Il silenzio dell’oblio 

Il primo approccio di Tom all’arrampicata avvenne nel 1993, a cinque anni, alle Calanques in Francia su una semplice via di calcare; anche Gaston Rébuffat aveva mosso i primi passi nell’arrampicata proprio lì. Alison pensava che Tom fosse ancora troppo piccolo per arrampicare, ma appena si allontanò per qualche attimo Tom chiese al padre di farlo provare e Jim acconsentì. Tom salì a piedi nudi sulla placca, una visione che lasciò alquanto sbalordita Alison al ritorno. Tom era stato un bambino molto precoce; all’età di 8 o 9 anni, durante una mattinata di arrampicata con il padre, dopo aver salito un tiro, Jim propose a Tom di farne un altro, indicandolo con il dito e il figlio gli rispose candida- mente di averlo già scalato da solo qualche giorno prima. Studente svogliato, frequentò la scuola solo saltuaria- mente a partire dai 14 anni, prediligendo l’andare a sciare con buone condizioni di neve e divertendosi ad arrampicare nelle giornate di arietta frizzante; amava molto anche la libertà che il bouldering gli concedeva: poteva prendere il suo materasso e andare in giro ad arrampicare, senza bisogno di cercarsi un compagno. 

Fra il 2002 e il 2007 Ballard completò più di 1.000 vie di boulder in Scozia, dedicandosi alla ricerca di nuove vie, alla loro pulizia e anche alla promozione delle stesse, realizzando una piccola guida di quelle della zona di Glen Nevis. Nonostante fosse un curioso e avido lettore, in particolare di libri collegati al mondo dell’arrampicata e dell’alpinismo, Tom non amava frequentare la scuola; la sorella Kate lo ricorda così: «Era sempre fuori casa a esplorare. Era tranquillo, serio in ciò che faceva, ma era anche un ragazzo molto divertente, con un temperamento da bambino». Questa serietà, fin dalla più tenera età, rappresentava uno degli aspetti salienti del carattere di Tom e l’aggettivo tranquillo è una definizione che ricorre spesso nelle conversazioni che lo riguardano. «Tranquillo e solido… è stupefacente quanto fosse tranquillo Tom, anche da bambino: nessun capriccio o pianto, neppure di notte» racconta Jim. Marcin Tomaszewski, compagno di Ballard nel 2017 nell’apertura sull’Eiger della nuova via Titanic (M5 5.10c A3 W14 – N.d.T.: 6b+), vicino a Solitaire e Seven Pillars, lo ricorda così: 

«Tom era un ragazzo tranquillo; non parlava molto, ma le sue imprese parlavano per lui. Aveva moltissima energia: sembrava un vulcano prima dell’eruzione. Era paziente ma al tempo stesso aveva continuamente bisogno di tenersi in azione. Era difficile conoscerlo intimamente, ciò che avvertivo in lui era un sottofondo di tristezza». 

Marco Berti, alpinista di lunga data, amico di Ballard, attribuisce il velo di tristezza, percepito anche da lui in Tom, alla sua infanzia e al trauma subito per la perdita della madre. «Era come se Tom fuggisse da qualcosa ricercando una solitudine, a cui si era abituato fin da piccolo, e che negli anni successivi aveva apprezzato e considerato come la miglior cordata per le sue imprese alpinistiche». Oppure possiamo pensare che Tom, come scrive per se stesso Rébuffat in Starlight and Storm, «sulle montagne si sentisse circondato dal silenzio dell’oblio». 

Alla ricerca della forza 

Dopo i primi successi sull’Eiger con Solitaire e Seven Pillars, Ballard elesse le Alpi a suo terreno di gioco preferito; rimase a Grindelwald con il padre e la sorella per tre anni, ripetendo altre classiche della zona o portando a termine nuove linee sull’Eiger, come Mittellegi Route e Southwest Flank. Nel 2012 Tom e il padre decisero che era giunto il momento di ripartire ed elessero nuovamente a casa il loro furgone; Kate questa volta non andò con loro: aveva imparato a sufficienza il tedesco per poter lavorare come istruttrice di snowboard. 

