Skialp Gran San Bernardo, dove il sole scia con te

«Il programma è risalire il Vallone del Gran San Bernardo, sempre tenendo gli impianti di Crevacol come punto di partenza e dirigendoci sulla sinistra, per arrivare fino al vecchio bivacco della Tête de Crevacol (2.621 metri) dal quale si apre una panoramica su quasi tutte le cime più alte della valle e gli immensi, bianchi valloni circostanti, compreso quello del passo del Gran San Bernardo con il famoso ospizio. Salendo, lo sguardo si perde sul colle del Malatrà, ultimo mitico passaggio del Tor Des Géants. E, più in lontananza, sulla cima del Monte Bianco. Siamo una bella compagnia oggi, tutti in fila indiana dietro alla Guida che, di tanto in tanto, si ferma per mostrarci le varie cime. Non c’è vento, solo una leggera brezza che va a mitigare il calore del sole. Sole, l’immancabile sole, presente dal mattino fino al tramonto, che accarezza e trasforma la neve. Non siamo gli unici a salire. Sono anche oggi tanti gli scialpinisti che, innamorati di questa vallata magica ed evocativa, lasciano la loro impronta allungata sui vari itinerari. Lontani dalle piste tanto quanto basta per apprezzare il silenzio della montagna, il pensiero corre alla grandissima quantità di linee, salite, discese e paesaggi. Al fatto che una o due giornate non bastano certamente, che bisognerebbe rimanere qui almeno una settimana e ancora potresti non averne abbastanza». Scrive così Tatiana Bertera su Skialper 128 di febbraio-marzo a proposito del nuovo comprensorio a misura di scialpinismo Skialp Gran San Bernardo, in Valle d'Aosta, frutto di un progetto INTERREG con la vicina valle svizzera di Bagnes. Oltre 30 itinerari sono stati censiti, mappati e in alcuni casi anche ripresi con il drone, poi c'è un app specifica, uno servizio skialp-bus, la possibilità di affidarsi a Guide e Maestri di sci e di scegliere la sistemazione migliore e il ristorante giusto dopo le fatiche con sci e pelli. Siamo stati tra i primi a scoprire questa realtà da vicino, mettendoci gli sci ai piedi e ne parliamo in un ampio reportage su Skialper 128 di febbraio-marzo.


Roberto Munarin, il cielo in una stanza

«Lui dice che così si gioca il jolly. Uno a settimana, il sabato. Quel giorno può andare, può fare quel che vuole. Ma la domenica no: quella è tutta per Anna. E a lei non si può negare nulla. Ma a Roberto Munarin un giorno basta e avanza. Per anni e anni, con un jolly ogni sette giorni ha fatto cose che tanti umani neppure in una vita. E comunque, ora che è tempo di abbassare le luci sul lavoro da consulente tessile esperto di stile, chissà che qualche altra matta esca dal mazzo. Che ci sia tempo per fare ancora di più. Chissà». Scrive così Veronica Balocco su Skialper 128 di febbraio-marzo a proposito di Roberto Munarin, 59 anni, gragliese trapiantato a Muzzano, gioiellino dell’alta valle Elvo biellese, all’ombra del Mucrone.

© Daniele Molineris

«Una vita intera a pestare rocce, neve, ghiaccio e terra fra questi stessi punti GPS non è bastata a stancarlo. Né, è sicuro, lo stancherà mai. Da San Carlo al colle Carisey, dal Giassit al Camino, alla Nord del Mars, al Mombarone, fino alla valle Oropa e poi ancora e ancora, se un Pollicino avesse raccolto tutte le briciole lasciate a terra da Munarin in quasi quarant’anni di strada, ne avrebbe fatto una montagna. Una grande montagna ripiena di dieci, cento, millemila avventure. Di scalate, chiodature, salite con gli sci, ravanate, scoperte, linee nuove e discese ripide. Farcita di aperture, sistemazioni, bonifiche, camminate e ciaspolate. E insaporita di piccozzate, vie ferrate, escursioni e sciate in solitaria. Una ricetta che nessun altro da queste parti, sulle Pennine che guardano a Biella, ha mai saputo amalgamare fino a questo punto». Una ricetta tutta da leggere… su Skialper 128.

© Daniele Molineris
© Daniele Molineris

Black Diamond Jetforce Pro ai raggi x

Il pallone ha una capienza ai vertici della categoria, da 170 litri, ed è realizzato in resistente Cordura. Anche in caso di piccoli fori rimane gonfio in quanto la ventola continua a tenere l’aria in pressione per tre minuti. Successivamente si aziona in senso contrario svuotando il pallone e creando, nel caso che ci si trovi comunque coperti da neve,  una sacca d’aria che prolunga le probabilità di sopravvivenza. Le operazioni di ripiegamento del pallone sono semplici non dovendo  seguire un piano di piega del telo prestabilito. Il fatto di non dovere utilizzare una cartuccia, oltre a evitare qualche formalità in aereo, permette di esercitarsi quante volte si vuole.

Jetforce Pro è modulare: si acquista lo schienale con la cellula che contiene il sistema a ventola abbinata a una delle cover da 10, 25 o 35 litri. Le cover si applicano e tolgono tramite zip e possono essere acquistate con costi da 40 a 80 euro come accessori. Esiste anche la cover per la splitboard (Split Booster 25L).

Il cuore del sistema è stato rimpicciolito e alleggerito e ora è tutto sul fondo dello zaino, per distribuire meglio il carico. Vengono garantite almeno quattro aperture con temperature fino a -25 °C. La ricarica, tramite cavetto posto nella parte alta dello spallaccio destro, dura qualche ora.

La maniglia per lattivazione può essere regolata in lunghezza e spostata sullo spallaccio destro. Con un semplice tocco si accende un indicatore a led (4 led blu) dello stato di carica, tenendo premuto ancora, il sistema fa un auto-check della ventola e va in stand-by (il led verde lampeggia lentamente). Per aprire il pallone basta tirare la manopola. Scaricando lapp Pieps dedicata a artva e zaini airbag è possibile fare gli aggiornamenti di sistema, alcune modifiche sulle impostazioni , i controlli del funzionamento e addirittura scaricare un certificato. Tutto il procedimento è semplice e dura pochi minuti.

Nelle versioni da 25 e 35 litri c’è un ampio scomparto con tasche per pala e sonda. Nella foto la pala Evac e la sonda iProbe di Pieps che durante la ricerca fine emette un segnale acustico sempre più intenso man mano che diminuisce la distanza dall’artva del sepolto permettendo di risparmiare secondi preziosi.  Nella versione 10 litri c’è una tasca porta materiale sul retro della cover. Le versioni con cover da 25 e 35 litri hanno il portapiccozza. Il portasci, su tutte, è diagonale per non ostacolare l’apertura del pallone. Portacasco integrato.

Lo schienale è disponibile in due misure di dimensione dorso e giro vita. La cinghia di sicurezza viene bloccata nellapposita sede e stivata nella tasca laterale della cintura ventrale.

Jet Force Pro costa a partire da 1.100 euro con la cover da 10 Litri

eu.blackdiamondequipment.com

(foto di Daniele Molineris)


Effetto Albedo, Il cuore oltre la linea

«Non nascondo di averli guardati all’inizio con un certo scetticismo, sembravano l’ennesimo gruppo di amatori presi bene, tutti powder e GoPro. Poi le cose si sono fatte più chiare: questa è gente che scia un sacco e scia pure bene. Per sciare bene intendo dire la capacità di sapere scegliere le linee, andando a posare i propri sci e le proprie split in montagne poco o per nulla frequentate e su neve spesso più bella di quella che trovano gli altri. Insomma, ho dovuto ammettere a me stesso che la mia disistima altro non era che una malcelata forma di invidia e ammirazione. Probabilmente perché in montagna viene più facile storcere il naso che battere le mani. Nel frattempo loro continuavano a martellare una linea dopo l’altra, spesso su cime dai nomi sconosciuti e tuttavia dietro l’angolo, situate tra l’alto Piemonte e la Val d’Aosta: postacci in cui solo chi aveva voglia di fare fatica andava a infilarsi. E già questo spezzava una lancia a loro favore, perché se nel variopinto mondo dei social network ci sono quelli che parlano e quelli che camminano, con le loro uscite esplorative stavano dimostrando di appartenere alla seconda categoria». Scrive così Federico Ravassard su Skialper 128 di febbraio-marzo a proposito dei ragazzi di Effetto Albedo. 

