Fantasmi e vecchi skilift

La strada che da Viù sale a Tornetti è ripida e stretta, i tornanti si susseguono uno dopo l’altro tra le piccole frazioni dove le persiane aperte delle case si contano sulle dita di una mano. Ha dato una spolverata di neve da poco da queste parti e il paesaggio è di un bianco candido, quasi irreale. In giro nessuno, d’altronde di residenti in questo angolo delle Valli di Lanzo ne sono rimasti otto. Qui le montagne formano un anfiteatro naturale, di una bellezza suggestiva. Dovrebbe essere famosa per questo Tornetti, ma così non è. Da anni ormai questa zona è conosciuta per ben altro, purtroppo. È qui tra i pascoli che affacciano sulla bassa valle che si trova l’ecomostro dell’Alpe Bianca. Un edificio imponente che sarebbe dovuto diventare un albergo, il sogno di alcuni avventati imprenditori che qui a cavallo tra anni ’70 e anni ’80 avrebbero voluto realizzare una stazione sciistica per attirare famiglie e sciatori torinesi, vista la relativa vicinanza al capoluogo piemontese. Gli impianti girarono fino al 1995, poi il calo di sciatori, i costi di gestione e la scarsità di neve ne decretarono la chiusura. L’albergo, un transatlantico di sei piani, non venne mai finito, e ora rimangono uno scheletro di mattoni pericolante, i pali degli skilift, la casetta della biglietteria, a ricordare come in fondo sia facile deturpare per sempre la montagna.

L’Alpe Bianca non è un caso isolato, le nostre montagne sono puntellate di impianti di risalita abbandonati e alberghi in rovina. Relitti di un turismo che ha prima sedotto e poi abbandonato le Alpi, lasciando in eredità cemento, cavi d’acciaio, parcheggi asfaltati e versanti disboscati. Dal Piemonte alla Carnia sono centinaia le stazioni sciistiche abbandonate; l’ultimo censimento, risalente a qualche anno fa, realizzato dal CIPRA (Commissione Internazionale Protezione delle Alpi), Mountain Wilderness e dall’associazione Dislivelli, ne contava 186. Molto probabilmente, a parte qualche sporadico caso di tentativo di rianimazione di impianti fermi da anni, i numeri ora sono addirittura cresciuti.

Basti pensare al comprensorio di San Simone, in alta Val Brembana. Seggiovie e skilift praticamente nuovi, condomini in perfetto stato, negozi, ristoranti, un hotel, tutto utilizzabile, tutto abbandonato, da quando, tre anni fa, è iniziata la saga di Brembo Super Ski. Una saga terminata con un fallimento, l’arresto ai domiciliari per i sindaci di Foppolo e Valleve e la vendita degli impianti. Ora Foppolo gira, grazie anche all’impegno dei commercianti locali, ma a San Simone è tutto fermo. Un paese fantasma, con le vetrine dei negozi ancora allestite e gli appartamenti chiusi. Anche a San Simone quest’anno la neve è arrivata tardi, ma a fine gennaio il parcheggio e le piste sono imbiancate. Non si muove una foglia, non si sente un rumore. Si vede solamente del fumo uscire da un comignolo di un piccolo chalet in legno. È il noleggio sci. Dentro una stufa accesa, sci e snowboard impilati, scarponi di tutte le taglie, un tavolo di legno e una bottiglia di prosecco. E Mauro Berera. L’unico residente rimasto a San Simone. «Avevamo tutto qui, belle piste, bei panorami, case nuove, impianti funzionanti, la gente veniva con piacere. Ma hanno deciso di far morire San Simone - racconta Berera - e ci sono riusciti. Io però non me ne vado, sto qui e provo a sopravvivere». Sci e snowboard non li affitta più a nessuno, ma nei weekend qualche ciaspola e le slitte sì. Poi ci sono gli scialpinisti, che qui, come a Recoaro Mille, nelle montagne vicentine, hanno sostituito gli sciatori da pista. Moreno Visonà è un’habitué delle vecchie piste di Recoaro Mille. Viene quasi tutte le settimane a macinare dislivello: «impianti come quelli di Recoaro non hanno futuro, ed è per questo che sono fermi. Bisogna trovare dei modelli alternativi al turismo dello sci alpino, soprattutto a queste quote».

