Pierre Tardivel, l'evoluzione di un mito

L'appuntamento è fissato per il primo pomeriggio, il viaggio scorre rapido attraverso la Valle d'Aosta, il tunnel del Monte Bianco e poi tra gli autovelox e i limiti delle autostrade francesi verso Annecy.  Abbiamo anche il tempo di constatare che negli autogrill francesi panini e gelati vengono conservati alla stessa temperatura.

Con Federico in auto, dopo aver parlato delle ultime arrampicate, il discorso vira - per ovvie questioni di politica aziendale - rapidamente sullo sci. Anzi sugli sci del mito che stiamo per incontrare. «Ha usato per anni quel modello lì, poi ha cambiato, è passato a modelli rockerati. Sì, però per le robe serie tornava sempre a quelli, poi adesso snow, comunque gli chiediamo tutto».

E fu così...

L'indirizzo è quello giusto, il navigatore non mente, le colline morbide di Annecy circondano una zona residenziale con casette unifamiliari basse, ciascuna con il suo giardino. Ci avviciniamo al cancello che riporta il numero civico indicato: un uomo sta sistemando dei rami in fondo al giardino. Ci vede, ci fa un cenno. Entriamo.

Stringiamo la mano a Pierre Tardivel.

Non nascondiamo un po' di emozione che svanisce quando, oltrepassando la soglia casa, ci si trova di fronte a un arredamento decisamente informale: libri e scaffali occupano le pareti, due divani dai cuscini multicolore abbracciano un tavolino con diversi oggetti sopra. Qualche armadio che porta con sé qualcosa di orientale, una sala luminosa che dà direttamente sul giardino. Sul tavolo da pranzo circolare una gabbia con uno dei membri della famiglia: un coniglio. Anche un cane e un gatto decisamente in carne ci fanno capire che la passione per gli animali è di casa dai Tardivel, per lo meno al pari dello sci!

Quella che avevamo immaginato come un'intervista con una traccia ben definita, si trasforma fin dalle prime battute in un'allegra chiacchierata con il Piero! Spero che Pierre non si offenda se mi prendo questa licenza. Chiamarlo Piero trovo che renda la cosa molto confidenziale.

«Hai visto cosa ha di nuovo sceso il Piero?».

«Grande il Piero, sempre avanti!».

E se ci pensate, quante volte tra gli appassionati di sci ripido, guardando una foto o una parete orlata di seracchi, magari appartenente al massiccio del Bianco, alla domanda da chi fosse stata scesaavete sentito rispondere Il Piero!. Proprio lui. Sempre lui. Come un amico più grande di cui hai sempre sentito parlare! Dunque che il Piero non sia un tipo convenzionale lo capiamo nei primi trenta secondi: quando scopre che uno di noi due è il fotografo, gli si illuminano gli occhi di quella curiosità genuina tipica delle persone eclettiche e inizia a tempestarci di domande tecniche sugli obiettivi, sui corpi macchina. E non certo per capire quali siano gli strumenti migliori da utilizzare durante le discese o per immortalare momenti di sci appesi a qualche pendio a 50°. Il Piero infatti ha una grande passione che coltiva parallelamente allo sci: l'avifauna alpina e la fotografia faunistica! Un po' stupiti, lo incalziamo.

©Federico Ravassard

Ci incuriosisce molto scoprire che sei un grande appassionato di animali nel loro ambiente naturale! Da dove arriva questa passione?

«Sono 30 anni che faccio foto, soprattutto alle varie specie della fauna alpina nel loro ambiente. Adoro prendere immagini degli animali di grossa taglia e di uccelli. Basta appena uscire da Annecy, diverse volte mi è persino capitato di fare foto a cerbiatti direttamente dalla finestra del salotto. Sono bellissimi. E poi gli uccelli, solo nel mio giardino ne ho potuti individuare una cinquantina di varietà. Sono un appassionato della natura e fotografare gli animali è stimolante. Incontrarli per caso e cogliere l'attimo giusto… (mima un gesto quasi da vera e propria caccia fotografica, ndr). Il problema sono le dimensioni dell'attrezzatura, di solito metto la mia macchina con un buon obiettivo in una sacca che tengo davanti sul petto e mi permette di muovermi sia in salita sia in discesa anche quando scio. Sì, perché lo scialpinismo è un'attività ideale per fare fotografie. In salita uno tiene il giusto ritmo e si ha tempo per guardarsi intorno e scattare. Poi invece in discesa si scia». (ride)

E foto di sci?

«Anche sciando faccio un sacco di foto ai miei compagni, ne ho pochissime invece dove ci sono io perché gli altri ne scattano meno. Mi piace tanto fotografare, ma nelle discese ripide spesso utilizzo una compatta che è più comoda: la tengo sullo spallaccio fissata con un laccetto al collo e... zan, quando passa il compagno, scatto veloce! Mi sono accorto che utilizzando un obiettivo grandangolare da 24 mm e fotografando in un canale a 50° si riesce a inquadrare l'orizzonte. È più bello!».

Mi sembra che ti piaccia molto vivere ad Annecy , perché non Chamonix, più vicino al Bianco?

«No, non mi piacerebbe vivere a Chamonix, è più caotica e molto più cara rispetto a qui. E poi Annecy ha molti più servizi ed è meglio collegata. Ci sono più scuole e università per le mie figlie».

Riesci a lavorare come Guida alpina anche qui?

«In realtà come Guida lavoro poco. Lavoro piuttosto come intermediario nell'editoria di montagna. Per esercitare come Guida dovresti fare eliski, spedizioni, oppure due o tre Vallée Blanche alla settimana. Sinceramente non mi piace. È bello anche arrampicare, ma non come sciare».

Quindi preferisci sciare, ma sei nato alpinista o sciatore?

«Essendo Guida ho scalato e scalo e non mi dispiace. Ma scalare è fatica, dolore a volte, devi sempre forzare per ottenere risultati e andare forte. Lo sci è diverso, è più fluido, meno forzato, un'attività più dolce. Sciare mi è sempre piaciuto. La mia famiglia in montagna faceva al massimo delle escursioni. A sciare mi ci portava la scuola. Ma già a 10-11 anni mi piaceva più andare in fuoripista che su percorsi battuti. E poi non serve forza, si fa tutto plus en douceur, l'ho sempre preferito. Con i materiali di oggi è facile diventare un buono sciatore, è molto più difficile essere un buono scalatore».

Lo scarpone usato sull'Everest ©Federico Ravassard

Negli ultimi anni il livello si è molto alzato, complici materiali sempre migliori e più facili da utilizzare. Però forse troppo spesso ottimi sciatori si cimentano in discese anche molto impegnative, trascurando forse un po' troppo la componente alpinistica che lo sci di pente raide richiede. Quanto è importante?

«È indubbiamente importante, specie per gestire situazioni come creare delle soste, fare delle calate e altre manovre di corda in sicurezza. E poi se sei solo uno sciatore e non provi piacere anche durante le risalite delle pareti... insomma magari sali una parete per quattro ore, se non ti piace questa parte la giornata diventa lunga (ride!). Discorso diverso per le valanghe, anche con 40 anni di esperienza il rischio non è mai completamente eliminabile purtroppo. Bisogna fare attenzione a scegliere le giuste condizioni, sapere aspettare. Con la neve dura il rischio valanghe è minore ma, appunto, la neve è dura».

Lo sci ripido è diventato una moda negli ultimi anni. Come in arrampicata e alpinismo esistono vie di salita e percorsi più o meno difficili: è giusto pensare che sia così anche nello skialp?

«Sì, esistono pendii e montagne più o meno difficili, certo. Per esempio la scala Volopress mette tutto insieme sotto un'unica valutazione di difficoltà che mi vede d'accordo. In effetti il ripido è un'attività che è diventata di moda, ma a volte chi la pratica non è pronto come si è potuto vedere dal gran numero di incidenti di questo tipo della scorsa stagione. Anche la PGHM (il Soccorso Alpino francese, ndr) non è contenta di ciò. Non vorrei che poi alla fine come soluzione si arrivasse a vietare delle discese come la nord-est delle Courtes».

Lo sci estremo, per quanto ti riguarda, è qualcosa di diverso?

«Se ci riflettiamo, l'estremo lo si ha quando si cerca e si raggiunge il limite. E il limite lo cerchi per esempio nelle gare di freeride, ti confronti con un cronometro e cerchi il limite. Infatti a volte cadono: arrivare al limite cercando la velocità. Nello sci di pente raide che ho fatto e faccio, non si cerca il limite. La caduta è da evitare assolutamente. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato di muovermi con un margine di sicurezza, magari facendo una curva in meno se non me la sentivo. Non ho mai voluto raggiungere il limite ma il maggior piacere che mi poteva offrire una discesa ripida. È un'attività molto psicologica, è tutto nella testa, come diceva Stefano De Benedetti».

È la possibilità che dà lo sci di pente raide di ampliare esponenzialmente il proprio terreno di gioco che ti affascina di questa disciplina?

«No, è proprio la ricerca della pendenza che mi piace. È cercare di prendere confidenza con le proprie paure e gestire l'incertezza che restituisce il ripido».

Allora come vedi la tendenza degli ultimi anni di scendere certe pareti in modo superfluido e a grande velocità? (Gli si illuminano letteralmente gli occhi, ndr)

«Ah, poter sciare come Jérémie Heitz e al tempo stesso mantenere un margine di sicurezza, sarebbe un sogno! Anche con curve meno filanti, andando leggermente più piano, ma con quella fluidità. Per me lo sci è diventato cercare la perfezione del gesto su pendii adatti allo sci. Non mi interessano più quelle discese molto tecniche dove fai una curva, derapi metri perché non c'è spazio, fai un'altra curva e poi una doppia. Lo sci è saper attendere il bon jour per avere le condizioni per poter scendere nel modo più fluido possibile un bel pendio. Se le condizioni non ci sono, aspetterò, magari degli anni. Certe discese fatte trovando tratti ghiacciati che obbligano magari a doppie o a non sciare integralmente diventano un esercizio d'alpinismo. Cosa che non rappresenta la mia idea di sciare. Per me è più importante la natura, cercare di capirla e prendere del piacere giocando con essa, come per la fotografia degli animali selvatici».