© Federico Ravassard

A Flavio, Paolo, Francesco e Stefano basta alzare lo sguardo alla ricerca di una linea inusuale da percorrere con split e sci, magari dietro a casa, dove nessuno - o al massimo pochissimi - sono passati. Perché è sufficiente un po' di fantasia per trovare l'avventura dietro casa. Così tra il fare un'intervista alla scrivania e andare a ravanare su qualche versante poco battuto... Federico si è trovato a partire alle 4.30 di mattina per battagliare con gli aghi di larice e raggiungere il versante Sud del Monte Berrio, in Valpelline, Valle d'Aosta. L'articolo e le foto sono su Skialper 128 di febbraio-marzo.

Ma perché Effetto Albedo poi? L'Albedo è il potere riflettente di una superficie nei confronti della luce. E, guarda caso, nella neve l’albedo massima è quella che caratterizza la polvere, la stessa che tutti gli sciatori - specialmente loro - vanno bramando!

© Federico Ravassard

 


Curve vista mare con il CAI Savona

Curve vista mare. Un nome suggestivo per un fine settimana sulla neve, una no-stop di skialp sulle Alpi Marittime. È la curiosa proposta del CAI di Savona che da venerdì prossimo, 7 febbraio, a domenica propone un weekend diverso. Pellate serali ‘vista mare e tramonto’, proiezioni di film tra neve e mare ambientati in Norvegia. E naturalmente pellate e ripellate. La base sarà il rifugio Savona, nei pressi di Garessio, nel Cuneese, e le escursioni, nella giornata di venerdì, sabato e domenica prevedono dislivelli tra i 1.000 e 1.200 metri e difficoltà MS-BS. Sabato e domenica il rifugio sarà aperto a tutti i visitatori di passaggio con la possibilità di consumare un tè e un dolce. Costo totale dei tre giorni con due notti al rifugio, due colazioni, cena al ristorante, cena al rifugio, due paste di gruppo, 55 euro. Per info: www.caisavona.it- tel. 019 854489


Il 29 febbraio lo Snow Leopard Day a Spiazzi di Gromo

Speedup per il leopardo delle nevi. Questo il motto che sabato 29 febbraio risuonerà in Germania, Austria, Italia, USA, Polonia, Bulgaria, Norvegia, Slovenia e Slovacchia e che spingerà tutti gli appassionati di scialpinismo a munirsi di pelli e partire. In Francia e in Svizzera l’evento si terrà invece domenica primo marzo, mentre in Grecia si dovrà attendere ancora una settimana (8 e 9 marzo).

Con lo Snow Leopard Day Dynafit chiama a raccolta gli appassionati di scialpinismo – non importa se professionisti o principianti – per percorrere metri di dislivello su tracciati prestabiliti. Alla fine della giornata, ogni metro di dislivello percorso verrà commutato in una donazione di un centesimo di euro. E per quest’anno Dynafit ha pensato a un’importante novità per stimolare ancor di più lo spirito di tutti i partecipanti: chi percorrerà più metri di dislivello riceverà un premio speciale firmato Dynafit. Insomma, un motivo in più per impegnarsi. Anche chi non possiede la propria attrezzatura da scialpinismo potrà aiutare il leopardo delle nevi. Durante la manifestazione sarà infatti possibile usufruire gratuitamente dell’attrezzatura Dynafit e provare sci e scarponi ed alcune novità 2020/21 in anteprima assoluta. Il ricavato sarà devoluto interamente alla Snow Leopard Trust, organizzazione no profit che collabora strettamente con DYNAFIT da molti anni.

Lo Snow Leopard Day 2020 si terrà il 29 febbraio (se non altrimenti specificato) nelle seguenti location:

BULGARIA – Vitosha

GERMANIA – Kiefersfelden/Kufstein, Kaiserlift

FRANCIA – Val Thorens – 01.03.20

GRECIA – Metsovo - Lakmos - Valia Calda – 08./09.03.20

ITALIA – Spiazzi di Gromo (BG)

NORVEGIA – Voss

AUSTRIA – Puchberg am Schneeberg

POLONIA – Beskidy, Zawoja Mosorny Gron

SVIZZERA – St. Antönien, Prättigau – 01.03.20

SLOVACCHIA – Malá Fatra – 29.02.20 Sučianska Dolina / 01.03.20 Trusalová

SLOVENIA – Dom na Zelenici

USA – Aspen, Elk Mountains Colorado

Maggiori informazioni relative allo Snow Leopard Day, alle location e all’organizzazione sono disponibili al sito: https://www.dynafit.com/de-de/snow-leopard-day-2019

La Snow Leopard Trust:

Dal 1981 l’organizzazione Snow Leopard Trust, con sede a Seattle, si impegna nella protezione degli esemplari del leopardo delle nevi e nel portare avanti ricerche sulla specie di questo felino, minacciato di estinzione. L’habitat del leopardo delle nevi si sta riducendo sempre più. I ricercatori hanno stimato che a oggi ci siano solo 3.500 esemplari in cattività. Bracconaggio, cambiamenti climatici e la notevole riduzione dell’habitat rappresentano una minaccia sempre più grande per questo esemplare. L’organizzazione ha dato vita a progetti in Cina, India, Kirghizistan, Mongolia e Pakistan per studiare il leopardo delle nevi e,  in collaborazione con la popolazione delle regioni montane, sta cercando di ripristinare e rafforzare il suo habitat. DYNAFIT, che si identifica con questo aggraziato felino, come partner dell'associazione persegue l’obiettivo di tutelarlo. La pluriennale collaborazione con la Snow Leopard Trust fa parte dell’impegno CSR di DYNAFIT che il brand amplia di anno in anno.


In arrivo Skialper 128 di febbraio-marzo

Abbiamo voluto legare le storie di Skialper 128 di febbraio-marzo con il filo rosso dell’underdog, del non pronosticato, dell’inaspettato. Che poi, spesso, è proprio davanti al nostro naso anche se non ce ne accorgiamo e ci sciroppiamo migliaia di chilometri alla ricerca dell’erba voglio. Ci sono luoghi o persone di cui si parla poco o meno, che non hanno i favori del pronostico ma, proprio come i migliori underdog ai Giochi olimpici, vincono. Sono vere e proprie sorprese. 192 pagine ricche di storie e persone. Da leggere con calma. Skialper 128 sarà in edicola a partire dal 5 febbraio ed è prenotabile anche nell’edicola digitale di Skialper.

ARNAUD COTTET, LO SCI IN PUNTA DI PIEDI - Arnaud Cottet è un personaggio poliedrico, dalla tecnica sciistica invidiabile, con doti di documentarista, regista, giudice olimpico… Qualche anno fa ha deciso di prendere un’auto e andare a sciare in Afghanistan, prima lo aveva fatto in Iran. Partendo da casa sua, in Svizzera. Ha fatto cose che voi umani con naturalezza e leggerezza. La stessa con la quale il suo obiettivo ha raccontato i viaggi nei film che ha prodotto, assolutamente da vedere. Un’ampia intervista per scoprire il suo approccio alla montagna e allo sci, gli aneddoti di una vita da giramondo e il suo ultimo progetto.

© Arnaud Cottet

SEI PERSONAGGI SOTTO TRACCIA – Sono giusto sei. Magari meno conosciuti, magari non così mainstream e social addicted. Ma hanno sciato pareti e canali più che degni di nota, si sono inventati traversate epiche o semplicemente, come scrive Andrea Bormida, «Accecati dal tamtam mediatico di mountain addicted che bramano di far conoscere imprese o quanto sono fortunati a vivere il sogno dello sci domenicale ai loro colleghi d’ufficio della settimana, spesso ci si dimentica che le fiamme più forti e durature bruciano in disparte o quasi». Sono le fiamme di Andrea Schenone, Christian Botta, Giovanni Rovedatti, Maurizio Agazzi, Michael Sinn e Diego Filosi.

ERIC DELLE MONTAGNE - Non è certamente la classica Guida alpina che è nata tra i monti e ha seguito le orme dei padri Eric Girardini, che esercita principalmente tra le Pale di San Martino, dove ci ha portato a inizio gennaio. Ma un personaggio di quelli con cui potresti tirare notte fonda davanti a un camino perché ha un vissuto davvero ricco, anche lontano dalle montagne, che però rappresentano un punto fermo della sua esperienza, soprattutto le sue amate Pale di San Martino, dove ha sciato praticamente in ogni canale. Un avvincente racconto… dal Messico a San Martino di Castrozza.

© Alice Russolo

PINDO, LA NEVE PRIMA DELLO SCI - La catena del Pindo si estende dal Sud dell'Albania al Nord del Peloponneso per circa 180 chilometri. E d’inverno nevica… anche tanto. Per sfatare i luoghi comuni della Grecia tutta mare, isole, ouzo e tzatziki Umberto Isman si è avventurato tra pini loricati, piccole stazioni sciistiche molto caratteristiche, monasteri ortodossi quasi deserti e paesini silenziosi.

