Tof Henry, 100% chamoniard

Chamonix è la capitale. Non ci sono scuse, tanto più se si parla di sci. I più forti e ambiziosi sciatori di tutto il mondo vengono da sempre sul versante francese del Monte Bianco. Il paese è una fucina di talenti e meteore che ogni anno spingono lo sci libero verso qualcosa sempre oltre. Questo luogo ha generato il mito stesso dello sci estremo. Tutte le nuove tendenze, i materiali e i modi di interpretare lo sci sono partiti da qui. 

L’ambiente è dinamico a Cham: ogni anno arrivano nuovi skier affamati di affermazione. Alcuni si fermano addirittura in pianta stabile. A Cham ci sono gli skibum che vengono a fare la stagione e sciare tutti i giorni vivendo con lavoretti occasionali la sera, a Cham ci sono i local, e poi i super local, ci sono gli inglesi, gli ammerigani che vivono qui da vent’anni, ci sono i finnici dannati mangia pesce che sono dei duri e ogni anno spaccano qualcosa proprio in faccia a qualcuno. Ci sono i pro, i fotografi, i fotografi pro, ci sono un sacco di #hashtag che rompono la quiete di quelli che sciano solo il fine settimana, ma che prima o poi vengono qui per confrontarsi con qualche big line… e trovarla con le gobbe magari. 

Sponsor, ambassador, gente che fa pubblicità gratis ai brand per sentirsi un po’ pro. Cham è irresistibile per il mondo del freeskiing. E i marchi lo sanno e qui trovano il miglior laboratorio possibile per innovarsi e progredire nella ricerca di tecniche, materiali e tendenze. Descritta così ci si sente quasi mancare il fiato, sembrerebbe un posto infernale: caotico  e competitivo. Ma oggettivamente per lo sci su grandi linee è il posto più bello del mondo. Non c’è niente di paragonabile che offra una tale concentrazione di linee, terreno tecnico e possibilità come l’area del Monte Bianco. E con accessi spesso serviti da impianti che ti catapultano nel cuore del massiccio.

Tutto questo fa sì che la Chamonix che scia sia una vera e propria comunità. Con le proprie regole, con le proprie crew e le proprie rivalità. Ci si saluta sempre tutti certo, ma più per quieto vivere. A volte, venendo a conoscenza di alcuni retroscena, cresce in me la convinzione che l’abusato ritornello There are no friends in a powder day sia stato coniato proprio da queste parti. La febbre che si respira, quell’aria vibrante delle lunghe code della stazione di partenza della Mama Midi nei giorni post nevicata, non sono una leggenda. Il posto sulla prima cabina e la corsa all’uscita della grotta ghiacciata e al suo cancellino che immette sulla cresta sono la prassi da queste parti anche per chi ha la possibilità di sciare tutti i giorni e magari ci si aspetta viva più tranquillamente la pressione della prima traccia. 

Tof Henry, classe ’84, fa parte di questa comunità da anni. Anzi, ci è proprio nato a Cham e in un ambiente così competitivo ha saputo imporre il proprio modo radicale di sciare senza snaturarsi, ma evolvendo come sciatore e come persona. Prima di metterci in viaggio e attraversare il traforo del Monte Bianco, nutrivo il sospetto che mi sarei trovato davanti a uno skier senza compromessi, non solo per il modo di sciare, ma per il suo respirare neve durante tutto l’anno. Sono poche quelle persone che sono davvero un tutt’uno con un qualche elemento naturale. Per certi versi Tof mi ha ricordato i surfisti che si nutrono delle sensazioni che sanno dare le onde. Una volta arrivati davanti all’Elevation Bar, giusto dopo Moo, ci troviamo davanti a questo ragazzone mentre sta finendo la sua birra. Tof è alto. Almeno 190 cm per 85 kg, giusto per sfatare il mito che quelli alti non possono sciare bene. Un saluto, quattro chiacchiere lungo la strada e siamo nel suo appartamento in un ambiente cordiale e rilassato. Niente di sfarzoso tipo chalet, ma la casa di uno sciatore con assi dietro la porta del salotto e diversi modelli di Armada ancora da forare per la nuova stagione vicino alla finestra. Una mountain enduro nell’ingresso e qualche immagine storica del Monte Bianco con alcuni ritratti della famiglia. 

© Daniel Rönnbäck

Forse lo avrete capito: Tof Henry è uno Chamoniard. Vero. 

E noi siamo qui perché scia forte, molto forte. Come pochi in giro oltralpe, come nessuno o quasi qui a Sud delle Alpi. Il suo marchio di fabbrica è la velocità, la fluidità portata ai massimi livelli su linee classiche e le grandi pareti glaciali del Monte Bianco con le migliori condizioni possibili. La ricerca della polvere e di quella neve che ti permetta di osare a fondo linee ripide ed estreme per pendenza e ambiente. Anello di congiunzione tra freeride puro e sci estremo come pochi personaggi, Tof interpreta lo sci in maniera totalizzante seguendo quella sensibilità per l’elemento bianco sviluppata negli anni sui più bei pendii del massiccio italo-francese.

Tof Henry un vero Chamonix kid! Per iniziare la nostra chiacchierata è sempre giusto conoscersi un po’ meglio: raccontaci chi sei, da dove arriva la tua famiglia.