Lo sci per te è ricerca di fluidità, abbiamo capito bene?

«Sì, è la ricerca di quella sensazione di fluidità che ha sempre influenzato il mio modo di andare sulla neve, specie con i materiali di adesso. Il freeride ha portato molto allo sci in questo senso».

 Questa tua ricerca della fluidità passa senza dubbio anche per l'evoluzione dei materiali. A fine anni ottanta e novanta si usavano sci molto stretti, poi verso i primi anni duemila utilizzavi i mitici Dynastar 8800 e le successive evoluzioni che erano 89 mm al centro. Parliamo del tuo sci preferito?

«In quegli anni gli sci erano molto stretti, fare le curve era più forzato, più brusco. Con i nuovi materiali è diventato tutto più armonioso, più morbido. Ho usato molto gli 8800, è vero, ma quelli con cui mi sono trovato meglio sono stati i Dynastar Cham 97. Non troppo lunghi, avevano una maneggevolezza incredibile e poi col rocker erano facilissimi da sciare, non restituivano sorprese e avevano una buona rigidezza torsionale che per tenere sul duro è la cosa più importante. Intorno ai 95-97 mm secondo me c’è il compromesso ideale».

Ti confesso che ci hai spiazzato… come sei arrivato allo snowboard?

«È stato naturale cercando un modo per ottenere maggiore fluidità. Lo snowboard per uno sciatore come me non è stato immediato. Ho iniziato nel 2014, in principio lo trovavo contraddittorio, devi sempre accompagnare il movimento, molto più che con gli sci. Ma una volta che uno impara è assai meno faticoso. E poi adesso ci sono le splitboard. Ho deciso di fare il salto verso lo snowboard quando si è perfezionato questo tipo di materiale».

Un punto di vista molto surf questa ricerca del gesto fluido e più armonioso possibile. Che materiale usi adesso?

«Sì, mi piace e pratico quando posso anche il surf da onda infatti. Sulla neve utilizzo una splitboard Plume. Ma il vero problema è cercare la combinazione perfetta attacchi-scarponi. Uso uno scarpone SB di Pierre Gignoux e trovo che sia il compromesso perfetto che mi garantisce un'ottima risposta nelle sezioni in backside, anche su nevi difficili. Ovvio, lo snowboard patisce un po' le nevi dure, infatti ci sono pochi video di ripido su nevi dure. Però hai anche due picche e in front su tratti ghiacciati è meglio. Le cose cambiano se ci sono tratti di dry…».

Come sono stati gli inizi? Erano davvero così mitici quegli anni da un punto di vista delle precipitazioni nevose?

«Una volta gli inverni erano davvero diversi, nevicava sul serio. Si poteva sciare nove mesi l'anno, da novembre a luglio. Tra il 1978 e il 1980 ho iniziato a fare ski de randonnée. Fino al 1988 sono stato a tutti gli effetti un amatore. Poi fino al 1995 sono stato sostenuto dagli sponsor. Era mia moglie Kathy a organizzare tutto e a gestire i rapporti con le aziende. All'inizio essere pagato per compiere delle prime discese sempre più difficili è stata una motivazione, ho smesso di lavorare in banca e mi ci sono dedicato a tempo pieno. La ricerca della prima era sia un discorso di ego che di soldi. Poi mi sono accorto che questa impostazione stava influenzando anche le mie scelte e ho continuato la mia attività solo per piacere».

Scorrendo la lista delle tue discese, mi piacerebbe saperne di più su alcune, per esempio spesso mi capita di sciare nel Massif des Écrins dove nel 1997 hai ripetuto il Couloir Gravelotte sulla parete nord-est della Meije.

«Sì la Meije, purtroppo l'unico che è riuscito a sciarlo tutto quel canale, a proposito di cambiamenti delle condizioni nevose negli anni, è stato Patrick Vallençant alla fine degli anni '70, in occasione della prima discesa. Quando sono andato io in basso c'era già un tratto di 50 metri insuperabile con gli sci, così per evitare di fare doppie sono risalito e ho sceso il Corridor».

Un'altra discesa che mi ha molto colpito è quella del '95 sul versante Italiano del Triolet. Che caratteristiche aveva?

«Il problema di questa discesa è che ci vuole un grande innevamento per poter collegare tutte le parti, poi certo, è ripida!».

Una data mitica: 10 luglio 1988? Ne parliamo? Il Grand Pilier d'Angle: un posto surreale e pericoloso.

«Nello stesso giorno, con l'elicottero però, ho concatenato la parete sud-est del Col de la Brenva e la parete nord del Grand Pilier d'Angle. Era dopo una perturbazione di una settimana, forse il secondo giorno di bello. Sul versante italiano del Monte Bianco c'era un innevamento incredibile, tutto bianco. Tutto. La Brenva l'ho scesa presto e la neve, essendo luglio, si era già trasformata: l’ho trovata quasi dura, specie in alto. Poi sono stato depositato nuovamente sulla cima del Bianco, ho sceso la cresta di Peuterey per fare infine una parte di cresta del Grand Pilier d'Angle a piedi e scendere la parete nord. Qui ho trovato soprattutto ‘poudre tassée’, tranne nell'attraversamento sopra al seracco. La neve, decisamente dura, era un po' verglassata, poi una parte in doppia sul salto centrale e i pendii del tratto basso. Dall'elicottero avevamo monitorato i seracchi della Poire, non erano particolarmente brutti o fratturati, però lì sotto ho allungato le curve... È un versante bellissimo, sul quale mi piacerebbe sciare ancora, fortunati quelli che possono averlo sotto gli occhi tutti i giorni».

Hai mai avuto paura di una discesa, magari una parete che hai deciso di non scendere perché ti incuteva timore?

«Certo! Il Nant Blanc sulla Verte».

Però lo hai sceso e ci sei andato ben due volte!

«Sì, ma mi ci sono voluti ben venti anni per andare a provare! Non mi sentivo pronto, lo reputavo troppo difficile per me. Poi l’ho sciato: il Nant Blanc racchiude una serie di problemi tecnici e di pendenza notevoli. Non abbiamo fatto le doppie della parte centrale, ma abbiamo cercato, con una traversata, di collegare i due nevai. Nell'arco delle due volte ho sciato tutte le varie sezioni dalla cima, ma non concatenandole in un'unica discesa. E poi oggi il problema potrebbe diventare il risalto alla base. Invece ci sono delle discese che, paradossalmente, miglioreranno con lo scioglimento dei ghiacciai, speriamo!».

Ultima domanda, soli o in compagnia?

«In compagnia c'è condivisione. È più bello!»

Grazie Piero, un mito.

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©Federico Ravassard

Tof Henry, 100% chamoniard

Chamonix è la capitale. Non ci sono scuse, tanto più se si parla di sci. I più forti e ambiziosi sciatori di tutto il mondo vengono da sempre sul versante francese del Monte Bianco. Il paese è una fucina di talenti e meteore che ogni anno spingono lo sci libero verso qualcosa sempre oltre. Questo luogo ha generato il mito stesso dello sci estremo. Tutte le nuove tendenze, i materiali e i modi di interpretare lo sci sono partiti da qui. 

L’ambiente è dinamico a Cham: ogni anno arrivano nuovi skier affamati di affermazione. Alcuni si fermano addirittura in pianta stabile. A Cham ci sono gli skibum che vengono a fare la stagione e sciare tutti i giorni vivendo con lavoretti occasionali la sera, a Cham ci sono i local, e poi i super local, ci sono gli inglesi, gli ammerigani che vivono qui da vent’anni, ci sono i finnici dannati mangia pesce che sono dei duri e ogni anno spaccano qualcosa proprio in faccia a qualcuno. Ci sono i pro, i fotografi, i fotografi pro, ci sono un sacco di #hashtag che rompono la quiete di quelli che sciano solo il fine settimana, ma che prima o poi vengono qui per confrontarsi con qualche big line… e trovarla con le gobbe magari. 

Sponsor, ambassador, gente che fa pubblicità gratis ai brand per sentirsi un po’ pro. Cham è irresistibile per il mondo del freeskiing. E i marchi lo sanno e qui trovano il miglior laboratorio possibile per innovarsi e progredire nella ricerca di tecniche, materiali e tendenze. Descritta così ci si sente quasi mancare il fiato, sembrerebbe un posto infernale: caotico  e competitivo. Ma oggettivamente per lo sci su grandi linee è il posto più bello del mondo. Non c’è niente di paragonabile che offra una tale concentrazione di linee, terreno tecnico e possibilità come l’area del Monte Bianco. E con accessi spesso serviti da impianti che ti catapultano nel cuore del massiccio.

Tutto questo fa sì che la Chamonix che scia sia una vera e propria comunità. Con le proprie regole, con le proprie crew e le proprie rivalità. Ci si saluta sempre tutti certo, ma più per quieto vivere. A volte, venendo a conoscenza di alcuni retroscena, cresce in me la convinzione che l’abusato ritornello There are no friends in a powder day sia stato coniato proprio da queste parti. La febbre che si respira, quell’aria vibrante delle lunghe code della stazione di partenza della Mama Midi nei giorni post nevicata, non sono una leggenda. Il posto sulla prima cabina e la corsa all’uscita della grotta ghiacciata e al suo cancellino che immette sulla cresta sono la prassi da queste parti anche per chi ha la possibilità di sciare tutti i giorni e magari ci si aspetta viva più tranquillamente la pressione della prima traccia. 

