Il sogno di Franco Collé: Gressoney-Monte Rosa andata e ritorno in quattro ore e mezza
Crolla un record che durava dal 1997. Ieri alle prime luci dell’alba Franco Collé ha scritto la sua firma sul libro delle salite in velocità sul Monte Rosa. Partenza alle 4,30 da Gressoney, a quota 1.635, per arrivare alla Capanna Margherita (4.554 m) e rientrare in 4h30’45’’, 14’15’’ meno di Bruno Brunod nel 1997. Rimane però di Brunod il record di salita, che vede Collé dietro di 4’. «La neve nell’ultimo tratto dal Colle del Lys alla Capanna Margherita era polverosa e mi ha creato molte difficoltà, ma in discesa le condizioni erano ottimali» ha commentato Franco. La linea seguita da Collé copre 31 chilometri passando per il rifugio Mantova, Gnifetti e Colle del Lys. Erano tre anni che Franco pensava a questo FKT e l’assenza di gare in questa stagione estiva ha permesso di concretizzare il sogno di andare e tornare dalla montagna che vede dalle finestre di casa in quattro ore e mezza.
In un lungo post su Facebook, Marino Giacometti, padre dello skyrunning, ha riassunto la storia dei record sul Monte Rosa, dai vari versanti: «Nel 1988 un notiziario RAI riportava che un certo Valerio Bertoglio aveva salito il Monte Rosa in 4 ore. Da alpinista che ha salito molte volte il Monte Rosa, inclusa la parete est, uno dei miei pallini diventa farlo in meno di 4h. Ci riesco nel 1989 da Alagna, 3h53’. Solo qualche anno dopo scopro che il primo record di 4h (5h29’ a/r) era però da Gressoney, vale a dire circa 400 metri di dislivello e qualche chilometro in meno. La storia continua con le gare da Alagna dove Fabio Meraldi nel 1994 porta il record-gara a 3h14’ in salita e 4h23’27’’a/r. Nello stesso anno ci scappa il mio record da Genova alla vetta 16h30’ (tuttora imbattuto dal lato di Alagna). Nel 1997 in un ritaglio di tempo avevamo organizzato a Gressoney con Bruno Brunod, RAI Aosta e un cronometrista che certifica la salita in 3h05’ e ar 4h45’. La storia prosegue con il ritorno della gara a coppie da Alagna in cui si sfiora il record di Meraldi nel 2018 mentre come prestazione individuale (FKT) ci riesce per un soffio Marco De Gasperi, salita in 3h10’ e ar in 4h20’34’’ (3’ sotto il tempo di Fabio Meraldi in gara). Nel 2019, dal mare, ci prova Nico Valsesia passando però da Gressoney in 14h31’. Nel 2020 da Gressoney, Franco Collé abbassa il record a/r di 4h30’45’’ ma la miglior salita da questo versante resta di Bruno Brunod, 3h05’ contro 3h09’ impiegate da Collé».
Outdoor Italia: i produttori di articoli sportivi adottano rifugisti e Guide
Un gemellaggio tra le aziende che producono articoli sportivi outdoor e gli operatori turistici, dai rifugisti alle Guide alpine ed escursionistiche. Per fare conoscere il territorio dove dare sfogo alla nostra passione outdoor e chi di outdoor vive. Un’iniziativa per fare sistema. È la campagna social e digital #OUTDOORITALIA voluta da IOG Italian Outdoor Group di Assosport, l’associazione nata nel 2000 che raggruppa le principali aziende italiane leader nella produzione, importazione e distribuzione di abbigliamento, calzature e attrezzatura per l’attività outdoor e gli sport di montagna, con un totale di oltre 40 aziende associate. Un’iniziativa che vuole essere la rinascita dopo #IORESTOACASA, quanto di più in contrasto possibile con la ragione di esistere dell’industria outdoor, che ha tuttavia risposto in maniera responsabile, contribuendo nei mesi scorsi a promuovere attraverso i propri canali di comunicazione le misure di contenimento, raccomandando agli appassionati di rimanere in casa e di sospendere le attività sportive a contatto con l’ambiente.