«Assolutamente! CHX 100%, da quattro generazioni almeno. Essendo dell’84 ormai non proprio un kid, ma un vero Chamoniard. Non arrivo però da una famiglia di montanari: mia madre lavorava in un ufficio turistico, i miei genitori non sono mai stati dei veri appassionati della montagna pur essendo nati e vissuti qui. Ovviamente a sciare, come ogni ragazzino di Cham, ho iniziato con gli sci club, poi verso i quindici o sedici anni mi sono avvicinato al freeride con l’arrivo degli sci fat. Tutto normale insomma. Mi sono fatto un po’ il giro con cui andare in montagna. Ma se devo ricordare una persona in particolare, ti dico il mio amico Pif, creatore dei monosci Snowgun. Ho iniziato a girare con lui e devo dire che ho imparato molto da quel modo di sciare e dalle sensazioni che si provano con un monosci. Poi ho conosciuto Nathan Wallace. Lui è un americano che si è trasferito in paese nel 1998 per sciare. Forse la persona con il migliore fiuto per le condizioni di neve di tutta Cham. Era molto più grande di me e io ero solo un ragazzo. C’era un po’ di diffidenza inizialmente. Poi abbiamo imparato a fidarci l’uno dell’altro. In fondo abbiamo avuto una storia simile come skier perché ci siamo un po’ fatti da soli. Nat è stato il mio padre spirituale, Daddy Nat lo chiamo: mi ha aiutato moltissimo a capire le condizioni della neve, a essere nel momento giusto nel posto giusto. Mi portava con lui, capivo come sceglieva i posti e le pareti. Ora abbiamo lo stesso punto di vista su molti aspetti. E adesso sono io che a volte porto lui (ride), ci fidiamo molto uno dell’altro in montagna».

È così che nasce la tua passione per il freeski?

«Esatto, in quegli anni! Ho sempre adorato essere nella neve. Trovarmici dentro nel vero senso della parola. Ho bisogno della neve. È il mio elemento. Lavoro presso una scuola sci, ma mi prendo il mio tempo per sciare in stagione, per essere pronto al cento per cento quando arriva il momento giusto. Se sto fermo o non mi prendo il tempo per sciare, avverto che poi ci vuole un po’ di tempo per ritornare al top della forma. Quando in inverno esco dalla stazione di Helbronner durante una nevicata, mi basta sentire la sensazione che mi restituisce il bastone quando lo infilo nel manto nevoso per capire che neve troverò e le condizioni che ci sono. Mi capita spesso, non sempre, qualche spavento lo si prende e c’è comunque qualcosa da imparare: per esempio adesso, anche nei giorni di polvere, ho sempre dietro una corda».

Un dare e avere con la montagna che vivi, senza tirarti indietro

«Eh sì! Al Pavillon durante e dopo le nevicate si deve sempre sciare sulle creste, sulle spine. Mantenendosi sul filo il più possibile, nei catini è molto pericoloso. Il terreno sottostante è brutto. Un giorno c’erano condizioni pessime. È superfluo dire che siamo stati troppo confident conoscendo molto bene il posto. Tutti dopo dieci curve, anche gli inglesi, sono risaliti giudicando l’uscita troppo pericolosa. Per noi è stato un mettersi in gioco in modo totale, quasi un combattimento cercando di dare fondo a tutta la nostra esperienza per arrivare in basso. Ci siamo assicurati agli alberi con la corda in alcuni punti per bonificare i pendii. Siamo stati sempre sulle creste. Un gioco, senza dubbio pericoloso, lo so».

Questo gioco vale la candela? In caso di errore il prezzo è alto. 

«Concordo nel parlare di errore dello sciatore in caso di valanga. Se succede, vuol dire che si è sbagliata qualche valutazione in merito alla neve, al percorso o al timing. È un gioco per cui il prezzo potrebbe essere altissimo, lo so. Ad esempio non azzardo più sulle discese della Midi, tipo il Glacier Rond, in inverno. Però i giorni di neve fonda sanno regalare sensazioni uniche per le quali vivo. È una domanda difficile».

© Daniel Rönnbäck

Infatti, specie all’inizio della stagione, la ricerca della polvere, per esempio all’Helbronner, porta a muoversi alla ricerca della prima traccia su certe linee… Come ti poni di fronte al rischio, andando a sciare linee come i Cavi, Cesso, Passerella già durante la nevicata.

«È vero, a volte capita che scendiamo quelle linee nelle prime schiarite durante una perturbazione, nella yellow light: quella luce che filtra tra i fiocchi che formano le nuvole, una luminosità che sa regalare una visibilità e un’atmosfera uniche. C’è da dire però che conosciamo molto bene il terreno. Sciamo quelle linee quasi tutti i giorni precedenti la perturbazione e anche durante. In questo modo sappiamo come era la neve e ne percepiamo i minimi cambiamenti, quanta ne ha fatta e come. Spesso sul finire della perturbazione il vento non ha ancora agito. Visti da fuori sembriamo imprudenti, ma calcoliamo molto e spesso torniamo indietro. Ripercorriamo per lo più le tracce nostre del giorno prima e aspettiamo di avere la visibilità. Questo è fondamentale, e l’ho imparato sulla mia pelle»

Qualche brutta esperienza?