Tof Henry, classe ’84, fa parte di questa comunità da anni. Anzi, ci è proprio nato a Cham e in un ambiente così competitivo ha saputo imporre il proprio modo radicale di sciare senza snaturarsi, ma evolvendo come sciatore e come persona. Prima di metterci in viaggio e attraversare il traforo del Monte Bianco, nutrivo il sospetto che mi sarei trovato davanti a uno skier senza compromessi, non solo per il modo di sciare, ma per il suo respirare neve durante tutto l’anno. Sono poche quelle persone che sono davvero un tutt’uno con un qualche elemento naturale. Per certi versi Tof mi ha ricordato i surfisti che si nutrono delle sensazioni che sanno dare le onde. Una volta arrivati davanti all’Elevation Bar, giusto dopo Moo, ci troviamo davanti a questo ragazzone mentre sta finendo la sua birra. Tof è alto. Almeno 190 cm per 85 kg, giusto per sfatare il mito che quelli alti non possono sciare bene. Un saluto, quattro chiacchiere lungo la strada e siamo nel suo appartamento in un ambiente cordiale e rilassato. Niente di sfarzoso tipo chalet, ma la casa di uno sciatore con assi dietro la porta del salotto e diversi modelli di Armada ancora da forare per la nuova stagione vicino alla finestra. Una mountain enduro nell’ingresso e qualche immagine storica del Monte Bianco con alcuni ritratti della famiglia. 

© Daniel Rönnbäck

Forse lo avrete capito: Tof Henry è uno Chamoniard. Vero. 

E noi siamo qui perché scia forte, molto forte. Come pochi in giro oltralpe, come nessuno o quasi qui a Sud delle Alpi. Il suo marchio di fabbrica è la velocità, la fluidità portata ai massimi livelli su linee classiche e le grandi pareti glaciali del Monte Bianco con le migliori condizioni possibili. La ricerca della polvere e di quella neve che ti permetta di osare a fondo linee ripide ed estreme per pendenza e ambiente. Anello di congiunzione tra freeride puro e sci estremo come pochi personaggi, Tof interpreta lo sci in maniera totalizzante seguendo quella sensibilità per l’elemento bianco sviluppata negli anni sui più bei pendii del massiccio italo-francese.

Tof Henry un vero Chamonix kid! Per iniziare la nostra chiacchierata è sempre giusto conoscersi un po’ meglio: raccontaci chi sei, da dove arriva la tua famiglia.

«Assolutamente! CHX 100%, da quattro generazioni almeno. Essendo dell’84 ormai non proprio un kid, ma un vero Chamoniard. Non arrivo però da una famiglia di montanari: mia madre lavorava in un ufficio turistico, i miei genitori non sono mai stati dei veri appassionati della montagna pur essendo nati e vissuti qui. Ovviamente a sciare, come ogni ragazzino di Cham, ho iniziato con gli sci club, poi verso i quindici o sedici anni mi sono avvicinato al freeride con l’arrivo degli sci fat. Tutto normale insomma. Mi sono fatto un po’ il giro con cui andare in montagna. Ma se devo ricordare una persona in particolare, ti dico il mio amico Pif, creatore dei monosci Snowgun. Ho iniziato a girare con lui e devo dire che ho imparato molto da quel modo di sciare e dalle sensazioni che si provano con un monosci. Poi ho conosciuto Nathan Wallace. Lui è un americano che si è trasferito in paese nel 1998 per sciare. Forse la persona con il migliore fiuto per le condizioni di neve di tutta Cham. Era molto più grande di me e io ero solo un ragazzo. C’era un po’ di diffidenza inizialmente. Poi abbiamo imparato a fidarci l’uno dell’altro. In fondo abbiamo avuto una storia simile come skier perché ci siamo un po’ fatti da soli. Nat è stato il mio padre spirituale, Daddy Nat lo chiamo: mi ha aiutato moltissimo a capire le condizioni della neve, a essere nel momento giusto nel posto giusto. Mi portava con lui, capivo come sceglieva i posti e le pareti. Ora abbiamo lo stesso punto di vista su molti aspetti. E adesso sono io che a volte porto lui (ride), ci fidiamo molto uno dell’altro in montagna».

È così che nasce la tua passione per il freeski?

«Esatto, in quegli anni! Ho sempre adorato essere nella neve. Trovarmici dentro nel vero senso della parola. Ho bisogno della neve. È il mio elemento. Lavoro presso una scuola sci, ma mi prendo il mio tempo per sciare in stagione, per essere pronto al cento per cento quando arriva il momento giusto. Se sto fermo o non mi prendo il tempo per sciare, avverto che poi ci vuole un po’ di tempo per ritornare al top della forma. Quando in inverno esco dalla stazione di Helbronner durante una nevicata, mi basta sentire la sensazione che mi restituisce il bastone quando lo infilo nel manto nevoso per capire che neve troverò e le condizioni che ci sono. Mi capita spesso, non sempre, qualche spavento lo si prende e c’è comunque qualcosa da imparare: per esempio adesso, anche nei giorni di polvere, ho sempre dietro una corda».

Un dare e avere con la montagna che vivi, senza tirarti indietro

«Eh sì! Al Pavillon durante e dopo le nevicate si deve sempre sciare sulle creste, sulle spine. Mantenendosi sul filo il più possibile, nei catini è molto pericoloso. Il terreno sottostante è brutto. Un giorno c’erano condizioni pessime. È superfluo dire che siamo stati troppo confident conoscendo molto bene il posto. Tutti dopo dieci curve, anche gli inglesi, sono risaliti giudicando l’uscita troppo pericolosa. Per noi è stato un mettersi in gioco in modo totale, quasi un combattimento cercando di dare fondo a tutta la nostra esperienza per arrivare in basso. Ci siamo assicurati agli alberi con la corda in alcuni punti per bonificare i pendii. Siamo stati sempre sulle creste. Un gioco, senza dubbio pericoloso, lo so».

Questo gioco vale la candela? In caso di errore il prezzo è alto. 

«Concordo nel parlare di errore dello sciatore in caso di valanga. Se succede, vuol dire che si è sbagliata qualche valutazione in merito alla neve, al percorso o al timing. È un gioco per cui il prezzo potrebbe essere altissimo, lo so. Ad esempio non azzardo più sulle discese della Midi, tipo il Glacier Rond, in inverno. Però i giorni di neve fonda sanno regalare sensazioni uniche per le quali vivo. È una domanda difficile».

© Daniel Rönnbäck

Infatti, specie all’inizio della stagione, la ricerca della polvere, per esempio all’Helbronner, porta a muoversi alla ricerca della prima traccia su certe linee… Come ti poni di fronte al rischio, andando a sciare linee come i Cavi, Cesso, Passerella già durante la nevicata.

«È vero, a volte capita che scendiamo quelle linee nelle prime schiarite durante una perturbazione, nella yellow light: quella luce che filtra tra i fiocchi che formano le nuvole, una luminosità che sa regalare una visibilità e un’atmosfera uniche. C’è da dire però che conosciamo molto bene il terreno. Sciamo quelle linee quasi tutti i giorni precedenti la perturbazione e anche durante. In questo modo sappiamo come era la neve e ne percepiamo i minimi cambiamenti, quanta ne ha fatta e come. Spesso sul finire della perturbazione il vento non ha ancora agito. Visti da fuori sembriamo imprudenti, ma calcoliamo molto e spesso torniamo indietro. Ripercorriamo per lo più le tracce nostre del giorno prima e aspettiamo di avere la visibilità. Questo è fondamentale, e l’ho imparato sulla mia pelle»

Qualche brutta esperienza?

«Risale all’anno scorso. Ci siamo buttati sotto ai cavi di Helbronner con poca visibilità e abbiamo imboccato il pendio in un posto non corretto. Confesso che non mi sentivo a mio agio ed ho sbagliato a insistere. Stavo sciando quando ho sentito urlare il mio compagno, mi sono girato, ho visto un’onda di neve arrivare ma non potevo che continuare a sciare il pendio verso destra. Mi ha preso le code, trascinandomi verso il basso. Mi sono trovato trenta metri sopra la barra alta cento che sorregge il pendio. Abbiamo commesso un errore che ci poteva costare caro, molto caro e non ne vale la pena. Sono stato fortunato. È giusto cercare di prendere tutte le possibili precauzioni per ridurre il rischio. Tanto più che le condizioni ormai sono assai più mutevoli dei decenni scorsi: bisogna stare più attenti a trovare il momento ideale per fare determinate cose» .

Il clima sta cambiando davvero?

«Purtroppo sì: le condizioni super che si possono trovare in momenti anomali dell’anno sono solo una manifestazione davvero tangibile di ciò che sta accadendo. Quindici anni fa non si percepiva che qualcosa stava cambiando, ma nelle ultimi cinque o sei stagioni è davvero davanti agli occhi di tutti. Durante l’inverno si passa nello stesso giorno da -5° a +15°. Ci sono escursioni molto grandi e inverni sempre meno freddi, perturbazioni più calde e precoci. Le pareti glaciali erano verdi fino ad aprile solitamente, ora non è raro trovarle ben innevate anche in pieno inverno, come mi è successo sul Couturier alla Verte nel 2018. Diventa sempre più importante il tempismo. Un altro esempio sono le discese dell’Helbronner: qualche anno fa la regola era che fino a febbraio si poteva sciare durante tutto il giorno, dopo solo fino a prima di mezzogiorno, essendo tutto a Sud ed Est. Ora capita di doverselo ricordare anche in pieno gennaio. Lo dico con un certo rammarico. È tempo che ognuno ne prenda coscienza e cerchi di fare il possibile, anche se mi accorgo che è solo un piccolo gesto. Vivendo a Cham per esempio cerco di non prendere la macchina per tutta la stagione invernale. Uso la bici. Ma è difficile cambiare. Basti pensare al problema dell’inquinamento dovuto al riscaldamento che c’è ogni inverno qui in valle».

Tornando alle sensazioni che sa regalare la neve vissuta senza compromessi: si capisce da come interpreti le tue discese, traspare la tua passione estrema per questo elemento e la ricerca della polvere migliore.

«È incredibile la sensazione che regala la neve se sciata veloci. La velocità che cerco ti porta a planare sopra grazie alla superficie larga degli sci, le curve le fai driftando sul manto nevoso, ottenendo sensazioni uniche. Ti senti leggero. E puoi sciare a fondo sul pendio». 