© Umberto Isman

SKIALP GRAN SAN BERNARDO - Trenta itinerari censiti e mappati, a volte anche con un video realizzato con il drone, un avveniristico bivacco per gli skialper, discese freeride, un pullmino per rientrare al punto di partenza e delizie gastronomiche a chilometro zero: siamo stati nel comprensorio per lo scialpinismo che sta sorgendo tra Italia e Svizzera. Nella Valle del Gran San Bernardo, a Saint-Rhemy-en-Bosses, e nella vicina valle di Bagnes, in Svizzera, grazie al fondo europeo Interreg hanno gli scialpinisti nel cuore e noi abbiamo provato in anteprima itinerari e servizi di questa destinazione a misura di skialp.

© Stefano Jeantet

OSPITE IN CASA MIA - Pietro Lamaro è originario del Centro Italia, ma è emigrato al Nord, tra le Dolomiti, per dare sfogo alla sua passione per lo sci e la montagna. Eppure proprio dietro casa ci sono montagne che per certi aspetti hanno poco da invidiare alle Alpi… Ecco così che decide di partire per provare la traversata della Majella da Sud a Nord, dalla stazione di Palena a Pennapiedimonte: 15 vette lungo 40 chilometri di altopiano. Non si tratta esclusivamente di una traversata di qualche giorno, come fosse un’alta via, l’obbiettivo è quello di combinare una bellissima avventura itinerante in tenda alle tipiche discese in firn che offrono i valloni esposti a Ovest, in gergo chiamati rave.

EFFETTO ALBEDO, IL CUORE OLTRE LA LINEA - Flavio, Paolo, Francesco e Stefano. Quattro ragazzi, quattro sciatori e splitboarder alla ricerca di montagne e discese poco o per nulla frequentate ma dietro l’angolo. Con lo spirito dei veri amatori, quelli che si lasciano sempre trasportare dalla passione. Siamo usciti anche noi con loro, proprio su una linea sconosciuta e dal difficile accesso…

© Federico Ravassard

IL CIELO IN UNA STANZA - Oltre 1.200 tiri di corda chiodati, un centinaio di salite inedite in solitaria, un progetto per collegare tutte le Alpi Biellesi a fil di cresta sci ai piedi: Roberto Munarin ha sempre pestato rocce, neve, ghiaccio e terra fra gli stessi punti GPS, quelli delle Alpi Pennine del Biellese, ma non ha finito ancora di esplorare.

© Daniele Molineris

ESTEFANIA TROGUET - Due ottomila, Nanga Parbat e Manaslu, in un anno. La ventisettenne andorrana ha deciso di fare sul serio. Ma, anche a ottomila metri, non rinuncia mai al rossetto sulle labbra.

POMOCA - Ovvero, PO (peau) - MO (mohair) - CA (caoutchoutée). Il marchio svizzero è leader nella produzione delle tessilfoca. Siamo stati in azienda a vedere come nascono le pelli.

© Federico Ravassard

ANTEPRIMA 2021 - Lo scarpone G5 Evo di La Sportiva utilizzato da Tamara Lunger sui  Gasherbrum, ma anche i nuovi scarponi da skialp, sempre di La Sportiva, Vega, oppure gli Scarpa F1 LT, i nuovi sci Ski Trab Ortles, Stelvio e Gavia e i primi attacchi ATK Bindings con base del puntale in carbonio.

© Brey Photography

MUST HAVE - La consueta rubrica con abbigliamento e attrezzattura che non può mancare nell’armadio del vero skialper. In questo numero abbiamo inserito anche qualche anteprima 2021 e le foto sono state scattate nel delizioso borgo di Chiappera, in Val Maira. Ventuno pagine da non perdere.

© Daniele Molineris

SKI LOCAL - Negli ultimi dieci anni gli stili di vita sono stati trasformati dall’esigenza di inquinare meno. Lo skialp può diventare più verde? Forse sì, ripensando l’idea di trasferta e utilizzando la bici o la ebike come mezzo di avvicinamento. Richiede impegno e volontà, ma regala tante sorprese.

© Paolo Sartori

PORTFOLIO - Un fiocco di neve formato da nudi, il fascino delle Alpi Orobie, al centro del film Le Traversiadi, ma anche le foto del museo della fotografia di montagna Lumen, gli scatti del fotografo Bruno Long e un’insolita falesia di Céüse in chiave scialpinistica nelle pagine dedicate al portfolio.

© Alice Russolo

 

 

 

 

 

 

 


Sono Eyda e non cambio

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Destinazione Gap, a Montmaur, il buen retiro di Matteo Eydallin. Lì, in mezzo al verde, con due cavalli, un mulo, una pecora, due cani. E la fidanzata. Che è veterinaria. La sua vacanza. Per uno che detesta la folla, difficile immaginarlo in spiaggia ad agosto. In fondo c’è tutto quello che serve: strade giuste per pedalare, con la corsia dedicata ai ciclisti, e soprattutto la falesia di Céüse.

Cinque Mezzalama, vuol dire che sei stato al vertice per oltre dieci anni. Qual è il segreto?

«Ho sempre cercato di fare quello che mi piaceva nella fase della preparazione. Non mi sono mai imposto troppe regole: al mattino esco in bici perché mi piace pedalare con gli amici, nel pomeriggio cammino quasi un’ora per arrivare ad arrampicare e lì poi mi concentro sui miei progetti. Non sto troppo a pensare: devo fare tot metri di dislivello, altrimenti rimango indietro, ma li metto insieme come voglio io. Forse è un auto-inganno, per farmi piacere le cose. Forse chissà, allenandomi di più avrei vinto di più, ma sarei rimasto competitivo per meno tempo. Non lo so e non mi interessa: per me ha funzionato così e continuo così, senza tanti sbattimenti. Perché cambiare? Mi alleno ancora volentieri, ma pedalando e scalando. Credo che anche il corpo e la mente ne abbiano un beneficio».

Una sorta di anarchia nell’allenamento?

«Non direi così. Anarchia sarebbe non allenarsi e andare a gareggiare. Mi alleno con il mio metodo. Chiamalo metodo steppen se vuoi. Credo che ogni atleta dovrebbe arrivare a trovare il suo lavoro di preparazione ideale, e lì sta anche la bravura di un allenatore. Le linee guida si sanno, ma ognuno deve applicarle al suo stile di vita. A me non piacciono le ripetute, per esempio, non le faccio, piuttosto vado a una notturna, mi metto il pettorale e pompo a mille. Non so neppure se ho raggiunto la soglia, non ho neanche l’orologio che me lo dice, ma capisco che uno stimolo al mio corpo l’ho dato. Di scientifico non c’è nulla - lo so - diciamo che è tutto gestito in modo naturale, senza stress».

Perché la testa conta come le gambe.

«Più delle gambe. Per questo dico che se butti tante energie mentali per troppe regole in allenamento alla fine ne hai di meno il giorno della gara. Di solito quando punto un evento, mi concentro tutto su quello, ma senza un programma preciso. Per esempio prima delle finali di Campiglio avrei dovuto scaricare, ma la testa era già al Mezzalama. E allora dentro con tanti lunghi, anche spingendo: alla fine a Campiglio sono andato bene e il Mezzalama l’abbiamo vinto. Non mi è pesato mentalmente, anzi. Il giorno della gara sai che devi fare fatica e io il giorno della gara ho voglia di fare fatica. Perché la testa è solo su quello: sono pronto a dare il massimo in quel momento».

Eyda sta armeggiando per regolare l’attacco di un vecchio monosci, c’è un raduno old style sulle nevi della vicina Devoluy e lui vuole partecipare proprio con quello. Una vita legata allo sci la sua, prima con sci club Sauze d’Oulx, poi con il passaggio dall’alpino allo scialpinismo grazie all’amico Federico Acquarone che lo ha coinvolto nella nascente squadra del Comitato Alpi Occidentali. Vedeva gli amici fare la gita con le pelli, ma mai avrebbe pensato a un futuro agonistico. Adesso in pista non ci va più, scia sempre a fianco e, se per forza la incrocia, fa un dritto per arrivare in fondo veloce. Comunque nell’albo dei maestri c’è sempre, agli aggiornamenti ci va e quando gli istruttori lo vedono sanno chi è, ma capiscono subito che non ha più la stessa confidenza con lo sci da pista, almeno nei primi giri. Tutto poi torna come prima. Insomma, questione solo di abitudine.

Come hai visto l’evoluzione dello ski-alp?