In pratica i marchi italiani leader del mercato dell’outdoor che aderiscono a IOG Italian Outdoor Group hanno adottato alcuni operatori e strutture sul territorio che verranno presentati sul sito dell’associazione e sui canali social. «Siamo una delle destinazioni turistiche outdoor più amate nel mondo: dal mare, alla collina, alla montagna, il nostro ambiente naturale rappresenta la dimensione ideale per una vacanza rigenerativa a contatto con la natura. Pensiamo che sia nostro compito impegnarci per promuovere questo straordinario patrimonio, rendendo protagonisti quegli operatori che da questo ambiente traggono la propria fonte di sostentamento, aiutandoli a farsi conoscere meglio, in Italia e nel mondo, fornendo un aiuto concreto per la ripresa» ha dichiarato Luca Pedrotti, amministratore delegato del brand Lizard e presidente di IOG. «Abbiamo trovato un’intesa solida con una parte importante dei nostri associati, fra i quali figurano tutti i marchi Italiani leader nel mercato dell’outdoor, per portare avanti un’iniziativa che vorremmo diventasse un esempio su come si possa e si debba reagire con spirito pragmatico e solidale di fronte a un problema che ci deve vedere uniti, oggi più che mai».
La campagna, iniziata dal 15 giugno, si protrarrà fino a tutto il mese di luglio e agosto. «Ogni azienda socia di IOG ha attivato la propria rete di contatti sul territorio, offrendo loro la possibilità di fornire un messaggio promozionale sotto forma di video o di testo corredato da immagini, da diffondere attraverso il sito web e i canali social di IOG e attraverso i canali di comunicazione delle stesse aziende associate, per dare ancora maggiore eco al messaggio».
Estefania Troguet: «Voglio essere me stessa anche a 8.000 metri»
E poi, quasi all’improvviso, il Nanga Parbat. La nona montagna più alta della Terra, con i suoi 8.126 metri di altezza, si lascia raggiungere nel punto più alto ed esposto portando nella storia della disciplina un nuovo nome. Quello di Estefania Troguet che lo scorso luglio ha conquistato il massiccio montuoso del Kashmir senza l’aiuto dell’ossigeno e quasi senza dirlo a nessuno, sussurrandolo appena. Ma, come succede in montagna, una parola detta da una cima diventa un’eco che si diffonde e amplifica. Così a soli 27 anni l’alpinista andorrana si è ritrovata a essere una donna da spedizioni, una di quelle che annoverano tra i propri numeri anche quello a quattro cifre che fa la differenza nel mondo dell’alpinismo: un ottomila. Lei che fino a qualche tempo prima era solo una ragazza appassionata di montagna, una sportiva, un’atleta. Ma prima di tutto una Maestra di sci nata e cresciuta ad Andorra, micro-stato dell’Europa sud-occidentale, situato nei Pirenei, tra la Francia e la Spagna, circondato dalle montagne. Quando nasci tra le cime, in un certo modo, è come se la tua strada fosse in parte segnata. Perché la gente di montagna è come quella di mare: quando hai a che fare con questi elementi della natura così incredibili, forti e insieme immensi, crei fin da subito un qualcosa che non si può spiegare esattamente.
Li vedi fuori, ma li senti dentro, come una sorta di malinconia permanente, di desiderio costante, di attrazione potente.
Chi sa cogliere questi segnali ne va alla ricerca. Stefy è una di queste persone. «Non so spiegare bene cosa e quando sia successo, so solo che è successo. Ho guardato le montagne e ho detto voglio andare là in alto. Avevo 20 anni. Mio padre è un Maestro di sci e io sono nata con gli sci ai piedi, ho gareggiato e sono diventata Maestra a mia volta e per me la montagna era solo quella invernale. Non sono mai stata un’appassionata di outdoor. Poi un giorno mio cugino mi ha chiesto se volevo andare in cima al Montserrat, ovvero la montagna più alta della Catalogna, e io ho accettato, un po’ come una sorta di prova. Il feeling che ho provato era così bello che non ho più smesso. Ho cominciato a viaggiare per il mondo, sono diventata anche Guida alpina di media montagna. Ho messo il mio corpo alla prova diverse volte e lui ha reagito bene in quota. La montagna mi ha insegnato più cose su di me che qualsiasi scuola e così ho cominciato: trekking, arrampicata, alpinismo. È arrivato tutto insieme». Inaspettato, come un colpo di fulmine che ti mette sottosopra lo stomaco, così è stato vederla lassù. Lei, colorata e piena di gioia, con le labbra rosso fuoco anche in montagna per non rinunciare alla femminilità che porta con orgoglio. Tocco di rossetto sulle labbra a rimarcare che la montagna è un posto per tutti e tutte, nonostante per secoli l’accesso alle donne sia stato considerato un tabù. Ma i pregiudizi nascono nella testa, prima che nella realtà. «Quando andavo in montagna e mi vedevano con il rossetto sulle labbra, mi dicevano: non puoi scalare, dove vai?. Mi sottovalutavano solo perché mi concedevo di essere me stessa. Figurarsi quando sono partita per il Nanga Parbat. Tutti credevano che non ce l’avrei fatta. E questo a lungo andare mette dei dubbi anche alla persona più sicura di sé. Già non sapevo come avrebbe reagito il mio corpo, visto che era la prima volta che mi confrontavo con quelle quote, non ero sicura nemmeno io di riuscirci, però ci credevo, molto più di quanto non facessero gli altri. Poi lassù ho visto che il mio corpo reagiva bene, mi sono sentita forte come non mai e questo mi ha impresso qualcosa dentro di indelebile».