Sciare veloci diminuisce alcuni rischi?

«Secondo me in parte sì. I tratti più pericolosi delle linee generalmente sono in alto, sotto i colli o le creste. Spesso con tanta neve mi sforzo di percorrere dritto questi passaggi, il più leggero possibile, avendo cura di individuare preventivamente una via di fuga sicura. Oltre certe velocità plani sulla neve, il drift che ti dicevo prima. Però non è facile e ci si deve esercitare prima su terreni che si conoscono bene , ci vuole tempo per acquisire sensibilità, con tante giornate sulla neve. Inoltre spesso su linee che conosciamo e che prendiamo con gli impianti ormai ragioniamo su come tagliare il pendio preventivamente in determinati punti, per farlo scaricare. Ma… don’t try this at home!».

Cham, i pendii del Monte Bianco, la neve, la velocità, la fluidità, qual è lo stile che preferisci e il terreno ideale?

«Innanzitutto è più corretto fare una distinzione all’interno del mio modo di sciare: specie d’inverno preferisco definire il mio stile full speed, e poi c’è lo steep skiing sulle grandi pareti. Per quanto riguarda il primo, sono tutti quei giorni tra Midi, Helbronner e Grands Montets di sci in polvere. Dove si attendono le nevicate e ci si tuffa a sciare a fondo e al massimo ogni singolo fazzoletto di neve polverosa. Con amici, in modo totale, approfittando delle condizioni.  Per quanto riguarda lo steep, sono quelle giornate in cui cerco di sciare una parete ripida con la miglior neve possibile per il mio stile. Il pendio che ritengo perfetto per questo tipo di discesa si trova nel bacino d’Argentière. È il Col de la Verte. È assolutamente fantastica: continua per linea e pendenze, ripidissimo per lunghi tratti. Spesso su altre discese i tratti oltre i 50° si riducono a qualche metro, al massimo qualche decina. Al Col de la Verte queste pendenze si trovano per qualche centinaio di metri. E poi è tecnico. Sempre nella Mecca dell’Argentière, anche il Col de Droite mi piace molto. Mentre sul versante italiano per me la linea più bella è il Couloir du Diable al Mont Blanc du Tacul. Una linea pura, evidente eppure spesso trascurata e poco frequentata contrariamente alle discese del bacino d’Argentière».

Un grosso exploit dell’anno scorso è stato la Nord del Triolet, quella resa mitica dalla foto del compianto Philippe Fragnol durante la prima discesa in snowboard del giugno 1995 a opera di Jerôme Ruby e Dedé Rhem. Discesa ripresa in sci solo nel 1998 dalla Guida alpina svizzera Marcel Steurer.

«Che giornata sul Triolet! Se devo essere sincero, io e Jonathan Charlet eravamo saliti in Argentière con l’idea di provare il Nant Blanc, pendio mitico che ancora ci mancava. Osservando la parete, ci siamo accorti che alcuni sciatori avevano iniziato la discesa, o meglio a buttar giù doppie collegando tratti in cui curvavano molto controllati. In sostanza, non c’erano le condizioni che cercavamo e comunque, se fossimo andati anche noi, avremmo già trovato delle tracce. Detesto le tracce. Se non sono il primo a scendere un pendio, allora cambio piano. Non mi interessa più. È come se perdesse la purezza. Odio seguire le tracce. Allora siamo andati verso il Refuge d’Argentière con alcune idee in testa, tra le quali guardare il Couloir Lagarde. Però, una volta al rifugio, la vista della parete Nord del Triolet ci ha catturato totalmente con il suo bianco perfetto. Siamo saliti eccitati sul tetto per binocolarla: ci è sembrata in condizioni perfette. Allora abbiamo chiamato Daniel Rönnbäck per organizzare le riprese dall’elicottero. Al mattino presto abbiamo risalito il Col des Courtes e, una volta in cima, ci siamo trovati davanti al tratto più tecnico e spaventoso della giornata: la cresta che porta in cima al Triolet. Sono poche centinaia di metri, ma espostissimi. Un filo dove è impossibile proteggersi e dove si deve procedere con cautela legati a tutta corda, facendola passare dietro a spuntoni di roccia e neve per avere un minimo di sicurezza. Alle 11 eravamo in cima, ma dovevamo aspettare l’elicottero perché fossero possibili le riprese. Dopo mezz’ora però ci stavamo raffreddando e la tensione della discesa saliva: abbiamo chiamato Daniel dicendo che avremmo iniziato subito la discesa, in fondo eravamo lì per sciare. Il mio socio in tavola davanti, in modo che fosse facilitato, potendosi fermare frontalmente al pendio con le due picche durante l’installazione delle doppie nel ghiaccio sopra ai seracchi. Bisognava scavare nella neve per arrivare al ghiaccio. Quindi le doppie, poi il ripido pendio esposto sotto ai seracchi. L’elicottero nel frattempo era arrivato mentre sciavamo: non amo il suo rumore, è difficile concentrarsi. Poi le curve sempre più veloci insieme sul pendio basale. Una volta sul ghiacciaio, ci siamo girati indietro insieme a guardare la parete ed è stato bellissimo. La neve che abbiamo trovato è stata meravigliosa e ho provato la stessa sensazione della discesa del Col de la Verte. Sono linee che guardavo da anni, dove ho potuto capire i progressi fatti».

Immagino che però ci siano ancora alcune big line che vorresti sciare qui nel Bianco?

«Mi piacerebbe prima o poi trovare le condizioni ideali sul Nant Blanc. Poi, passando all’altro versante del massiccio, la Diagonale al Tacul e una linea sulla parete della Brenva, la Sentinella Rossa magari. Fuori da Chamonix ho grosse aspettative per sciare in Kashmir o in Pakistan. Vedremo. Intanto in questi Paesi cerco di scovare delle linee, magari su Fatmap… ma non come quelli che lo usano per scovarle a Chamonix, ahah!».

© Federico Ravassard

Allora non ti piace solo il Monte Bianco!

«No, no, assolutamente. Forse quando ero giovane ero più radicale. Poi ho capito che il mondo è grande ed è troppo bello per non visitarlo sciando. Specie con l’esperienza fatta qui a Chamonix. Non ho bisogno di Guide, sono diventato abbastanza autonomo anche nelle manovre alpinistiche. Discorso a parte per il mio socio preferito Jonathan Charlet, che è una Guida. Ma è soprattutto uno che in montagna ha due palle enormi! E poi abbiamo lo stesso modo di pensare: per sciare le big line non devi pianificare troppo, farti delle liste. Non ti lascia tranquillo e perdi lucidità».

Qui a Chamonix quando arriva la primavera deduco che ci sia molto fermento per sciare le pareti più belle e prestigiose: storie da ghetto, rivalità e competizione?

«Sì, è vero. In inverno è un po’ differente: durante i powder day si è per lo più tutti cordiali, si scia con in amicizia. In primavera il discorso cambia. Ci sono tanti team, tante crew o piccoli gruppi di sciatori. Gira un sacco di testosterone e più mistero. Come dicevo, odio trovare i pendii tracciati. Voglio essere il primo. Anche su linee che conosco a memoria come il Glacier Rond alla Midi, se uno degli amici che è con me chiede di poter andare per primo, lo lascio andare, ma dentro di me soffro un po’. Per questo spesso arrivo tra primi a mettermi in coda alle funivie, anche solo per essere davanti a tutti sulla cresta della Midi, oltre il cancelletto. È liberatorio! Purtroppo qui a Cham non tutti sono corretti. Chi ha soldi e sponsor ha diritto a priorità sulle cabine. Per non parlare poi degli elicotteri. In tanti hanno la coscienza sporca e a me piace troppo dire le cose come stanno. Per esempio quanto accaduto durante una discesa dell’Aiguille du Plan l’anno scorso, quando dei pro skier con una Guida sono stati portati su in elicottero: ho discusso, come è possibile che delle Guide propongano questo modo di andare in montagna a cercare le linee? C’è da vergognarsi».

Veniamo ai tuoi modelli: uno sciatore che ti ha ispirato?

«Se devo fare il nome di un pro skier, posso dirti Seth Morrison. Lo seguivo da ragazzino, poi l’ho visto a Cham e lo guardavo con rispetto e diffidenza. Ma poi siamo tutti skier, ci si capisce e adesso capita addirittura di sciare insieme!».

Veniamo alle domande tecniche: per lo sci che pratichi quali sono i tuoi materiali preferiti? 

«Mi piace utilizzare materiali che mi permettano di sciare bene e forte. Sono supportato da Armada e per i giorni di polvere full speed da quest’anno uso il Tracer da 118 mm sotto al piede e 195 cm di lunghezza, essendo alto e volendo cercare la velocità. Sogno una mia versione lunga 205 cm. Attacchi Look Pivot e scarponi Dalbello Krypton o Lupo: preferisco materiale solido e senza sorprese. Adoravo i JJ del 2015, adoro i Tracer e mi hanno sorpreso i Magic J. Per i pendii ripidi utilizzo un prototipo che sto sviluppando con Armada: 192c m di lunghezza, 115 mm al ponte, camber normale, rocker e bello rigido. La prima versione era meno intuitiva di quello che uso adesso, che è più confortevole. Non mi piacciono gli sci leggeri, perché leggerezza è sinonimo di sciare soft e a me piace sciare duro a tutta. Come attacchi uso i Marker Kingpin. Negli ultimi anni c’è stata una grossa evoluzione delle calzature: per la massima trasmissione devono avere la punta piatta e non stondata anche se facilita la rullata e poi non devono essere troppo basse come quelle da skialp puro. Ma per sciare la cosa più importante è l’asse e poi lo scarpone: prendi degli sci veri, solidi anche se più pesanti. Restituiscono migliori sensazioni e sicurezza. La leggerezza a tutti i costi va a discapito della sicurezza, specie se ami sciare veloce».

Cosa ti piace degli sci che usi e come ti trovi nel team Armada?

