It's the end of the world as we know it?
«Era l’inverno del lontano 2020 e le Dolomiti di Brenta sembravano avvolte da un incantesimo. Dopo giorni di incredibili nevicate finalmente era sbucato il sole. Così, domenica 13 dicembre, non avevamo avuto dubbi sul da farsi. Messe le pelli, eravamo partiti con destinazione quota 2.069 metri. Ricordo le impronte dei camosci confondersi con la mia traccia. Tutto intorno il manto nevoso immacolato illuminava le montagne. Le condizioni erano davvero eccezionali, favolose. Sarebbe stato tutto nella norma se non fosse che stavamo facendo scialpinismo sulla pista Cinque Laghi, che di solito in quel periodo era piena zeppa di sciatori che sfrecciavano a folle velocità verso valle. Accanto a noi, le seggiovie coperte di neve sembravano un reperto d’altri tempi e incutevano una certa tristezza. Madonna di Campiglio era semi deserta. Da allora nulla è stato più come prima. Tutti noi siamo cambiati».

Inizia così l’articolo It’s the end of the world as we know it di Marta Manzoni, con le stupende fotografie di Alice Russolo che pubblichiamo su Skialper 134 di febbraio-marzo. Una provocazione sul filo sottile delle citazioni musicali per partire alla scoperta di una Madonna di Campiglio irriconoscibile, naturalmente con sci e pelli, ma anche per immaginare come potrebbe cambiare l’offerta turistica della montagna dopo questo inverno inimmaginabile e irripetibile. «Questa situazione porterà un cambiamento. Dobbiamo rallentare. La giostra del su e giù con gli impianti è troppo frenetica, come la nostra vita. In questi giorni per salire in cima ti devi prendere la giornata, te la godi, assapori ogni momento – racconta Martina Marcora, proprietaria del Rifugio 5 Laghi – Mi piace la relazione con le persone e per questo soffro i momenti di alta affluenza, quando il rapporto umano viene meno. Bisogna diluire l’afflusso di turisti su tutto l’arco dell’anno».
«Siamo arrivati a un punto di svolta: la parabola del turismo dello sci alpino è sempre cresciuta e ora improvvisamente ci troviamo in una caduta verticale - dice Bruno Felicetti, direttore delle Funivie Madonna di Campiglio - Le varie forme di outdoor sulla neve non possono più essere considerate in competizione con gli impianti, la logica, al contrario, dev’essere quella dell’integrazione: si potrebbe offrire non più lo ski pass ma un winter pass, una tessera outdoor ricaricabile, per permettere a ognuno di scegliere l’esperienza che preferisce vivere. Questa situazione ha messo in evidenza i limiti della monocultura dell’offerta invernale. La normalità non sarà più quella di prima e su questo dobbiamo interrogarci».
Tante altre voci e idee dalle piste chiuse di Madonna di Campiglio su Skialper 134 di febbraio-marzo.

48 ore al massimo. O la storia di una rapina in Appennino
«La luce è splendida e illumina un sorprendente paesaggio invernale, il bianco candido delle cime spunta in mezzo a un oceano di foresta. In lontananza, le piste da sci di una stazione sciistica chiusa, forse per sempre, attirano la mia attenzione e mi ricordano il Vermontì e gli Stati Uniti. Usciamo dal bosco delle Veline per guadagnare la morbidezza e le curve dolci dei pendii che brillano al sole, l’aria rimane relativamente fresca e non c’è un filo di vento. Questa salita è una pura meraviglia, Layla, che aveva avuto qualche dubbio a lasciare l’abbondante nevicata di Chamonix, ora è in paradiso. C’è molta gente intorno alla croce artisticamente incrostata di ghiaccio in cima al Monte Cusna; è il punto più alto della provincia di Reggio Emilia, a 2.121 metri sul livello del mare, e attira una folla variopinta venuta a festeggiare la gioia dell’inverno e della neve fresca».
È il racconto di Bruno Compagnet, arrivato in fretta da Chamonix per trovare le giuste condizioni sull’Appennino Emiliano, come si fa per l’onda giusta nel surf, quell’onda che aspetti per anni, a raccontare la meraviglia dello scialpinismo al Monte Cusna a dicembre, dopo le nevicate record di inizio stagione. In prossimità delle piste di sci chiuse, accanto a ciaspolatori e curiosi. Due giorni di sci intenso, di sci-scoperta. Un reportage alla ricerca dell’essenza di sci e pelli in questo momento così particolare della nostra esistenza. Non solo una descrizione dei luoghi, ma una riflessione sulla bellezza di scivolare nella neve fresca, di conquistarsi ogni curva, di respirare aria pura a pieni polmoni.

«Ci sono i vecchi con l’attrezzatura collaudata, esausta e a volte anche un po’ obsoleta, e poi ci sono i giovani, i nuovi, quelli che leggono le riviste specializzate di sci, che sono attivi su Instagram, e quelli che se ne fregano. Oppure quelli che fuggono dall’atmosfera soffocante delle città. C’è tanta gente e io sono diventato un vecchio solitario, ma per una volta sono felice di vedere persone entusiaste di uscire a prendere un po’ d’aria fresca, senza mascherine, di vedere e sentire tutto questo parlare, toccare, sorridere. Non importa se con gli sci o le ciaspole, ecco che dai vari tracciati e dalla pista diversi gruppi invadono la salita».
E poi… ci sono le splendide fotografie di Layla Kerley a documentare una sciata con lo sguardo che corre dal mare al Monte Rosa. L’articolo completo è su Skialper 134 di febbraio-marzo.

