Parole dall'UTMR

UTMB e UTMR differiscono per una sola lettera, e hanno varie cose in comune, ma non potrebbero essere più diverse.

Ad unirle c’è prima di tutto una persona, Lizzy Hawker, un’estrosa atleta britannica, trasferitasi da qualche anno in Svizzera, che la prima gara l’ha vinta cinque volte, mentre la seconda se l’è inventata. Di uguale c’è la sostanza: si tratta in entrambi i casi del giro completo attorno ad uno dei principali massicci delle Alpi Occidentali, il Monte Bianco in un caso, il Monte Rosa nell’altro. Di simile hanno la lunghezza, entrambe sui 170 km, mentre già nel dislivello le differenze iniziano a diventare significative: circa 10.000 per il giro intorno al Bianco, 11.600 abbondanti per quello intorno al Rosa.

Tutto il resto, beh, è completamente diverso, e la rappresentazione più efficace di questa differenza è la partenza delle due gare: migliaia di partenti assiepati alle sei del pomeriggio nella piazza centrale di una delle più rinomate località turistiche delle Alpi francesi inondata di musica a tutto volume da una parte, qualche centinaio riuniti nella piazzetta di uno sconosciuto paesino delle Alpi Svizzere nel silenzio delle quattro del mattino, dall’altra.

 

L’Ultra Tour del Monte Rosa parte da Grächen, nel Canton Vallese, e prima di tornarci si prende il lusso di percorrere il ponte pedonale più lungo d’Europa, di farti correre per ore con il Cervino davanti al naso, di percorrere la via più chic del centro di Zermatt, di arrampicarsi lungo il ghiacciaio del Teodulo fino all’omonimo passo a 3.231 metri, di passare in Italia sulle distese di ghiaia fra il Lago Cime Bianche e il lago de Goillet, di scendere l’incontaminato vallone di Cime Bianche, di riposare un attimo a Gressoney prima di mettere in fila le tre salite, da più di 1.300 metri di dislivello ciascuna, di Passo Salati - Colle del Turlo - Monte Moro, di tornare in Svizzera a costeggiare il maestoso lago artificiale di Mattmark e le sue cento cascate affluenti scendendo a Sass Fee, e di chiudere il giro attorno alla propaggine più a nord del massiccio del Monte Rosa, con più di 10 km di single track affacciato a strapiombo sulla Saastal, che i più percorrono durante la notte.

Impossibile dire se sia più bella o più impegnativa, perché gli scenari che tolgono il fiato per la loro bellezza sono davvero moltissimi, ma almeno altrettanti sono i tratti che lo tolgono per la loro durezza. A parte i pochi metri attrezzati sulla cima del Monte Moro e alcuni cordini di sicurezza nella parte finale, non si tratta di un percorso particolarmente tecnico, ma i chilometri su tranquille strade  forestali dove lasciare andare le gambe sono molti meno di quelli su sentieri pietrosi dove correre è un affare per pochi. E in più, ci sono cinque salite da più di 1.000 metri d+, e una discesa da quasi 1.900 metri d-. L’UTMB si vince in meno di 20 ore, l’UTMR in poco meno di 30: pur tenendo conto delle differenze significative nel livello dei partecipanti, vuol dire parecchio.

Nonostante si tratti di un evento pubblico che coinvolge qualche centinaio di partecipanti e un numero nutrito di volontari, l’Ultra Tour del Monte Rosa è essenzialmente una esperienza intima. Un po’ perché il tracciato percorre un trekking poco frequentato e capita di viaggiare per ore senza incontrare nessuno. Un po’ perché per la sua durezza ti costringe più volte a scavare a fondo dentro di te, per trovare la voglia di andare avanti e le energie per riuscire a farlo. Un po’ perché quell’aria speciale che si respira lassù quando l’estate sta lasciando il posto all’autunno e l’erba gialla e la limpidezza dell’aria te lo ricordano ad ogni passo, ti spinge inevitabilmente a pensare alle stagioni della tua vita, con le loro giornate azzurre e le loro notti buie.