Investimenti sbagliati, costi di gestione troppo alti, stagioni sempre più corte e inverni sempre più caldi, questo il mix che sta contribuendo alla lenta agonia delle piccole e medie stazioni sciistiche delle Alpi. Non è un segreto che gli ultimi quattro anni siano stati i più caldi mai registrati sul pianeta terra, e non è neanche più un segreto il fatto che il cambiamento climatico risulti più rapido nelle zone montuose rispetto a quelle pianeggianti: ogni grado centigrado in più registrato in pianura infatti corrisponde a un +2° C sulle Alpi. Il Politecnico di Zurigo ipotizza per la Svizzera un aumento da 2,5° C a 4,5° C entro la metà del secolo, e tutto lascia pensare che lo stesso possa accadere nel resto dell’arco alpino. Inutile dire che con queste previsioni, e con i modelli climatici che mostrano uno spostamento sempre più in avanti dell’arrivo della prima neve stagionale, il futuro delle stazioni di bassa e media quota, così come di quelle senza impianti di innevamento programmato, è sempre più a rischio.

© Tomaso Clavarino

«Quest'anno fino a gennaio la maggior parte delle località sciistiche, in particolar modo nel Nord-Est, ha lavorato quasi esclusivamente grazie all'innevamento programmato - spiega Francesco Pastorelli di CIPRA (Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi) - con ovvie conseguenze sull’ambiente e sulla sostenibilità economica dei comprensori». Lingue bianche in mezzo a prati gialli sono ormai una costante dei nostri inverni, la neve programmata fa parte del panorama alpino, così come le code ai tornelli per sciare su un manto nevoso sempre più spesso ghiacciato o marcio. Ma sono in pochi gli sciatori che hanno un’idea del reale costo della neve programmata. Cinque euro al metro cubo, al netto delle variabili tra le varie località alpine. Tenendo presente che le pista di sci italiane sommano all’incirca quattromila chilometri, il costo totale balla intorno al mezzo miliardo di euro. E a tenere in vita gli impianti di innevamento, e di conseguenza i comprensori, sono i soldi pubblici. In provincia di Trento e Bolzano c’è un sostengo pubblico dell’80 per cento, sostiene CIPRA, ma secondo Giorgio Daidola, docente di analisi economico finanziaria per le imprese turistiche presso l'Università di Trento, «gli investimenti del pubblico per gli impianti di neve programmata e bacini idrici variano molto da regione a regione. Avvengono spesso attraverso finanziarie a capitale totalmente pubblico. Operano nei diversi settori economici, non solo nel turismo, e quindi è impossibile sapere leggendo i loro bilanci quanto investono per questa voce. Si può dire che i costosi bacini di raccolta acqua sono finanziati e autorizzati quasi interamente dagli enti pubblici, che li giustificano per altri fini. La Regione Piemonte ha varato un piano da 25 milioni per nuovi impianti di innevamento, il consorzio Dolomiti Superski da 90 milioni. I costi di gestione per l’innevamento del comprensorio della Vialattea, per esempio, sarebbero di circa 5,5 milioni di euro a stagione, di cui il 60 per cento a carico di regione e comuni».

Ed ecco allora la rincorsa a nuovi progetti, a risorse pubbliche, per provare a rianimare stazioni sciistiche agonizzanti o in lento declino. A Caspoggio, a mille metri di altitudine in Valmalenco, provincia di Sondrio, dove gli impianti sono fermi da alcuni anni, sono stati stanziati 620.000 euro per rifare la pista Uai che arriva dritta in paese, con un sistema di innevamento programmato e un impianto di illuminazione nuovo di zecca. «Una decisione miope, uno spreco di risorse che potevano essere utilizzate per rilanciare Caspoggio con progetti e attività che guardano al futuro - sostiene senza mezzi termini Michele Comi, Guida alpina locale - Va ripensato il modello di business, i tempi sono cambiati, la gente scia sempre meno e sciare costa sempre di più. Inoltre le persone sono interessate anche ad altre attività, e una località come Caspoggio deve investire su questo, su di un’alternativa, che sia possibilmente sostenibile. Nuove piste, con sistemi di innevamento da centinaia di migliaia di euro non sono la soluzione per ridare speranza a una valle come la Valmalenco e a un paese come Caspoggio».

Il futuro preoccupa, anche al Frais, in Val di Susa. Qui gli impianti quest’anno non hanno aperto. A fine gennaio le piste erano gialle, non un dito di neve sopra i ciuffi d’erba. Se a questo si aggiungono poi le liti tra gestori degli impianti e le istituzioni locali si capisce la preoccupazione di Renzo Pinard, ex sindaco di Chiomonte e titolare dell’albergo Belvedere, l’unica attività commerciale aperta in un giorno di fine gennaio in una località di seconde case che conta undici residenti fissi. «C’è poco da fare, qui è diventata una questione di sopravvivenza ormai - dice Pinard - Bisogna farsi un esame di coscienza e capire se quello che vogliamo è continuare a essere ancora dipendenti dalle piste da sci, o se invece non sia il caso di trovare altre opzioni. Penso allo scialpinismo, alle ciaspole, alle mountain bike d’estate, tutte attività che hanno i praticanti in crescita, che non richiedono investimenti eccessivi e che diversificherebbero l’offerta di Pian del Frais. Perché altrimenti temo che l’alternativa sia chiudere una volta per tutte i battenti». E magari fare la fine di Pian Gelassa, a qualche chilometro dal Frais. Un comprensorio abbandonato, tra pinete e pascoli, spazzato via prima dai fallimenti degli impresari e poi dalle valanghe che ne hanno martoriato gli impianti. Ora è un villaggio spettrale, un set post apocalittico dove i ruderi dei condomini in costruzione sono avvolti dalla vegetazione che lentamente si sta riprendendo lo spazio che le era stato tolto.