Nel corso dei quattro anni successivi viaggiarono per tutta l’Europa: Francia, Austria, Svizzera, Germania, ma il luogo dove trascorsero la maggior parte del tempo furono le Dolomiti. Le Dolomiti, che si elevano come minareti in mezzo a verdi colline punteggiate in primavera da milioni di ranuncoli gialli, sembrano essere fatte apposta per offrire all’alpinista, affamato di imprese, l’occasione per lasciare il segno. Ma la roccia friabile – per i pretendenti che la esaminino con occhio più attento – può rappresentare un buon deterrente. Non per Tom Ballard. Tom arrampicò in lungo e in largo per tutta la Val di Fassa, portando a termine un numero incredibile di vie: non tenne mai un elenco di tutte quelle ultimate, ma se lo avesse fatto sarebbe stato indubbiamente sbalorditivo. Dopo la prima estate trascorsa sulle Dolomiti, Luisa Iovane – nel 1986 la prima donna a scalare un 5.13b (N.d.T.: 8a/8a+) – gli domandò quante grandi vie alpine avesse scalato quell’estate e Tom, candidamente, rispose sessanta. «Un’estate di arrampicate per te Tom è come una vita di scalate per tutti gli altri» fu la risposta della Iovane. Nel 2014 scalò la bellezza di 200 vie in Dolomiti, senza contare quelle portate a termine nel resto d’Europa e ne salì centinaia di altre negli anni successivi; oltre la metà delle sue imprese avvennero in free solo. 

Ma nonostante un curriculum alpinistico probabilmente senza pari, Ballard non assurse mai agli onori delle cronache e rimase una figura pochissimo nota nel mondo dell’alpinismo. Heinz Mariacher, storico disegnatore delle scarpette d’arrampicata La Sportiva e in anni più recenti Scarpa, conosceva molto bene Ballard; nel confermare molte delle imprese portate a termine da Tom, Mariacher fornisce anche una spiegazione per la mancanza di attenzione mediatica sulle sue imprese: «Completò molte vie in solitaria nelle Dolomiti, ma si trattava spesso di vie pressoché sconosciute. Per attirare l’attenzione dei media servono le imprese su quelle più note.Tom aveva salito vie pazzesche in zone sperdute delle Dolomiti, su pareti di gran lunga meno famose delle Tre Cime, ma alcune di esse molto più dure e rischiose». Il percorso di crescita alpinistica di Ballard comprese anche il dry-tooling, una tecnica che gli era sempre piaciuta molto. Nell’estate del 2012 completò la seconda salita di quella che viene considerata la più dura via di dry-tooling al mondo: Ironman, un D14+ chiuso nei mesi precedenti a Eptingen, in Svizzera, dal climber tedesco Robert Jasper. Ballard era straordinariamente forte sui tetti: «Tom aveva spalle e core talmente potenti che durante la scalata tutto era perfettamente sotto controllo» ricorda il suo amico Liam Foster, noto alpinista americano. Evitava l’uso della Yaniro – una gamba incastrata sopra un braccio per farla riposare – non per ragioni filosofiche, ma perché la sua conformazione era più adatta alla potenza pura. Il dry-tooling però non rappresentava un traguardo per Tom: 

«Era prima di tutto un alpinista» racconta Jasper «e interpretava il dry-tooling come un allenamento per le imprese in montagna». 

Tom Ballard in Val di Fassa e, a destra, in dry- tooling sulla falesia del Bus del Quai, nei pressi del lago d’Iseo © Rugero Arena