Per chi ama il trail running, per chi sogna il Tor dopo averlo fatto molte volte o sperando di riuscire a correrlo un giorno, per chi si commuove davanti al Cervino o al candore abbagliante di un ghiacciaio, l’UTMR è una gara da fare, assolutamente. Ed è assolutamente da preparare bene. Se vi piacerebbe, ma pensate di non averne le forze, potete provarlo nella versione a tappe: stesso percorso, ma diviso su quattro giornate, con pasti e notti normali nel mezzo.

Il sapore, naturalmente, sarà completamente diverso


CMUR - 173 km con vista Cervino

La Cervino Matterhorn Ultra Race ripercorre gran parte del trekking “Il Tour del Cervino” che ogni escursionista di alto livello sogna di fare almeno una volta nella vita. I panorami sono ineguagliabili e la sensazione di trovarsi sperduti nelle montagne mentre si superano passi e vallate è davvero forte.

Quando al termine di una gara ti viene il dubbio che quella che hai corso sia paragonabile al Tor de Geants, vuol dire che è stato qualcosa di veramente eccezionale, perché in Italia, e forse nel mondo, di gare come quella che parte ed arriva a Courmayeur, ce ne sono poche. Ebbene, la Cervino Matterhorn Ultra Race questo dubbio te lo fa venire eccome, sia per la sua durezza, sia per la sua bellezza.

Sulla carta è poco meno di una cento miglia con 12.000 metri di dislivello, ma le cifre non sono sufficienti a spiegare la preparazione necessaria a tornare a Cervinia dopo aver fatto tutto il giro al “più nobile scoglio d’Europa”, e chi pensasse di potercela fare solo perché è arrivato in fondo ad un UTMB o anche ad un Adamello Ultra Trail, si sbaglia di grosso. Le salite mediamente non sono lunghissime, ma sono quasi tutte molto ripide, e quella con il dislivello maggiore è posta al chilometro 150: 1.650 metri D+ che partono dai 1.600 metri di Zermatt, per arrivare agli oltre 3.300 metri del Rifugio Teodulo, con gli ultimi 400 metri su ghiacciaio. Il terreno è molto vario, ma, tolti un paio di chilometri di forestale della interminabile discesa verso Les Haudères, una decina di chilometri di asfalto, e gli 11 km di discesa su sterrato che portano all’arrivo (da percorrere però con 160 km già nelle gambe), è sempre impegnativo. Impegnativo-divertente in alcuni casi, come nelle due prime salite e discese che portano la gara in Svizzera attraversando il ghiacciaio di Arolla, nel lungo tratto in quota dove si corre, in senso contrario, la mitica “Sierre-Zinal”, o nella lunga ascesa al Teodulo; impegnativo-impegnativo in altri, come nella discesa sul e dopo il ghiacciaio di cui sopra, o nel lungo traverso dopo l’Europahütte; impegnativo-massacrante nei 5 km di pietraia sconnessa poco dopo il centesimo chilometro. E sarebbe riduttivo definire “tecnico” il tracciato, perché quello della CMUR è semplicemente un terreno “di montagna”, nel senso più pieno: niente di estremo, pochi metri con un cordino di sicurezza a fianco, ma montagna in tutte le sue sfaccettature, e moltissimi tratti in cui non è necessario “fare attenzione”, ma avercela connaturata al proprio passo, per l’esperienza maturata negli anni, quell’attenzione.

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Dopo il 50% risicato di finisher della prima edizione, quest’anno la Cervino Matterhorn Ultra Race è riuscita a portare al traguardo tre quarti dei partenti, ma la sensazione è che più che aver funzionato alcuni correttivi (come il raddoppio delle basi vita e l’anticipo della partenza di 4 ore), c’è stata una maggiore consapevolezza al momento dell’iscrizione. È una gara che chiede tantissimo, troppo, se non sei davvero preparato, ma quello che dà in cambio è straordinario. Non è solo questione di bellezza del paesaggio (su cui comunque ci sarebbe da scrivere delle pagine, tanto che un filmato girato in praticamente qualsiasi punto del tracciato, farebbe più gola dei teaser della maggior parte delle gare in circolazione) quanto piuttosto della forza con cui in questo paesaggio la CMUR ti ci conficca.