«Risale all’anno scorso. Ci siamo buttati sotto ai cavi di Helbronner con poca visibilità e abbiamo imboccato il pendio in un posto non corretto. Confesso che non mi sentivo a mio agio ed ho sbagliato a insistere. Stavo sciando quando ho sentito urlare il mio compagno, mi sono girato, ho visto un’onda di neve arrivare ma non potevo che continuare a sciare il pendio verso destra. Mi ha preso le code, trascinandomi verso il basso. Mi sono trovato trenta metri sopra la barra alta cento che sorregge il pendio. Abbiamo commesso un errore che ci poteva costare caro, molto caro e non ne vale la pena. Sono stato fortunato. È giusto cercare di prendere tutte le possibili precauzioni per ridurre il rischio. Tanto più che le condizioni ormai sono assai più mutevoli dei decenni scorsi: bisogna stare più attenti a trovare il momento ideale per fare determinate cose» .

Il clima sta cambiando davvero?

«Purtroppo sì: le condizioni super che si possono trovare in momenti anomali dell’anno sono solo una manifestazione davvero tangibile di ciò che sta accadendo. Quindici anni fa non si percepiva che qualcosa stava cambiando, ma nelle ultimi cinque o sei stagioni è davvero davanti agli occhi di tutti. Durante l’inverno si passa nello stesso giorno da -5° a +15°. Ci sono escursioni molto grandi e inverni sempre meno freddi, perturbazioni più calde e precoci. Le pareti glaciali erano verdi fino ad aprile solitamente, ora non è raro trovarle ben innevate anche in pieno inverno, come mi è successo sul Couturier alla Verte nel 2018. Diventa sempre più importante il tempismo. Un altro esempio sono le discese dell’Helbronner: qualche anno fa la regola era che fino a febbraio si poteva sciare durante tutto il giorno, dopo solo fino a prima di mezzogiorno, essendo tutto a Sud ed Est. Ora capita di doverselo ricordare anche in pieno gennaio. Lo dico con un certo rammarico. È tempo che ognuno ne prenda coscienza e cerchi di fare il possibile, anche se mi accorgo che è solo un piccolo gesto. Vivendo a Cham per esempio cerco di non prendere la macchina per tutta la stagione invernale. Uso la bici. Ma è difficile cambiare. Basti pensare al problema dell’inquinamento dovuto al riscaldamento che c’è ogni inverno qui in valle».

Tornando alle sensazioni che sa regalare la neve vissuta senza compromessi: si capisce da come interpreti le tue discese, traspare la tua passione estrema per questo elemento e la ricerca della polvere migliore.

«È incredibile la sensazione che regala la neve se sciata veloci. La velocità che cerco ti porta a planare sopra grazie alla superficie larga degli sci, le curve le fai driftando sul manto nevoso, ottenendo sensazioni uniche. Ti senti leggero. E puoi sciare a fondo sul pendio». 

Sciare veloci diminuisce alcuni rischi?

«Secondo me in parte sì. I tratti più pericolosi delle linee generalmente sono in alto, sotto i colli o le creste. Spesso con tanta neve mi sforzo di percorrere dritto questi passaggi, il più leggero possibile, avendo cura di individuare preventivamente una via di fuga sicura. Oltre certe velocità plani sulla neve, il drift che ti dicevo prima. Però non è facile e ci si deve esercitare prima su terreni che si conoscono bene , ci vuole tempo per acquisire sensibilità, con tante giornate sulla neve. Inoltre spesso su linee che conosciamo e che prendiamo con gli impianti ormai ragioniamo su come tagliare il pendio preventivamente in determinati punti, per farlo scaricare. Ma… don’t try this at home!».

Cham, i pendii del Monte Bianco, la neve, la velocità, la fluidità, qual è lo stile che preferisci e il terreno ideale?

«Innanzitutto è più corretto fare una distinzione all’interno del mio modo di sciare: specie d’inverno preferisco definire il mio stile full speed, e poi c’è lo steep skiing sulle grandi pareti. Per quanto riguarda il primo, sono tutti quei giorni tra Midi, Helbronner e Grands Montets di sci in polvere. Dove si attendono le nevicate e ci si tuffa a sciare a fondo e al massimo ogni singolo fazzoletto di neve polverosa. Con amici, in modo totale, approfittando delle condizioni.  Per quanto riguarda lo steep, sono quelle giornate in cui cerco di sciare una parete ripida con la miglior neve possibile per il mio stile. Il pendio che ritengo perfetto per questo tipo di discesa si trova nel bacino d’Argentière. È il Col de la Verte. È assolutamente fantastica: continua per linea e pendenze, ripidissimo per lunghi tratti. Spesso su altre discese i tratti oltre i 50° si riducono a qualche metro, al massimo qualche decina. Al Col de la Verte queste pendenze si trovano per qualche centinaio di metri. E poi è tecnico. Sempre nella Mecca dell’Argentière, anche il Col de Droite mi piace molto. Mentre sul versante italiano per me la linea più bella è il Couloir du Diable al Mont Blanc du Tacul. Una linea pura, evidente eppure spesso trascurata e poco frequentata contrariamente alle discese del bacino d’Argentière».

Un grosso exploit dell’anno scorso è stato la Nord del Triolet, quella resa mitica dalla foto del compianto Philippe Fragnol durante la prima discesa in snowboard del giugno 1995 a opera di Jerôme Ruby e Dedé Rhem. Discesa ripresa in sci solo nel 1998 dalla Guida alpina svizzera Marcel Steurer.

