Afghan Ski Challenge, lo sci è una cosa semplice

A febbraio del 2014 io, Arnaud Cottet e Loïs Rabotel ci siamo ritrovati con gli sci ai piedi per partecipare a una gara di scialpinismo in Afghanistan, la quarta edizione dell’Afghan Ski Challenge, a Bamyan. Tutto è nato leggendo un articolo sul Neue Zürcher Zeitung scritto dal giornalista e ideatore della gara Christoph Zürcher. Cercavo idee per sciate fuori dall’ordinario. Così nel 2013 ho partecipato a una charity night al Frau Gerolds Garten di Zurigo e ho iniziato a essere attratto dall’idea di seguire una gara di skialp in Afghanistan, anche se ero combattuto tra la voglia di andarci e l’idea che forse era solo un evento costruito per pubblicare reportage giornalistici. Però ha prevalso la prima e ho convinto due amici che erano abbastanza coraggiosi e curiosi ad accompagnarmi. L’anno successivo Arnaud mi ha invitato a seguire il suo progetto We Ride in Iran, per promuovere il freestyle nell’antica Persia. A febbraio eravamo a Dizin per alcune gare e così ci siamo incontrati a Dubai con Loïs, che arrivava da Ginevra, per proseguire insieme verso Kabul. Sembra una storia semplice, ma la notte prima di lasciare Dizin
il nostro oste Amir ci ha detto che i biglietti aerei non erano ancora stati prenotati, ma che ce l’avremmo fatta lo stesso. Dovevamo solo fare arrivare i nostri passaporti all’aeroporto, con il taxi. Dopo una notte insonne abbiamo scoperto che era tutto a posto. La fortuna ci ha seguiti fino a Kabul, dove Arnaud aveva contattato Ferdinando Rollando, un ligure trapiantato in Valle d’Aosta che per primo ha fatto rinascere lo sci in Afghanistan. Si era traferito a Kabul per provare a sviluppare una cultura della sicurezza dalle valanghe, istruire le persone e costruire paravalanghe nei villaggi afghani con l’aiuto dell’Unione Europea. Poco prima di imbarcarci sul volo per l’Afghanistan, via Facebook, ci ha detto che sarebbe venuto a prenderci all’aeroporto e ci avrebbe ospitati a casa sua a Kabul prima e dopo il viaggio a Bamyan. Lo abbiamo incontrato dopo i meticolosi controlli di sicurezza.
La sua ONG, Alpistan, faceva davvero un lavoro encomiabile in quel Far West del ventunesimo secolo. Un ex militare dei servizi segreti francesi, insieme a quattro altre persone, si occupava della sicurezza. Una sera siamo usciti in uno dei ristoranti frequentati dagli stranieri. Ferdinando ci ha chiesto se immaginassimo perché fosse quasi vuoto e noi pensavamo che fosse a causa dei prezzi alti. Ma non era così: solo dieci giorni prima in quella stessa strada c’era stato un attentato dei Talebani con diversi morti, così per il dolce abbiamo preferito trasferirci a casa.

Il giorno seguente abbiamo preso un volo per uno dei posti più sicuri dell’Afghanistan. Dopo la demolizione delle gigantesche statue dei Buddha nel 2001 in quella deliziosa valle non ci sono stati altri episodi di cronaca. I grossi buchi nella pietra sono impressionanti ed è difficile immaginare che lì ci fosse stato un fiorente monastero. Mentre camminavo tra le rovine un afghano mi ha chiesto se quei resti fossero importanti per me e io, senza pensarci un attimo, ho fatto cenno di sì con la testa. Lui ha detto di no, che per lui non erano interessanti. Così mi sono ritrovato a pensare al valore che diamo agli edifici storici e alla linea tra conservare e ricostruire, anche se sui Buddha non ci sono dubbi: è stata una demolizione criminale. Abbiamo passato un paio di giorni a esplorare le montagne dei dintorni con una Guida locale con la quale dovevamo sempre insistere per fare gite un po’ più lunghe e che ci ha consentito di entrare direttamente nella cultura locale. Siamo stati anche a Jawkar, villaggio isolato, soprattutto nei mesi invernali, a Sud-Est di Bamyan. Quando c’è la neve e la strada è chiusa i bambini vanno a scuola nella moschea. L’imam ci ha invitato a partecipare a una lezione e siamo rimasti sorpresi per quanto la scuola fosse ben organizzata; alcuni bambini parlavano inglese e ci hanno chiesto di portare libri di matematica e fisica alla nostra prossima visita. L’imam ha insistito perché scattassimo fotografie, per mostrarle in Europa e trasmettere il messaggio che, indipendentemente dalla religione e dalla cultura, siamo tutti esseri umani e lavoriamo per migliorare la nostra società. Il giorno dopo abbiamo traversato le montagne superando un passo innevato, raggiungendo un altro villaggio dove le persone si nascondevano al nostro passaggio. L’opposto di quello che era successo il giorno precedente, quando tutti volevano provare sci e scarponi appena ce li toglievamo. Era un momento collettivo di divertimento per gli abitanti di Jawkar, mentre a due chilometri di distanza sembrava di essere in un altro mondo.