«Mi trovo molto bene, ormai da quasi sette anni. Seguono il rider nella costruzione e nello sviluppo di nuovi modelli. E poi hanno un team che tocca tutte le discipline, dal pipe al backcountry, dal big mountain skiing fino allo street. E c’era JP Auclair: un punto di riferimento che dava un bel supporto ai nuovi, aiutandoli e seguendoli. Infine, se devo essere sincero, quando vedo gli sci con quelle grafiche aggressive… sogno subito di essere in powder! È stato uno dei primi brand a capire l’importanza di creare grafiche emozionali oltre che ottimi attrezzi sviluppati da chi in montagna ci va per sciare davvero».

Ok, ora è il tempo di fare qualche foto, magari un po’ urban style, dove andiamo Tof?

«Beh, alla Midi, che adesso non c’è coda!»

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 121 DI DICEMBRE 2018, INFO QUI

© Federico Ravassard

Paul Bonhomme, lo sci ripido come esplorazione

Dieci maggio 2018. La luce in fondo al tunnel è quella che ci coglie al termine del traforo del Frejus. Piove a dirotto sul lato francese, il che ci fa buttare un occhio alla temperatura riportata nel cruscotto della macchina: «Bene! Questa in alto attacca…». In primavera inoltrata, durante i giorni di pioggia, spesso il pensiero dei malati di sci va infatti alla neve che, con zeri termici abbastanza elevati, riesce a incollarsi sulle pareti tipicamente glaciali e rocciose. Oggi dopotutto stiamo andando a intervistare un personaggio che, senza temere di sbagliarci di molto, starà pensando esattamente la stessa cosa guardando tutta questa acqua che cade dal cielo sopra Annecy.

Come tutte le volte che capita di andare a conoscere davvero qualcuno di cui hai sentito parlare in maniera indiretta o attraverso i canali social, spesso ti immagini il primo istante in cui te lo troverai di fronte. Nessuna ansia particolare, per carità, solo un gioco che cerca di anticipare il tempo. Arriviamo ad Annecy nel luogo in cui ci siamo dati appuntamento probabilmente imboccando una corsia riservata ai bus; piove a manetta e questo non aiuta a interpretare le indicazioni di una circolazione urbana non esattamente ben studiata. Per farci riconoscere molliamo l’auto sul marciapiede di fronte al negozio di articoli sportivi dell’appuntamento: siamo gli inviati di una testa di sci italiana dopotutto, ed è più pratico che scrivere su Facebook un messaggio a Paul.

Dall’altra parte della strada un uomo non troppo alto e minuto, piumino rosso e cappellino con la visiera, ci si fa incontro. È lui! È Paul, quello che vuole concatenare in giornata con partenza da Chamonix le quattro pareti dell’Aiguille Verte: sci de pente raidee alpinismo, per un viaggio di oltre 4.000 metri. Roba da atleti e mega allenamento, pensiamo. «Salut, je suis Paul!». Paul lascia uscire una boccata di fumo sotto la pioggia: sta fumando una sigaretta. Lo seguiamo in un caffè del centro non distante dalle rive del lago di Annecy, è mattina, non c’è quasi nessuno e possiamo stare tranquilli e chiacchierare. La skilometratada Torino per venire fino a incontrare questa Guida francese ha una ragione ben precisa.

Sconosciuto forse ai meno attenti, Paul Bonhomme, classe 1975, è un alpinista a tutto tondo e sta portando avanti una sua particolare idea di sci. Si è allenato tutto l’inverno sui pendii più difficili degli Aravis, seguendo le orme di Pierre Tardivel per un grande e personalissimo obiettivo: percorre a piedi in salita e in sci i quattro versanti di una delle montagne simbolo dell’alpinismo nel massiccio del Monte Bianco, l’Aiguille Verte. Proprio quella cima marcata indelebilmente da una delle più celebri imprese della storia dell’alpinismo ad opera di Gaston Rebuffat. «Avant la Verte on est alpiniste, à la Verte on devient montagnard» giusto per capirci. L’ambizioso progetto 4Faces* prevede la partenza da Argentière, la salita in cima alla Verte per il Couloir Couturier, la discesa sul versante sud-orientale della montagna per il canalone Whymper, la risalita per il Couloir à Y e la discesa della parete più austera e difficile: il Nant Blanc. Il tutto in giornata. Ecco perché i chilometri per venire a conoscere Paul li abbiamo fatti più che volentieri!

© Federico Ravassard

Chi è Paul Bonhomme? Cosa fa? Presentati ai nostri lettori.

«Allora, sono una Guida di alta Montagna, nato in Belgio ma con origini Olandesi, un bel mix! Con la mia famiglia ho vissuto fino a 18 anni a Parigi per poi trascorrere circa dieci anni con mio fratello Nicolas nel Briançonnais. Ho iniziato con l’arrampicata a tredici anni, gareggiando anche nel campionato nazionale. Gli sci li ho messi a due anni, ma non ho mai preso lezioni fin verso i 19, quando ho deciso di diventare maestro. Così mi sono avvicinato alla montagna, mi ritengo un appassionato prima di tutto. I primi compagni sono stati mio fratello Nicolas e il nostro migliore amico, Jean Noel Urban, due sciatori e alpinisti. Purtroppo Nicolas ha perso la vita sui pendii del Gasherbrum 6 nel 1998, mentre Jean Noel mentre era con gli sci sul Gasherbrum 1 nel 2008. Ecco perché il 2018 per me ha un significato particolare. Dopo la morte di mio fratello, nel 2000, ho deciso di diventare Guida alpina e ho di nuovo contattato Jean Noel, che era un po’ restio a venire in montagna e a sciare con me per quanto era successo a Nico. Insieme avevano sciato nel 1996 la Wickersham Wall sulla parete nord del McKinley: un versante pazzesco. Ho poi iniziato a sciare sul ripido. Non una passione totalizzante, mi piace fare diverse cose in montagna e variare».

Sciatore, alpinista, un appassionato a tutto tondo…

«Sì, assolutamente. Ad esempio ho fatto anche traversate come l’Annecy - Chamonix in meno di due giorni con alcuni compagni, però non mi piace pensare alla montagna solo come a uno sport. Anzi, non è uno sport, ma è esperienza, sperimentazione, è vita! C’è una grossa differenza rispetto alla performance pura».

Sei stato anche in Himalaya, vero?

«Ben nove volte. Quattro per dei trekking con i clienti. Nel 2005 con Jean Noel Urban e Nicolas Brun per provare a sciare il Cho-Oyu (8.201 m, sciato dal solo Jean Noel) e lo Shishapangma (8.027 m) per la parete Sud-Ovest. Nel 2007 sono stato sul Dhaulagiri. Come ti dicevo a Jean Noel non piaceva molto sciare con me per via dell’incidente di mio fratello. Su quel tipo di terreno ho iniziato a sciare con Nicolas Brun. E poi da quando non sono più vice-presidente del SNGM (Syndicat National des Guides de Montagne) per sciare ho più tempo!».

L’anno scorso il Couturier in giornata, poi grandi allenamenti di fondo, quindi gli itinerari più difficili degli Aravis… qui si fa sul serio.

«Devo dire che non mi alleno in modo specifico. Solo per questo progetto 4Faces, nelle giornate in cui tornavo in rifugio con i clienti, mi è capitato poi di rimettere le pelli e salire ancora e scendere per conto mio. Ma solo per il progetto! Ti basti pensare che fumo. L’anno scorso, durante il concatenamento con gli sci tra Annecy e Cham, mi sono sentito bene su terreno ripido e così ho iniziato a immaginare questo progetto. Ho partecipato all’UTLO (Ultra Trail Lago d’Orta) e mi sono allenato per quello, da novembre a gennaio ho avuto più tempo e ho curato forse un po’ di più questo aspetto. Poi ho iniziato la mia stagione normale con i clienti».

Hai altri progetti per il futuro?

«Non so, ho molti altri progetti, ma non ho niente da dimostrare agli altri. Ho una mia idea un po’ pazza, un viaggio con gli sci, ma su terreno ripido: è il mio concetto di evoluzione di questa disciplina. Il gioco consiste nell’essere sufficientemente preparato per salire, ma il vero obiettivo è essere ancora abbastanza concentrati per discese di quel tipo. Questo è il vero goal che mi sono preposto! È solo sci in fondo, ma dove la componente alpinistica diventa sempre più importante. Come scalare su terreno d’avventura. Poi per me lo sci estremo è in solitaria».

Cosa cerchi in una linea ripida, ti interessa più aprire o ripetere?

«Devo ammettere che non ho preferenze. Nel ripetere mi piace pensare a chi ha aperto e scovato quella determinata linea. Un modo per rendere omaggio al primo. Per esempio durante la mia recente ripetizione del Couloir Lagarde sulle Droites ho ripensato ad Arnaud Boudet nel 1995 e alla storia degli altri sciatori che ci sono passati. Vogliamo parlare di quando si è sulle discese di Pierre Tardivel?».

La mentalità è davvero cambiata oggi?

«Sì, a partire dai materiali, basti pensare all’avvento e alla diffusione della tecnologia low-tech degli attacchi e agli sci fat. Insomma, una serie di contributi derivanti sia dallo skialp classico che dal freeride. E poi circolano più informazioni sulle condizioni delle discese. È un insieme di fattori. Generalmente però per emergere nelle diverse discipline alpinistiche occorre essere più settoriali, mentre nello ski de pente è importante essere il più completi possibili, non solo buoni sciatori. Che per me vuol dire essere uno sciatore buono in tutte le condizioni che puoi incontrare. Quindi non solo tecnicamente. Alcuni dicono persino che Jean Marc Boivin non sciasse in modo eccelso, eppure… Sulla tecnica mi concentro molto quando sono su terreno ripido ed esposto, quando devo curvare».

Ti ispiri a qualcuno?

«È la storia stessa dell’alpinismo che mi affascina, per esempio personaggi come Berhault. In fondo questo mio progetto 4Faces è proprio un viaggio in montagna».