«Che giornata sul Triolet! Se devo essere sincero, io e Jonathan Charlet eravamo saliti in Argentière con l’idea di provare il Nant Blanc, pendio mitico che ancora ci mancava. Osservando la parete, ci siamo accorti che alcuni sciatori avevano iniziato la discesa, o meglio a buttar giù doppie collegando tratti in cui curvavano molto controllati. In sostanza, non c’erano le condizioni che cercavamo e comunque, se fossimo andati anche noi, avremmo già trovato delle tracce. Detesto le tracce. Se non sono il primo a scendere un pendio, allora cambio piano. Non mi interessa più. È come se perdesse la purezza. Odio seguire le tracce. Allora siamo andati verso il Refuge d’Argentière con alcune idee in testa, tra le quali guardare il Couloir Lagarde. Però, una volta al rifugio, la vista della parete Nord del Triolet ci ha catturato totalmente con il suo bianco perfetto. Siamo saliti eccitati sul tetto per binocolarla: ci è sembrata in condizioni perfette. Allora abbiamo chiamato Daniel Rönnbäck per organizzare le riprese dall’elicottero. Al mattino presto abbiamo risalito il Col des Courtes e, una volta in cima, ci siamo trovati davanti al tratto più tecnico e spaventoso della giornata: la cresta che porta in cima al Triolet. Sono poche centinaia di metri, ma espostissimi. Un filo dove è impossibile proteggersi e dove si deve procedere con cautela legati a tutta corda, facendola passare dietro a spuntoni di roccia e neve per avere un minimo di sicurezza. Alle 11 eravamo in cima, ma dovevamo aspettare l’elicottero perché fossero possibili le riprese. Dopo mezz’ora però ci stavamo raffreddando e la tensione della discesa saliva: abbiamo chiamato Daniel dicendo che avremmo iniziato subito la discesa, in fondo eravamo lì per sciare. Il mio socio in tavola davanti, in modo che fosse facilitato, potendosi fermare frontalmente al pendio con le due picche durante l’installazione delle doppie nel ghiaccio sopra ai seracchi. Bisognava scavare nella neve per arrivare al ghiaccio. Quindi le doppie, poi il ripido pendio esposto sotto ai seracchi. L’elicottero nel frattempo era arrivato mentre sciavamo: non amo il suo rumore, è difficile concentrarsi. Poi le curve sempre più veloci insieme sul pendio basale. Una volta sul ghiacciaio, ci siamo girati indietro insieme a guardare la parete ed è stato bellissimo. La neve che abbiamo trovato è stata meravigliosa e ho provato la stessa sensazione della discesa del Col de la Verte. Sono linee che guardavo da anni, dove ho potuto capire i progressi fatti».

Immagino che però ci siano ancora alcune big line che vorresti sciare qui nel Bianco?

«Mi piacerebbe prima o poi trovare le condizioni ideali sul Nant Blanc. Poi, passando all’altro versante del massiccio, la Diagonale al Tacul e una linea sulla parete della Brenva, la Sentinella Rossa magari. Fuori da Chamonix ho grosse aspettative per sciare in Kashmir o in Pakistan. Vedremo. Intanto in questi Paesi cerco di scovare delle linee, magari su Fatmap… ma non come quelli che lo usano per scovarle a Chamonix, ahah!».

© Federico Ravassard

Allora non ti piace solo il Monte Bianco!

«No, no, assolutamente. Forse quando ero giovane ero più radicale. Poi ho capito che il mondo è grande ed è troppo bello per non visitarlo sciando. Specie con l’esperienza fatta qui a Chamonix. Non ho bisogno di Guide, sono diventato abbastanza autonomo anche nelle manovre alpinistiche. Discorso a parte per il mio socio preferito Jonathan Charlet, che è una Guida. Ma è soprattutto uno che in montagna ha due palle enormi! E poi abbiamo lo stesso modo di pensare: per sciare le big line non devi pianificare troppo, farti delle liste. Non ti lascia tranquillo e perdi lucidità».

Qui a Chamonix quando arriva la primavera deduco che ci sia molto fermento per sciare le pareti più belle e prestigiose: storie da ghetto, rivalità e competizione?

«Sì, è vero. In inverno è un po’ differente: durante i powder day si è per lo più tutti cordiali, si scia con in amicizia. In primavera il discorso cambia. Ci sono tanti team, tante crew o piccoli gruppi di sciatori. Gira un sacco di testosterone e più mistero. Come dicevo, odio trovare i pendii tracciati. Voglio essere il primo. Anche su linee che conosco a memoria come il Glacier Rond alla Midi, se uno degli amici che è con me chiede di poter andare per primo, lo lascio andare, ma dentro di me soffro un po’. Per questo spesso arrivo tra primi a mettermi in coda alle funivie, anche solo per essere davanti a tutti sulla cresta della Midi, oltre il cancelletto. È liberatorio! Purtroppo qui a Cham non tutti sono corretti. Chi ha soldi e sponsor ha diritto a priorità sulle cabine. Per non parlare poi degli elicotteri. In tanti hanno la coscienza sporca e a me piace troppo dire le cose come stanno. Per esempio quanto accaduto durante una discesa dell’Aiguille du Plan l’anno scorso, quando dei pro skier con una Guida sono stati portati su in elicottero: ho discusso, come è possibile che delle Guide propongano questo modo di andare in montagna a cercare le linee? C’è da vergognarsi».

Veniamo ai tuoi modelli: uno sciatore che ti ha ispirato?

«Se devo fare il nome di un pro skier, posso dirti Seth Morrison. Lo seguivo da ragazzino, poi l’ho visto a Cham e lo guardavo con rispetto e diffidenza. Ma poi siamo tutti skier, ci si capisce e adesso capita addirittura di sciare insieme!».

Veniamo alle domande tecniche: per lo sci che pratichi quali sono i tuoi materiali preferiti? 