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Alpe Colombino, Colle del Lys, Albosaggia, Alpe Paglio, Paularo, Ligosullo, Sella Chianzutan, dalla provincia di Torino a quella di Udine, sono solo alcuni dei nomi di stazioni sciistiche che nel corso degli anni, chi prima chi dopo, chi nella sua totalità, chi solo in parte, hanno chiuso, lasciandosi dietro i resti di un modello di sviluppo e di turismo che va, quantomeno, ripensato. Perché si può essere scettici quanto si vuole in merito al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici, ma non si può far finta di non vedere i risultati di ricerche come quella realizzata dal Cryos Laboratory dell’Ecole Polytechnique Federale di Losanna, secondo il quale ai ritmi attuali di riscaldamento globale sulle Alpi la neve sotto i 1.500 metri sarà un ricordo lontano o un fatto puramente sporadico, ma anche gli impianti a quota maggiore subiranno notevoli conseguenze. Se l’incremento medio della temperatura supererà la fatidica quota di 2 gradi centigradi, lo spessore della neve potrebbe diminuire del 40 per cento anche nelle zone oltre i 3.000 metri.

Lo sanno bene Roberto Treppo e Gioiella Rosset, i gestori dell’unico ristorante di Sella Chianzutan, sopra Verzegnis, in Friuli. Qui quando ancora le nevicate erano abbondanti, o quantomeno regolari, si sciava, e anche tanto. Poi sono arrivati gli impianti dello Zoncolan e quelli di Piancavallo. La gente ha iniziato a frequentare altre località, la neve a cadere con meno regolarità e gli impianti sono passati di mano, dai privati al comune di Verzegnis. Ma tre bandi per aggiudicarne la gestione sono andati deserti e ora i tralicci, il gatto delle nevi acquistato e mai utilizzato, così come i due cannoni per la neve, rimangono lì a ricordare i vecchi fasti andati. «D’altronde non si può pensare di sciare a 890 metri ormai - chiosa Roberto Treppo - però si può provare a rilanciare questa zona, dove ormai abitiamo solo più noi e pochi altri, in altri modi. Le istituzioni devono aiutare chi decide di non lasciare la montagna, nonostante le difficoltà. Perché se non si dà una mano a chi resiste tra pochi anni non ci saranno solo più stazioni sciistiche abbandonate, ma anche interi paesi e intere vallate».

Ma non sono solo le piccole e medie stazioni sciistiche a soffrire, anche le grandi non se la passano troppo bene. L’indotto creato però fa sì che debbano, per forza di cose, stare in piedi. «La verità è che i grandi comprensori non sono riconvertibili - continua Daidola - meglio quindi circoscriverli e non lasciarli sviluppare ulteriormente. Devono essere considerati dei territori sacrificali, dei luna park in quota, delle zone inquinate da contenere e basta». Sono proprio le piccole e medie stazioni, paradossalmente, quelle che, sempre secondo Daidola, potrebbero reinventarsi facendo leva sulle proprie caratteristiche peculiari. Basti pensare a chi ha puntato sul freeride come La Grave in Francia o, più in piccolo, Prali in Val Germanasca. Stazioni che hanno ritrovato una loro identità, grazie anche a un management preparato, sensibile e aperto al rinnovamento. Cosa che purtroppo, in Italia, sembra una rarità.

«È una questione culturale, di mentalità - spiega Maurizio Dematteis, dell’associazione Dislivelli, composta da ricercatori universitari e giornalisti specializzati, che si occupa di studiare il territorio alpino e chi lo abita - Gli impianti di risalita non sono il male, anzi hanno rappresentato, e ancora rappresentano in certi casi, un volano per il territorio alpino. Ma i tempi sono cambiati e il rischio è di vedere allungarsi di molto l’elenco delle stazioni ferme ed abbandonate. I gestori degli impianti, le istituzioni, devono trovare delle soluzioni che possano essere sostenibili sia dal lato ambientale che da quello economico, non pensando di poter vivere solamente con la neve programmata perché sarebbe un errore imperdonabile».