Gruppo vacanze Sellaronda
«Arrivo a Canazei alle dieci di sera di una sera qualunque di dicembre, le poche luci accese sono quelle delle insegne. Dopo l’uscita dall’autostrada avrò incontrato sì e no una decina di auto: più che nel cuore del Dolomiti Superski, sembra di essere in una di quelle valli un po’ decadute, frequentate solo da scialpinisti e scalatori. Il mio è uno dei pochi alberghi aperti, ci sono un paio di turisti e pochi altri ospiti che sono lì per lavoro. Una volpe attraversa la strada mentre scarico le valigie, fa freddo».
Comincia così l’articolo Gruppo Vacanze Sellaronda di Federico Ravassard, autore anche delle fotografie, su Skialper 134 di febbraio-marzo. Un racconto del Sellaronda desolatamente vuoto, di una delle massime espressioni del turismo invernale di massa trasformata in ritrovo per qualche scialpinista. «Nella sola Val di Fassa, ad esempio, tra alberghi, appartamenti e seconde case si contano oltre 56.000 posti letto disponibili, a fronte di una popolazione che non arriva ai 10.000 abitanti. Nella vicina Val Gardena le presenze annue superano il milione, distribuite in più di 700 strutture ricettive. Più di metà degli arrivi sono stranieri, un terzo del totale è di origine tedesca. Nella stagione invernale metà del fatturato viene prodotto nei mesi di gennaio e febbraio, il resto si sparpaglia, fra dicembre, marzo ed aprile. Questo significa avere un modello economico, quello del turismo invernale, basato sul fare grandissimi numeri ma in un periodo di tempo brevissimo, e a quel periodo dedicare – o sacrificare, dipende dai punti di vista – tutto il resto, dalle risorse naturali a quelle umane. È come se un negozio decidesse di aprire solo per un paio di mesi all’anno, vendendo pochissimi prodotti: certamente può funzionare, e la prova sono i pop-up store che vendono capi di moda in edizione limitatissima. Ma, proprio come nel mondo del fashion, basta poco perché un prodotto rimanga invenduto e per mandare tutto all’aria: questione di trend e di collezioni, oppure di pandemie».
Le 20 pagine di reportage che dedichiamo al Sellaronda, ma anche al fuoripista della Val Mezdì, non sono solo il racconto di un inverno diverso, ma la voce di chi di solito quell’inverno non ha tempo di viverlo, cioè di quei professionisti della montagna, Guide, Maestri, albergatori, che proprio nel periodo che amano di più si trova costretti a fare gli straordinari. E invece per un anno si sono goduti il loro parco giochi privato. Non senza leccarsi le ferite, perché quel parco giochi è anche la loro fonte di reddito. «Chiudere gli impianti da sci non significa levare un giochino del weekend a borghesi annoiati, ma di fatto tagliare alla base una catena che tiene in vita indirettamente una miriade di piccole attività e lavoratori stagionali, all’incirca 400.000 persone in tutta la penisola». Per fortuna rimane il fatto che «non è detto che sciare sia un’attività funzionale a risolvere qualsiasi tipo di problema, ma di sicuro ti pone nella condizioni di guardarlo in un modo più leggero».

Sci e pelli, la filosofia di Livigno
Se ne può discutere all’infinito: è scialpinismo salire accanto alle piste e scendere in pista? Non etimologicamente parlando, piuttosto ski fitness o se vogliamo ski touring, che non ha nella terminologia la parola alpinismo. Non c’è dubbio però che, a maggior ragione in una stagione come questa, con impianti finora chiusi e tanti appassionati che hanno acquistato o affittato l’attrezzatura da scialpinismo, una strategia di avvicinamento dolce sia diventata ancora di più un’esigenza. Per permettere a chi non lo ha mai fatto di provare in tutta sicurezza sci e pelli e poi magari fare un ulteriore passo nella montagna aperta.
Da diversi anni Livigno propone una filosofia di avvicinamento al freeride e allo scialpinismo con percorsi di risalita segnalati e battuti. Un progetto, quello della località valtellinese, che non si limita agli itinerari ma cerca di trasmettere anche una cultura della sicurezza. Per questa strana stagione l’offerta legata a sci e pelli prevede quattro itinerari di risalita segnalati, battuti e monitorati con dislivelli da 460 ai 620 metri che permettono di raggiungere le piste di sci per la discesa, oppure per una sciata in neve fresca seguendo le tracce della salite. Il consiglio è comunque quello di avere sempre con sé il set sonda-pala-artva nel caso si opti per la discesa fuoripista. Inoltre vengono sempre evidenziate le sei regole d’oro della sicurezza: bollettino valanghe, set di autosoccorso, prudenza, utilizzo del casco e uscita con almeno un compagno, rivolgersi alle Guide alpine se non ci si sente sicuri e prestare soccorso e chiamare immediatamente il 112 in caso di incidente. Un’offerta, quella legata a sci e pelli, che è stata potenziata in questa stagione e ha visto un’alta adesione, segno che una porta d’entrata ‘dolce’ al mondo dello scialpinismo è un’esigenza reale.
Finché c'è neve c'è Speranza
«In montagna ho fatto più o meno tutto, più o meno bene: salite invernali, arrampicate in falesia d’estate, trekking, corse in quota, ciaspolate a non finire, sci su pista e sci da fondo. In quest’ultimo settore ho partecipato pure a qualche gara e ad almeno una dozzina di Marcialonghe, a partire dalla prima, quella del remoto 1971. Solo per farvi intendere l’età che ho accumulato. Mi mancava dunque lo scialpinismo. È un po’ che ce l’avevo in mente ma per smuovermi davvero ci volevano due cose indispensabili: l’occasione e la compagnia giusta. Adesso l’occasione l’ho trovata: la quarantena nella casa di montagna».
Inizia così l’articolo Finché c’è neve c’è Speranza, di Franco Faggiani, affermato e premiato autore di romanzi (La Manutenzione dei Sensi, Il Guardiano della collina dei ciliegi, Non esistono posti lontani), oltre che ex responsabile dell’ufficio stampa del Tor des Géants, su Skialper 134 di febbraio-marzo. Un racconto giocato sul filo di un’intelligente ironia per raccontare le domande e le emozioni di fronte alle quali si sono trovati in molti in questa stagione invernale che ha fatto muovere i primi passi con sci e pelli a tanti sciatori. Speranza Vigliani è l’amica milanese di Faggiani che lo accompagna nella prima, semplice, escursione di scialpinismo.
«Posizione centrale - dice Speranza Vigliani - niente uso degli spigoli, movimenti accentuati di flessione-distensione e appoggio dei bastoncini, che danno il ritmo. Fluidità, scioltezza, naturalezza. Niente lunghi diagonali, per non rallentare e rendere difficili le curve. Tutto qui». E Faggiani pensa, tra sé e sé, «Certo, tutto qui. Ora che mi concentro su ogni singolo elemento viene Natale 2021 ma in questo caso bisogna fare tutto insieme, contemporaneamente».
Esilarante anche il racconto della tecnica di salita e di tutto l’abbigliamento ficcato nello zaino. «Decenni di passo alternato nello sci da fondo mi aiutano a coordinare i movimenti, ma un conto è andare in piano tra i binari ben tracciati delle vicine piste olimpiche di Pragelato, un conto è salire, salire, salire e cercare di stare dietro a Speranza che sembra andare con una lentezza esasperante e invece guadagna centimetri ad ogni scivolata. Lei scivola, io zampetto, qui sta la differenza. C’è anche da aggiungere che il sottoscritto, da neofita, ha portato nello zaino tutto quel che serve per proteggersi dal blizzard, dalla nevicata del secolo, dall’invasione delle locuste, dall’arrivo del vento dal Sahara, dall’alluvione e da ogni altra avversità dovuta ai cambiamenti climatici, sempre più imprevedibili. Speranza, che aveva controllato di nuovo le previsioni meteo, solo quel che serve davvero in una giornata di sole tiepido che fa rintanare il freddo del mattino nelle zone ombrose di fondovalle». Il racconto di Faggiani è illustrato da una serie di fotografie evocative di Mattias Fredriksson, in bianco e nero.