«Mi piace utilizzare materiali che mi permettano di sciare bene e forte. Sono supportato da Armada e per i giorni di polvere full speed da quest’anno uso il Tracer da 118 mm sotto al piede e 195 cm di lunghezza, essendo alto e volendo cercare la velocità. Sogno una mia versione lunga 205 cm. Attacchi Look Pivot e scarponi Dalbello Krypton o Lupo: preferisco materiale solido e senza sorprese. Adoravo i JJ del 2015, adoro i Tracer e mi hanno sorpreso i Magic J. Per i pendii ripidi utilizzo un prototipo che sto sviluppando con Armada: 192c m di lunghezza, 115 mm al ponte, camber normale, rocker e bello rigido. La prima versione era meno intuitiva di quello che uso adesso, che è più confortevole. Non mi piacciono gli sci leggeri, perché leggerezza è sinonimo di sciare soft e a me piace sciare duro a tutta. Come attacchi uso i Marker Kingpin. Negli ultimi anni c’è stata una grossa evoluzione delle calzature: per la massima trasmissione devono avere la punta piatta e non stondata anche se facilita la rullata e poi non devono essere troppo basse come quelle da skialp puro. Ma per sciare la cosa più importante è l’asse e poi lo scarpone: prendi degli sci veri, solidi anche se più pesanti. Restituiscono migliori sensazioni e sicurezza. La leggerezza a tutti i costi va a discapito della sicurezza, specie se ami sciare veloce».

Cosa ti piace degli sci che usi e come ti trovi nel team Armada?

«Mi trovo molto bene, ormai da quasi sette anni. Seguono il rider nella costruzione e nello sviluppo di nuovi modelli. E poi hanno un team che tocca tutte le discipline, dal pipe al backcountry, dal big mountain skiing fino allo street. E c’era JP Auclair: un punto di riferimento che dava un bel supporto ai nuovi, aiutandoli e seguendoli. Infine, se devo essere sincero, quando vedo gli sci con quelle grafiche aggressive… sogno subito di essere in powder! È stato uno dei primi brand a capire l’importanza di creare grafiche emozionali oltre che ottimi attrezzi sviluppati da chi in montagna ci va per sciare davvero».

Ok, ora è il tempo di fare qualche foto, magari un po’ urban style, dove andiamo Tof?

«Beh, alla Midi, che adesso non c’è coda!»

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 121 DI DICEMBRE 2018, INFO QUI

© Federico Ravassard

La Grande Muraglia Camuna

«La Grande Muraglia Camuna, così soprannominata per la somiglianza a colpo d’occhio con quella cinese, non ha nulla a che fare con l’Oriente. Come nel caso di quella cinese fu costruita a scopo difensivo, ma, diversamente dai territori che si trovano tra il Passo del Castellaccio e il Passo di Lago Scuro, che durante la Prima Guerra Mondiale costituirono la linea di confine tra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico, le fortificazioni camune di Valmassa non furono mai terreno di battaglia. Bombardamenti, spari e diversi caduti, ammazzati a volte dalla pallottola nemica, a volte dal freddo inteso, dalla neve e dalle valanghe che travolgevano soldati e ripari. Ma a Valmassa no, questo fortunatamente non accadde». Scrive così Tatiana Bertera nel reportage sul bel trekking in Valcamonica, nel comprensorio Pontedilegno-Tonale che pubblichiamo sul numero 125 di Skialper, di agosto-settembre. Valmassa era la seconda linea, perfettamente fortificata dai militari del Genio militare ma operativa solamente in caso di sfondamento della prima. Le trinceesi innalzano per circa 200 metri verso Ovest per poi fare un evidente angolo retto e inerpicarsi sul versante occidentale della valle. E sono perfettamente conservate. Una scusa in più per partire per un’escursione su queste bellissime montagne.

Tutti i dettagli su Skialper 125 di agosto-settembre.

© Gabriele Facciotti

Pau Capell zittisce tutti all'UTMB

Il nuovo re del Monte Bianco è Pau Capell. Lo spagnolo, al termine di una gara in testa fin dall'inizio, ha vinto la sua prima UTMB con il tempo di 20h19’07’’. Secondo Xavier Thévenard (21h07’56’’) che, partito piano, ha cercato di avvicinare lo spagnolo nella seconda metà di gara, arrivando anche a circa 20’ dalla testa. Al terzo posto il neozelandese Scott Hawker in 21h48’04’’. A seguire, nell’ordine, Tom Owens, Andrew Symonds, Joaquin Lopez, Ho Chung Wong, Masatoshi Obara, Germain Grangier e Javier Dominguez Ledo. Nella gara femminile si avvia a vincere la statunitense Country Dauwalter, seguita, al momento di pubblicare questa news, dalla svedese Krsitin Berglund e dalla spagnola Maite Maiora Elizondo.

DONNE - Successo della statunitense Courtney Dauwalter tra le donne in 24h34'26' che ha staccato di un'ora la svedese Kristin Berglund, tallonata a poco più di 7 minuti dalla spagnola Maite Maiora Elizondo, alla prima cento miglia.

CCC - Nella Courmayeur-Champex-Chamonix di ieri vittoria di Luis Alberto Hernando in 10h28’49’’ su Thibaut Garrivier e Jirì Čipa, ventunesimo Stefano Rinaldi, ritirato Marco De Gasperi. Al femminile successo di Ragna Debats in 12h10’33’ su Amanda Basham e Camille Bruyas.