La partenza a 2.000 metri, con il Cervino davanti al naso fin da prima del via, ti fa già capire con gli occhi cosa ti aspetta, ma poi ci sono due salite durissime che lo spiegano anche alle gambe, e poi un tratto su ghiacciaio che prosegue con chilometri di morene, dove il ghiacciaio non c’è più ma è evidente che c’era,
e tu sei lì sospeso a correre fra il presente e il passato remoto e, dove sei, inizi a capirlo anche con qualcos’altro, che neanche capisci cosa sia. Fra il cinquantesimo e il centesimo chilometro, il terreno diventa meno impegnativo, le rocce e i ghiacciai ti lasciano un po’ di respiro, intorno a te rimane tutto bellissimo, ma più “morbido”.

E tu allora devi spingere un po’ di più, perché sei in gara, perché se non lo fai qui ci metterai una vita ad arrivare in fondo, perché quelle salite e quelle discese e quei laghi e quei boschi semplicemente ti chiedono di farlo. Salvo poi ricordarti che però non sarai mai tu a comandare, in quei 5 km di pietraia dove ad ogni passo devi
chiedere alla montagna il permesso di restare in piedi. Poi arrivi alla valle di Zermatt, ed al posto del tappeto rosso, che ti aspetteresti prima del galà degli ultimi 20 chilometri, ti ritrovi a lottare con altimetria tutta strappi e cambi di terreno, che prima di depositarti nella cittadina ai piedi del Cervino sembra chiederti di dimostrare che tu te lo meriti davvero, quel finale incredibile, prima di concedertelo. Se ci riesci, per te si aprono le porte del paradiso, un luogo dove ogni cellula del tuo corpo sa di aver lottato per 150 chilometri e 10.000 metri di dislivello per essere lì; dove nella tua testa non è rimasto un solo pensiero di forma compiuta e sembra piena sono di quell'aria sottile che i 3.000 metri di quota ti regalano; dove salendo lungo l’ultimo ghiacciaio, scortato dal Cervino su un lato e dal Monte Rosa sull’altro, li senti, semplicemente, tuoi fratelli.


Dentro la Corsa della Bora

Quando un’ora prima della tua partenza fuori è buio e il vento sembra voler scoperchiare la casetta in cui ti trovi, ti viene il dubbio che quella di iscriverti alla distanza più lunga della Corsa della Bora, con partenza alle 22.30 di sabato 9 gennaio, sia stata una pessima idea. Poi ti rendi conto che sono mesi che hai voglia di tornare a spillarti un pettorale, che dalle edizioni degli scorsi anni il Carso e il suo fascino rude ti sono rimasti nel cuore, che in realtà quel vento che ruggisce là fuori non vedi l’ora di sentirtelo addosso, e allora ti vesti, molto bene, e vai.

Non amo chi parla con toni troppo enfatici del trail running, non trovo nulla di eroico nel seguire le proprie passioni su e giù per i monti, anche quando ti fanno stare sveglio per varie notti e ti consumano le suole a forza di chilometri e dislivello: sono ben altre le cose importanti e ammirevoli nella vita. Eppure la Corsa della Bora quest’anno a suo modo eroica lo è stata davvero. Non per chi è riuscito ad arrivare in fondo, ma per chi è riuscita a portarla alla partenza.

Il lavoro organizzativo complessivo è stato veramente mastodontico, perché una volta acquisito lo status di gara di interesse nazionale, e quindi la possibilità di far arrivare i concorrenti da tutta Italia anche in giorni di zona arancione, l’organizzazione guidata da Tommaso de Mottoni ha dovuto impararsi a memoria tutti i DPCM usciti negli ultimi 12 mesi e trovare il modo di rispettare alla lettera ogni singolo cavillo. Ne è uscita una manifestazione molto diversa dal solito, fin dal ritiro dei pettorali, con orario da prenotare per tempo per evitare assembramenti davanti alla segreteria, per proseguire nella partenza, sparpagliata su più orari diversi, e nei ristori durante la gara, dove ogni concorrente prendeva il suo sacchettino già pronto e schizzava via. Ma al di là del lavoro vero e proprio, il merito maggiore degli organizzatori è probabilmente quello di averci sempre creduto, dando dimostrazione concreta del fatto che davanti alle difficoltà si può arrendersi, o arrampicarcisi sopra. 