Scala del pericolo e incidenti da valanga
La notizia dei recenti incidenti avvenuti in Valle Maira il 31 gennaio mi ha raggiunto proprio il giorno precedente ad una mia deposizione, in veste di perito, presso il Tribunale di Aosta, che deve pronunciarsi in merito alle possibili responsabilità degli organizzatori dell’escursione durante la quale il distacco di una valanga ha provocato la morte di due partecipanti. Nella mia perizia ho fatto anche riferimento al Supporto Interpretativo prodotto dal ben conosciuto IFNV (Istituto Federale Neve e Valanghe) di Davos.
In queste note voglio riportare alcune nozioni che ho prelevato proprio dal Supporto interpretativo, nozioni che dovrebbero essere ben conosciute dai praticanti dello sci al di fuori delle aeree controllate, ma che qui richiamo perché, a volte, lo stesso pensiero può essere reso più chiaro semplicemente mutando la forma espressiva. Ecco, con altro carattere, i passaggi che ritengo interessanti; ho aggiunto solo alcune sottolineature per richiamare l’attenzione sui punti che ritengo più significativi.
Il pericolo delle valanghe
Le valanghe sono un pericolo naturale del tutto particolare: diversamente da un maremoto o terremoto, il processo pericolosodella valanga può essere innescato dall’uomo. Quando qualcuno attraversa un pendio pericoloso, il suo sovraccarico può provocare il distacco di una valanga. Oltre il 90% degli appassionati di sport invernali sepolti hanno causato personalmente la propria valanga oppure a provocarla è stato un altro membro della stessa comitiva.
Le varie sfaccettature del pericolo di valanghe
Il grado di pericolo è una misura che indica quanto è alto il pericolo di valanghe anche in presenza di situazioni valanghive meno tipiche. Qui di seguito vengono descritte le varie sfaccettature del pericolo di valanghe e la loro valutazione da parte del servizio di avviso valanghe. Dal momento che si tratta di situazioni atipiche, l’elenco non potrà mai essere completo. In situazioni atipiche sono indispensabili scostamenti dalla definizione del grado di pericolo. Questi vengono descritti nel miglior modo possibile nella descrizione del pericolo contenuta nel bollettino delle valanghe.
Gradi di pericolo: un quadro semplificato della realtà
Il pericolo di valanghe non aumenta in modo lineare da un grado all’altro, ma in maniera sproporzionata. In questo caso:
- la stabilità del manto nevoso e con lei anche il sovraccarico necessario per provocare il distacco di una valanga diminuiscono, causando un aumento della probabilità di distacco di valanghe.
- la diffusione dei punti pericolosi aumenta, cioè i punti in cui le valanghe possono subire un distacco spontaneo o provocato sono più numerosi e le dimensioni delle valanghe aumentano.

Nei giorni in cui sono avvenuti gli incidenti il livello di pericolo annunciato dal Bollettino Valanghe per la zona interessata era 3 – marcato. Sui dizionari della lingua italiana il vocabolo marcato è definito: Ben avvertibile, chiaramente evidente, accentuato, spiccato.
Per questo livello di rischio, il Supporto Interpretativo fornisce le precisazioni riportate a seguire:
Situazione valanghiva critica: I rumori di whum e le fessure sono tipici. Le valanghe possono facilmente essere staccate, soprattutto sui pendii ripidi alle esposizioni e alle quote indicate nel bollettino delle valanghe. Possibili valanghe spontanee e distacchi a distanza.
Raccomandazioni per le persone che praticano attività fuoripista: questa è la situazione più critica per gli appassionati di sport invernali! Sono necessarie una scelta ottimale dell’itinerario e l’adozione di misure atte a ridurre il rischio. Evitare i pendii molto ripidi alle esposizioni e alle quote indicate nel bollettino delle valanghe. Persone inesperte dovrebbero rimanere sulle discese e sugli itinerari aperti.
Ma in quei giorni soffiava vento e quindi erano possibili oscillazioni del livello di pericolo verso 4 – forte. Ancora un’ultima citazione dal Supporto interpretativo, un avvertimento che deve sempre essere tenuto presente quando ci si muove in condizioni di variabilità meteorologica.
Il pericolo di valanghe cambia nel tempo e all’interno del periodo di validità del bollettino valanghe può passare da un grado di pericolo a quello precedente o successivo. Normalmente l’aumento del pericolo, causato ad es. da una nevicata o dal vento, avviene in modo nettamente più veloce che la sua diminuzione.
Concludo con una mia osservazione:
- Una nevicata fa aumentare il pericolo in modo progressivo e regolare su tutto il territorio, in proporzione all’entità della precipitazione ed all’inclinazione dei versanti interessati.
- Il vento agisce in funzione della direzione e velocità, ma subisce le infinite variazioni di velocità e direzione imposte dalla morfologia dell’ambiente, per cui i processi di erosione, trasporto e ridistribuzione del manto nevoso sono raramente ben localizzabili e, talvolta, tragicamente sorprendenti.
La fotografia in apertura di questo articolo della zona in cui è mosso il Tenente Filippo Calandri lo dimostra chiaramente: il canalone è stato disceso senza difficoltà; poco lontano, appena oltre il traverso a destra, era celato il trabocchetto preparato dal vento.
INTEGRAZIONE:
Il NUCLEO RILEVAMENTO DEL 1° REGGIMENTO ARTIGLIERIA DA MONTAGNA ha effettuato una ricerca sulle cause del distacco del 31 gennaio sul pendio della Cima Cobre ed ha condotto una prova penetrometrica il cui risultato è riprodotto nel profilo conclusivo della relazione.
Partendo dall’alto, si possono riconoscere:
- Quattro sottili strati, per uno spessore complessivo di ≈ 35 cm, di neve recente per precipitazione o trasportata dal vento (simbolo linea tratteggiata), tutti a debole coesione.
- Questi strati, ricoprono un lastrone, abbastanza resistente, spesso ≈25 cm (il simbolo a lato indica particelle rotonde sfaccettate).
- Sotto al lastrone si trova uno strato di ≈ 25 cm di cristalli sfaccettati (simbolo quadretto); la resistenza dello strato è molto bassa, come mostra chiaramente il rientro della linea di profilo.
- Infine uno strato di fondo di policristalli (grumi di granuli ghiacciati) di buona resistenza.
Lo spessore degli strati di superficie non è stato sufficiente a smorzare gli incrementi di pressione che lo sciatore in discesa esercitava sul manto nevoso; ne è conseguito che queste sollecitazioni hanno potuto raggiungere il lastrone e lo strato debole sottostante, provocando la frattura di quest’ultimo. Il lastrone, privato del sostegno al letto, è rimasto “aggrappato” agli ancoraggi periferici, ma questi erano sottili e, inoltre, l’ancoraggio a monte, come si vede bene nell’immagine n° 2, era interrotto dai due grandi massi che affiorano dalla neve. In queste condizioni non era possibile aspettarsi altro che la frattura ed il distacco del lastrone.



