Sulle montagne che fronteggiano Leukerbad la neve si è coricata a cumuli. Ne è scesa tanta, per giorni, senza scegliere il suo dove. Ora ricopre ogni cosa. Ed è questione di metri tradursi in un gioco o in un pericolo, anche se lei a queste cose non ha il tempo di pensare. La mano che bussa al mio van infreddolito è decisa. Non mi lascia il tempo di aprire che già l’ordine mi investe. Go a-w-a-y. Sillabico, glaciale, senza nemmeno lo spazio per un punto esclamativo. In pochi minuti bisogna uscire, non c’è tempo da perdere. Sulla parete alle nostre spalle il sottile confine fra gioco e pericolo oscilla con il pendolo di una daisybell. E ora la neve caduta senza badare al dove fa i conti con un’esplosione che potrebbe finirci sulla testa. Forse seppellirci. Insomma, correre al meeting point per metterci in sicurezza è l’ordine teutonico da rispettare. Dobbiamo lasciare tutto e allontanarci. Cinque minuti di tempo, ma è una scelta che non riesco a fare. Incosciente, forse, ma quel che abbandono non è solo una carrozzeria su quattro gomme. È la mia casa. Per di più, nuova di pacca.

Un van è come un figlio. Quando lo scegli, lo vivi fino in fondo. Non è il tuo mezzo di trasporto, non è il tuo status symbol. Non è solo il viaggio alternativo. È ciò che ti rappresenta. E contiene te stesso. Lasciarlo lì, a un ignoto destino esplosivo, è dura quanto lasciarci il cuore. Vorresti scappare ma anche no. Obbedire agli ordini, ma salvare anche il tuo tutto. Cinque minuti di tempo, ma non è facile. Ci penso più del dovuto, i solleciti mi incalzano, poi la scelta si esaurisce. Si incrociano le dita, e si va. Mentre ti volti a guardarlo, capisci quale sia la prima cosa che impari quando giri il tuo piccolo mondo su quattro ruote. Il tuo mezzo è tutto. È casa. E quando il fine è lieto come lì a Leukerbad, dove la neve sceglie di vomitare la sua cascata lontano dal tuo pensiero, è come se a scampare il pericolo fossi tu. Se oggi mia nonna mi vedesse vagare per mare e monti a bordo di una scatola mobile, lo so cosa direbbe. Che sono una singra. Una zingara. Ai suoi tempi solo il matto del villaggio non le avrebbe dato ragione. Sarebbe dura farle capire che io in quel contenitore ambulante oggi ho tutto quello che lei considerava prezioso della sua casa solida in muratura. Un bagno, l’acqua calda che scorre, un letto, un fornello e un piccolo spazio tutto mio. Non ci crederebbe mai, che in meno di dieci metri quadri posso vivere. E non sentire la mancanza di niente. Tanta gente non ci crede ancora oggi. Non posso biasimare nessuno. Comprendere un diverso stile di vita e di viaggio, apparentemente scomodo e macchinoso, non è facile. Potrei dire che serve provare, ma le complicazioni logistiche rischierebbero di scoraggiare le buone intenzioni. Allora posso solo dire che bisogna crederci. Nella consapevolezza, fin da principio, che di queste vite ci sono tante declinazioni, non tutte ugualmente ostiche. E che comunque, mi scuso per il qualunquismo, non sono a priori cose per tutti.

Io ci sono ormai dentro fino al collo. E in quest’annata assurda flagellata da un minuscolo ma immane virus, so che la mia scelta diventerà quella di tanti. Sempre di più, in un mondo che già da anni si stava moltiplicando. Vivere l’inverno sportivo a bordo di un van, o se volete furgone, che poi la sostanza è sempre quella, vuol dire trovare non la strada giusta, ma la strada furba. Quella che permette di unire tutti i puntini del disegno immaginario: senso di evasione, spirito d’avventura, autodeterminazione, mancanza di vincoli. E – voilà la novità – totale distanziamento sociale, che detto così pare brutto. Ma in fondo è quel che questo mondo strano e folle oggi ci chiede, senza tanti complimenti. La moda la chiama vanlife, vita in van, e gli Stati Uniti ci marciano su ormai da anni. Modaioli, fighi, assuefatti a Instagram all’ennesima potenza, i suoi volti sono storie da copertina patinata. Figli del mondo surfer che nelle spiagge californiane offrono giacigli da sogno per i loro nostalgici Volkswagen serie T, sono la fotografia di un senso hippie vestito di modernità. Nelle traduzioni invernali, ancor più accentuato: braga molla e buriola fashion, prende la forma dei freeskier stile Teton Gravity, perennemente innamorati dei monovolume del Volk. Del popolo. Ma da 50.000 euro a colpo, parola di listino.