Starlight and Storm 

A partire dal 2015 Tom e Jim si stabiliscono a tempo pieno in Val di Fassa; vivono in un campeggio, al cui interno allestiscono il loro piccolo villaggio. Hanno una tenda comune: un telone verde militare che ricopre una struttura in legno e metallo, bidoni blu, cartoni di latte, contenitori per il cibo e per il materiale d’arrampicata accatastati qua e là; un tavolo pieghevole e sedie da campeggio come unica mobilia. Jim dorme nella tenda più grande, Tom in una tendina tre posti o direttamente sul furgone. Un filo di bandiere tibetane sventola sopra a tutto. La pensione di Jim basta a entrambi per vivere; non hanno bisogno di molto: cibo, gas e l’attrezzatura per le imprese di Tom sono sufficienti. Il materiale di Tom per l’arrampicata è decisamente datato: porta a termine le sue imprese con eccentrici e friend di prima generazione; mette sempre un berretto rosso di Ferrino e utilizza chiodi da roccia fatti a mano da Jim. Per un lungo periodo aveva addirittura usato le piccozze della madre. Fino a quel momento le imprese di Tom non avevano suscitato grande attenzione: «Voleva mantenere un profilo basso» racconta Jim; ma a un certo punto decide che è giunto il momento di andare alla ricerca di sponsor per finanziare i suoi progetti più ambiziosi. Ha un’idea in mente: salire in solitaria tutte le sei grandi pareti Nord delle Alpi durante la stagione invernale; impresa che rappresenterebbe non solo una reinterpretazione di quanto fatto da Alison, ma il suo superamento. «Pensavo che sarebbe stato impossibile» ricorda Jim, ma Tom decide di provarci e ribattezza il progetto Starlight and Storm, un chiaro tributo a Rébuffat. 

Trovato il primo sponsor, un’azienda di calze, il 21 dicembre 2014 ha inizio il progetto, che rischia di terminare già il giorno successivo. L’attenzione di Tom si concentra subito sulla Cima Grande di Lavaredo e il 21 dicembre si porta sotto la via Comici-Dimai, sulla parete Nord; l’aveva salita a vista, in solitaria e senza l’uso della corda nell’estate del 2011. È una giornata di vento intenso, che fin dalla sera prima lo ha preoccupato, ma Tom decide di tentare lo stesso. Sale veloce, autoassicurandosi dove necessario e scendendo poi per recuperare il materiale; arriva in vetta quando sta calando la sera. Al sopraggiun- gere del buio si rende conto di non aver portato con sé la lampada frontale, teme di non riconoscere la via di discesa e opta per un bivacco notturno, sulla roccia sotto una piccola cengia. Durante la notte ha un principio di congelamento alle dita dei piedi; la mattina seguente trova la via di discesa e si reca subito in ospedale per verificare la gravità del congelamento, che fortunatamente non si rivela tale da impedirgli la prosecuzione del progetto. Dopo la Cima Grande di Lavaredo, Tom decide di tentare la salita del Pizzo Badile, lungo la via Cassin. L’apertura della Cassin al Pizzo Badile risale alla fine degli anni ’30; il 14 luglio del 1937 la squadra composta da Riccardo Cassin, Gino Esposito e Vittorio Ratti decide di tentare la vetta del Pizzo Badile dal versante Nord-Est, ancora inviolato. Ma non sono gli unici ad aver maturato quell’idea e sullo stesso versante durante quella giornata stanno salendo anche i comaschi Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi. Al termine del giorno i comaschi, esausti e in cattive condizioni, chiedono alla squadra di Cassin di poter unire le forze e condividere il bivacco, richiesta a cui Cassin acconsente. Il 16 luglio i cinque alpinisti raggiungono la vetta, ma appena iniziata la discesa lungo la parete Sud «Molteni muore di sfinimento» come racconta Rébuffat in Starlight and Storm; gli altri quattro procedono nella discesa «in mezzo a una bufera di neve e a raffiche di vento ghiacciato». «Valsecchi, che non aveva assistito alla morte del compagno, si guarda intorno in cerca di Molteni e, realizzato cosa gli fosse accaduto, scoppia in lacrime, poi si accascia a terra morto anche lui». Così Rébuffat descrive il tragico epilogo. Cassin, Esposito e Ratti riusciranno invece a terminare la discesa, rientrando al Rifugio Sciora. 