Trail-food
Molte delle comodità a cui eravamo abituati non saranno disponibili, ma questo significa anche che potrebbero presentarsi piacevoli scenari inaspettati se saremo pronti a coglierli. In fondo, per quanti sarà davvero un deterrente l’idea di non trovare un rifugio o un bar aperto a fine gita? Era bello fermarsi con gli amici a bere una birra dopo una sciata, certo. Per non parlare della comodità di poter pernottare in quota e raggiungere la cima dopo una colazione al caldo. Ma non era ciò che ci motivava a partire e non lo sarà neanche adesso. Anzi, in alcuni casi il rifugio o l’impianto in funzione erano addirittura motivo per cambiare destinazione: il rischio di ritrovarsi in un luogo troppo affollato ha sempre fatto desistere chi dalla montagna si aspetta esperienze di stampo più esplorativo. Perché non riorganizzare questa stagione invernale anomala e ripartire dalle basi, ricordandosi che in fondo tutto quello che serve è un paio di sci ai piedi? Anzi, un paio di sci ai piedi e un pranzo al sacco.
Ed è per questo che su Skialper 134 di febbraio-marzo parliamo di trail-food. Una pratica che nasce tra backpacker e thru-hiker d’oltreoceano dove, a differenza di quanto accade normalmente nei territori alpini, i punti per rifornirsi lungo i più famosi cammini di lunga percorrenza distano normalmente parecchi giorni l’uno dall’altro. Più che di scienza culinaria si tratta di una vera e propria cultura dell’arrangiarsi nella wilderness. E di un modo per produrre meno rifiuti e fare una scelta più consapevole e amica dell’ambiente. Come si fa? Basta avere un essiccatore, ma anche un forno ventilato, con alcune accortezze, può funzionare. Abbiamo chiesto a Elisa Bessega, che si produce il cibo per le sue avventure nella natura, di darci qualche dritta e di consigliarci qualche ricetta. Per esempio quadretti energetici al cioccolato, cous cous e infuso di zenzero e limone. Non resta che comprare Skialper e provare le ricette.
Maître Vivian
Mai sopra le righe, mai oltre gli 88 millimetri al centro, uno stile sul ripido impeccabile, un’esperienza enorme. E tanta disarmante semplicità. Vivian Bruchez è lo sciatore che non passa mai di moda. Ed è anche per questo che il nostro Andrea Bormida l’ha intervistato per il numero 134 di Skialper, di febbraio-marzo, in edicola a partire da questa settimana. «Uno sci di montagna il suo, puro e semplice, fatto di ricerca di nuovi itinerari, di esplorazione delle pieghe della roccia una volta che la neve ha fatto il suo lavoro - scrive Bormida nell’introduzione dell’intervista - Uno sci d’avventura su pendenze sostenute, estreme ma non per necessità od ostentazione. Per vivere la montagna perdendosi nelle sue rughe, comprendendo la bellezza di essere piccoli davanti alla sua mole. Vivian negli anni ha imparato a fare conoscere questo stile inconfondibile, anche nel modo di sciare. Non capita spesso di ricordare uno sciatore per la sua tecnica eccelsa: sci vicini, compostezza, fluidità, mai una sbavatura, dosando velocità e curve, seguendo quanto la montagna e il pendio ci impone. Nessun largone sotto al piede, 88 millimetri possono bastare, eccome. È lo sciatore che fa la differenza, non gli assi. Il piede».
Chamonix e il Monte Bianco, il momento particolare che stiamo vivendo, l’affollamento delle discese più famose, i progetti, le discese con i giovani, l’amicizia con Kilian e Jacquemoud, l’evoluzione dei materiali. È un dialogo a 360 gradi quello di Andrea e Vivian. Qualche anticipazione? Meglio essere buoni sciatori o buoni alpinisti? «Idealmente direi entrambe le cose, d’altra parte se devo scegliere dico un buon alpinista, semplicemente perché l’alpinista legge meglio la montagna e capire e analizzare le condizioni è fondamentale. Come anche saper adattare il proprio percorso a seconda delle situazioni, prendere le decisioni giuste in un determinato momento». Per il seguito… c’è Skialper 134 di febbraio-marzo. E l’attrezzatura? «Ci sono sempre novità, anche solo piccole modifiche: mi piace molto lavorare sull’attrezzatura nel garage, faccio delle prove e vedo se l’idea è buona. Per me l’attrezzatura migliore è quella con cui puoi fare tutto. Credo fermamente nella versatilità dei prodotti, in generale preferisco un buon trattore ben oliato e con un motore rodato a una macchina da corsa».

