarezza che sicuramente eravamo stati gli ultimi. Adesso stiamo occupando il tempo in attesa di un nuovo inverno fra le vecchie cime. Nuovi angoli che si svelano andando un po’ più in là, lontano dallo sguardo di chi guarda in alto con i piedi piantati a fondovalle. Aspettiamo vecchi amici e nuove conoscenze con le quali continuare a osservare le cime con lo sguardo di chi vede casa, per la prima volta.

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