© Ruedi Flück

Quell’anno Sajjad Housaini e Alishah Farhang hanno fatto compagnia ad Arnaud sul podio dell’Afghan Ski Challenge e non sapevano ancora che quel risultato avrebbe cambiato la loro vita. Christoph Zürcher e il Bamyan Ski Club hanno creato un programma di supporto per aiutarli a realizzare il loro sogno di partecipare ai Giochi Olimpici di Pyeongchang del 2018. Per tre inverni si sono allenati a St. Moritz con un allenatore professionista e hanno partecipato alle loro prime gare FIS di sci alpino per provare a raccogliere i punti necessari a essere ammessi ai Giochi. Però non ce l’hanno fatta ed è comprensibile. Immaginate di imparare a sciare a 26 anni e gareggiare con chi è sugli sci da quando aveva sei anni. Alla fine il loro penultimo e terzultimo posto è stata l’occasione per essere presi in giro dagli amici: «Ma quelli che hanno vinto erano tutti stranieri?». Per chi ha sempre vissuto in Svizzera è difficile capire le difficoltà che hanno dovuto affrontare per entrare nel mondo dello sci agonistico. Il contrasto tra una delle località più famose del mondo come St. Moritz e l’Afghanistan rurale è drammatico. «Rimanete in Europa!» hanno detto loro i parenti e gli amici, ma Sajjad e Alishah non hanno mai cercato asilo politico, volevano solo mostrare un volto diverso dell’Afghanistan e dare un segnale di pace e ci sono riusciti grazie all’eco mediatica della loro storia.

L’Afghan Ski Challenge è un evento che attira l’attenzione dei media da tutto il mondo. Ed ecco che quel sentimento controverso che avevo provato alla charity night, un anno prima di partire per l’Afghanistan, quando ci penso, riaffiora. È un progetto sostenibile o solo un’occasione per realizzare reportage? La gara delle donne rappresenta un vero sforzo per cambiare qualcosa o sciano solo per le telecamere? Però il giorno della gara a Bamyan è pieno di afghani con gli sci e in tanti vengono a vederli. A fare il tifo sono venuti anche alcuni dei bambini che avevamo visto a Jawkar, camminando per tre ore sulle montagne dove noi abbiamo sciato, con ai piedi scarpe da città e indossando dei normali jeans. Lo hanno fatto solo per vedere lo Ski Challenge ed è per questo che i miei dubbi, quando ripenso a quei momenti e guardo le foto che ho scattato, vengono spazzati via in un attimo. Credo che sia davvero un bel progetto e la speranza è che possa continuare ancora per tanti anni. La storia di Sajjad e Alishah mostra quanto la nostra cultura sportiva sia permeata dal professionismo e sia difficile entrare in questo mondo, soprattutto quello degli sport invernali. L’altro lato della medaglia è che siamo attratti da ciò che è esotico e portati a dare un’allure romantica a posti come le montagne dell’Afghanistan, che per noi sono luoghi per un viaggio sugli sci dal sapore diverso. Noi abbiamo detto a quei ragazzini che invidiavamo quel loro approccio così semplice e genuino alla vita e allo sci. Tutto quello che avrebbero voluto loro invece era la nostra di vita, il benessere e soprattutto la possibilità di scegliere. In poche parole, la nostra libertà.

Oggi a Bamyan non è cambiato quasi nulla, la gente si veste allo stesso modo, però c’è una manovia e per questo si potrebbe dire che è la prima località sciistica dell’Afghanistan. Il motore è quello di una motocicletta e muove una semplice fune. Ci sono anche progetti per installare un vero ski-lift (se conoscete qualcuno che vuole smantellare un impianto in Italia, fatecelo sapere!). Sajjad e Alishah continuano a promuovere lo sci nel loro Paese e cercano di alimentare una cultura degli sport invernali facendo tesoro dei mesi passati ad allenarsi in Svizzera. Questo è lo scambio culturale che è nato grazie all’apertura dei cuori e delle menti delle persone coinvolte nel progetto, da entrambe le parti. Ritornati a Kabul abbiamo passato due giorni a visitare la città devastata dalla guerra. Il costo del biglietto d’ingresso alle rovine del Darul Aman Palace, corrompendo il soldato di guardia, è lo stesso del museo di storia nazionale. Una sera Ferdinando ci ha chiesto di dargli una mano. E come avremmo potuto dirgli di no dopo che ci aveva ospitati? Abbiamo camminato per una trentina di minuti e siamo arrivati in un parcheggio buio dove aveva parcheggiato i suoi due pick-up. Uno era senza targa e mi ha chiesto se potevo guidare anche io e seguirlo. Ha scelto strade minori per evitare i checkpoint e siamo arrivati al garage di un amico dove abbiamo parcheggiato al coperto. Più tardi ci avrebbe spiegato che quei pick-up li aveva comprati al mercato nero e solo dopo aveva saputo che erano stati rubati al governo, così doveva nasconderli, cercando di sbarazzarsene prima possibile. Purtroppo Ferdinando non è più tornato a casa dal Monte Bianco nel luglio di quello stesso anno. Il suo progetto Alpistan si è fermato ma è ripartito nel 2018 grazie al figlio Ernesto. L’Afghan Ski Challenge continua e ha spento le dieci candeline quest’anno. «C’erano 100 concorrenti, anche dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dalla Finlandia e dall’Italia» mi ha detto Sajjad che sta già pensando all’undicesima edizione. Alisah è felicemente sposato e ha un figlio.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 129

© Christof Zürcher