Skialper 134, a different winter
Non poteva essere più diverso l’inverno che stiamo vivendo, con tanta neve come non se ne vedeva da anni, anche a bassa quota, e la montagna (almeno quella turistica di massa) chiusa a causa della pandemia. Così, per lanciare il restyling di Skialper curato della nostra art director Greta Bizzotto di Heartfelt Studio, ecco un numero particolare. Non spaventatevi, siamo sempre noi, nel solco della tradizione della rivista, non è cambiato il tono, non è cambiato lo staff che ogni giorno lavora con passione per creare contenuti di qualità, ma abbiamo deciso di fare qualche cambiamento nel nostro guardaroba. E, per la prima volta nella nostra storia, la copertina di Skialper 134 di febbraio-marzo, in distribuzione a partire dalla prossima settimana, non è una fotografia, ma un disegno. A introdurre alle 176 pagine, un artwork di John Fellows (non lo conoscete? Andate a sbirciare il suo account IG @Jfellows56), artista del Colorado, dal titolo in tema: Good thing of lost. Rappresenta il bello di quando ci si perde in montagna e si scopre qualcosa di nuovo. Un po’ come dire, parafrasando, il bello di quando ci sentiamo persi per i lockdown e troviamo l’Alaska dietro casa, come nelle scorse settimane in molte parti d’Italia. Fellows ha anche firmato le cinque copertine delle sezioni interne di Skialper, altra novità del nuovo corso del magazine.
Finché c’è neve c’è Speranza
Abbiamo scelto la penna di Franco Faggiani, autore di romanzi premiati e tradotti in tutto il mondo (ma anche ex ufficio stampa del Tor des Géants) per l’incipit, l’articolo che apre la sezione Stories, quella con gli articoli più sostanziosi. Faggiani affronta con tono simpatico i suoi primi passi con sci e pelli, con una sottile ironia che nasconde i dubbi di tanti di noi quando hanno iniziato: l’attrezzatura, i costi, lo stile di discesa…
La fine è il mio inizio
Limone Piemonte, una delle località simbolo dello sci in pista, frequentata anche dai vip in arrivo dalla vicina Montecarlo. Ma anche una delle località simbolo della difficile situazione che sta affrontando il turismo alpino: non solo tanta neve e impianti chiusi, ma anche i danni dell’alluvione autunnale. Chiara Guglielmina, insieme al fotografo Daniele Molineris e a un manipolo di Guide alpine e Maestri di sci local, è salita con sci e pelli nel comprensorio nella prima giornata di sole dopo le abbondanti nevicate di inizio stagione. Per esplorare, galleggiare nella polvere e incontrare altri local. E c’è anche un cameo di Nino Viale. Vi dice qualcosa?

48 ore al massimo
Carpe diem. Come con l’onda giusta nel surf, che magari la aspetti per anni, bisogna sapere cogliere l’attimo ed essere pronti a sfruttarlo. È quello che ha fatto Bruno Compagnet a inizio dicembre, scappando da una Chamonix molto bianca per sperimentare le gioie di una sciata appenninica accanto alle piste del Monte Cusna. Da leggere e da guardare.

Cronache da un inverno inimmaginabile
Scialpinismo solo con la Guida, spostamenti vietati, allenamenti concessi, piste chiuse alle pelli e alle tutine, campionati annullati. La cronistoria di questi folli ultimi due mesi.
It’s the end of the world as we know it?
Madonna di Campiglio, 13 dicembre. Neve in abbondanza, alberi carichi, panorami da Canada. Ma anche impianti chiusi, rifugi desolatamente sprangati e vuoti. Marta Manzoni, insieme alla fotografa Alice Russolo, ha pellato al cospetto delle Dolomiti di Brenta. Anche lei incontrando operatori e semplici avventori. Per riflettere su questo strano inverno, ma anche guardare al futuro in modo propositivo, sul sottile filo delle citazioni musicali, come avrete capitolo dal titolo.

Trail food
Rifugi chiusi, che si fa? Si riscopre il piacere di prepararsi spuntini e pasti a casa, con la tecnica dell’essiccazione. Che poi è anche un modo per produrre meno rifiuti durante le nostre escursioni…
Gruppo vacanze Sellaronda
La trilogia dei comprensori chiusi da esplorare con sci e pelli si chiude nel carosello simbolo dello sci di massa, il Sellaronda. Un articolo, quello scritto e documentato con le fotografie di Federico Ravassard, dal sapore leggermente diverso. Il Sellaronda è il trampolino di lancio per andare a cercare canali e discese freeride che solitamente non sono meno affollate delle piste. Ma soprattutto una scusa per fare con Guide, Maestri e albergatori locali quello che è il loro passatempo preferito, cioè sciare. Perché di solito, nel cuore dell’alta stagione, di tempo per sciare veramente come piace a loro non ne hanno.

Maître Vivian
Mai sopra le righe, mai oltre gli 88 millimetri al centro, uno stile sul ripido impeccabile, un’esperienza enorme. E tanta disarmante semplicità. Vivian Bruchez è lo sciatore che non passa mai di moda. O no?

Esperienza ZeroG
D’accordo, il set scarpone più sci Tecnica-Blizzard è uno di quelli di maggiore successo commerciale, ma perché? Come è nato e per intercettare quali sciatori? La cosa più semplice per capirlo è prendere progettisti e Guide alpine dalla cui mente è nato e portarli a sciare in Tofana. Detto, fatto.
Domani è già arrivato
In un capannone del Vicentino si producono parti di elicotteri e di… scarponi da scialpinismo e scarpe da alpinismo. Siamo stati in Xenia Materials, azienda leader nella produzione di materiali plastici caricati con fibre. E abbiamo scoperto che il futuro dei nostri amati sport potrebbe essere rivoluzionario.
Must have
Qualche novità per le nostre pagine dei desideri. Abbiamo preso dei veri outdoor addicted, li abbiamo portati sulla neve della località dove hanno scelto di vivere (Gressoney in questo caso) e li abbiamo vestiti e attrezzati. Poi, in studio, abbiamo creato delle vetrine monotematiche per altre categorie di prodotti.
Futuro no problem
Per il 2022 gli sciatori chiedono semplicità e prestazioni. E le aziende rispondono con scarponi intuitivi e solidi. Ne parliamo nel preview materiali dell’inverno 2021/22
Antologia bianca
Il gioco è semplice (a parole): vi abbiamo chiesto di mandarci dei racconti di massimo 3.500 battute, naturalmente a tema con gli argomenti della rivista, e il primo verrà premiato con un bello zaino da scialpinismo Ferrino Rutor 25. Ci avete scritto in tanti, tantissimi, con storie molto belle. Le prime le trovate pubblicate nelle quattro pagine dedicate all’iniziativa, ma si replica su ogni numero, quindi… fatevi avanti!
Photo gallery
Una magnifica galleria fotografica con scatti che documentano l’inizio d’inverno: seggiovie ferme e con le seggiole piene di neve, vigneti trasformati in perfette linee di discesa, vette quasi mai in condizione ricoperte di neve.