Dopo il Pizzo Badile, il 10 febbraio Tom salirà quella che viene considerata come la relativamente più semplice fra le pareti Nord delle Alpi: la via Schmid sul Cervino, che completerà in 2 ore e 59 minuti. La meta successiva è il Monte Bianco per la salita della parete Nord delle Grandes Jorasses; Tom affronta la Colton-Macintyre, mai provata prima. La via su cui Ueli Steck, nel 2008, aveva stabilito il record di velocità in salita, scalando a vista e completandola in 2 ore e 21 minuti. Il tempo di Tom non sarà come quello di Steck, ma neppure così distante: l’8 marzo 2015 Ballard salirà la via Colton-Macintyre impiegando 3 ore e 20 minuti.
«Le condizioni della via erano abbastanza buone. Il passo chiave di ghiaccio era oltre i 90°, uno strapiombo, ma breve. C’era ghiaccio fino alla headwall. La roccia sui tiri finali non era coperta di neve, ma c’erano alcune piccole strisce di ghiaccio da utilizzare con delicatezza» racconterà intervistato da planetmountain.com. 

Come penultima vetta, il 14 marzo 2015, scala la parete Nord del Petit Dru, lungo la via Allain-Leininger, impiegandoci 8 ore. Durante tutto quell’inverno, a eccezione di un po’ di equipaggiamento fornito da qualche sponsor, Ballard stava ancora utilizzando la sua attrezza- tura fatta in casa o di seconda mano. «Aveva noleggiato una corda per la parete Nord del Petit Dru» racconta Jim. «Non ne aveva una sufficientemente lunga da usare per la discesa». Al rientro dalle sue imprese Tom ritorna alla sua tenda in Val di Fassa e stende i vestiti bagnati ad asciugare nel locale caldaia del campeggio. Manca una sola settimana alla fine dell’inverno e a Tom non rimane che la parete Nord dell’Eiger. Il 19 marzo salirà a vista la via Heckmair, in free solo, con l’unica eccezione della Traversata Hinterstoisser, passaggio che completerà assicurandosi a corde fisse piuttosto malridotte, lasciate in loco dalle cordate avvicendatesi nel corso degli anni. «Mi sono tolto un enorme peso dalle spalle, sentendomi immediatamente molto meglio» commenta così Tom l’arrivo in vetta. Per ironia della sorte l’impresa concepita, ma non pienamente realizzata da Alison Hargreaves anni prima, viene portata a termine da suo figlio Tom: la prima persona al mondo a salire tutte le sei grandi pareti Nord delle Alpi in una sola stagione. 

Scendendo lentamente e con la massima attenzione dalla vetta dell’Eiger, Tom nota dapprima frammenti di plastica arancione sparpagliati nella neve, poi poco più in là un guanto e più sotto ancora scorge un corpo. Uno sciatore, incontrato poco prima sulla cima, è precipitato battendo la testa su una roccia; il casco arancione si è frantumato nell’urto e il ragazzo è morto. Tom non ha mai visto un cadavere e quella visione gli ricorda quanto pericolosa sia la passione che ha scelto come compagna di vita. La similitudine con quanto accaduto alla madre proprio sull’Eiger, più di vent’anni prima, lo colpisce non poco: «Ci è successa quasi la stessa cosa. È molto triste,  ma al tempo stesso è come aver vissuto un déjà vu» commenterà. Nonostante riconoscesse le similitudini fra alcune circostanze accadute a lui e alla madre, Tom smentirà sempre fermamente di avere voluto realizzare il progetto Starlight and Storm sul filone di quanto fatto da lei. «Penso che una grande motivazione nell’arrampicata gli derivasse dalla morte della madre» commenta Stefania Pederiva, la sua fidanzata «ma, anche con me, Tom l’ha sempre negato». Tuttavia emerge chiara una discrepanza fra le parole e i fatti; negli anni seguenti Tom, in un’intervista al Telegraph, lascerà intendere qualcosa di più: «Da bambino, quando andavo a scuola, dicevo sempre che da grande avrei scalato le montagne per mia madre. Ma dopo ho capito che era un pensiero un po’ sciocco perché lei aveva sempre scalato solo per se stessa. Adesso so che quello che faccio è solo per me stesso: ogni giorno quando esco per arrampicare penso solo a me. Inconsciamente lei è una delle motiva- zioni per cui lo faccio, ma sicuramente non l’unica». Marco Berti, amico intimo e compagno di scalate di Tom, aggiunge ulteriori dettagli: 

«Ogni giorno dicevo a Tom che doveva essere Tom Ballard e non il figlio di Alison Hargreaves. Gli spiegavo che, diventando un grande alpinista, avrebbe potuto parlare più liberamente della madre. Lui era d’accordo, ma gli risultava difficile non seguire il suo esempio. Non era semplice vivere al di fuori della traccia battuta dalla madre». 