«L’involuzione dello scialpinismo (ride). Quando ho iniziato io c’erano un sacco di gare, un vero boom, dalle notturne alla Coppa Italia. Adesso sono rimaste quelle che tirano, le altre fanno fatica o chiudono. Forse qualcosa di più di un naturale assestamento. Manca quell’ambiente più familiare che c’era prima, ora è tutto esasperato, dai regolamenti ai costi, e alla fine ti fai la gita. Se poi ci metti il discorso delle divisioni, che fanno schifo, allora il cerchio si chiude. Le Olimpiadi? Andrebbero bene se ci fosse un sistema organizzato alla base, non penso che tutto si crei solo perché si va ai Giochi. E poi quante nazioni sono pronte?  Secondo me il principio è quello di non buttare lì gare tanto per farle. Cosa andiamo a gareggiare in pista, se la maggioranza delle stazioni non vogliono lo skialp? Partiamo presto e i pochissimi che sono attorno a noi non sanno neppure cosa stiamo facendo. Almeno ci fosse un minimo di promozione. Andiamo alle Olimpiadi a far ‘sta roba? Secondo me perdiamo lo spirito dello scialpinismo».

E quella dei materiali?

«Credo che sia stata fondamentale. Nel mondo race c’è stata un’evoluzione incredibile, soprattutto in termini di leggerezza. Il nostro sci può essere estremo, ma adesso puoi trovare aste più larghe, attacchi che tengono benissimo, scarponi performanti che derivano da quello progettato sui nostri: un sistema che ti permette di non ammazzarti di fatica in salita e divertirti al massimo in discesa».

© Gabriele Facciotti

E nella tua sciata?

«Lavoro sulla tecnica che ti porta a sciare veloce in gara o comunque a risparmiare energie per affrontare la salita successiva senza avere le gambe fuse anche dalla discesa. Vado in tutte le condizioni, nebbia, crosta, polvere, marmo, sempre con gli sci da gara: solo così trovi le sensazioni e gli equilibri giusti. Credo che lo skialp non sia metri di dislivello in pista e cardio, ma sensibilità e lettura delle linee in discesa: per questo secondo me le gare in pista non sono vere gare. Quando mi allenavo da ragazzo il gigante iniziava a metà pista rispetto all’arrivo della seggiovia, e noi nel mezzo andavamo fuori pista a fare i deficienti, a saltare con gli sci da gara. Il fatto di essere stato sempre sulla neve mi ha aiutato a capire tante cose più rapidamente quando devi scegliere la traccia giusta in discesa. E magari trovare una linea di polvere dove puoi andare dritto, invece di rimanere dove devi fare lo slalom in mezzo alle bandierine. Una sorta di conoscenza acquisita, comunque affinata negli anni. Se poi qualcuno ti passa in discesa non importa, anzi. Le differenze sono minime e se lo vedi cadere passi da un’altra parte. E di solito comunque non mi staccano in discesa…».

Quanto vai ancora a sciare per divertimento?

«Una volta ero più malato. Ho fatto diverse uscite sul Bianco, Diable, Tour Ronde, altre sul Rosa, adesso sono preso dall’arrampicata, è un periodo così. Di canali ne faccio ancora in primavera, ma solo qui vicino, negli Écrins e nel Devoluy, senza sbattimenti per cercare le condizioni. Se ci sono vado, altrimenti preferisco arrampicare. Poi non fanno per me le alpinistate: camminare, alzarsi presto, prendere freddo, la quota, lo zaino pesante. Torno al discorso di prima: lo farei solo se avessi il trip di scendere un certo canale perché mi son messo in testa di sciarlo. Adesso ho in testa l’arrampicata e voglio migliorarmi in quello: l’anno scorso un 8b, quest’anno sono partito con diversi 8a, vorrei chiuderne un altro di 8b in estate. Sempre qui a Céüse. Mi piace fare sport, ma lo sport che mi diverte e ho voglia di praticare».

Oggi nel pomeriggio non va ad arrampicare. C’è il figlio di un amico che punta a entrare in una scuola sportiva, ci sono dei test da superare, gli ha chiesto consigli e l’allenamento di Eyda per un giorno è questo. Un po’ di esperienza sul campo sul come affrontare e gestire un certo tipo di sforzo. Al futuro non ci pensa, vive molto di presente, non si immagina cosa farà da grande. Finché avrà voglia di gareggiare continuerà, poi si vedrà.

Ti immagini allenatore?

«Di pali non credo proprio! Vedo tanti più giovani alle gare di skialp, ma a quattordici anni non ti inventi di diventare un garista. C’è la necessità che ci sia qualcuno che li porti prima di tutto in allenamento e poi alle gare. Tutto deve partire dagli sci club, bisogna iniziare a inserire anche lo scialpinismo nei loro programmi. Un giorno vai con le pelli, un altro fai freeride, un altro ancora gigante e così ti diverti pure a quell’età. E magari anche quelli presi meno dai pali continueranno e faranno anche le gare».

© Gabriele Facciotti

Eppure di esperienze da raccontare, da come si gestisce una crisi a come si organizza una gara a squadre, ne hai.

«Sì, ma sono esperienze personali, bisogna sempre saper bene con chi ti confronti. Io non ho una pompata esplosiva, ma so bene che quando parto devo dare tutto, anche se non vado a regime subito. A volte quel giorno cerchi solo di portare il culo a casa, oppure, se le gambe ci sono, sai che comunque la luce non si spegne, basterà anche solo bere per riprendersi. Per questo amo le gare lunghe. Le gare lunghe e in squadra. Ho sempre avuto compagni fortissimi e tra di noi non c’è mai stato spirito di competizione, la voglia di far vedere chi è più forte. Se capisci che il socio ne ha di più, perché non farti aiutare? Io mi sono fatto tirare anche la prima salita del primo giorno di una gara a tappe, spesso anche quando non era necessario, eppure… Partire in modo non arrembante, saper capire prima che serve un aiuto del compagno e farsi subito aiutare sono le chiavi giuste. Se poi la squadra è la stessa per tanti anni, diventano quasi automatiche».

Testatore?

«Ognuno è vittima delle proprie incoerenze. Su quest’aspetto sono pignolo e preciso: credo che Italo di Scarpa tutte le volte che mi vede diventi matto per quanto lo stresso sull’inclinazione, la ghetta, la chiusura. Lo stesso vale per lo sci, su certi aspetti non transigo: voglio l’attacco quasi due centimetri avanti, perché con lo sci corto preferisco più coda. Ma sono input che do per me, per il mio tipo di sciata in gara. Non mi ritengo in grado di decidere per gli altri: non pretendo di dire a Dynastar di spostare la linea guida del centro o le piastre di rinforzi per tutti gli sci che vanno sul mercato solo perché vanno bene per me».

Per capire meglio Eyda bisogna conoscerlo bene. Parlargli. Una carriera da diplomatico non la potrebbe mai fare. Lui è fatto così, prendere o lasciare. Oppure dare un’occhiata al suo Fiorino dove il navigatore sono vecchi atlanti stradali, Spotify i cd, lo smartphone un vecchio Nokia. Ma non perché voglia essere l’alternativo di turno, semplicemente perché è così. Ma la bici te la sei fatta dare?. Risposta: No, comprata. Altrimenti troppi sbattimenti per fare vedere che la stai usando. Io vado in bici per il piacere di pedalare, mica penso a fare i selfie. E poi non sarei neppure in grado di farli, i selfie.

Con tutto quello che hai vinto non pensi che avresti potuto essere ancora più personaggio?

«Sicuro. La mia immagine non l’ho mai venduta. A dire la verità, le mie performance non le ho mai vendute. So che in questi anni non mi sono fatto amici, non mi sono mai morso la lingua nelle mie dichiarazioni, mi sono sempre preso la libertà di dire quello che pensavo. Sono un esempio di alta performance, vendita zero. Non dico che sia giusto così, sono io che non voglio dare un’immagine diversa da quello che sono veramente per guadagnare di più. Non che i soldi mi facciano schifo, intendiamoci. Sono così, preferisco farmi i fatti miei. Se non mi conosci, dall’esterno potrei sembrare una testa di c..zo e la mia immagine non è così buona: è bravo a fare quello che fa, ma non è quello che noi sponsor vogliano vedere. Se non fosse per mio fratello Stefano sui social il mio account sarebbe inesistente. C’è chi mi stima, sono pochi ma sinceri. Magari altri, conoscendomi meglio, potrebbero farsi un’idea diversa di me. Ma non posso obbligarli. E forse proprio per il fatto che sono sempre rimasto me stesso ho tenuto botta in tutti questi anni».

Ah, siamo tornati a casa con due birre in più nella pancia. Perché una birretta con Eyda è quasi d’obbligo.