Pensieri, outro…
Lo scialpinismo local di chi è abituato a godere soprattutto della dimensione di raid del nostro sport, ma anche lo scialpinismo immaginario e immaginato di chi è fermo ai box per un infortunio. Abbiamo chiesto a Giorgio Daidola di scrivere per la rubrica pensieri e ad Andrea Benesso un pensiero (scusate il gioco di parole) per l’outro.
Waffle, powder e wilderness
È come muoversi in una tazza di latte. Il vento soffia, nevica di traverso e ho freddo. Non vedo molto, le croci rosse che segnano il percorso sono l’unico indizio che mi indica dove andare e a volte scompaiono del tutto nella desolazione bianca e infinita. Forse non è stata una buona idea fare un giro con gli sci oggi, ma dopo il lungo viaggio fino a Björkliden, nella Lapponia svedese, 195 chilometri a Nord del Circolo Polare Artico, volevamo sgranchirci le gambe e prendere un po’ d’aria fresca. Presto ci pentiamo della nostra decisione, mentre ci spostiamo in cerchio per ritrovare la strada di ritorno al Låktatjåkka Mountain Lodge, una casa di legno nero circondata da enormi muraglie di neve a 1.228 metri sul livello del mare. Questo è il rifugio più alto della Svezia e, per la cronaca, bisogna sapere che la montagna più alta del Paese, il Kebnekaise, è di soli 2.097 metri. Alla fine ritroviamo la strada del ritorno. Qualche croce rossa ci riporta sulla traccia e così eccoci sciare nella polvere fino al rifugio.
La nostra breve avventura rende i deliziosi waffle - la specialità del rifugio - ancora più graditi durante il tè del pomeriggio. Låktatjåkka è una base perfetta per spettacolari escursioni scialpinistiche nella Lapponia svedese. Låktatjåkkastugan, come lo chiama la gente del posto, si trova a circa 100 chilometri dalla città di Kiruna e 9 chilometri a Sud-Ovest della stazione sciistica per famiglie di Björkliden. È una baita isolata tra i monti Loktacohkka (1.404 m) e Bajip Gohpácohkka (1.410 m), ma lo standard è sorprendentemente alto. Prima del Covid-19 Låktatjåkkastugan poteva ospitare 18 persone, una capienza ora ridotta a 11. Il ristorante serve ogni sera una cena con tre portate e in un angolo si sviluppa quello che definiscono come il bar più alto della Svezia. C’è anche una sauna, un accogliente soggiorno con una piccola biblioteca e uno speciale menu di waffle. Ma l’aspetto più importante è che si respira un’atmosfera molto genuina.

La storia di Björkliden, Låktatjåkka e dintorni è iniziata quando alla fine dell’Ottocento è stato trovato il ferro a Kiruna e Gällivare. La regione montuosa tra Kiruna e il confine norvegese era molto selvaggia, non c’erano strade e pochissimi la attraversavano. Per trasportare il minerale dalle miniere al porto di Narvik i governi di Svezia e Norvegia decisero di costruire una ferrovia e i lavori iniziarono nel 1898: solo quattro anni più tardi fu inaugurata la Ofoten Railway. Il percorso tra la stazione ferroviaria di Låktatjåkka, attraverso il passo di Låktatjåkka e fino a Björkliden, divenne popolare per gli escursionisti e gli sciatori, però le condizioni meteo da queste parti sono spesso avverse, così è nata l’idea di costruire una baita al passo. Le porte del Låktajåkko Mountain Lodge si aprirono nel 1939. La guerra fermò il tempo, ma quando finì il rifugio divenne una meta popolare per gli scialpinisti svedesi. L’apice arrivò negli anni ’70 e ’80 quando le vittorie di Ingemar Stenmark fecero decollare l’interesse per lo sci diverso da quello nordico.
La mattina dopo ci svegliamo con tanta neve fresca e i fiocchi cadono ancora abbondanti dal cielo. Ispirati dai rifugisti, usciamo decisi a fare qualche curva veloce sui pendii vicino al rifugio. C’è già la traccia nella neve e la nostra gitarella a Bijip Gohpacohkka è veloce. Quando inizio la discesa una vibrazione attraversa tutto il mio corpo. La neve è leggerissima, sembra di nuotare in una ciotola di cotone idrofilo. Non è certo una tipica giornata di sci svedese! Spesso qui le nevicate abbondanti sono accompagnate da forti venti che rendono la neve dura come la roccia. La gita è corta, ma il pendio ripido, quasi 50 gradi nella parte più esposta. In qualche modo la neve sembra ancora stabile, molto probabilmente perché la tempesta è arrivata dall’Atlantico, con molta umidità. Siamo a soli 40 chilometri in linea d’aria dal mare, sul versante norvegese.
Dopo una pausa e un pranzo veloce a base di waffle, ci avviamo verso Loktachohkka, sul versante opposto rispetto al rifugio. Individuiamo il percorso da seguire nella bufera e togliamo le pelli in cima, in prossimità del tipico omino di pietre. Non ha smesso di nevicare un attimo e il vento ha trasportato molta neve, per questo affrontiamo con molta prudenza la discesa verso Kopparåsen, una sciata di mille metri secchi di dislivello, fino alla strada tra Kiruna e Narvik. Il terreno è ripido, aritmico ed esposto, quindi il pericolo è molto maggiore su questo versante della montagna. Completamente soli, là fuori ci sentiamo abbastanza piccoli e di conseguenza le nostre scelte di percorso sono conservative. Il vento ulula, ma all’improvviso il cielo si apre e usciamo dal mare di nuvole. I restanti 600 metri di dislivello sono magici, soprattutto l’ultimo tratto fino alla stazione ferroviaria di Kopparåsen. Siamo a metà aprile, ma qui, nell’Artico, sono condizioni da pieno inverno.
La discesa ci ha ricaricato e ora c’è un gruppo di sciatori felici di pellare fino al Låktatjåkka Mountain Lodge quando il giorno volge al termine. Il vantaggio di soggiornare in questo rifugio è che si trova in quota e permette un rapido accesso al terreno al mattino. È un mondo al contrario per gli scialpinisti, con poco dislivello per raggiungere le discese e poi la risalita nel pomeriggio. Qualcosa di insolito in Svezia, ma molto redditizio. Stare al rifugio trasmette un senso di intimità. Gli ospiti e il personale la sera si incontrano nel soggiorno e nel bar per leggere e parlare. Si arriva a conoscersi tutti, soprattutto perché non c’è internet e gli smartphone non hanno praticamente campo. Invece ci sono un sacco di buoni libri e una selezione sorprendentemente di birra, vino e whisky di qualità. La cucina è di livello e si possono provare i piatti svedesi, a partire dalla carne di renna e alce.
Colazione anticipata e rotta verso Ovest per il nostro ultimo giorno al Låktatjåkka Mountain Lodge. C’è silenzio assoluto, l’unico suono proviene dagli sci e dalle pelli che scivolano sulla neve fredda. Copriamo una discreta distanza per raggiungere la cima del Gearggecorru (1.419 m). Il panorama è da wow: grandi vette tutto intorno e le montagne norvegesi a Ovest. Il terreno è selvaggio e impressionante. Non sembra di essere in Svezia, ma piuttosto sulle Alpi o in Norvegia. Non c’è una sola persona oltre a noi, anche se siamo relativamente vicini alla civiltà, a molte cime e località sciistiche famose. Sotto le punte dei nostri sci ci sono pendii che non avevo mai visto in Svezia. Ci dirigiamo verso Rissajaure, il lago più limpido del Nord Europa, e mi godo ogni secondo della discesa, fino alla stazione ferroviaria di Låktatjåkko. E vorrei schiacciare il tasto rewind.