La montagna crea dipendenza, inutile girarci attorno. La giovane andorrana comincia a essere impaziente, agitata. I soldi degli sponsor sono finiti eppure c’è ancora così tanto da fare. Così la bella e forte alpinista vende la macchina regalatale dal padre, una Fiat Abarth 500, compagna di mille avventure, per regalarsene una sola di avventura: a settembre Estefania parte ancora, questa volta per il Nepal, a raggiungere la vetta del Manaslu, anche questa volta senza ossigeno. Un’avventura difficile, dove non sono mancati momenti duri non solo per il fisico, ma anche per la mente. E non parliamo solo di fatica e paura, ma in un certo modo anche un po’ di distacco da quel genere di alpinismo così commerciale. Nonostante ciò, l’atleta dal rossetto rosso ha conquistato un altro Ottomila. Di ritorno dal Nepal Estefania ha cominciato ad allenarsi di nuovo, questa volta ancora più duramente perché ora sa cosa vuol dire raggiungere un ottomila, sa cosa serve al suo corpo e lo tiene costantemente in allenamento. «Mi sto dedicando a tempo pieno al mio essere atleta, lo posso dire con orgoglio. Questo significa fare dei sacrifici, tra cui, per esempio, rinunciare al lavoro di Maestra di sci. Purtroppo gli orari sono inconciliabili con gli allenamenti e avevo bisogno di concentrarmi bene. Ora lavoro con i brand che credono in me e che mi accompagneranno nella prossima avventura, come Ferrino. Purtroppo non ho più macchine da vendere (ride) e devo aspettare di raccogliere consensi per la mia prossima spedizione perché mi piacerebbe molto raggiungere un altro ottomila». Nel suo allenamento la Troguet combina il running per allenare la parte cardio, il climbing per prendere maggiore confidenza con la roccia, lo skialp, circuiti di potenza e un po’ di pesistica. Poco yoga e meditazione ancora, anche se è nei suoi prossimi obiettivi visto che nei buoni propositi del 2020 ha messo quello di cercare un po’ di calma, aspetto questo che le appartiene solo quando è in montagna. «La maggior parte del tempo mi alleno da sola, anche se mi piace quando qualche amico viene con me perché in fondo la condivisione è la base della vita. È vero che la montagna è in un certo senso un aspetto egoistico, ma dall’altra parte un compagno di cordata è fondamentale per assicurarti la vita. È sempre questione di equilibrio tra i due aspetti, sulla roccia e in città allo stesso modo».
Estefania non ha cambiato la sua vita da quando è diventata una piccola celebrità, ma sicuramente il suo esempio ha cambiato quella di qualcun altro. Attiva sui social media, la sua pagina Instagram è volata in poco tempo da pochi seguaci a più di 30.000 follower nel mondo, tra cui molte donne. «La cosa bella dei social media è che ti connettono con il resto del mondo e avvicinano le persone, anche se solo virtualmente. Ho ricevuto molti messaggi di supporto e mi sento di poter dire di far parte di una community di donne che vanno in montagna e che non hanno nulla da invidiare agli uomini per quanto riguarda forza e tenacia. Siamo molto forti ed è importante che ce lo ricordiamo. Il mio rossetto sarà sempre con me, simbolo ormai di questa provocazione che lancio alle ragazze che come me hanno il coraggio di mettersi alla prova».
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 128
È in arrivo Skialper 130
Un numero da leggere e conservare, come un libro. Con tanti capitoli dedicati all’alpinismo e agli alpinisti, ma, come nel nostro stile, alla ricerca della novità e della velocità. Ecco Skialper 130 di giugno-luglio, in arrivo nelle edicole a partire dal prossimo 23 giugno. In copertina un tributo a Ueli Steck firmato da Jonathan Griffith.
IO E UELI - Non poteva che essere dedicato a Ueli Steck l’articolo introduttivo del numero perché Ueli è il padre e il mentore di un certo modo di intendere l’alpinismo. Un ritratto inedito di Simone Favero che l’ha conosciuto da vicino quando lavorava nel reparto marketing di Scarpa. Un Ueli Speed Machine, ma anche umano, nella vita di tutti i giorni. Soprattutto un Ueli maestro più che idolo.