© Gabriele Facciotti

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Mongolia Split Experience

Gli ultimi raggi del sole illuminano i pochi yak e cavalli che pascolano pacifici nelle distese verdi a perdita d'occhio. I minuti scorrono senza alcun significato. La gente di queste terre non ha l’orologio e vive guardando il sole. Siamo seduti sulla ghiaia vicino ai furgoni, stiamo perdendo tempo. La gomma bucata non è una sorpresa se realizzi che quelle che qui chiamano strade per noi sarebbero sterrate e anche la rottura di un misterioso pezzo della trasmissione non sembra essere del tutto inaspettata. Si sa che le auto possono avere problemi nelle lande desertiche della regione dell’Altai che si trova tremendamente lontana da tutto ciò che si può chiamare civiltà secondo gli standard occidentali. Alcuni uomini a cavallo sono andati a controllare le greggi che pascolano liberamente in centinaia di chilometri quadrati e si fermano al nostro improvvisato posto di blocco. Occhi curiosi ci scrutano da sotto quei cappelli di cuoio che proteggono i pastori da sole e vento, quegli occhi luminosi che sono l’unico modo di comunicare quando hai bisogno di aiuto. «Sain uu!» dice Woogie mentre si toglie gli occhiali da sole con lenti polarizzate. Il riflesso dell’uomo a cavallo scompare per lasciare posto a uno sguardo amico. Senza gli occhiali, anche se con il tradizionale deel, passa velocemente dallo stile di città a quello di cacciatore. Vederlo parlare con l’uomo a cavallo ti fa quasi dimenticare che Woogie, al secolo Battulga Gantulga, è il fondatore della Mongolian Professional Snowboard Federation e anche la ragione del nostro viaggio sulle montagne più alte del Paese, nel Tavan Bogd National Park. La notte arriva veloce e decidiamo di allestire un campo nel nulla di questa steppa, sotto milioni di stelle. Niente farebbe presagire che siamo in un luogo adatto a snowboard e splitboard se non fosse per le nostre sacche ricoperte di polvere che contengono le tavole.

© Mirte Van Dijk/Mvd Media

VIAGGIO VERSO L’IGNOTO - La stressante routine della città ha lasciato spazio a uno stile di vita che segue i ritmi del sole. Il rumore dei cavalli selvaggi che frugano con il muso nella ghiaia vicino alla tenda è il suono più forte, l'unico che può farti svegliare. Certo, se non sei stato destato prima dal profumo del tsuivan, una colazione che sembra più una cena ed è molto apprezzata da chi brucerà calorie facendo sport per il resto della giornata. Mangiamo piano, alle sette e mezza della mattina non siamo sicuri che il nostro stomaco gradirà il mix di carne con carote, cipolle, patate e noodle. Anche per i nostri quattro amici mongoli il viaggio nella natura selvaggia è soprattutto un viaggio verso l’ignoto. Soprattutto perché qui le temperature in inverno sono così estreme che l’ultima cosa che ti verrebbe in mente è di scivolare sulla neve con una tavola. Però ci sono altri appassionati come loro che sono una garanzia per il futuro dello snowboard nella piccola stazione sciistica di Sky Resort, vicino a Ulaanbataar, la capitale della Mongolia. Probabilmente gli sport invernali non diventeranno mai popolari come le corse di cavalli, ma la passione di scivolare sulla neve di traverso sopra a una tavola ha valicato i confini della Russia e della Cina e conquistato appassionati. Nel 2009 Woogie ha fondato la Mongolian Professional Snowboard Federation e iniziato a collaborare con Mustafa, abbreviazione di Munkhsaikhan Gundsambuu, che non è solo uno dei rider del nostro team, ma anche un ottimo traduttore. Oggi i soci sono una sessantina e così si può dire che a Ulaanbataar c’è una importante community di snowboarder perché le persone che sanno usare una tavola, oltre ai soci, sono circa 300. Woogie e Mustafa stanno cercando di avvicinare altre persone allo snow in collaborazione con la piccola località sciistica Sky Resort e hanno aperto un noleggio di attrezzatura per chi non ha potuto fare arrivare le proprie tavole dal Giappone o dagli Stati Uniti. Sembra incredibile, ma è più conveniente importarle da questi Paesi che dalla Cina… «Ci sono anche due maestri ed è l’unico posto del Paese dove si può imparare ad andare in snow: nessun mongolo sale le montagne con gli sci o la split sulle spalle. L’unico motivo per il quale lo farebbe è per andare a cercare i propri cavalli» spiega Woogie. «Questo viaggio sarà una grande fonte di ispirazione per tutti i nostri snowboarder e spero che anche noi possiamo esserlo per voi» aggiunge con un lieve sorriso tra le labbra. Woogie ha girato il mondo per diventare un insegnante di snow e diffondere l’amore per lo sport bianco in patria. Con il suo certificato austriaco è l’unico maestro patentato della Mongolia e non ho dubbi che creerà una grande scuola. Dopo quattro giorni di viaggio eccoci arrivati alla porta del Tavan Bogd National Park. A guardare l’erba verdissima che ci circonda si stenta a credere che qui solo poche settimane fa c’era la neve e non avremmo potuto raggiungere il campo base a piedi. Però, visto che la cognizione di tempo da queste parti è ben diversa dalla nostra, ecco che ci tocca aspettare ancora un giorno prima di iniziare il trekking di cinque ore in compagnia dei cammelli fino al campo base, che sorgerà nel punto d’incontro tra i ghiacciai Alexander e Potanin. Il ritardo ha qualcosa a che fare proprio con i cammelli, che sono scappati verso la natura selvaggia, e le guardie di frontiera, che hanno voluto controllare più volte i nostri permessi. Ma ora eccoci finalmente arrivati ed è tempo di partire alla scoperta dell’ignoto.

BASE CAMP - Tavan Bogd è la catena montuosa più alta della Mongolia, il cui nome significa cinque Santi, vale a dire le cinque vette più elevate. Dal campo base le vediamo tutte queste montagne e davanti ai versanti ripidi carichi di neve primaverile e ghiaccio blu eterno siamo un po’ intimoriti e iniziamo a capire che sarà una bella sfida raggiungere al punto di partenza di una delle tante linee di discesa che abbiamo sognato. Dopo un giorno sul ghiacciaio abbiamo definitivamente capito che niente qui è come sembra. Abbiamo sottovalutato i tempi di avvicinamento. Per arrivare in vetta devi prima scendere la morena per due ore, poi attraversare il ghiaccio rugoso e in parte sciolto del ghiacciaio per tre ore prima di potere iniziare la salita vera e propria. Dopo questa sfacchinata capisci che le tue curve non sono mai state così senza senso: un giorno in quota significa dodici ore a camminare e arrampicare. Scendere con la split dura 20 secondi. Punto. Ma quando ti trovi negli Altai, un posto che non ha mai visto una tavola da split nella sua storia, è anche vero che ogni curva diventa d’oro. Dopo una settimana ci siamo abituati ai ritmi della vita da campo e a questi lunghi e intensi giorni, a lavarci nei torrenti gelidi, a mangiare khusuur e tsuivan per colazione, pranzo e cena. Le aquile che guardavamo estasiati i primi giorni ormai ci sembrano animali domestici, come le piccole marmotte che fanno capolino tra gli scarponi fuori dalle tende. La nostra tenda-cucina è diventata un melting pot di genti, non solo le otto persone della nostra spedizione. Per esempio Agvaan Danzan, una Guida alpina in attesa di clienti, o le guardie di frontiera, molto curiose nei nostri confronti. Una sera Woogie ha dovuto ammettere che i nostri permessi per il parco nazionale erano stati rifiutati. «I militari hanno capito che siamo venuti fin qui solo per fare snowboad e… guarda cosa mi hanno dato». Woogie ci mostra una ricevuta da 10.000 Tugrik. «Invece di pagare, il responsabile del posto di frontiera ci ha fatto entrare gratuitamente: c’è scritto buona fortuna a nome del colonnello». Il silenzio che ne è seguito non era per nulla legato all’attesa della traduzione, ma allo stupore.