© Federico Ravassard

La complessità di questo variegato mondo parte da qui. Nella coesistenza fra una tribù nostalgica ed essenziale, affezionata ai vecchi furgoni paffuti da Era dell’Acquario, e un mondo alternativo ma comunque borghese. Ricercatore di un’estetica nuova, ispirata a un bisogno di libertà che è figlio dell’abbondanza e di una voglia di fuga dal troppo. E che si alimenta di soluzioni apparentemente freak, ma sostanzialmente consapevoli, spesso costose. Questa superficiale contraddizione nasconde in realtà una coerenza ineffabile ai più, tanto da diventare spesso fonte di diffidenze. Spirito selvaggio e mezzi di ultima generazione sono in effetti le due facce di una sola ricerca estetica, che vuole mantenere il suo fondamento filosofico ma allo stesso tempo essere all’altezza delle esigenze di comfort e vivibilità, soprattutto d’inverno. Si tratta comunque di un punto di arrivo, questo va detto. Io oggi, forse presuntuosamente, mi annovero con il mio compagno nel grande popolo dei vanlifer, peraltro non permanente, ma a questo risultato siamo approdati solo al termine di un lungo percorso. Nel 2018, anno del nostro personale apice, abbiamo trascorso nove mesi su dodici sul nostro furgone camperizzato (battezzato Thor per una smodata passione per il Nord e per un certo bisogno di ingraziarci i voleri degli dei norrøni), ma più di vent’anni fa lo spirito wild già reclamava la sua parte.

Erano i tempi della combo tenda-macchina, un classico da età studentesca ma troppo poco per affrontare avventure sempre più intense nella natura. E allora, via di furgone allestito un po’ così: due sacchi a pelo buttati sul cassone in legno, zaini sotto la testa e chilometri a gogò. In pancia, paste alla carbonara e zuppe liofilizzate da cuocere sul micro camping gas. Vien da sé che non erano ere di pesanti trasferte invernali, salvo mettere in conto il rischio ibernazione. A quelle siamo arrivati con il tempo, buttando gli sci nel Range Rover preparato da offroad spinto e tuffandoci a fine giornata nel materasso morbido della Maggiolina (la mitica tenda da tetto) montata sulle barre portatutto. Una vita facile? No. Poetica sì. Romantica anche. Ma semplice no. La grande intuizione della tenda da tetto apribile vive nella sua praticità: avere una simil-camera da letto sempre a disposizione, ovunque si vada, è cosa che sa di rivoluzionario. Ma farci vita invernale in modo confortevole, mi scusino gli appassionati del genere, anche no. Serve posizionare il kit apposito, un telo esterno dotato di isolante, dotarsi di sacchi a pelo simil-himalayani e sperare in temperature clementi. Soluzioni fai da te per posizionare riscaldatori a 12 volt, riscaldatori Webasto con prolunghe e stufette a gas rientrano più nella letteratura degli sperimentatori che nella realtà delle cose. Ma tutto (non parliamo poi con un generatore esterno del quale bisogna solo sopportare il rumore) si può fare, ragionando in modalità homemade.

Restano comunque validi gli svantaggi evidenti della soluzione Maggiolina winter-mode, che richiede sempre il trasporto di una scala telescopica e che non offre spazi living coperti. Piove? Nevica? Per passare dalla tenda all’auto serve comunque esporsi alle intemperie. E per i pasti, chiudersi nel baule a costo di contorsioni. Sorvolando, grazie al buon cuore della natura, sulla parentesi wc. Su quest’ultimo, e non proprio secondario, dettaglio il nostro percorso a tappe ha fatto sosta nel periodo del furgone camperizzato fai-da-te. Sospinti dalla voglia di comfort, la soluzione outdoor dei nostri anni di mezzo ha preso le sembianze di un Renault Master color fuoco, allestito in modo artigianale con un letto quasi-matrimoniale sul retro. Doghe simil-bancale modellate dal falegname di fiducia sorreggevano un materasso su misura ogni weekend dell’anno, dal venerdì sera alla domenica. Poi tutto spariva per far posto ai carichi da lavoro, secondo l’uso conforme del mezzo. Per il caldo nessun passo avanti rispetto alla soluzione Maggiolina, essendo un autocarro privo di riscaldamento sul retro. Ma per il wc, entusiasmo a mille: erano i tempi del portapotty, piccolo water da barca che poteva essere comodamente sfruttato anche nella solitudine buia del cassone, sigillati ermeticamente dal mondo esterno. Sciacquone a pompetta manuale, disgregante miracoloso contro ogni tipo di produzione, e la sacra funzione sempre espletata al cospetto del cielo è così diventata un gesto privato e borghese. Anche nella rustica atmosfera del nostro arancio-van.