Certo, le gare tradizionali, con il pasta party e tutte le altre occasioni di socialità dentro e fuori dalla corsa vera e propria, mancano a tutti e a tutte, ma una manifestazione un po’ asettica come questa è comunque mille volte meglio di stare a casa a struggersi per la nostalgia del pettorale. Tornando alle cose di corsa, la 80 km non è stata certo una passeggiata di salute (e, visto che la Bora ha proseguito a soffiare imparziale anche per tutta la giornata di domenica, neanche le distanze più corte lo sono state).  Durante la notte sono state registrate temperature di -10 °C, con raffiche di Bora fino a 130 km/h che hanno molto abbassato ulteriormente la temperatura percepita.  Eppure essere lì, nel buio, con il vento che suonava tutti gli alberi della foresta e, dove mancava la foresta, suonava abbondantemente anche te, è stato a suo modo magico. Personalmente ho sentito molto la mancanza delle stelle e del cielo azzurro, ma forse è giusto che il Carso ti accolga con il colore della sua roccia, anche sopra la testa.

Freddo, era freddo, ma con un minimo di attrezzatura (pantalone lungo felpato rinforzato con collant 40 denari, doppia canottiera termica più manicotti, maglietta pesante, guscio in Gore-Tex, scaldacollo in pile, berretto e doppio paio di guanti…) si è potuto correre più che bene. Unico  momento davvero critico alla base vita di metà gara, dove molti avrebbero voluto cambiarsi, ma il protocollo anti contagio permetteva l’ingresso contemporaneo nei locali riscaldati di un numero esiguo di persone, e dopo due minuti ad aspettare fermi all’aperto il freddo iniziava ad entrare nelle ossa. Dopo gli abbondanti saliscendi della prima parte della gara, con ampia panoramica by night sul golfo di Trieste, doppia scampagnata fin sul confine sloveno prima sul Monte Orsario e poi sui 650 metri dell’anonimo punto più alto della gara, e faticosa risalita alla Vedetta di San Lorenzo con nuova e differente visuale sul golfo di Trieste, gli ultimi 30 chilometri, rappresentati in un fumetto sarebbero stati pieni di puff – puff – pant – pant!. Ad attendere i concorrenti, già piuttosto provati da Notte&Bora, c’era infatti una sequenza di strade sterrate e sentieri, a volte affacciati sul mare, a volte stritolati fra due dei milioni di muretti di sasso del Carso, dove chi aveva gambe buone poteva correre a 4 al chilometro, e chi non le aveva avrebbe tanto desiderato averle, per far avvicinare il traguardo un po’ più velocemente. Quest’anno niente romantica escursione sui ciottoli della spiaggia prima di Porto Piccolo, ma foto ricordo davanti alla Grotta Azzurra di Samatorza, prima degli ultimi infiniti 7 chilometri fra le campagne. Poi finalmente l’arrivo, nel gelo della Bora e della solitudine del traguardo, dove le norme anti pandemia hanno fatto piazza pulita di amici, conoscenti, tifosi o semplicemente degli altri atleti già arrivati. 

E ancora una volta è venuto da ringraziare chi nonostante tutto ci ha permesso di essere lì con le gambe a pezzi e i polmoni congelati, ma anche da sperare fortissimamente di poter tornare al più presto anche a sbaciucchiarsi e scambiarsi sudori dopo l’arrivo.


Lo Swiss Peaks Trail da dentro

Sono le ore 00:00 del primo settembre quando in mezzo a quella manciata di case dove le auto non arrivano, che si chiama Bettmeralp, prende il via la quarta edizione dello SwissPeaks Trail. Poco meno di 300 gli atleti al via e potrebbe essere tutto molto normale, se non fossimo nel terribile 2020 del Covid. Arrivare qui, arrivare alla partenza, è stato difficilissimo per tutti. Per gli organizzatori, che hanno dovuto superare problemi di ogni tipo e gettare il cuore oltre gli ostacoli, scommettendo sul fatto che ci sarebbero riusciti, anche quando era tutt’altro che certo. Per gli atleti, per molti dei quali la certezza di poter arrivare in Svizzera è arrivata solo pochi giorni prima del via, e che comunque hanno dovuto crederci e continuare ad allenarsi anche in quei lunghi mesi di lockdown, in cui i più fortunati potevano al massimo inanellare giri in cortile. Perché un ultra trail di 320 km non si prepara certo in un paio di mesi estivi: lo devi coltivare per anni, con cura e pazienza.