© Mirte Van Dijk/Mvd Media

IL GIORNO PRIMA DEL GRANDE GIORNO - Con una grande tazza di suutei tsai tra le mani, niente altro che tè con il latte, guardiamo il grande ghiacciaio di fronte a noi. Finora abbiamo disegnato con le nostre split linee su due dei cinque Santi. La luce della mattina sottolinea la bellezza di queste montagne e stiamo preparandoci per un’inattesa escursione di due giorni. Nessuno di noi, onestamente, aveva pensato di salire sul re dei Tavan Bogd, il Khuïten Peak che, con i suoi 4.374 metri, è il più alto della Mongolia. Sembra tremendamente estremo, ma quando rimuovi quell’ingresso con una corda che penzola sul ghiaccio blu, il resto diventa una sfida che alcuni di noi pensano di potere affrontare. Le previsioni meteo lasciano presagire una finestra utile per raggiungere quel fianco della montagna che ci guarda negli occhi fin da quando abbiamo allestito il campo base. Però le mappe che abbiamo con noi, stampate a casa e scovate nel web più profondo, probabilmente dell’esercito russo, possono solo indicarci la direzione. Per quanto riguarda le condizioni di sicurezza, il tempo richiesto e il tipo di terreno dobbiamo fidarci dei nostri occhi e del nostro intuito. Quando partiamo con in spalla gli zaini più pesanti che abbiamo mai sollevato in questi giorni, noi quattro salutiamo il team Mongolia e ci avviciniamo, passo dopo passo, alla spalla che abbiamo individuato per bivaccare. Sembra vicina, ma ci vorranno alcune ore e presto le nubi ci avvolgeranno, rendendo difficile l’orientamento. Rens e Stephan, due esperti ‘segugi da ghiacciaio’, si danno il turno alla guida del gruppo per monitorare con attenzione la minaccia dei crepacci. Non puoi essere stanco in momenti come questi, non puoi distrarti quando cammini in un campo minato. Finalmente, dopo sei ore posiamo i nostri stanchi piedi dove abbiamo deciso di bivaccare. Le nuvole coprono tutta la valle ma il sole ci illumina ed è la prima volta che possiamo vedere così da vicino il versante est. Non rimane che una cosa da dire: «Dopo il viaggio della sopravvivenza di oggi, domani sarà il giorno della grande discesa». Le parole di Stephan sono forti e chiare.

SACCHI A PELO - Ancora avvolta nel mio sacco a pelo, cammino in direzione della cresta e vedo tre puntini che salgono sempre di più. Sono le quattro e trenta della mattina e puoi già sentire il calore del sole che sta per sorgere mentre la luce rosa rende tutto più piacevole, tanto che i puntini sembrano danzare sulla neve. Presto spariranno sull’altro versante della montagna, dove c’è il confine con la Cina e perderò ogni contatto con loro: non possiamo usare i walkie talkie in questa area di confine, le previsioni meteo sul satellitare sembrano approssimative e non ci sono mappe dettagliate. Aggiungo che siamo tanto lontani dai luoghi civilizzati che ci vorrebbero almeno due giorni per fare arrivare una squadra di soccorso. Ma non è tempo di farsi prendere dal nervosismo. Non ancora. Impiegano quattro ore ad arrivare all’inizio della discesa e subito dopo il primo puntino è attaccato alla corda all’inizio del pendio: è Stephan. La corda è stata una scelta obbligata perché i primi cinquanta metri a sessanta gradi sono una lastra di ghiaccio unica e scivolare qui significherebbe morte certa. Anche con il teleobiettivo è molto difficile intuire cosa stia succedendo, ma sembra che Stephan abbia perso la corda: spero di sbagliarmi perché iniziare la linea in quel punto sarebbe molto pericoloso. La fune dà solo trenta metri di sicurezza perché poi diventa solo una combinazione di abilità fisica e fortuna del rider di turno. Armato di piccozza, Stephan scivola con attenzione lungo un traverso che gli permette di evitare la grande seraccata, che richiederebbe come minimo cinque secondi di air time per essere superata. La sua prima curva non è certo una di quelle da ricordare, ma è forte e arriva alla base della parete senza nessun tentennamento. Mi ritrovo a sorridere e sono sicura che anche lui, mentre percorrere gli ultimi metri quasi piani, stia ridendo.

TICK TACK - Splitboard rotti, piccozze perse, zaini ridotti come immondizia. Poi abbiamo smarrito uno smartphone, ci siamo sbarazzati di un paio di bastoni e alcuni scarponi sono finiti nella pattumiera. La Mongolia è un Paese tosto e la natura non fa sconti. Dopo che Stephan ha trovato la sua linea di discesa, il tempo ha iniziato a correre e tutti abbiamo percepito il ticchettio dei minuti che scorrevano. Sébastien ha avuto la sua chance e dopo mezz’ora la sua battaglia con la Khuïten era terminata: due su tre avevano battuto il versante est della montagna, una vittoria inaspettata. Ma sapevamo che la linea di arrivo era lontana e ogni passo doveva essere affrontato con cura. Lasciare il bivacco nel tardo pomeriggio significa affrontare il ghiacciaio con i crepacci belli aperti e pieni di acqua di scioglimento. L’energia per i nostri stanchi corpi è stata appena necessaria per qualche curva e per risalire la morena che separava la fine del ghiacciaio dal campo base. Quattordici ore dopo esserci alzati ci siamo trascinati fino alle tende completamente a pezzi, con cinque minuti di anticipo sulla perturbazione. Per una volta il tempo è tornato ad avere un significato. Il sole è sorto e tramontato diverse volte nel nostro viaggio di ritorno verso la civilizzazione. Ora Seku mi passa il mio bagaglio, che si lascia dietro un discreto olezzo di cammello. Lo metto accanto a me e mi ci sdraio sopra. Ormai non sapere cosa succederà nelle prossime ore è diventato familiare e mi trasmette un senso di pace, come tutto quello che succede in questo Paese. Chiamiamo civilizzazione il mondo reale, ma una volta che hai visto la Mongolia capisci che cosa è veramente reale. E ti senti pronto per il grande viaggio.

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© Mirte Van Dijk/Mvd Media

Fantasmi e vecchi skilift

La strada che da Viù sale a Tornetti è ripida e stretta, i tornanti si susseguono uno dopo l’altro tra le piccole frazioni dove le persiane aperte delle case si contano sulle dita di una mano. Ha dato una spolverata di neve da poco da queste parti e il paesaggio è di un bianco candido, quasi irreale. In giro nessuno, d’altronde di residenti in questo angolo delle Valli di Lanzo ne sono rimasti otto. Qui le montagne formano un anfiteatro naturale, di una bellezza suggestiva. Dovrebbe essere famosa per questo Tornetti, ma così non è. Da anni ormai questa zona è conosciuta per ben altro, purtroppo. È qui tra i pascoli che affacciano sulla bassa valle che si trova l’ecomostro dell’Alpe Bianca. Un edificio imponente che sarebbe dovuto diventare un albergo, il sogno di alcuni avventati imprenditori che qui a cavallo tra anni ’70 e anni ’80 avrebbero voluto realizzare una stazione sciistica per attirare famiglie e sciatori torinesi, vista la relativa vicinanza al capoluogo piemontese. Gli impianti girarono fino al 1995, poi il calo di sciatori, i costi di gestione e la scarsità di neve ne decretarono la chiusura. L’albergo, un transatlantico di sei piani, non venne mai finito, e ora rimangono uno scheletro di mattoni pericolante, i pali degli skilift, la casetta della biglietteria, a ricordare come in fondo sia facile deturpare per sempre la montagna.

L’Alpe Bianca non è un caso isolato, le nostre montagne sono puntellate di impianti di risalita abbandonati e alberghi in rovina. Relitti di un turismo che ha prima sedotto e poi abbandonato le Alpi, lasciando in eredità cemento, cavi d’acciaio, parcheggi asfaltati e versanti disboscati. Dal Piemonte alla Carnia sono centinaia le stazioni sciistiche abbandonate; l’ultimo censimento, risalente a qualche anno fa, realizzato dal CIPRA (Commissione Internazionale Protezione delle Alpi), Mountain Wilderness e dall’associazione Dislivelli, ne contava 186. Molto probabilmente, a parte qualche sporadico caso di tentativo di rianimazione di impianti fermi da anni, i numeri ora sono addirittura cresciuti.

Basti pensare al comprensorio di San Simone, in alta Val Brembana. Seggiovie e skilift praticamente nuovi, condomini in perfetto stato, negozi, ristoranti, un hotel, tutto utilizzabile, tutto abbandonato, da quando, tre anni fa, è iniziata la saga di Brembo Super Ski. Una saga terminata con un fallimento, l’arresto ai domiciliari per i sindaci di Foppolo e Valleve e la vendita degli impianti. Ora Foppolo gira, grazie anche all’impegno dei commercianti locali, ma a San Simone è tutto fermo. Un paese fantasma, con le vetrine dei negozi ancora allestite e gli appartamenti chiusi. Anche a San Simone quest’anno la neve è arrivata tardi, ma a fine gennaio il parcheggio e le piste sono imbiancate. Non si muove una foglia, non si sente un rumore. Si vede solamente del fumo uscire da un comignolo di un piccolo chalet in legno. È il noleggio sci. Dentro una stufa accesa, sci e snowboard impilati, scarponi di tutte le taglie, un tavolo di legno e una bottiglia di prosecco. E Mauro Berera. L’unico residente rimasto a San Simone. «Avevamo tutto qui, belle piste, bei panorami, case nuove, impianti funzionanti, la gente veniva con piacere. Ma hanno deciso di far morire San Simone - racconta Berera - e ci sono riusciti. Io però non me ne vado, sto qui e provo a sopravvivere». Sci e snowboard non li affitta più a nessuno, ma nei weekend qualche ciaspola e le slitte sì. Poi ci sono gli scialpinisti, che qui, come a Recoaro Mille, nelle montagne vicentine, hanno sostituito gli sciatori da pista. Moreno Visonà è un’habitué delle vecchie piste di Recoaro Mille. Viene quasi tutte le settimane a macinare dislivello: «impianti come quelli di Recoaro non hanno futuro, ed è per questo che sono fermi. Bisogna trovare dei modelli alternativi al turismo dello sci alpino, soprattutto a queste quote».