C’è una tribù, nel mondo furgonato, che esula da ragionamenti collettivi. Sono i VW-addicted. I fan dei furgoni Volkswagen, refrattari ad evoluzioni camperistiche e a concessioni a marchi alternativi. Fra i freeskier e gli skialper è una delle soluzioni più diffuse e amate, molto freak ma anche molto pratica. Dal Multivan al California, versione Westfalia o con letto smontabile, per loro il van è un’auto di uso quotidiano ma anche una casa mobile. Non comoda come un camper, ma agile come un mezzo compatto. È una firma sulla neve, un marchio che designa senza esitazioni l’appartenenza a una community. E soprattutto, è una scelta equipaggiata per affrontare anche le condizioni più fredde: merito di una semplice batteria servizi, che può allo stesso tempo alimentare luci, un eventuale frigo e la ventola di un Webasto.

Eccola, la parola magica. Webasto, l’irrinunciabile, la variabile tra freddo e caldo. La fonte di vivibilità nei giorni delle sciate invernali. Un bruciatore alimentato dal gasolio del serbatoio, una ventola spinta dalla corrente, bocchettoni di calore interni: la semplice formula di questo strumento, chiamato così in onore del brand più noto ma ricco di varianti, è la carta che lo rende vincente. Perché con un consumo tutto sommato economico garantisce la cosa più preziosa di cui un vanlifer, soprattutto invernale, ha bisogno: il calore.

© Federico Ravassard

È stata quella volta al Monginevro, in una gelida serata di neve, che anche noi abbiamo compreso l’importanza di quel che normalmente è scontato. Avevamo da poco Thor, furgonato puro su Citroen Jumper, ultimo step del nostro climax di mezzi outdoor, quando il caldo all’improvviso ci ha abbandonati. Era la fine di una giornata di fantastico sci fuoripista. E non ci sono volute molte ore perché il gelo artigliasse ogni cosa.

Sapete cosa accade quando in un camper la temperatura scende sotto i 5 o 6 gradi? Una valvola chiamata Elasi si apre e il centinaio di litri di acqua contenuta nella grande vasca che alimenta gli impianti idraulici viene riversato a terra. Non è un dispetto del diavolo. È un accorgimento di sicurezza, per evitare che i tubi possano congelare e rompersi, provocando danni di entità improponibili. A quel tempo noi allietavamo il nostro nuovo van con il riscaldamento a gasolio, ma il timer che avevamo impostato, quel giorno non è scattato. L’alternativa di cui disponevamo, una stufa a gas chiamata Truma che tendevamo a trascurare per il consumo eccessivo di bombole che imponeva, non era allertata. E così, durante la nostra assenza sciistica, il termometro è sceso. Fino a sbloccare la ghigliottina delle acque. Lasciandoci al freddo e a bocca asciutta.

Viaggiare, e passare del tempo, su un van d’inverno richiede una certa attitudine allo sgamo. Bisogna essere svegli e imparare i trucchi che possono salvare le penne e il portafogli. Capire perché quella volta al Monginevro il Webasto non si fosse innescato, cosa che può accadere a chiunque, è stato un esercizio teorico e scientifico che ha richiesto tempo al mio compagno. Ma alla fine la soluzione è arrivata. E sta nella legge che in Europa impone la presenza di una percentuale di biodiesel, ovvero di olio vegetale, nel gasolio. A temperature molto basse, la paraffina contenuta nel diesel congela, questo si sa. E questo è il motivo per cui noi avevamo messo l’apposito additivo: quel che non sapevamo è che anche il biodiesel tende a diventare gelatinoso. E che nei piccoli tubi del Webasto ne bastava davvero poco perché il filtro si intasasse. Da allora, svelato l’arcano, ad ogni pieno invernale uniamo un antialghe per evitare l’inconveniente. E ci sacrifichiamo a spendere di più per usare solo il diesel migliore, che con meno zolfo tende a risparmiare altri guai.