Credi di poter ispirare qualcuno?

«Innanzitutto penso che sia fondamentale dire la verità quando racconti le tue esperienze. Mi piace molto poter condividere ciò che faccio, ma trovo importante spiegare bene tutto, per esempio gli aspetti tecnici, in modo che chi legge capisca bene le difficoltà e la mia impresa non diventi un incentivo a cimentarsi su certe pareti sottovalutandole. Come dicevo all’inizio, non è uno sport questo tipo di sci. Se uno ti chiede quando andare su determinati pendii, vuol dire che non è pronto perché non ha l’esperienza necessaria per valutare lui stesso quando trovare il giusto momento».

Da una parte Kilian, da una Jérémie Heitz e poi gente semi-pro che scia tutto, tutti i giorni e in qualsiasi condizione, come si vede dopo ogni nevicata su discese come la Mallory: tu dove ti collochi in questo universo?

«In mezzo, almeno così penso!». (ride)

Domanda classica, che materiali usi?

«Sci White Doctor LT10, 98 mm al ponte, 175 cm per circa 3,4 kg al paio. Sono prodotti da Eric Bobrowicz a Serre Chevalier. Non propriamente leggeri, cercavo uno sci robusto, in modo da non doverlo cambiare ogni anno! Un attrezzo polivalente che uso durante tutta la stagione con i clienti. Poi attacchi low-tech e scarponi Scarpa F1».

In conclusione, il sogno nel cassetto?

«Mah, molti in realtà: tornare a sciare sul Pumori prima di tutto. Ci avevo già provato nel 2011 e 2016, ma ero troppo stanco, quarantacinque minuti per calzare gli sci sull’enorme pendio finale per poi rendermi conto che con quella neve durissima non avrei potuto fare una curva e tenerla. Sarei morto. Ho fatto un traverso di cento metri e poi altri quaranta minuti per togliere gli sci e rimettere i ramponi: ero esausto. Mi piacerebbe riprendere con le spedizioni in quota, ma ho superato i cinquanta, ho quattro figli e devo pensare a loro. Il sogno sarebbe sciare il Couloir Hornbein all’Everest dopo averlo risalito. Lo ritengo fondamentale per capirne tutte le insidie. E poi il Laila Peak magari, una montagna dalle forme bellissime. Qui sulle Alpi? L’evoluzione passerà secondo me per pareti con tratti di misto che potranno essere percorse magari in condizioni di neve difficile, o non propriamente bella, perché solo in quel momento ricopre certi passaggi. Qualche idea futura? Preferirei non…».

 

* Il 18 maggio 2018 (poco prima di scrivere questo articolo) Paul ha fatto un primo tentativo per realizzare il progetto 4Faces: partito poco prima delle 23 da Argentière ha risalito il Couloir Couturier, quasi 2.800 metri di dislivello e, alle prime luci dell’alba, dopo un piccolo riposo in cima, ha sceso il Couloir Whimper sul versante Telafrè della montagna. Una volta alla base, accompagnato da Vivian Bruchez, giovane Guida e sciatore di gran classe di Chamonix, ha risalito il Couloir à Y sul versante Ovest della montagna: terreno tecnico e alpinistico per ritrovarsi una seconda volta sui 4.121 metri della Verte. A quel punto è iniziata la loro discesa del Nant Blanc, discesa mitica del 1989 a opera di Jean Marc Boivin, ripetuta solo dieci anni dopo da Marco Siffredi in tavola. Terreno d’elite che ha visto cimentarsi, specie negli ultimi anni, i più fini sciatori del panorama europeo, a partire da quel Tardivel che ne ha aperto una variante più sciistica. Purtroppo le condizioni non sono state giudicate sufficientemente sicure per poter completare la discesa in quanto la neve dei giorni precedenti non aveva incollato a sufficienza. Paul e Vivian, ritornati in cima, sono scesi a valle per il Couloir Couturier (5.4 E4) a fine giornata con quasi 5.000 metri di dislivello nelle gambe… non un gioco da ragazzi.

Questo articolo è stato pubblicato sul Skialper 118, info qui

Bonhomme durante il tentativo di 4Faces ©Julien Ferrandez/UBAC Media

La Sportiva Stratos Mask sarà certificata come le mascherine chirurgiche

Terminata la fase di collaudo, La Sportiva passa all’industrializzazione e commercializzazione di Stratos Mask, svelando tutti i dettagli della mascherina igienica di protezione generica pensata per la nuova fase di convivenza con il Covid-19 e per la pratica dello sport.

La prima notizia è che Stratos Mask è certificata come una mascherina chirurgica. Lo è il filtro monostrato, facilmente sostituibile grazie a dei comodi strap, che permette di filtrare il 99% dei batteri e virus emessi dalla bocca secondo la norma EN ISO 14683:2019. Il filtro andrà sostituito quotidianamente (un foro permette di vedere se è stato inserito o no) o con maggiore frequenza a seconda dell’intensità d’uso della maschera da parte dell’utente (l’azienda ne consiglia un utilizzo per un massimo di circa quattro ore). Stratos Mask sarà in vendita a 19 euro con 30 filtri mono-uso e le ricariche da 90 filtri costeranno 9,90 euro. La mascherina vera e propria invece è lavabile a 40 gradi a mano o in lavatrice, ma non è necessario farlo tutte le volte. Il tessuto 3DMesh traspirante infatti ha subìto un trattamento anti-batterico e anti-virale Viraloff by Polygiene, che riduce del 99% batteri e virus, quali quelli dell’influenza A, influenza avaria, Norovirus, Corona (SARS) entro due ore.

Per quanto riguarda l’ergonomia, è stata studiata per evitare la dispersione delle goccioline sia in scia, sia in verticale perché quando si va in montagna potrebbe esserci dispersione di droplet anche in questa direzione. Ecco dunque che il copri naso e il copri mento sono molto avvolgenti, ma possono essere allentati quando serve più areazione. L’applicazione avviene tramite due elastici con possibilità di regolazione, anche se esistono comunque tre taglie (Kid, M, L ) e due varianti colore.

Tutti i tessuti della mascherina sono certificati da Oeko-Tex: Oeko-Tex® Standard 100 indica che il produttore è certificato come ecocompatibile sia nei processi che negli stabilimenti, oltre che testato per verificarne l'assenza di sostanze nocive. Stratos Mask è pensata per attività sportiva outdoor, dalla gita in montagna alla corsa moderata, e pesa 20 grammi. L’utilizzo di una mascherina lavabile e riutilizzabile rispetto a quelle mono-uso contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente: la minore superficie del filtro rispetto a quella necessaria per produrre mascherine sanitarie contiene gli sprechi di materiale ed è quindi una soluzione maggiormente sostenibile.

La commercializzazione avverrà a partire dalla settimana 18-22 maggio tramite i canali commerciali tradizionali e sarà inoltre acquistabile dall’utente direttamente dall’e-commerce dell’azienda con consegne a partire da fine mese.


La Sportiva, il 18 maggio riaprono produzione e negozi monomarca

Mascherine, guanti e distanziamento sociale sono i nuovi mantra della fase due nella lotta all’epidemia da coronavirus e La Sportiva è pronta ad affrontarla in sicurezza: da lunedì 18 maggio riparte ufficialmente la produzione delle scarpette d’arrampicata e scarponi da montagna nella sede produttiva di Ziano di Fiemme e con sé tutta la filiera di produzione. Inizialmente gli oltre 200 operai (su una popolazione aziendale di oltre 360 persone) si alterneranno su due turni giornalieri di 4 ore mentre gli impiegati che possono lavorare in homeworking, proseguiranno con il lavoro da casa, allo scopo di ridurre il numero di persone contemporaneamente presenti in azienda. A queste misure si aggiungeranno il controllo della temperatura corporea e l’entrata e uscita dei dipendenti a turno in modo da garantire ulteriore sicurezza a tutti i lavoratori e minimizzare il rischio di assembramenti.

«Torniamo finalmente operativi anche se non ancora a pieno regime - ha detto Lorenzo Delladio, CEO & Presidente - c’è bisogno di rimettere in moto l’azienda e tutta la filiera dei fornitori con l’obiettivo di tornare al 100% della capacità produttiva a giugno. Sarà fondamentale vedere anche come risponderà il mercato ed un sentiment immediato ce lo darà anche la riapertura dei nostri store monomarca che riapriranno sempre da lunedì 18 maggio rispettando tutti i decreti emanati dal governo in materia di sicurezza. Avremmo potuto riaprire la produzione già il 4 maggio grazie al lavoro dei nostri responsabili della sicurezza che hanno recepito ed applicato a tempo di record tutte le misure finalizzate al massimo contenimento del contagio, tuttavia abbiamo preferito aspettare e riaprire contemporaneamente sia produzione che brand store».

Lo stabilimento di Ziano non si è in realtà mai fermato del tutto fatte salve le primissime due settimane di chiusura, una task force di 18 dipendenti richiamati dalla cassa integrazione infatti ha dato vita ad una linea di produzione di 5.000 mascherine sanitarie al giorno a favore della Protezione Civile di Trento e principalmente di aziende locali trentine, mentre il reparto R&D ha lavorato incessantemente per creare l’esclusiva Stratos Mask, un prodotto lavabile e riutilizzabile che pensa anche alla sostenibilità dei dispositivi protettivi in questa fase di convivenza con il virus. «Siamo ormai pronti per la commercializzazione di questa mascherina con filtro intercambiabile ed utilizzabile nel quotidiano ma anche per fare sport outdoor - precisa Delladio - entro maggio sarà possibile acquistarla sul nostro e-commerce e a giugno partiranno le prime consegne. È un lavoro che ha richiesto molto impegno e ci ha dato tanta motivazione, non è stato semplice per una fabbrica che normalmente produce calzature riconvertirsi alla produzione di dispositivi di protezione come Stratos Mask».