Il 6 gennaio del 2015, prima dell’alba, Tom sale la parte inferiore della cresta Nord fino al Colle e alle otto affronta la via Cassin; scala per 11 ore, affrontando tratti su roccia ghiacciata fino all’M7: il terreno misto più difficile che incontrerà nel corso del suo progetto sulle pareti Nord delle Alpi. Passa la notte bivaccando su una piccola cengia, dove Cassin e i suoi compagni avevano trascorso la seconda notte nel lontano 1937; il mattino del 7 gennaio, dopo quattro tiri da 70 metri affrontati autoassicurandosi con la corda e superato un ripido pendio di neve e ghiaccio, Tom raggiunge la cresta Nord. La via Cassin al Pizzo Badile salita da Tom in un giorno e mezzo sarà la salita che richiederà più tempo fra quelle del suo progetto Starlight and Storm. 

bivacco alla Nord del Pizzo Badile, in basso al Cervino © Rugero Arena

Da principe a re 

La vita di Tom cambia in molti sensi dopo Starlight and Storm. Lascia il campeggio e trova un posto solo per lui, nelle vicinanze del luogo in cui vive la sua ragazza, figlia della Guida alpina Bruno Pederiva. Si erano fidanzati nel 2014: «Era cresciuto e voleva maggiore indipendenza» racconta Stefania, «voleva stare un po’ di più per conto suo, sentirsi più autonomo rispetto al padre». Tom e Stefania in quel periodo aprono insieme molte nuove vie, incluso un trittico sul Catinaccio: Scarlet Fever, Baptism of Fire e, la preferita di Stefania, Beauty and the Beast; fanno insieme anche diversi viaggi per andare ad arrampicare in Grecia, in Francia e in Sardegna. Le aziende del settore iniziano a fornire a Tom attrezzatura al top per l’arrampicata e, ancor prima della comunità alpinistica, la gente comune comincia ad accorgersi delle sue imprese. Un reporter del Guardian gli affibbia il soprannome di Re delle Alpi. Nonostante questo, i resoconti sulla stampa delle imprese di Tom tendono ancora a mettere in relazione i suoi successi con quelli raggiunti dalla madre, sebbene, dopo Starlight and Storm, Tom avesse percorso una strada nuova e divergente rispetto a quello di Alison. 

Nel 2015 Ballard fa anche la sua comparsa nella Coppa del Mondo di Arrampicata su Ghiaccio, anche se non otterrà mai grandi risultati: il suo miglior piazzamento rimarrà il quattordicesimo posto a Rabenstein, in Svizzera, nel 2018, dopo aver preso parte alla sua prima e unica semifinale. L’amica Anna Wells, che lo aveva conosciuto proprio durante la prima partecipazione di Tom a una gara del circuito a Bozeman, in Montana, nel dicembre del 2015, commenta così i suoi mediocri risultati nelle competizioni: «Penso che rappresentino una buona testimonianza della personalità di Tom e di quanto poco coltivasse il suo ego, in definitiva semplicemente non gli importava molto dei risultati ottenuti in gara e continuò per la strada che aveva scelto». Ostinandosi anche nel rifiuto dell’utilizzo della figura Yaniro. Nello stesso periodo Tom inizia anche ad attrezzare per il dry-tooling un imponente muro orizzontale in Marmolada, nella falesia che lui chiamerà Tomorrow’s World.  A febbraio 2016 apre quella che viene considerata la via di dry-tooling più dura al mondo: collegando tre difficili vie, aperte in precedenza nella falesia di Tomorrow’s World, completerà A Line Above the Sky, una scalata di 50 metri, che deve la sua difficoltà anche alla posizione orizzontale del tetto della falesia. A differenza di molte vie di dry-too- ling, che offrono una pletora di fori artificiali ricavati per piccozze e piolet-traction, A Line Above the Sky è quasi interamente naturale. Tom, dopo averla aperta, propone il grado D15, un nuovo livello di difficoltà per il dry-tooling; difficoltà che verrà confermata dal climber francese Gaëtan Raymond, dopo la sua ripetizione della via. Liam Foster, che in seguito salirà A Line Above the Sky, ne parlerà in questi termini: «È la più bella via di dry-tooling che io abbia mai scalato. Ha un’estetica fantastica: quando ti siedi nella parte posteriore della falesia e la osservi vedi questa linea come disegnata nel cielo». 