I cavi d’acciaio penzolanti, i blocchi di cemento dei piloni, i piattelli stoccati in locali fatiscenti, i seggiolini delle seggiovie ammassati come da uno sfascia carrozze, i condomini spettrali, le piste di erba, gli alberghi deserti, sono quello che rimane di investimenti sbagliati, di scommesse imprenditoriali fatte sulla pelle dell’ambiente montano e di chi lo vive. Scommesse spesso finanziate da soldi pubblici e da istituzioni che non hanno mai avuto, in questo Paese, quella sensibilità necessaria per rapportarsi con un ecosistema fragile, oggi più che mai. Luoghi come Pian Gelassa rimangono lì come un monito, a ricordarci che le nostre montagne sono già state predate a sufficienza.

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Dobratsch, la montagna di tutti

Quello che in Italia molto spesso non si ha il coraggio di fare, di solito viene fatto all’estero. Sembra una banalità, ma non lo è. E questa volta non bisogna andare troppo lontano. Basta arrivare in Friuli, raggiungere Tarvisio, passare il confine e fermarsi in Carinzia. A pochi chilometri da Villach c’è un monte, il Dobratsch. Fino al 2001 skilift e seggiovie portavano sciatori e vacanzieri in quota e il Monte Dobratsch era una delle tante stazioni sciistiche alpine, «poi le istituzioni locali hanno capito che non era più conveniente mantenere in piedi gli impianti di risalita. I costi di gestione erano troppo alti e i passaggi annuali erano crollati dal milione del 1991/1992 ai 100.000 del 2000/2001» racconta Alex Kleinegger, 33 anni, project manager del NaturPark Dobratsch.

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Sì, avete capito bene, parco naturale. In quattro e quattr’otto gli impianti sono stati smontati, venduti a una compagnia russa, che tra l’altro li sta ancora utilizzando in una qualche sperduta località degli Urali, e il Dobratsch è diventato il primo parco naturale della Carinzia. Una decisione dovuta in primis alla sostenibilità economica, ma non solo. «Dal Dobratsch proviene l’acqua potabile che utilizza tutta l’area circostante, compresa Villach - continua Alex - Per mantenere delle piste di qualità e un innevamento costante si era arrivati al punto di dover creare un bacino idrico per la neve programmata, ma si è deciso di non mettere a rischio una risorsa come l’acqua». Ora questo monte, sotto la cui cima, a 2.150 metri, si trova la chiesa più alta d’Europa, è diventato una meta turistica ancora più famosa di quando gli impianti di risalita erano in funzione. Non ci sono più i pistaioli ma sono decine, in un giorno infrasettimanale qualsiasi, gli scialpinisti che salgono i quasi 1.200 metri di dislivello che separano il parcheggio di Heiligengeist dalla Gipfelhaus, il nuovissimo rifugio sulla cima del Dobratsch. Anche qui l’inverno non è stato generoso, di neve per essere fine febbraio ce n’è poca, e la salita, per lo più lungo quelle che una volta erano le vecchie piste, a questo giro è spesso su ghiaccio vivo. Ma Theresa, una scialpinista locale e maestra di sci, salendo al rifugio Rosstratten a quota 1.773 metri, mi assicura che quando c’è polvere il Dobratsch è un piccolo paradiso, anche per la quasi totale assenza di rischio valanghe data la sua conformazione. Non posso che fidarmi, mangiandomi le mani a sentire le pelli che non tengono. I coltelli? Ovviamente in macchina al caldo nel parcheggio.

Scialpinisti, ma non solo. Il Dobratsch con la chiusura degli impianti è diventato, a detta di Alex, la montagna di tutti. Una strada, a pagamento, arriva di fronte al Rosstratten, e dalle macchine scendono fondisti (c’è una pista di fondo), ciaspolatori, semplici escursionisti e famiglie intere disposte a farsi quasi 500 metri di dislivello trainando una slitta per poter poi scendere dalla cima, o quasi. In Piemonte si direbbe, forse con un po’ di puzza sotto il naso, una situazione un po’ da merenderos, e forse lo è. Ma è indubbio che decidere di eliminare degli impianti sciistici, che sia per motivi di sostenibilità economica o di sostenibilità ambientale, o entrambi come in questo caso, per lasciare spazio a un turismo più slow, più variegato, e forse anche più popolare, è stata una scommessa vincente. Una scommessa vincente che, come spesso succede, ha anche dei risvolti, seppur in minima parte, negativi: il continuo aumento dei visitatori ha portato a un incremento della sporcizia, di cartacce e rifiuti lasciati lungo i sentieri e sulla neve, e le migliaia di macchine che ogni anno salgono fino a 1.700 metri, per Alex «dovrebbero essere di meno, ma il gestore della strada è un privato e non ha interesse a ridurre il numero delle auto che pagano 15 euro di ticket». Problemi che a guardare tanti comprensori italiani e la loro ostinazione ad andare avanti con un modello di business che non funziona più fanno, sinceramente, un po’ sorridere.

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