Se a questo punto pensate che gestire un van, soprattutto al freddo, sia cosa da meccanici specializzati, sappiate che avete ragione. Anche io nel tempo ho imparato cose che voi umani nemmeno potete immaginare. Ho imparato ad esempio che sono meglio le gomme termiche delle quattro stagioni e che bisogna sempre avere con sé due paia di catene, da posizionare davanti e dietro, perché su mezzi così pesanti le discese e le curve possono diventare anche molto critiche. Ho imparato che due batterie servizi sono il minimo sindacale, perché il riscaldamento a gasolio va sempre lasciato acceso basso, accettando che ciucci elettricità come certi ciucciano tracce a tradimento. Ho imparato che i pannelli solari sono irrinunciabili per sostare in libera. Per caricarsi devono ricevere i raggi in modo perpendicolare, quindi tutto va ben calcolato, soprattutto se sono montati su un tetto a soffietto. E devono essere tenuti puliti, magari spazzolati con una scopa telescopica se ha nevicato. E se fa brutto per giorni, devono essere rimpiazzati con un’alternativa, perché al frigo e al Webasto non importa da dove arrivi la corrente: una colonnina, un piccolo generatore, alla peggio il motore acceso. Ma qualcosa va studiato. Ho imparato che ingegnarsi per trovare soluzioni innovative e intelligenti è divertente, oltre che utile. Un esempio? Un colpo di genio, e il mio compagno ha trasformato il portabici in un portasci verticale sul retro del van. Doppia resa, mezza spesa. E ho imparato anche che nei casi estremi, quando il pilota è anche un viaggiatore invernale di quelli duri e puri, bisogna investire per dotare il van delle soluzioni giuste. Assetto 4×4, gomme chiodate e thermotop, ovvero il kit per tenere caldo il motore. Il mio amico Elia Bertozzi, che si è sparato un viaggio invernale in solitaria nella Lapponia finlandese sul suo James Cook del 1997, era perfettamente equipaggiato. Eppure in un giorno di tormenta a -34 gradi si è ritrovato per ore prigioniero del suo van, con i portelloni ghiacciati che non si aprivano più. E ha dovuto inventarsi la vita per tenere calda la meccanica contro la ferocia del vento artico.

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Le soluzioni da rivista di design? Quelle che scintillano nelle fotografie di Instagram al suono dell’hashtag vanlife? Interni in perline, arredi da baita luxury, stufa a legna: quelle restano idee estetiche più che pratiche. Bellissime, ma non esattamente efficienti. Pensate solo alla stufa a legna, d’inverno. Girando in libera, magari sotto la neve, dove procacciarsi ciocchi secchi? Meglio portarli da casa, direte voi. Ok, ma quanti? Si rischia di riempire il gavone solo con quelli. E durante il giorno, mentre siete intenti a godervi la vostra lunga scialpinistica, come tenere caldo il van per evitare che le acque si scarichino? O più banalmente, che tutto congeli? La stufa va alimentata, non vive di vita propria. E se non amate il profumo della caligine, sappiate che non è comunque cosa che fa per voi. Oltre a questo mare magnum di insegnamenti in continua evoluzione, il van mi ha regalato anche qualcosa di diverso. Ed è forse la cosa più importante. Obbligandomi a guardare la vita da uno spazio minimale poggiato su quattro ruote, mi ha costretta a rivedere gesti normali. E a dare una nuova visione a tutto quello che sembra banale. Parcheggiare è la cosa più normale del mondo. Un gesto che compiamo tutti migliaia di volte. Ma pensate di dover badare alle inclinazioni, a far sì che la posizione della testa sia più alta dei piedi, che non ci siano piani obliqui che impedirebbero di lavorare e cucinare.

Tutto diventa più complesso. Bisogna pensarci su. A Rothwald, anni fa, abbiamo fatto l’errore di posizionarci proprio a bordo strada, in una bella serata di neve fitta. Niente di più stupido: al mattino lo spazzaneve ci aveva impalato un metro e mezzo di calcestruzzo sulla porta. Uscire è stata un’impresa da titani… e spalare via per ore la colata lavica ormai marmorizzata, beh, una figata proprio. Ma chi ci avrebbe mai pensato? Pensate invece alla doccia. Forse riderete, ma farla sul van d’inverno è qualcosa che va pianificato e attuato con perizia. Bisogna accendere per tempo il boiler, tenendo presente che i litri d’acqua che si scaldano – almeno nel nostro caso – sono una decina in tutto. Bisogna esser certi di aver parcheggiato in piano, o al più in discesa nella direzione dello scarico, per evitare allagamenti interni che sarebbe difficile risolvere. Bisogna allargare con cura la tenda impermeabile, per far sì che gli interni del bagno, le guarnizioni e i bocchettoni del riscaldamento non prendano acqua inutilmente. Bisogna essere capaci di lavarsi in fretta per non sprecare acqua preziosa, chiudendo il getto quando ci si insapona e limitando al minimo i canti spensierati sotto la cascata bollente. Bisogna poi asciugarsi senza bagnare troppo in giro, e a operazione conclusa ripulire tutto quanto al meglio. Magari sfruttando il riscaldamento del bagno per togliere acqua dalla tenda.