Ski local

Primo gennaio 2010

Felicemente fidanzato a mesi alterni, un lavoro impegnativo ma che mi piace, un buono stipendio, una casa di proprietà in un posto da sogno in cui ti alzi al mattino e ti senti in vacanza, salute, tanta energia, passioni e interessi. E un potente furgone sul quale dormire e trasportare l’attrezzatura da sci, bici e da scalata praticamente tutto l’anno. Ogni fine settimana centinaia di chilometri di trasferte: non mi mancava nulla per essere il padrone del mondo e, soprattutto, della mia libertà, guadagnata solo grazie ai sacrifici. Una libertà che volevo godere, in quanto mio diritto acquisito, fino all’ultimo minuto, fino all’ultimo chilometro. Non badavo al fatto che il mio furgone inquinasse come una petroliera, che la mia casa non fosse efficiente, a cosa acquistavo su internet o al supermercato per convenienza, a cosa mangiavo, alla storia di ogni prodotto che mi circondava. Nel 2012 trascorsi un mese e mezzo in Colorado e scoprii tanto, ma sicuramente non tutto, dei folli stili di vita degli americani. Un mio compagno di stanza possedeva un fichissimo furgone modello A Team e un giorno gli chiesi quanto carburante consumasse. Mi rispose:
I don’t know, I don’t take care.

Primo gennaio 2020

Vivo in una casa efficiente con frutteto, orto e quasi tre bambini. Ogni gesto mio e della famiglia è pensato percontenere al minimo l’impatto ambientale. Sfrutto al massimo l’autoproduzione alimentare di frutta e verdura e gestisco l’extra preparando conserve, marmellate e surgelando. Le tisane arrivano dalle erbe del mio giardino, lo yogurt si riproduce con i fermenti. Ho costruito un network di fornitori locali, biologici e a portata di bicicletta che completano le nostre esigenze alimentari e che mi hanno permesso di ridurre del novanta per cento e a una volta al mese gli acquisti presso la grande distribuzione. Carne, uova, latticini, pane, dolci, miele, frutta e verdura di stagione, pasta fresca: la spesa spesso diventa una scusa per una gita in famiglia in bicicletta. Pasta secca, spezie, riso, orzo, farro, avena, fiocchi per le colazioni e frutta secca biologica e sfusa si acquistano in un negozio vicino a casa che accetta i nostri sacchetti di carta o contenitori di vetro o plastica, stessa cosa per il gelato. Una volta al mese arriva una consegna dal Sud Italia con prodotti biologici prenotati direttamente al produttore: farina, fagioli, lenticchie, ceci, farina, conserva di pomodoro, agrumi, mandorle, olio e qualche verdura. Beviamo solo acqua che arriva dal rubinetto. Baratto prodotti con chi, come me, crede in questo progetto di vita e si specializza in qualcosa: verdura con biscotti e pane, verdura con sapone e detersivo fatto in casa. Do via tutto quanto non usiamo più, riparo, riutilizzo e do nuova vita a vestiti e oggetti. Ho ridotto del cinquanta per cento il mio guardaroba. Acquisto da attività e uffici del posto evitando di spostare inutilmente merci già presenti sul territorio. Boicotto i grandi marchi che perseguono nel continuare a promuovere il prodotto ignorando una responsabilità economica, sociale e ambientale degna del momento. Diffido di offerte e piattaforme che muovono un’economia malata e milioni di corrieri puntando invece a qualità, servizio, durabilità e, soprattutto, contatto umano. Possiedo un’auto efficiente e la uso responsabilmente sia in quantità che in qualità. Razionalizzando e riunendo gli impegni professionali e personali, utilizzando la bicicletta e mezzi pubblici quanto più possibile, rinunciando agli spostamenti del fine settimana, privilegiando le gite da casa o a piedi, ho tagliato oltre 20.000 chilometri all’anno.

Ma tutto questo cosa c’entra con lo scialpinismo e gli sport outdoor? Il mio passaggio in un decennio da persona standard, che vedeva e mirava limitatamente al proprio presente, a persona informata, che ha preso coscienza e si è sentita responsabile del futuro proprio e degli altri in funzione di scelte, gesti e azioni e ha iniziato un percorso per diventare ogni giorno più virtuosa mi è servito per giustificare un approccio moderno all’attività di scialpinismo, parte ricreativa importante degli ultimi trentadue anni. Lo skialp prende sicuramente più like per le sue regole e modalità poco convenzionali e amiche dell’ambiente. Sta di fatto che solo ognuno di noi sa quale contributo reale alla riduzione di impatto ambientale fornisce e, quindi, quanto è coerente con la vera filosofia green. Se un tempo mi sarei fatto trenta trasferte sopra i quattrocento chilometri e oggi rinuncio a tutte queste, sommandole mi potrei permettere di usare l’auto per trecento uscite vicino a casa. Voglio dire che fa di più, concretamente, la rinuncia a una lunga trasferta a vantaggio di una gita locale, anche se raggiunta in auto, rispetto a trenta chilometri percorsi in bicicletta una tantum se poi abusiamo dell’auto. Per cui ognuno decida come interpretare lo sport che piùamiamo, come bandiera per i propri like e per mostrare la propria interpretazione radical-chic, come sfidapersonale o vetrina su Strava, come un diversivo per vestire di nuovo una gita conosciuta, comecompletamento radicale di una coerenza etica.

I più atletici e tecnologici potranno permettersi di inforcare una mountain bike, intraprendendo un’esperienzaby fair means non impossibile, ma roba da veri e pochi eroi. Perché la bici a pedalata assistita, pur con un impatto non trascurabile, sia per la batteria e il suo smaltimento che per l’utilizzo di materie prime o per energia elettrica non rinnovabile utilizzata per ricaricala, è innegabile che sia un uovo di colombo che solo chi ha provato può capire. Uno strumento che può, su strade poderali, consorziali e forestali, farti andare fortecome un fuoristrada anche con quindici chili sulle spalle, rispettando il silenzio del bosco. Oppure offrirti un cavallo col quale ributtarti a valle più veloce di un’auto, divertendoti come con una moto. Ecco, questa è la mia idea di sci locale e sostenibile, un modo per vivere un’esperienza con se stessi, con gli amici, col territorio e l’ambiente al cento per cento dalla porta di casa.

Domodossola è una base di partenza perfetta per interpretare lo scialpinismo a chilometri zero. Dalla stazione internazionale ferroviaria si possono affrontare oltre una decina di itinerari logici, evitando strade trafficate, dove esaltare le potenzialità della bicicletta per riscoprire le stesse montagne da nuovi versanti e linee. Dal Moncucco, il più accessibile a soli sei chilometri in linea d’aria, alla Weissmies, il quattromila ben visibile dalla stazione stessa, ci si può sbizzarrire, mappa alla mano, a inventare destinazioni e accessi nella totale libertà di spostamento e lontano da resse e gite blasonate. Accessi eterni, versanti abbandonati e incontaminati che hanno tenuto per decenni lontana la massa, possono ora essere considerati, riponderati nelle misure e tempi abbattendo distanze e tabù. Garantisco che la solita gita, la solita montagna raggiunta decine, centinaia di volte si trasformerà, con la giusta compagnia, in un’esperienza così nuova, così divertente da farti sembrare di aver praticato uno nuovo sport in una valle diversa da quella che conosci.

Questo articolo è stato pubblicato su Skialper 128. Info qui.

© Max Draeger

 


Monsieur Mezzalama

«Quella è un’avventura cominciata nel 1995. La prima edizione organizzata da noi è stata nel 1997, dopo quelle tenutesi fra il 1933-39 e quelle del 1972-78. L’idea del Mezzalama moderno fu del consorzio turistico del Monte Rosa e all’epoca, lavorando per Monterosa Ski, venni incaricato della questione. Non ero assolutamente pratico di quel mondo e mi sono fatto le ossa poco alla volta. Sono state determinanti la conoscenza di queste montagne e – diciamolo - un pizzico di fortuna per arrivare a far correre la gara anche con condizioni avverse. Fin dalla prima edizione, poi, è stata fondamentale la collaborazione con il meteorologo Luca Mercalli, capace di prevedere le finestre meteo giuste nelle quali far correre gli atleti. L’edizione 2015, ad esempio, si è disputata in un intervallo di nove ore tra le perturbazioni, basti pensare che gli atleti di testa indossavano il piumino anche in salita. Nel 2003, invece, abbiamo dovuto evacuare degli atleti in ipotermia e da quel momento abbiamo introdotto regole più severe per l’attrezzatura».

A parlare è Adriano Favre, anima del Mezzalama. E, come scrive Federico Ravassard, è una persona che ha «la capacità di complicarsi meravigliosamente la vita, portando avanti progetti che, presi singolarmente, basterebbero già a riempirti la giornata». Perché Adriano è «Guida alpina, tecnico e responsabile del Soccorso Alpino, viaggiatore, alpinista himalayano, organizzatore del Mezzalama e una delle menti dietro al successo della Grande Course, rifugista». Lo abbiamo intervistato su Skialper 129 di aprile-maggio. Ma come è cambiata la regina delle gare di skialp? «I partecipanti, ora, sono più preparati tecnicamente, sia perché è evoluto lo scialpinismo, sia perché la voce si è sparsa e ormai tutti hanno bene in mente quali siano le difficoltà aggiuntive del Mezzalama che ne fanno una gara unica: non è assolutamente sufficiente avere il motore e basta. Sono cambiate anche le condizioni della montagna, un fatto che si è palesato nell’edizione 2015, quella corsa in senso inverno da Cervinia a Gressoney; molte discese, a causa dello scioglimento dei ghiacciai, presentavano tratti tecnici con ghiaccio vivo e dubito che si ripeterà l’esperimento, a meno che non ci sia un’inversione di tendenza».