Quest’anno la SwissPeaks Trail 360, a cui per motivi di sicurezza sono stati tagliati i primi 40 km, è stata l’unica gara d’Europa al di sopra dei 200 km, forse l’unica al mondo. Quella che era la sorella minore del Tor des Géants o dell’Ultra Trail del Monte Bianco, si è conquistata quest’anno, a causa dell’annullamento delle edizioni 2020 di tutte le principali gare internazionali di trail, tutta la scena, dimostrando di esserne pienamente all’altezza (ma anche di dover fare ancora un po’ di strada per raggiungerne la qualità complessiva dell’organizzazione).
Il percorso, anche nella sua versione ridotta di quest’anno, è risultato molto impegnativo. Alla lunghezza e al dislivello si aggiunge infatti un tracciato estremamente vario e spesso molto tecnico, con settori su pietraie o roccia che non sarebbero banali neppure in un’uscita di un giorno e che, dopo cinquanta o ottanta ore sulle gambe, e magari affrontati durante la notte, risultano a dir poco ostici.

L’ambientazione è semplicemente fantastica. Il Vallese, con la sua processione di strette valli alpine costellate di minuscoli villaggi da cartolina, di cime al di sopra dei 3.000 metri e di ghiacciai fra i più grandi d’Europa, è lo scenario perfetto dove immergersi completamente lasciandosi alle spalle, per una settimana o poco meno, tutta la vita normale. Impossibile, al termine delle oltre 100 ore necessarie alla maggior parte dei concorrenti per arrivare fino al lago di Ginevra, ricordare tutti gli scorci, tutte le cime, tutte le pietraie attraversate, tanto che guardando ogni fotografia scattata sul percorso, viene da pensare sono stato davvero là? anche quando nell’immagine ci sei proprio tu. Quello che rimane dentro, sia nel torpore dei primi giorni dopo la gara, in cui il fisico deve ancora riprendersi dall’enorme dispendio di energie fisiche e mentali, sia nelle settimane e nei mesi successivi, quando la vita di tutti i giorni torna a prendere il sopravvento, è una fortissima sentimento di appartenenza. I contorni precisi dei ricordi di luoghi e fatti sfumano in una sensazione profonda di essere diventato parte di quel mondo, non perché lo pensi e te ne senti in diritto, ma perché la fatica, il sudore, la sofferenza, la gioia che hai vissuto su quei sentieri lo hanno semplicemente fatto accadere. Non c’è stato nessun filtro fra te e la roccia, fra te e i ghiacciai, fra te e il sole, fra te e la notte e c’è stato tutto il tempo perché ti entrassero dentro; o tu entrassi in loro, spogliato come eri, ora dopo ora, di tutte le protezioni di cui la vita di casanormalmente ti avvolge.
I primi a tutto questo forse non sono neanche arrivati a pensarci. Franco Collé e Jonas Russi ci hanno messo poco più di 62 ore a tagliare il traguardo, appaiati, mentre il vincitore dello scorso anno, Andrea Mattiato, si è dovuto accontentare del terzo posto, a quasi otto ore dai primi. Fra le donne è stata invece Anita Lehman a chiudere davanti a tutte, in poco più di 85 ore, seguita da Claire Bannwarth e Emily Vaudan.

E il Covid? È innegabile che gli organizzatori abbiano fatto tutto il possibile per evitare il contagio, stabilendo le procedure necessarie mettendole in pratica, ma, a posteriori, è altrettanto innegabile che i risultati siano stati modesti. Si è dimostrato impossibile, in una manifestazione così lunga e complessa, con così tante persone coinvolte, rispettare e far rispettare in modo rigoroso tutte le prescrizioni, soprattutto nei momenti in cui la stanchezza ha preso il sopravvento, facendo percepire molti altri bisogni come assolutamente prioritari, rispetto a quello di proteggersi dal rischio di contrarre il Covid. A distanza di due settimane dalla partenza e di una dall’arrivo, senza segnalazioni di contagi, si può sperare che sia andata bene.