Investimenti sbagliati, costi di gestione troppo alti, stagioni sempre più corte e inverni sempre più caldi, questo il mix che sta contribuendo alla lenta agonia delle piccole e medie stazioni sciistiche delle Alpi. Non è un segreto che gli ultimi quattro anni siano stati i più caldi mai registrati sul pianeta terra, e non è neanche più un segreto il fatto che il cambiamento climatico risulti più rapido nelle zone montuose rispetto a quelle pianeggianti: ogni grado centigrado in più registrato in pianura infatti corrisponde a un +2° C sulle Alpi. Il Politecnico di Zurigo ipotizza per la Svizzera un aumento da 2,5° C a 4,5° C entro la metà del secolo, e tutto lascia pensare che lo stesso possa accadere nel resto dell’arco alpino. Inutile dire che con queste previsioni, e con i modelli climatici che mostrano uno spostamento sempre più in avanti dell’arrivo della prima neve stagionale, il futuro delle stazioni di bassa e media quota, così come di quelle senza impianti di innevamento programmato, è sempre più a rischio.

© Tomaso Clavarino

«Quest'anno fino a gennaio la maggior parte delle località sciistiche, in particolar modo nel Nord-Est, ha lavorato quasi esclusivamente grazie all'innevamento programmato - spiega Francesco Pastorelli di CIPRA (Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi) - con ovvie conseguenze sull’ambiente e sulla sostenibilità economica dei comprensori». Lingue bianche in mezzo a prati gialli sono ormai una costante dei nostri inverni, la neve programmata fa parte del panorama alpino, così come le code ai tornelli per sciare su un manto nevoso sempre più spesso ghiacciato o marcio. Ma sono in pochi gli sciatori che hanno un’idea del reale costo della neve programmata. Cinque euro al metro cubo, al netto delle variabili tra le varie località alpine. Tenendo presente che le pista di sci italiane sommano all’incirca quattromila chilometri, il costo totale balla intorno al mezzo miliardo di euro. E a tenere in vita gli impianti di innevamento, e di conseguenza i comprensori, sono i soldi pubblici. In provincia di Trento e Bolzano c’è un sostengo pubblico dell’80 per cento, sostiene CIPRA, ma secondo Giorgio Daidola, docente di analisi economico finanziaria per le imprese turistiche presso l'Università di Trento, «gli investimenti del pubblico per gli impianti di neve programmata e bacini idrici variano molto da regione a regione. Avvengono spesso attraverso finanziarie a capitale totalmente pubblico. Operano nei diversi settori economici, non solo nel turismo, e quindi è impossibile sapere leggendo i loro bilanci quanto investono per questa voce. Si può dire che i costosi bacini di raccolta acqua sono finanziati e autorizzati quasi interamente dagli enti pubblici, che li giustificano per altri fini. La Regione Piemonte ha varato un piano da 25 milioni per nuovi impianti di innevamento, il consorzio Dolomiti Superski da 90 milioni. I costi di gestione per l’innevamento del comprensorio della Vialattea, per esempio, sarebbero di circa 5,5 milioni di euro a stagione, di cui il 60 per cento a carico di regione e comuni».

Ed ecco allora la rincorsa a nuovi progetti, a risorse pubbliche, per provare a rianimare stazioni sciistiche agonizzanti o in lento declino. A Caspoggio, a mille metri di altitudine in Valmalenco, provincia di Sondrio, dove gli impianti sono fermi da alcuni anni, sono stati stanziati 620.000 euro per rifare la pista Uai che arriva dritta in paese, con un sistema di innevamento programmato e un impianto di illuminazione nuovo di zecca. «Una decisione miope, uno spreco di risorse che potevano essere utilizzate per rilanciare Caspoggio con progetti e attività che guardano al futuro - sostiene senza mezzi termini Michele Comi, Guida alpina locale - Va ripensato il modello di business, i tempi sono cambiati, la gente scia sempre meno e sciare costa sempre di più. Inoltre le persone sono interessate anche ad altre attività, e una località come Caspoggio deve investire su questo, su di un’alternativa, che sia possibilmente sostenibile. Nuove piste, con sistemi di innevamento da centinaia di migliaia di euro non sono la soluzione per ridare speranza a una valle come la Valmalenco e a un paese come Caspoggio».

Il futuro preoccupa, anche al Frais, in Val di Susa. Qui gli impianti quest’anno non hanno aperto. A fine gennaio le piste erano gialle, non un dito di neve sopra i ciuffi d’erba. Se a questo si aggiungono poi le liti tra gestori degli impianti e le istituzioni locali si capisce la preoccupazione di Renzo Pinard, ex sindaco di Chiomonte e titolare dell’albergo Belvedere, l’unica attività commerciale aperta in un giorno di fine gennaio in una località di seconde case che conta undici residenti fissi. «C’è poco da fare, qui è diventata una questione di sopravvivenza ormai - dice Pinard - Bisogna farsi un esame di coscienza e capire se quello che vogliamo è continuare a essere ancora dipendenti dalle piste da sci, o se invece non sia il caso di trovare altre opzioni. Penso allo scialpinismo, alle ciaspole, alle mountain bike d’estate, tutte attività che hanno i praticanti in crescita, che non richiedono investimenti eccessivi e che diversificherebbero l’offerta di Pian del Frais. Perché altrimenti temo che l’alternativa sia chiudere una volta per tutte i battenti». E magari fare la fine di Pian Gelassa, a qualche chilometro dal Frais. Un comprensorio abbandonato, tra pinete e pascoli, spazzato via prima dai fallimenti degli impresari e poi dalle valanghe che ne hanno martoriato gli impianti. Ora è un villaggio spettrale, un set post apocalittico dove i ruderi dei condomini in costruzione sono avvolti dalla vegetazione che lentamente si sta riprendendo lo spazio che le era stato tolto.

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Alpe Colombino, Colle del Lys, Albosaggia, Alpe Paglio, Paularo, Ligosullo, Sella Chianzutan, dalla provincia di Torino a quella di Udine, sono solo alcuni dei nomi di stazioni sciistiche che nel corso degli anni, chi prima chi dopo, chi nella sua totalità, chi solo in parte, hanno chiuso, lasciandosi dietro i resti di un modello di sviluppo e di turismo che va, quantomeno, ripensato. Perché si può essere scettici quanto si vuole in merito al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici, ma non si può far finta di non vedere i risultati di ricerche come quella realizzata dal Cryos Laboratory dell’Ecole Polytechnique Federale di Losanna, secondo il quale ai ritmi attuali di riscaldamento globale sulle Alpi la neve sotto i 1.500 metri sarà un ricordo lontano o un fatto puramente sporadico, ma anche gli impianti a quota maggiore subiranno notevoli conseguenze. Se l’incremento medio della temperatura supererà la fatidica quota di 2 gradi centigradi, lo spessore della neve potrebbe diminuire del 40 per cento anche nelle zone oltre i 3.000 metri.

Lo sanno bene Roberto Treppo e Gioiella Rosset, i gestori dell’unico ristorante di Sella Chianzutan, sopra Verzegnis, in Friuli. Qui quando ancora le nevicate erano abbondanti, o quantomeno regolari, si sciava, e anche tanto. Poi sono arrivati gli impianti dello Zoncolan e quelli di Piancavallo. La gente ha iniziato a frequentare altre località, la neve a cadere con meno regolarità e gli impianti sono passati di mano, dai privati al comune di Verzegnis. Ma tre bandi per aggiudicarne la gestione sono andati deserti e ora i tralicci, il gatto delle nevi acquistato e mai utilizzato, così come i due cannoni per la neve, rimangono lì a ricordare i vecchi fasti andati. «D’altronde non si può pensare di sciare a 890 metri ormai - chiosa Roberto Treppo - però si può provare a rilanciare questa zona, dove ormai abitiamo solo più noi e pochi altri, in altri modi. Le istituzioni devono aiutare chi decide di non lasciare la montagna, nonostante le difficoltà. Perché se non si dà una mano a chi resiste tra pochi anni non ci saranno solo più stazioni sciistiche abbandonate, ma anche interi paesi e intere vallate».