 


Angermund-Vik e Croft vincono la OCC

Mentre si sta correndo la CCC (al momento di pubblicare questa news è in testa il cinese Jasheng Shen, ma nel gruppo di testa, ci sono anche, tra gli altri, Hernando, Lanne, Garrivier e Marco De Gasperi) è tempo di commentare i risultati della OCC, corsa ieri tra Orsières e Chamonix sulla distanza di 55 km e 3.500 metri di dislivello positivo. La vittoria è andata al norvegese del Team Salomon Stian Angermund-Vik in 5h19’24’’ sullo spagnolo Andreu Simon Aymerich e sul cinese Tao Luo. Il podio è racchiuso in sei minuti. Primo italiano Riccardo Montani del Team Salomon in quattordicesima posizione. Tra le donne successo della neozelandese Ruth Croft in 5h50’14’’ davanti alla spagnola Azara García e alla giapponese Yuri Yoshizumi. In questo caso il podio è in oltre 16 minuti. Prima italiana Sonia Locatelli, ventunesima.


A Pablo Villa la TDS, De Gasperi al via della CCC

Ciao Ciao TDS, benvenuta CCC. Finita la prima delle gare più attese della settimana che porta all’UTMB, sale l’attesa per la Courmayeur-Champex-Chamonix. Ieri sera lo spagnolo Pablo Villa ha chiuso in 18h03’06’’ la TDS, salendo sul gradino più alto del podio insieme al russo Dimitry Mityaev e al francese Ludovic Pommeret. All’undicesimo posto Giulio Ornati in 19h44’ 39’’, primo italiano. Al femminile vittoria della francese Audrey Tanguy in 21h36’15’’ sulla statunitense Hillary Allen e la svizzera Kathrin Götz. Prima italiani Scilla Tonetti in quattordicesima posizione con il tempo di 27h56’32’’, ventiseiesima Sonia Glarey.

DEGA AL VIA – Grande attesa dunque per la CC che prenderà il via domani mattina da Courmayuer alle 9. Al via ci sarà anche Marco De Gasperi, quarto l’anno scorso. Obiettivo podio, ma dovrà guardarsi le spalle da tanti potenziali medagliati: Luis Alberto Hernando, Longfei Yan, Jiasheng Shen, Cristofer Clemente, Michel Lanne, Benoit Girondel tra gli altri. Al via anche Stefano Rinaldi. Tra le donne il rientro sui sentieri che contano di Emelie Forsberg che dovrà vedersela con Alisa Mc Donald, Ragna Debats, Brittany Petterson, Gemma Arenas e Ragna Debats tra le altre.


Si corre la TDS aspettando l'UTMB

Mentre si sta correndo la TDS, entra nel vivo la settimana dell’UTMB, con la partenza della gara regina venerdì pomeriggio e alla mattina il via della CCC da Courmayeur, poi giovedì sarà la volta della OCC. La TDS 2019 è una gara ricca di sorprese, con un percorso tutto nuovo, passato da 120 a 145 km. I favoriti? Lo spagnolo Pablo Villa, in testa dopo poco più di 9 ore di gara, il russo Dimitry Mityaev, l’altro spagnolo Tofol Castaner, ma anche i connazionali Jordi Gamito, Pere Aurell, il francese Ludovic Pommeret, il cinese Yanqiao Yun, il norvegese Hallvard Schjølberg e lo svizzero Walter Masner. Tra gli italiani occhi puntati su Giulio Ornati del team Salomon. Al femminile se la giocano Audrey Tanguy, Karin Götz, Hillary Allen, con due italiane che potrebbero lottare per una buona posizione: Francesca Pretto e Sonia Glarey. Nella OCC al via il norvegese Stian Angermund-Vik, il giapponese Rui Ueda, il francese Nicolas Martin e gli spagnoli Eugeni Gil e Pablo Villalobos. Tra le donne la neozelandese Ruth Croft, le spagnole Sheila Aviles e Azara Garcia, la cinese Yangchum Lu.

UTMB, FAITES VOS JEUX – Non c’è dubbio però che la gara regina è quella che attira più attenzioni. Il parterre è sempre di livello e nel 2019 ci sarà ancora Xavier Thévenard, tre volte vincitore e autore del grande slam UTMB, ma ci sarà anche rumeno Robert Hajnal, secondo l’anno scorso, l’americano Tim Tollefson, con i connazionali Alex Nichols, Zach Miller, Hayden Hawks, Jason Schlarb, il polacco Marcin Świerc, vincitore della TDS 2018, il cinese Min Qi, i francesi Sylvain Court, Sylvain Camus, Julien Chorier, Benoit Cori, gli inglesi Tom Owens e Andy Symonds, il neozelandese Scott Hawker. Per l’Italia occhi puntati su Franco Collè del Team Hoka One One e Andrea Macchi. Al femminile occhi puntati su Francesca Canepa, vincitrice 2018, ma anche sulla statunitense Courtney Dauwalter, sulle spagnole Uxue Fraile, Maite Maiora e Nuria Picas, sulla cinese Miao Yao, sulla svedese Mimmi Kotka, sulla statunitense-svizzera Katie Schide. Fa il suo ritorno anche Rory Bosio. Ci saranno inoltre le francesi Juliette Blanchet ed Emilie Lecomte, l’ungherese Ildikó Wermescher e la brasiliana Fernanda Maciel. Purtroppo ha dovuto dare forfait Katia Fori, ma la pattuglia italiana dovrebbe essere rappresentata, tra le altre, da Alessandra Boifava, Chiara Bertina, Basilia Förster e dalla russa d’Italia Yulia Baykova.