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Lo scaldacollo Run Local di Dynafit a sostegno dei negozi specializzati

Uno scaldacollo limited edition #RunLocal - #ShopLocal per sostenere i rivenditori specializzati di articoli sportivi. È questa l’iniziativa Run for your local dealer lanciata da Dynafit, che ha distribuito 10.000 esemplari dell’accessorio tecnico ai negozi perché venga dato in omaggio ai clienti per acquisti di prodotti Dynafit superiori a 100 euro a partire dal prossimo 20 maggio. Lo scaldacollo funzionale, che ha un prezzo al pubblico di 22 euro, è particolarmente utile anche nella vita di tutti i giorni in quanto può essere utilizzato per coprire il naso e la bocca rispettando così l’obbligo presente in molti luoghi di indossare la mascherina. E lancia un segnale chiaro: correre e acquistare local. In supporto all’iniziativa Dynafit chiuderà il proprio sito di e-commerce online dal 20 al 27 maggio.

Numerosi atleti e ambassador Dynafit hanno aderito all’iniziativa Run for your local dealer e la promuoveranno sui loro canali social. Run for your local dealer non è però l’unica proposta di Dynafit per sostenere i rivenditori. Il brand del leopardo delle nevi riproporrà infatti l’80% della collezione estiva 2020 anche nell’estate 2021, così da non sovraccaricare i rivenditori ed evitare fondi di magazzino. Le novità per l‘estate 2021 saranno presentate il 20 maggio 2020 dalle ore 17.00 nell’ambito della Oberalp Convention che per la prima volta si svolgerà in versione completamente virtuale.

 


Mountains Within: la sfida di Michele Graglia

Non è facile abbandonare il mondo dorato delle sfilate di New York e Miami. O meglio, è facile uscire da quel mondo bello e finto allo stesso tempo, ma non è facile rinunciare ai privilegi di quella vita e ricostruirsene un’altra, ripartendo da zero. È la storia di Michele Graglia, ragazzo ligure catapultato per caso (un incontro fortuito in un negozio dove si riparava da un acquazzone) sulle passerelle yankee (di lui si dice che Madonna lo abbia soprannominato the abs per i suoi addominali) e poi fuggito da quelle passerelle per ritrovare la pace nella natura e nell’ultra running. La sua storia è stata raccontata da Fosco Terzani nel libro Ultra. La libertà oltre il limite e ora è diventata un cortometraggio, Mountains Within, il primo di una serie prodotti da La Sportiva che ha sviluppato il claim For your mountain. I prossimi saranno sulla climber egiziana Amer Wafaa e su Tamara Lunger.

Il significato di Four your mountain è quello della propria sfida interiore. Ci sono sfide che vanno oltre l’avversario, il traguardo, la cima, il tempo da battere. Sfide che chi pratica sport conosce bene: si basano sulle nostre motivazioni più profonde, ci portano ad intraprendere intense sessioni di allenamento, ad affrontare le nostre paure, a conoscere e possibilmente superare i nostri limiti. Chi corre, arrampica, scia, chi fa escursionismo, chi pratica una qualsiasi attività outdoor per stare bene prima di tutto con se stesso, affronta ad ogni uscita la propria sfida, la propria montagna.

Mountains Within dura 13 minuti ed è stato realizzato da Storyteller Labs con la direzione di Damiano Levati e Matteo Vettorel mentre i testi sono di Michele Graglia e Giovanni Spitale. È stato interamente girato in California, dove Michele vive, dalle colline di Hollywood tra le nebbie dell’alba alle dune del deserto, passando per la Walk of Fame. Graglia ha vinto molte delle sfide che si era posto all’inizio del suo percorso: nel 2016 la Yukon Artic 100 miglia nel gelo e nella solitudine dell’inverno canadese, nel 2018 è il primo italiano di sempre a tagliare il traguardo in prima posizione alla Badwater Marathon negli Stati Uniti, l’ultra maratona su strada di 217 km considerata dagli appassionati la più dura al mondo e ancora nell’ottobre 2019 entra nel Guinness dei primati con la traversata completa del deserto dei Gobi nella Mongolia meridionale, primo essere umano a percorrere, correndo, i 1.703 km del deserto ventoso nel tempo record di 23 giorni, 8 ore e 46 minuti.


Skialper amarcord

«L’equazione era piuttosto semplice: un giovane abituato a stramazzarsi di fatica nelle gare di fondo - Lenzi era forte in tecnica classica - avrebbe potuto fare sfracelli nello scialpinismo in cui la componente fatica e motore erano altrettanto importanti. A detta del suo allenatore, Vincenzo Trozzi, del Centro Italia, il ragazzo era piuttosto dotato e mal volentieri gli dava l’approvazione per praticare lo skialp, anche se verso fine inverno gli concedeva il nulla osta quasi come un premio per quanto si era impegnato nel fondo. E così Lenzi si era guadagnato la partecipazione agli Europei di Morzine-Avoriaz del 2007 con gli altri azzurrini a difendere i colori dell’Italia. Il giorno della Vertical ho raggiunto una postazione a metà percorso in un punto in cui presumevo che il plotone si fosse già sgranato e che gli atleti migliori avessero preso il largo. Idalba un po’ più in basso, appena fuori dal bosco. Pronti, via! Da dove ero piazzato potevo seguire dall’alto il serpentone che velocemente si avvicinava. Più gli atleti si avvicinavano e più si delineavano le posizioni di testa in base ai colori delle tutine. Qualcosa non quadrava: nella mia assoluta certezza che Lenzi dovesse mangiarsi tutti, proprio grazie al suo grande allenamento nel fondo, non era in testa… Davanti a me è transitato uno spagnolo pressoché sconosciuto seguito da un francese, un po’ staccato Damiano Lenzi, visibilmente provato dal forcing dei due battistrada. Lo spagnolo era Killian Jornet Burgada».

Ecco come è nato il mito di Kilian nello scialpinismo, ma allo stesso Europeo, nel vertical, ha vinto anche una sconosciuta francese con la tuta color prugna, Laetitia Roux. Sono solo due degli aneddoti raccontati da Enrico Marta su Skialper 129 di aprile-maggio. Un amarcord dello skialp race, da Gignoux in grave difficoltà al Mezzalama, perché aveva perso le lenti a contatto, alle imprese di Guido Giacomelli o della coppia Cazzanelli-Righi. Parole e foto di un pezzo di storia dello sci.

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Arianna Tricomi, go with the flow

«All’inizio l’ambiente del freestyle era super punk, ognuno faceva quello che voleva ed era libero di esprimersi liberamente, ma poi anche lì con l’arrivo della FIS e delle federazioni siamo tornati da capo: l’ambiente è cambiato e molti hanno mollato, come me e Markus Eder; con l’arrivo delle Olimpiadi sono apparsi sulla scena skier che non hanno mai costruito un kicker in vita loro, che non si sono sbattuti, attirati solo dai Giochi e dai benefici che possono portare. Ora questi park skier si allenano come matti in park e sui tappeti, ma poi se devono tornare a valle preferiscono montare in cabinovia piuttosto che sciare (ovviamente questo non vale per tutti i freestyler). Dov’è la passione per lo sci? Le leggende che hanno spaccato nel freeski, come Tanner Hall o Candide Thovex, presenti dal giorno uno di questa rivoluzione, non torneranno più probabilmente, ora è tutto più incentrato sulla prestazione, è un vero e proprio sport e la progressione è molto più veloce. Come dicevo riguardo le nuove leve del Tour, ad alcuni giovani sicuramente manca il background fatto di sperimentazione e passione».

Così parlò Arianna Tricomi. Alberto Casaro l’ha incontrata proprio prima del lockdown e che venisse incoronata per la terza volta regina del World Tour. L’intervista è stata l’occasione anche per un simpatico siparietto con la madre, Cristina Gravina, olimpionica di discesa libera a Lake Placid.

 «Arianna faceva incavolare gli allenatori perché o si faceva i fatti suoi o non si presentava agli allenamenti e poi alle gare andava forte e batteva gli altri bambini, figurati i genitori… Una volta aveva avuto la possibilità di andare col club a Les 2 Alpes a fare allenamento e nella sacca degli sci aveva nascosto quelli da park: un giorno l’allenatore mi chiama e mi chiede dove sparisce tutti i giorni Arianna alla fine degli allenamenti!».

Su Skialper 129 di aprile-maggio l'intervista completa. Skialper 129 è in distribuzione in edicola, oppure puoi ordinare la tua copia qui.

© Brett Wilhelm / Red Bull Content Pool

Mezzalama 2009, quando le avversità diventano opportunità

«Le Guide dislocate in quota mi annunciano che le condizioni meteo si sono aggravate, la perturbazione annunciata è arrivata in anticipo, il vento da stanotte sul Castore e sul Naso del Lyskamm sta creando pericolosi accumuli sui pendii. Mi dispiace dovervi dire che in queste condizioni il Mezzalama non può partire. Ipotizziamo di poter recuperare la gara sabato 2 maggio, ma ci sono grossi problemi organizzativi da risolvere. Vi daremo novità al più presto».

Un annuncio che avrebbe potuto essere accolto con rabbia, invece alle cinque del mattino di quel 19 aprile 2009, ai piedi del Cervino, la tensione si sciolse in un applauso liberatorio dei concorrenti del Trofeo Mezzalama. Uno dei momenti più difficili nella storia della maratona dei ghiacciai raccontato dalla penna arguta di Pietro Crivellaro su Skialper 129 di aprile-maggio. Riprogrammare la gara, dopo il riscontro positivo dei concorrenti, non sarà per nulla facile e, come in tutte le storie che si rispettano, c’è un episodio dietro le quinte che è cruciale e che Crivellaro racconta con dovizia di particolari. Uno di quei momenti di fratellanza che ha permesso di riprogrammare il Mezzalama proprio il 2 maggio, quando 798 atleti, ossia 266 cordate, hanno preso il via. L’innevamento del percorso era talmente ideale che gli alpini Eydallin, Reichegger e Trento hanno polverizzato il record della corsa, arrivando al traguardo di Gressoney in 4h1’22”, con ben 17 minuti in meno del record 2005. E le ragazze Martinelli, Pedranzini e Roux hanno migliorato il record femminile di quasi un’ora. Ma questa è un’altra storia.

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