Dopo aver aperto quella che è probabilmente la via più difficile di dry-tooling al mondo, aver portato a termine con successo il progetto Starlight and Storm e aver maturato, in meno di 10 anni, un curriculum alpinistico per cui serve una vita intera, è arrivato per Ballard il momento di concentrarsi su nuovi obiettivi: le grandi montagne lo chiamano.
L’ultima montagna di Alison  Dopo la morte di Alison Hargreaves nel 1995, Tom chiede al padre di «portarlo a vedere l’ultima montagna scalata dalla mamma»; Jim parla della richiesta del figlio durante una conferenza stampa e immediatamente piovono offerte a destra e a manca, da parte di storyteller e filmmaker, per sponsorizzare il viaggio della famiglia Ballard al K2. Jim ne accetta una e parte con i bambini alla volta del Pakistan. Tom compie sette anni durante il viaggio verso il Pakistan; all’arrivo all’hotel K2 a Skardu, lo staff gli fa trovare una piccola sorpresa. «Negli anni seguenti, parlando con Tom di quel viaggio, mi resi conto di quanto i suoi ricordi fossero vaghi» commenterà Jim. Anche Kate ricorda pochissimo dei mesi successivi alla morte della madre. «Non so, avevo solo 4 anni. Piangevo, piango ancora per la sua morte. Penso che il viaggio al K2 fosse il nostro modo per rendere omaggio alla sua ultima dimora sulla Terra» racconta la sorella di Tom. 

Nel 2017 Tom e Kate tornano per la prima volta in Pakistan, dopo il viaggio di commiato del 1995, ma questa volta sono impegnati in una spedizione: Kate in un trekking, mentre Tom arrampicherà con un gruppo composto da Daniele Nardi e altri alpinisti che hanno identificato una serie di obiettivi nella regione del Karakoram. È durante questo viaggio che Tom conoscerà l’alpinista americano Graham Zimmerman. Zimmerman e il suo team sperano di compiere la prima salita del Link Sar, esattamente come Nardi e Ballard. «Fu molto interessante vedere Tom in azione perché era la sua prima esperienza sulle grandi montagne» racconta Zimmerman. Il tentativo di Nardi e Ballard sul Link Sar fallirà, per fortuna senza gravi conseguenze; ma, prima di tornare a casa, Ballard scriverà un resoconto della spedizione sul sito UKClimbing.com: «Siamo sopravvissuti per un pelo al crollo dei seracchi». La prima salita del Link Sar sarà poi portata a termine, nell’estate del 2019, da Zimmerman, Steve Swenson, Chris Wright e Mark Richey. Ballard e Nardi riescono però, insieme a Michele Focchi, ad aprire una nuova via di roccia (Welcome to the Jungle), lunga più di 1.000 metri, fino a una piccola spalla segnata da quella che la cordata ribattezzerà Scimitarra Rossa, per la caratteristica forma della roccia e per il colore della stessa. Dalla cima della loro via vedranno un’altra vetta, di circa 5.600 metri, che chiameranno Alison Peak, in tributo alla madre di Tom. Nonostante la scelta del nome non fosse stata fatta da Tom, anche in questo caso si dimostra vero quanto affermato da Berti, ovvero l’impossibilità per Tom di essere solo Tom Ballard e non il figlio di Alison Hargreaves; non importa quanto distanti da quelli materni fossero i traguardi alpinistici da lui raggiunti: non riusciva a sfuggire all’orbita della carriera materna. 