Joe Grant al ritmo della natura

«Era il 2011. Stavo correndo lungo il Wonderland Trail, un sentiero di 96 miglia che fa il giro del Mount Rainier, nello stato di Washington. Era notte fonda. All’improvviso due pupille luminose. Un puma. Quella notte io ero la preda e lui il predatore. L’ho perso di vista qualche istante, poi si è fatto vedere di nuovo. Ha giocato con me, ma poteva essere un gioco mortale. Il contrasto con quello che avevo vissuto poco prima era grande, perché per 15 ore ero stato come in una bolla, quei momenti rari che arrivano quando tutto funziona in armonia e il corpo risponde perfettamente. Mi sentivo intoccabile. Provavo una sofferenza che andava oltre il dolore fisico, l’impressione che tutto sfuggisse al mio controllo. Ero nel panico, camminavo, correvo, non avevo idea veramente di cosa fare». Scrive così Joe Grant nell'articolo su Skialper 125 di agosto-settembre per raccontare come l'incontro con un puma, lungi dall'avere provocato un cambiamento delle sue abitudini, lo abbia costretto a ragionare in modo diverso. Un racconto sulla filosofia e i perché della corsa nella natura, dove siamo sempre ospiti e non padroni.


URMA underground

«Oggi URMA è un po’un caso. E siccome URMA è della gente, è difficile darle una direzione precisa. Ma nella testa delle persone c’era una sola idea chiara: dimostrare che intorno alla corsa c’era un modo diverso per stare insieme e che non bisognava avere nient’altro che tanta buona volontà e un tot di amici per creare qualcosa per chi non si rispecchiava sempre e solo nella classica formula iscrizione-certificato-pacco gara-medaglia-classifica-punteggio ITRA» scrive Davide Grazielli, autore dell'articolo insieme a Francesco Paco Gentilucci, con foto di Sara Lando, su Skialper 125 di agosto settembre a proposito della gara clandestina di trail, a inviti, URMA appunto. «Volevamo che fosse uno spunto. Speravamo che la gente di URMA muovesse le chiappe per organizzare altre dieci URMA. O una versione di URMA ancora più bella. O semplicemente nuova. Volevamo che la gente che non c’era, magari anche solo perché non conosceva nessuno, si mettesse a organizzare una URMA diversa, ma altrettanto bella. O che si trovasse il modo di stare insieme un weekend anche senza gareggiare. Magari anche senza correre». Appuntamento in edicola su Skialper 125.

© Sara Lando
© Sara Lando

La confraternita di Barkley Marathons

C'è una gara che in 34 anni ha visto solo 18 volte un finisher (e mai nessuna donna) su oltre mille iscritti. La più difficile ultra al mondo è qualcosa di completamente fuori dagli schemi. E proprio per questo piace, per quanto sadico possa apparire il pensiero. Tra le colline insulse del Tennessee, nel cuore degli States più profondi, solo in 40 sono ammessi a correre ogni anno, ma le richieste sono molte di più. Già iscriversi è una prova a ostacoli: bisogna mandare un'email a un indirizzo che solo chi ha già fatto la gara può sapere e in un determinato giorno dell'anno. Un segreto che, come nelle più antiche confraternite, viene rivelato con molta parsimonia dai confratelli. Se la propria richiesta viene accettata bisogna pagare un dollaro e sessanta centesimi e si riceve un messaggio che suona più come una condoglianza: purtroppo sei stato ammesso ala Barkley Marathons. Non c'è nulla di particolarmente difficile nel percorso, non un versante nord, non l'alta quota, eppure le statistiche dicono che quella del Tennessee è la peggiore ultra al mondo. «A casa mia i bambini non li lasciavano vincere, se vincevano era perché la vittoria se l'erano meritata». È in questa frase di Lazarus Lake, l'ideatore, il perché filosofico, il comandamento più importante della Barkley Marathons. La ragione storica è diversa. Quando James Earl Ray evase dal vicino carcere di Brushy Mountain e rimase intrappolato in quel dedalo di cespugli e fitta vegetazione, Lazarus Lake disse che lui inello stesso tempo avrebbe percorso cento miglia sulle montagne che conosceva come le sue tasche. «La vera attrazione è che ogni anno arrivano diversi atleti forti e che quasi nessuno la finisce» ha detto Blake Wood, uno dei finisher.

Ne parliamo, con un ampio reportage di 14 pagine e le spettacolari foto di Alexis Berg su Skialper 125 di agosto-settembre.


Andrea Gallo, il futuro ha un cuore antico

«Ho conosciuto Andrea Gallo di persona l’anno scorso, sciando insieme a Gressoney. Dico di persona, perché se uno è torinese e va un po’ in montagna, il suo nome di sicuro l’ha già letto da qualche parte, probabilmente sulle guide Finale 8.0 o Polvere Rosa. Oppure sulle relazioni di falesie storiche come Striature Nereo l’Orrido di Chianocco, spauracchio dei climber torinesi chiamati a confrontarsi con gradi e stili di una volta, quelli su cui si sono espressi come scalatori. O ancora, per chi avesse qualche anno in più del sottoscritto, l’ha trovato sulle pagine della defunta rivista Alp, della quale è stato collaboratore e fotografo per anni. È stato anche l’artefice, insieme ad altri, della creazione della Finale Ligure che conosciamo oggi, un modello di turismo outdoor che ha fatto scuola e che permette agli sciatori tristi di sopravvivere all’autunno e di risvegliarsi in primavera. Insomma, da attore prima e narratore poi, Andrea Gallo è sul pezzo da trent’anni e, anche ora che lavora nei video musicali (il binomio video maker outdoor - musica trap è qualcosa di assurdo e romantico allo stesso tempo) continua a martellare sugli argomenti a lui cari da sempre, quando non è occupato in cose più serie, ad esempio andare in skate e sciare a Punta Indren. Con la scusa di andare ad accaparrarmi una copia della nuova guida Finale 51, sono andato a trovarlo a Gressoney-Saint-Jean per capire cosa ci fosse dietro a un nome scritto sulla copertina di un libro».