E, last but not least, specie per noi donne, bisogna tenere presente che poter usare un phon non è cosa così scontata. Io, ad esempio, non posso usare il mio sul van: l’inverter che abbiamo fatto montare porta corrente a 220V solo fino a 600 watt, il che significa che il mio MacBook gode, ma i miei capelli piangono. Soprattutto ora che sono di nuovo lunghi. Dovrei dotarmi di un phon a potenza inferiore, ma ci impiegherei forse un quadriennio a farmi la piega. E allora, meglio evitare di lavarli d’inverno, se fa molto freddo e non si ha modo di accedere a un bagno con una presa vera. Consiglio che sembrerà poco chic, ma che è comunque molto concreto. Caricare e scaricare le acque e il wc resta un’altra questione mica da ridere. D’inverno, quando tante strutture sono chiuse, è importante essere informati fin dalla partenza sui punti nei quali è possibile farlo. La Svizzera, in cui io ho viaggiato al freddo, ad esempio, non è esattamente camper-friendly. E oltre a essere un susseguirsi di divieti di sosta libera, obbligando spesso a posizionarsi in modo illegittimo o a optare per un camping, è anche poco dotata di servizi discharge&refill. Oggi le app vengono incontro bene a queste problematiche, consigliano aree, indicano dove trovare appoggio. Quel che ancora nessuno sa fare, e forse saprà fare mai, è dare indicazioni su come affrontare psicologicamente tutto questo. Dalla prima all’ultima riga che finora avete letto. Quando mi capita di fare serate con il mio compagno per raccontare alla gente la bellezza della vanlife, a volte concludo leggendo un testo che ho scritto tempo fa. Quel testo, a un certo punto, suona così: sono le parole con cui riaccendo il mio Thor e mi rimetto in partenza, verso una nuova avventura.

Viaggiando ho capito che quello che ti serve per vivere può stare in quattro metri quadri. E probabilmente avanzi ancora spazio. Puoi anche avere i tuoi hobby, portarti dietro le tue attrezzature, ma più di un armadietto non c’è bisogno per infilare te stesso. E se hai un frigorifero, anche piccolo piccolo, e un bagnetto grande come una cabina telefonica, allora quella in cui ti trovi puoi considerarla tranquillamente una casa. Viaggiando ho capito che non è facile viaggiare. Che se sei su un van, non puoi prendere le cose alla leggera. Che l’epoca degli hippy era bella. Ma non portava a nulla se non alla pace di quel momento. Ho capito che devi fare le pulizie come se fossi a casa, forse ancora più spesso. Che devi rifare il letto ogni mattina perché altrimenti sarebbe solo un gran casino. Che quando fai la doccia devi avere la tanica dell’acqua piena. Devi asciugare tutto alla perfezione se non vuoi vivere nell’umidità. E devi rimettere via le cose con precisione, perché se no rischieresti di non girarti più. Ho capito anche che se viaggi a lungo, devi avere persone a casa che ti capiscono e a cui puoi sempre guardare. E devi avere un buon compagno. Uno con cui ti capisci al volo. Che sa fino a dove arrivi tu, e tu sai dove arriva lui. Uno su cui puoi contare. Che sa cosa fare se succede qualcosa, specie se sei un po’ svanita come me. Ma anche che apprezza il tuo essere un giorno qua e un giorno là, sempre in viaggio con la tua mente, perché considera questo il bello di te. Viaggiando ho capito che ci vuole coraggio a partire. Se vuoi, anche follia. Ma c’è una cosa che, più di tutte, devi avere per andare davvero. La curiosità di sapere che cosa ci sia là fuori. Perché solo una volta che conosci, puoi davvero fartene un parere. E quindi parlare. O magari, questo potrai valutarlo solo tu, startene completamente zitto.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 132

© Federico Ravassard