Ma non sono solo le piccole e medie stazioni sciistiche a soffrire, anche le grandi non se la passano troppo bene. L’indotto creato però fa sì che debbano, per forza di cose, stare in piedi. «La verità è che i grandi comprensori non sono riconvertibili - continua Daidola - meglio quindi circoscriverli e non lasciarli sviluppare ulteriormente. Devono essere considerati dei territori sacrificali, dei luna park in quota, delle zone inquinate da contenere e basta». Sono proprio le piccole e medie stazioni, paradossalmente, quelle che, sempre secondo Daidola, potrebbero reinventarsi facendo leva sulle proprie caratteristiche peculiari. Basti pensare a chi ha puntato sul freeride come La Grave in Francia o, più in piccolo, Prali in Val Germanasca. Stazioni che hanno ritrovato una loro identità, grazie anche a un management preparato, sensibile e aperto al rinnovamento. Cosa che purtroppo, in Italia, sembra una rarità.

«È una questione culturale, di mentalità - spiega Maurizio Dematteis, dell’associazione Dislivelli, composta da ricercatori universitari e giornalisti specializzati, che si occupa di studiare il territorio alpino e chi lo abita - Gli impianti di risalita non sono il male, anzi hanno rappresentato, e ancora rappresentano in certi casi, un volano per il territorio alpino. Ma i tempi sono cambiati e il rischio è di vedere allungarsi di molto l’elenco delle stazioni ferme ed abbandonate. I gestori degli impianti, le istituzioni, devono trovare delle soluzioni che possano essere sostenibili sia dal lato ambientale che da quello economico, non pensando di poter vivere solamente con la neve programmata perché sarebbe un errore imperdonabile».

I cavi d’acciaio penzolanti, i blocchi di cemento dei piloni, i piattelli stoccati in locali fatiscenti, i seggiolini delle seggiovie ammassati come da uno sfascia carrozze, i condomini spettrali, le piste di erba, gli alberghi deserti, sono quello che rimane di investimenti sbagliati, di scommesse imprenditoriali fatte sulla pelle dell’ambiente montano e di chi lo vive. Scommesse spesso finanziate da soldi pubblici e da istituzioni che non hanno mai avuto, in questo Paese, quella sensibilità necessaria per rapportarsi con un ecosistema fragile, oggi più che mai. Luoghi come Pian Gelassa rimangono lì come un monito, a ricordarci che le nostre montagne sono già state predate a sufficienza.

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Dobratsch, la montagna di tutti

Quello che in Italia molto spesso non si ha il coraggio di fare, di solito viene fatto all’estero. Sembra una banalità, ma non lo è. E questa volta non bisogna andare troppo lontano. Basta arrivare in Friuli, raggiungere Tarvisio, passare il confine e fermarsi in Carinzia. A pochi chilometri da Villach c’è un monte, il Dobratsch. Fino al 2001 skilift e seggiovie portavano sciatori e vacanzieri in quota e il Monte Dobratsch era una delle tante stazioni sciistiche alpine, «poi le istituzioni locali hanno capito che non era più conveniente mantenere in piedi gli impianti di risalita. I costi di gestione erano troppo alti e i passaggi annuali erano crollati dal milione del 1991/1992 ai 100.000 del 2000/2001» racconta Alex Kleinegger, 33 anni, project manager del NaturPark Dobratsch.

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Sì, avete capito bene, parco naturale. In quattro e quattr’otto gli impianti sono stati smontati, venduti a una compagnia russa, che tra l’altro li sta ancora utilizzando in una qualche sperduta località degli Urali, e il Dobratsch è diventato il primo parco naturale della Carinzia. Una decisione dovuta in primis alla sostenibilità economica, ma non solo. «Dal Dobratsch proviene l’acqua potabile che utilizza tutta l’area circostante, compresa Villach - continua Alex - Per mantenere delle piste di qualità e un innevamento costante si era arrivati al punto di dover creare un bacino idrico per la neve programmata, ma si è deciso di non mettere a rischio una risorsa come l’acqua». Ora questo monte, sotto la cui cima, a 2.150 metri, si trova la chiesa più alta d’Europa, è diventato una meta turistica ancora più famosa di quando gli impianti di risalita erano in funzione. Non ci sono più i pistaioli ma sono decine, in un giorno infrasettimanale qualsiasi, gli scialpinisti che salgono i quasi 1.200 metri di dislivello che separano il parcheggio di Heiligengeist dalla Gipfelhaus, il nuovissimo rifugio sulla cima del Dobratsch. Anche qui l’inverno non è stato generoso, di neve per essere fine febbraio ce n’è poca, e la salita, per lo più lungo quelle che una volta erano le vecchie piste, a questo giro è spesso su ghiaccio vivo. Ma Theresa, una scialpinista locale e maestra di sci, salendo al rifugio Rosstratten a quota 1.773 metri, mi assicura che quando c’è polvere il Dobratsch è un piccolo paradiso, anche per la quasi totale assenza di rischio valanghe data la sua conformazione. Non posso che fidarmi, mangiandomi le mani a sentire le pelli che non tengono. I coltelli? Ovviamente in macchina al caldo nel parcheggio.

Scialpinisti, ma non solo. Il Dobratsch con la chiusura degli impianti è diventato, a detta di Alex, la montagna di tutti. Una strada, a pagamento, arriva di fronte al Rosstratten, e dalle macchine scendono fondisti (c’è una pista di fondo), ciaspolatori, semplici escursionisti e famiglie intere disposte a farsi quasi 500 metri di dislivello trainando una slitta per poter poi scendere dalla cima, o quasi. In Piemonte si direbbe, forse con un po’ di puzza sotto il naso, una situazione un po’ da merenderos, e forse lo è. Ma è indubbio che decidere di eliminare degli impianti sciistici, che sia per motivi di sostenibilità economica o di sostenibilità ambientale, o entrambi come in questo caso, per lasciare spazio a un turismo più slow, più variegato, e forse anche più popolare, è stata una scommessa vincente. Una scommessa vincente che, come spesso succede, ha anche dei risvolti, seppur in minima parte, negativi: il continuo aumento dei visitatori ha portato a un incremento della sporcizia, di cartacce e rifiuti lasciati lungo i sentieri e sulla neve, e le migliaia di macchine che ogni anno salgono fino a 1.700 metri, per Alex «dovrebbero essere di meno, ma il gestore della strada è un privato e non ha interesse a ridurre il numero delle auto che pagano 15 euro di ticket». Problemi che a guardare tanti comprensori italiani e la loro ostinazione ad andare avanti con un modello di business che non funziona più fanno, sinceramente, un po’ sorridere.

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© Tomaso Clavarino

Aprono oggi le iscrizioni al Dirksen Derby

Il Dirksen Derby, uno degli eventi più iconici del mondo dello snowboard, è pronto a debuttare in Europa il prossimo 21 e 22 marzo 2020 ad Axamer Lizum, in Austria. Per la prima volta quest’inverno lo storico banked slalom sarà sostituito da un nuovo format di gara per splitboard. Le iscrizioni sono ufficialmente aperte online. Lanciato nel 2007 sul Monte Bachelor, in Oregon, il Dirksen Derby riunisce ogni anno snowboarder, artisti, musicisti e filmmaker. Nel corso delle edizioni ha raccolto oltre 250.000 dollari per sostenere individui e associazioni, comprese le ONG ambientaliste, attraverso 1% For The Planet. Il fondatore del Derby, l’ambassador snow Patagonia Josh Dirksen, ha ideato l’evento partendo da una singola gara con 58 partecipanti, fino a farlo diventare quello che è oggi: un appuntamento imperdibile per la community dello snowboard, che combina competizioni, musica, arte, ambientalismo e vibrazioni positive. Per la prima edizione europea la nuova gara per splitboard prevede due run di salita e discesa: una in programma sabato 21 marzo e una domenica 22 marzo, i cui tempi saranno sommati per stabilire la classifica finale. La competizione sarà aperta a splitboarder di ogni età e livello, suddivisi nelle categorie maschile e femminile. Inoltre, Dirksen Derby sarà una delle tappe del tour Worn Wear, che offrirà riparazioni gratuite di capi di abbigliamento tecnico da neve, con l’obiettivo di farli durare più a lungo nel tempo, riducendo così il loro impatto ambientale.

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