Scrive così Federico Ravassard su Skialper 125 di agosto-settembre per introdurre una lunga e davvero interessante intervista ad Andrea Gallo, più che un'intervista una chiacchierata a tutto campo su passato, presente e futuro dell'arrampicata, del Freerider e della montagna più in generale. Un articolo da leggere e rileggere durante la pausa estiva perché «bisogna conoscere la storia di ciò che c’è stato prima di noi, sulla roccia, sulla neve, ma anche in tutto il resto, perché è l’unico modo per capire il presente e sapere dove andare in futuro». #sapevatelo

© Federico Ravassard

Prima e dopo la LUT

«Dopo aver finito, mi sono seduto per alcuni minuti e il duro sforzo, il caldo e la nausea che avevo combattuto nelle ultime 15 ore mi hanno finalmente sopraffatto. Così mi sono trovato nella tenda del pronto soccorso, dove mi hanno preso la pressione del sangue e infilato una flebo. Ok, ho pensato, è normale e probabilmente aiuterà comunque la mia ripresa. Dopo un po ' tutto quello che volevo era tornare in albergo e fare un pisolino. Avevo appena finito una corsa sotto il gran caldo correndo tutta la notte; avere caldo, provare nausea e sonno mi sembrava abbastanza ragionevole. Poi in realtà sono riuscito a vomitare. Mi sentivo molto meglio! Ma a un certo punto hanno deciso di farmi un ECG. Non avevo dolori al petto, e assolutamente nient'altro che caldo e sonno. Inoltre non parlo italiano e non capivo cosa stessero dicendo o facendo. Mi sono ritrovato in un'ambulanza diretta all'ospedale locale. A questo punto ho intuito cosa stava succedendo e ho cercato di spiegare che il mio ECG ha alcune anomalie che sono state ben studiate, nulla di cui preoccuparsi per un atleta di resistenza. Ma non parlo italiano. A un certo punto ho persino provato lo spagnolo. Poi mi dicono che potrei aver avuto un infarto e devo andare in elicottero in un ospedale più adatto. Sono ancora sicuro al 99 per cento che non ci sia assolutamente nulla di sbagliato, ma quando si parla di attacco di cuore quell’uno per cento diventa molto più ampio. Così via sull’elicottero, ed era la mia prima volta! E in un paesaggio così bello! Tranne che sono stato legato in una barella e non ho visto nulla. (…) Alla fine, niente infarto, ma ero disperso in un ospedale, non so bene dove».

Scrive così John Kelly, uno dei finisher dell'ultima La Sportiva Lavaredo Ultra Trail. La sua è solo una delle tante storie che si intrecciano ai piedi delle Dolomiti. Storie che su Skialper 125 di agosto-settembre abbiamo voluto raccontare con (poche) parole e (tante) immagini di facce e corpi prima e dopo la gara. Nelle foto di Federico Ravassard.

© Federico Ravassard

Le ragioni di Franco Faggiani

In tanti lo conoscerete perché cura l'ufficio stampa del Tor des Géants, in molti perché ha scritto due deliziosi romanzi nei quali, per un verso o per l'altro, la montagna fa sempre capolino: La manutenzione dei sensi e Il guardiano della collina dei ciliegi. Ma la vita stessa di Franco Faggiani è un romanzo, nel quale i monti hanno una parte importante. Per farvelo conoscere meglio, su Skialper 125 di agosto-settembre l'abbiamo fatto intervistare da un altro scrittore, Simone Sarasso. Un ritratto assolutamente da non perdere.

La manutenzione dei sensi – il primo dei libri in ordine cronologico – narra la storia di come la vita di Leo, scrittore, padre, vedovo e amante del quieto dislivello venga prima stravolta dall’arrivo di Martino – ragazzino in affido con la Sindrome di Asperger. E di come, successivamente, dopo un trasferimento in quota, lo scrittore riesca a riappropriarsi di quella vita sopita dal dolore.

Il secondo, Il guardiano della collina dei ciliegi – recentissimo (è in libreria dal 2 maggio scorso) – è la storia del più antico maratoneta del Paese del Sole Levante. E di come, senza desiderarlo minimamente, sia passato da giocarsi una medaglia alle Olimpiadi a vivere in una sorta di eremo all’aria aperta (la collina del titolo) espiando un peccato che chissà se aveva veramente commesso.

Scrive Sarasso: «Perché un giornalista affermato improvvisamente si mette a leggere e – soprattutto – a scrivere libri in cui la montagna e comunque la natura non mancano mai? L’ho chiesto a Franco e lui m’ha risposto con una storia, la storia della sua vita. Il genere di storia che suscita non poca invidia, anche nei più zen».

Non resta che leggere l'articolo completo su Skialper 125 di agosto-settembre...