IN BREVE
Låktatjåkka Mountain Lodge si trova a 1.228 metri di quota e a 9 chilometri dalla stazione sciistica di Björkliden, raggiungibile in auto o in treno (ci sono diretti da Stoccolma, la capitale della Svezia - sj.se per orari e prezzi). L’aeroporto più vicino è a Kiruna, a un’ora e mezza di auto. La stagione invernale del Låktatjåkka Mountain Lodge va da febbraio a metà maggio. Aprile è un’ottima scelta perché la neve è ancora fredda, ma le ore di luce maggiori e il bel tempo più frequente. Le gite sono abbastanza lunghe per gli standard svedesi, soprattutto quelle che finiscono alla stazione della ferrovia e richiedono di ripellare per salire al rifugio. La particolarità del Låktatjåkka Mountain Lodge è proprio questa: si dorme in quota e si raggiungono le cime velocemente, ma poi bisogna mettere in conto la pellata più lunga alla fine. Alcuni pendii intorno al lodge sono facili e non comportano rischi eccessivi, mentre altri sono l’opposto. È consigliabile affidarsi a una Guida alpina locale, anche perché ci si trova in ambienti molto selvaggi e con condizioni meteo estremamente variabili. Su sbo.nu ci sono i contatti di tutte le Guide alpine svedesi.
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Scialpinismo fuori dal comune? Sì, ma…
In queste settimane, in questi mesi, siamo stati sommersi dalle vostre domande sulla possibilità o meno di spostarsi per andare a praticare il nostro amato sport. Una domanda alla quale non è mai stato facile rispondere e alla quale i chiarimenti sui vari siti istituzionali non davano una risposta precisa ma che veniva collegata direttamente al divieto di spostamento per turismo, salve le eccezioni per i centri sono i 5.000 abitanti. Nella complicata questione dell’interpretazione dei decreti Covid, ora ci sono alcune risposte dirette che aprono alla pratica dello scialpinismo all’interno delle regioni classificate gialle e arancioni.
La più esplicita è quella della Regione Veneto che nomina espressamente lo scialpinismo nelle faq al dpcm del 14 gennaio: «In primo luogo, lo spostamento è possibile dentro la Regione se si risiede in località dove non può essere svolta la pratica di sci alpinismo. In secondo luogo, il pernottamento in loco è possibile perché l’attività alberghiera è aperta e il pernottamento è funzionale alla pratica sciistica. Non ci si può invece spostare verso l’albergo fuori comune per turismo o fare attività motoria che si può svolgere nel comune di residenza».
Deve dunque intendersi che non si può andare a camminare fuori dal comune, in quanto è attività motoria che si può fare nel proprio comune, ma che, nelle regioni arancioni come il Veneto, si può uscire dal comune per praticare scialpinismo se la pratica sportiva non è possibile dove si risiede. Ovunque? Non ci sono risposte certe ma, secondo i colleghi di Veronasera, in base a una circolare interpretativa inviata a novembre ai prefetti, dovrebbe intendersi il comune più vicino dove sia possibile praticare scialpinismo e, naturalmente, all’interno della regione. Viene da chiedersi in primo luogo se questa interpretazione valga solo in Veneto o anche nelle altre regioni dello stesso colore o con situazione pandemica migliore (si suppone di sì, essendo un decreto nazionale e non regionale, anche se l’interpretazione è della regione Veneto).
Ecco allora cosa dicono le faq sul sito del Governo per le regioni arancioni: «È possibile recarsi in un altro Comune, dalle 5.00 alle 22.00, per fare attività sportiva solo qualora questa non sia disponibile nel proprio Comune (per esempio, nel caso in cui non ci siano campi da tennis), purché si trovi nella stessa Regione o Provincia autonoma. Inoltre è possibile, nello svolgimento di un’attività sportiva che comporti uno spostamento (per esempio la corsa o la bicicletta), entrare in un altro Comune, purché tale spostamento resti funzionale unicamente all’attività sportiva stessa e la destinazione finale coincida con il Comune di partenza. Si ricorda inoltre che, ai sensi del Dpcm, per i comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti è equiparata al territorio comunale la fascia territoriale circostante, fino a una distanza di 30 km dai relativi confini. Si ricorda che, durante lo svolgimento dell’attività sportiva, è sempre necessario mantenere la distanza di almeno 2 metri dalle altre persone». Il Governo dunque sembrerebbe chiarire che ci si può spostare anche oltre il comune più vicino. Per le regioni gialle l’interpretazione vale anche per la semplice attività motoria: «È possibile recarsi in un altro Comune, dalle 5.00 alle 22.00, per fare attività motoria o sportiva in quella località, purché si trovi nella stessa Regione o Provincia autonoma (quest’ultima limitazione è prevista fino al 15 febbraio 2021)». Per le regioni rosse, invece, attività sportiva solo «nell’ambito del territorio del proprio Comune, dalle 5.00 alle 22.00, in forma individuale e all'aperto, mantenendo la distanza interpersonale di due metri. È tuttavia possibile, nello svolgimento di un’attività sportiva che comporti uno spostamento (per esempio la corsa o la bicicletta), entrare in un altro Comune, purché tale spostamento resti funzionale unicamente all’attività sportiva stessa e la destinazione finale coincida con il Comune di partenza».