Franco Collé allo Swiss Peaks Trail

È rimasto fermo a casa per tutto il lock down, ma, a giudicare dal record di salita e discesa dal Monte Rosa, stabilito a meno di due mesi scarsi dalla riapertura, il riposo forzato pare avere fatto bene a Franco Collé. Strappare il record a Bruno Brunod era un sogno dell’atleta valdostano, che però confessa di non vedere l’ora di indossare di nuovo un pettorale.

Come hai mantenuto la forma durante il lockdown?

«Direi che non l’ho mantenuta affatto. All’inizio ho provato ad allenarmi a casa, a seguire qualche filmato di altri, ad andare in cyclette, ma mi sono reso conto che io sono fatto per correre sui sentieri e quindi non ho fatto quasi nulla: lo sforzo più prolungato era quello di portare l’immondizia nella casetta dei rifiuti. Il primo giorno di via libera ho fatto 17 chilometri e poi per tre giorni non riuscivo a scendere dal divano per il male alle gambe! Però nel mese successivo mi sono allenato veramente tanto, dato che dopo aver passato un mese e mezzo a guardare il ghiacciaio del Monte Rosa dalla finestra, non potendoci salire, appena ho potuto mi sono sfogato andandoci tutti i giorni».

Cosa rappresenta per te correre in montagna?

«Nascendo a Gressoney, circondato dalle Alpi, e avendo un senso della sfida molto forte già da quando ero piccolo, era abbastanza naturale che finissi per correre in montagna, eppure alle competizioni ci sono arrivato quasi per caso. Qualche anno fa, quando ancora non avevo partecipato a nessuna gara di corsa, mia sorella mi ha iscritto al Tor des Géants, dicendomi secondo me puoi farcela. Così dopo aver corso due soli trail da 50 chilometri, per capire di cosa si trattasse, mi sono buttato nella regina di tutte le corse in montagna. È stata durissima, ma mia sorella aveva ragione e sono addirittura arrivato quinto assoluto. Da allora non ho più smesso e correre in montagna è oggi una parte importantissima della mia vita».

Quali sono le differenze fra un tentativo di record come quello del Monte Rosa e una gara?

«Il record del Monte Rosa è un sogno che avevo nel cassetto e quest’anno mi è sembrato il momento migliore per provarci. È stata una sfida a distanza contro Bruno Brunod e un’esperienza che mi è piaciuta molto, però indossare un pettorale è tutta un’altra cosa. Come ho detto mi piace la competizione, quindi la cosa che preferisco è ritrovarmi con tanti altri, partire tutti insieme in linea, studiare gli avversari, trovare le strategie per batterli e giocarsela».

Come atleta, quali sogni hai ancora nel cassetto?

«Avrei voluto correre l’accoppiata UTMB - Tor des Géants provando a fare bene in entrambi, ma se ne riparlerà nel 2021, dato che quest’anno non si disputeranno. Così ho spostato i miei sogni dall’altra parte delle Alpi e correrò una gara per me nuova, lo Swiss Peaks Trail (360 km, 25.000 m D+), a inizio settembre, che sarà il mio ritorno alle competizioni dopo un digiuno che dura da ottobre dell’anno scorso. È una gara molto simile al TOR, su un tipo di terreno che mi si addice molto, dove cercherò di fare del mio meglio».

Cosa ti aspetti dalla gara in Svizzera?

«Nelle scorse settimane ho provato una parte del percorso e mi piace molto. Per certi aspetti, anche se è un po’ più corta, è una gara più dura del TOR, inoltre i paesaggi sono molto più selvaggi, perché si toccano meno centri abitati. Dato che attraversa alcune zone dove passa anche l’UTMB, mi aspettavo dei sentieri simili a quelli della gara francese, larghi e adatti a tutti. Invece, nella parte che ho provato, ho trovato sentieri molto più tecnici, e mi hanno detto che quelli della prima parte della gara sono ancora più impegnativi. Ne sono felice perché è quello che piace a me, quindi mi aspetto di divertirmi, e poi dipenderà anche dagli avversari».