La cordata Nardi/Ballard aveva funzionato molto bene durante quella spedizione: Tom aveva imparato molto da Nardi, che aveva già scalato cinque Ottomila e tentato quattro volte la salita al Nanga Parbat in invernale. Per questa ragione, un anno più tardi, quando Nardi chiese a Tom di unirsi a lui nel tentativo di salita dello Sperone Mummery, Tom acconsentì. Era affascinato da quella linea di salita e «pensava che fosse venuto il momento di provare l’esperienza dell’alpinismo invernale himalayano» racconta il padre. Come fa notare Zimmerman, Ballard non aveva esperienza sugli Ottomila, ma neppure su montagne da 6.000/7.000 metri; affrontare direttamente un Ottomila, senza questi precedenti passaggi, era certamente possibile per un alpinista tanto dotato naturalmente, ma indubbia- mente un’impresa rischiosa. Jim e le altre persone vicine a Tom rimasero sorpresi dalla sua decisione di andare sul Nanga Parbat e non sul K2. «Penso che Tom abbia resistito fin troppo a lungo al desiderio di andare sul K2» commenta Jim. «Credo che l’abbia fatto dato che sapeva che tutti avrebbero pensato che volesse scalare il K2 perché era la montagna su cui era morta sua madre». Ma nonostante Tom stesse resistendo alla tentazione di andare sul K2, già nel 2015, durante l’intervista con Chalmers aveva dichiarato: «Il K2 è sempre stato il mio sogno. Ho sempre desiderato di arrivare sulla cima di quella montagna. Non so quando, ma certamente prima o poi lo farò». Per un attimo, nel 2010, molto prima di concepire il progetto Starlight and Storm, Ballard si era trastullato con l’idea di tentare il K2, ma la spedizione non si era poi concretizzata. L’ipotesi è che Tom coltivasse il sogno di salire da solo durante la stagione invernale il K2 e che la spedizione sul Nanga Parbat fosse un primo passo in quella direzione. 

Durante l’ultima conversazione che Jim e Tom ebbero, prima della sua partenza, Jim domandò al figlio se pensasse che la spedizione al Nanga potesse rappresentare un punto di svolta per la sua carriera alpinistica. Tom inizialmente non aveva compreso la domanda, ma Jim era andato avanti a spiegare: 

«Credi che facendo bene sullo Sperone Mummery, a prescindere dal fatto che tu raggiunga o meno la vetta del Nanga, le cose per te cambieranno? Pensi che questo rappresenterà un punto di rottura per la tua carriera? E che da quel momento in poi potrai concentrarti sulle grandi montagne himalayane anziché sull’apertura di vie tecniche in solitaria sulle Alpi?». «Forse questo и davvero ciт che penso» rispose Tom. 

Tom Ballard, il sognatore 

Non sapremo mai quale sia stata la vera motivazione che ha spinto Ballard troppo oltre sul Nanga Parbat.  Alex Txikon, che ha identificato i corpi di Nardi e Ballard sulla montagna, la pensa così: «Credo che fossero molto stanchi e infreddoliti. C’era un vento molto forte ed era tardi. In quelle condizioni, se non hai la possibilità di scaldarti, anche il più piccolo errore può essere fatale». Ma Simone Moro non è d’accordo con la disamina di Txikon. Data la ridotta distanza a cui si trovano uno dall’altro i corpi dei due alpinisti e per il fatto che siano entrambi attaccati alla stessa corda, sulla base della sua conoscenza dello Sperone Mummery – per averlo osservato per mesi dal campo base del Nanga – Moro ritiene che siano stati colpiti da uno dei blocchi di ghiaccio che frequentemente cadono sulla via. «Il vero pericolo sul Mummery non sono le classiche valanghe – aggiunge Moro – ma i grossi blocchi di ghiaccio che si staccano dai seracchi sovrastanti, scaricando sulla via». I corpi di Nardi e Ballard sono rimasti sul Nanga Parbat. La famiglia di Nardi ha espresso il desiderio che il corpo di Daniele non venisse recuperato. Probabilmente anche Tom avrebbe preferito questa soluzione per se stesso. Nell’intervista con il Telegraph aveva commentato così il fatto che la madre fosse rimasta sul K2: 

«Preferiremmo che il suo corpo
non venisse ritrovato. È dove si trovava maggiormente a suo agio, quindi vorremmo che rimanesse là». 