Sicurezza e valanghe: il monito di Arianna Tricomi
Il titolo è esplicito: Very important message. «Di solito non parlo davanti allo smartphone, ma questo volta ho pensato che ne valesse la pena perché voglio condividere una storia con voi» esordisce così Arianna Tricomi nel video che ha pubblicato sul suo account Instagram @ari_tricomi, su IGTV. La tre volte vincitrice del Freeride World Tour ha raccontato di essere andata a sciare con degli amici, in Tirolo, anche se quel giorno avrebbe voluto riposarsi perché le condizioni non erano buone, ma di essere stata convinta da una storia sui social a esplorare un versante. All’arrivo la scoperta che le condizioni non erano quelle viste sullo smartphone, con la montagna spazzata dal vento, e che la temperatura stava salendo velocemente. Così con gli amici, dopo qualche curva tranquilla, la decisione di smettere di sciare perché troppo pericoloso in quelle condizioni. Mentre Arianna si trovava nella cabinovia, una nuvola di polvere ha avvolto il pendio. C’era un po’ di gente sulla montagna e un ragazzo di 15 anni è rimasto sotto la valanga. «Siamo attrezzati, sappiamo come comportarci, ma trovarsi veramente in una valanga è qualcosa di diverso» dice Arianna nel video. Per fortuna c’erano diverse persone esperte e il corpo del giovane freerider è stato liberato abbastanza velocemente. «Qualcuno ha iniziato a rianimarlo, abbiamo cercato di prenderci cura di lui, ho perso la cognizione del tempo, non so quanti minuti sono passati, questa esperienza è qualcosa che mi ha colpito più profondamente della maggior parte delle cose che ho visto in montagna: purtroppo non ce l’ha fatta, è stato trasportato in ospedale, ma è morto il giorno dopo». Nel video di Arianna c’è anche una riflessione sul ruolo dei social media e dei freerider. «Abbiamo una grande responsabilità, soprattutto verso i ragazzi: su Instagram e sui social media si vedono le emozioni e gli exploit di una discesa, ma non passa il messaggio del perché l’abbiamo scelta e magari cinque, dieci altre volte no, abbiamo rinunciato. Per me è importante avere sempre una via di fuga se succede qualcosa, ma ho pensato che non ne ho mai parlato sui social media. Da ragazzina ho fatto tante stupidate, ma non eravamo influenzati dal vedere qualcuno sui social media, solo dalla natura e dai noi stessi. Chiedo ai genitori, agli atleti, ai ragazzi: pensate che dobbiamo fare vedere di più cosa c’è dietro a una discesa invece di mettere solo belle immagini di sci? Non dimenticherò quando tenevo la mano a quel ragazzino, è veramente difficile parlarne, ma questa esperienza mi ha aperto gli occhi e non potevo stare zitta».
Le riflessioni di Arianna sono quanto mai attuali, in giornate con interi settori interessati dal vento. Un invito - ancora di più in questo strano inverno con le piste di sci chiuse e tanti frequentatori della montagna aperta - a prestare attenzione agli aspetti della sicurezza e a saper rinunciare. Un invito alla prudenza nel momento in cui i volontari del soccorso combattono sul fronte della pandemia.
Nei giorni scorsi un altro episodio del quale è stato protagonista Roberto Munarin, che abbiamo intervistato sul numero di Skialper dello scorso febbraio. Munarin, esperto conoscitore delle montagne del Biellese, ricordando quanto accaduto, dice: «Fuma tansiun». Facciamo attenzione.
«Siamo quasi in punta al Bric Paglie, versante S/O, è il 23 gennaio e la salita dall’Alpone deve essere gestita con cautela, conosco bene la zona, così scegliamo la via più sicura - dice Munarin -. Arriviamo alla base dell’ultimo anfiteatro e non mi piace, la mia esperienza mi dice che è pericoloso, così ci fermiamo, in sicurezza, nei pressi di un pietrone dove ci prepariamo per la discesa. Inizia a tirare un forte vento e il cielo è terso, pochi minuti dopo un tonfo sordo: l’ho sentito altre volte e non ha mai portato belle notizie. Alzo gli occhi e il pendio collassa fino ai nostri piedi. Sono lastroni e il punto del distacco è di poco inferiore al metro per un fronte di 40/50 metri. Per fortuna non abbiamo riportato nessuna conseguenza tranne i miei sci, che avevo lasciato sul pendio, sotterrati sotto un metro di neve ma ritrovati. Mi raccomando, facciamo attenzione, le condizioni attuali, a causa del forte vento, devono essere valutate attentamente! La nostra esperienza, il nostro istinto ci vengono sempre in aiuto, ma ascoltare i segnali che ci invia la montagna è fondamentale» conclude Munarin che ha parlato della sua gita su Facebook, pubblicando foto e un post per sensibilizzare gli altri attraverso la propria esperienza. Quegli stessi social media (e ogni canale di comunicazione) che influenzano le nostre scelte, nel bene o nel male. In fin dei conti sono dei mezzi, come dice il termine, e sta a ognuno di noi utilizzarli nel modo più appropriato.