Diversi si sono domandati se nelle scelte di Ballard possano aver avuto un ruolo le pressioni degli sponsor. Ma per la sua famiglia, gli amici e anche per i compagni di scalate, è evidente che Tom, anche dopo aver accettato il supporto finanziario di alcuni sponsor, scalasse solo per se stesso, senza alcun condizionamento. «Tom non praticava l’alpinismo per diventare famoso» commenta Stefania, la fidanzata. Zimmerman la pensa allo stesso modo: «La mia impressione è che a Tom non importasse davvero nulla di tutto ciò. Accettava il supporto finanziario degli sponsor per potersi permettere l’equipag- giamento necessario per realizzare le sue imprese, che altrimenti sarebbero risultate troppo costose per lui. Ma il suo percorso come alpinista mi è sempre sembrato molto puro: lo faceva unicamente per se stesso». 

Altri hanno ipotizzato che Nardi avesse convinto un riluttante Ballard al tentativo sul Mummery. Ma Berti, che ha conosciuto Tom in maniera molto più profonda, non è d’accordo, come d’altra parte non lo è Moro. «Non credo che Tom fosse un ragazzo facile da convin- cere. Credo che alla fin fine desiderasse anche lui tentare quella via» afferma Moro. Anche Reinhold Messner si domanda quale sia stata la principale motivazione a spingere Ballard sul Mummery: 

«Forse stava cercando di fare qualcosa
di importante in Himalaya. Probabilmente le imprese che poteva realizzare a casa erano troppo semplici per lui. Non so». 

Due giorni prima della morte di Nardi e Ballard, Stefania Pederiva scrisse a Tom chiedendogli di rinunciare all’impresa e di tornare a casa. Nelle settimane precedenti la spedizione, Stefania aveva detto a Tom di avere un brutto presentimento e che desiderava che lui rinunciasse, qualcosa che non gli aveva mai chiesto. Il 22 febbraio Stefania mandò a Tom un messaggio in cui gli diceva di non essere felice per ciò che stava facendo, un messaggio a cui Tom rispose così: «Se non ti piace ciò che sto facendo, puoi sempre lasciarmi». Quella fu l’ultima comunicazione fra di loro. L’unico libro che Tom portò con sé sul Nanga era I sette pilastri della saggezza, che leggeva per sfuggire alla noia delle giornate trascorse in tenda. Ancora una volta la sua frase preferita è utile nell’offrire una chiave di lettura per la sua perseveranza nell’affrontare i pericoli del Mummery. Affogato in un linguaggio immaginifico, nella frase di T.E. Lawrence si nasconde un ammonimento: «Quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi»; o se vogliamo interpretarla in un altro modo: l’ambizione nel realizzare i propri sogni può rendere ciechi di fronte ai pericoli che si corrono per raggiungerli. Vivere nella traccia lasciata dalla madre, ma cercando di superare i risultati da lei raggiunti, portandoli a un nuovo livello per eclissare la sua opprimente eredità era un’impresa estremamente pericolosa. «Sono profondamente cosciente di vivere all’ombra di mia madre» aveva detto un giorno Tom. «Le persone diranno sempre: Alison Hargreaves è morta sul K2 e bla, bla, bla e poi oh, a proposito, anche il figlio fa l’alpinista. Penso che questa percezione con il tempo potrà cambiare». Tentare lo sperone Mummery in inverno? Era solo un altro modo per alzare il tiro e renderle omaggio. 

*Michael Levy è redattore di Rock and Ice

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Tom al rifugio Leschaux, prima della salita invernale della Nord delle Grandes Jorasses sulla via Colton-Macintyre © Rugero Arena