STEVE HOUSE - L’impresa con Vince Anderson sulla Rupal Face al Nanga Parbat, ma anche la sua teoria dell’allenamento, così ben spiegata in Allenarsi per un nuovo alpinismo e Allenarsi per gli sport di montagna, appena pubblicati in italiano dalla nostra casa editrice. Alessandro Monaci ha intervistato l’alpinista americano partendo dall’attualità e dalle difficoltà di allenamento durante il lockdown, per arrivare al passato più lontano.
DANI ALRNOLD - Nell’ultimo inverno è stato in Siberia, dove ha trovato «un freddo ben più intenso» di quello che aveva provato sugli Ottomila. Veronica Balocco ha intervistato Dani Arnold, ripercorrendo i suoi record di velocità, ma anche aspetti più intimi come il rischio, la paura, la perdita dei compagni di avventura. L’articolo è illustrato dalle splendide foto realizzate in Siberia da Thomas Monsorno, pubblicate in esclusiva da Skialper.
HEINI HOLZER - La rivalità per l’apertura di una nuova via. Flashback negli anni Sessanta con il racconto della prima sulla via degli amici, al Civetta, quando la cordata composta da Heini Holzer, Sepp Mayerl, Reinhold Messner e Renato Reali beffò altri team.
FABIAN BUHL - Prima Ganesha (8c) con uno stile purissimo: dal basso, in solitaria, autoassicurandosi, con appena quattro spit su sette tiri. Poi il volo in parapendio dal Cerro Torre, primo a gettarsi nel vuoto dopo avere scalato la vetta sudamericana. Non c’è dubbio che Fabian Buhl sia uno dei climber più creativi e Federico Ravassard l’ha sottoposto a una raffica di domande, dal boulder al parapendio, passando per… la cucina.
ALLA RICERCA DI TOM BALLARD - Uno straordinario reportage di Michael Levy sulla vita di Tom Ballard, morto sul Nanga Parbat nel 2019 insieme a Daniele Nardi. Il racconto della sua vita, delle sue imprese, da quella in invernale sulle grandi pareti Nord delle Alpi, sulle orme di Rébuffat, all’apertura di A Line Above the Sky in dry-tooling. Soprattutto il racconto della sua vita sulla scia di quella della madre, la grande alpinista Alison Hargreaves, morta sul K2 quando Tom era bambino. Un articolo pubblicato anche sulla rivista Rock and Ice, frutto di un dettagliato lavoro di ricerca, con tante testimonianze di ha conosciuto Ballard. Venti pagine da leggere come un romanzo.
FRANÇOIS CAZZANELLI - L’alpinismo classico in velocità, è questa la mission di François che abbiamo già intervistato su Skialper. Ma questa volta dalla Guida alpina della Valtournenche ci siamo fatti raccontare non solo del suo stile, ma soprattutto dell’ultima impresa, il concatenamento invernale delle Catene Furggen, Cervino, Grandes Murailles e Petites Murailles chiuso nell’ultimo inverno insieme a Francesco Ratti. Lo ha intervistato Andrea Bormida.
ALEX TXIKON - È rientrato appena prima del lockdown dall’Everest, che non è riuscito a scalare, e dalle Isole Shetland Meridionali, dove era arrivato in barca a vela dal Cile appena prima di partire per l’Himalaya, con solo un paio di giorni di break tra le due avventure. Con Alex Txikon abbiamo parlato di Nanga Parbat, Everest, K2, di salite invernali, Antartide, droni, igloo, testa, fisico, Edurne Pasaban…
KILIAN A NUDO - Se Steck è il padre dell’alpinismo in velocità, Kilian lo è delle imprese in quota arrivando dal trail running. Andrea Bormida lo ha intervistato chiedendogli quello che avremmo sempre voluto chiedere al re del fast & light. Abbiamo parlato di materiali, dalle scarpe, agli sci e alle piccozze, di rischio, di allenamento, di Stéphane Brosse, della sua idea di alpinismo, di Ueli Steck e di tanto altro. E Kilian non si è sottratto a nessuna domanda.
L’ARTE DEL CONFINO - Una riflessione sulle montagne, sull’alpinismo e il lockdown di Ben Tibbetts, chiuso nella sua casa di Chamonix nei giorni difficili dell’emergenza pandemia a disegnare le grandi pareti Nord delle Alpi. Una riflessione sulla bellezza dell’andare in montagna, ma anche sulle sensazioni che si provano a tornare ad assaporare sprazzi di quella libertà perduta.
MUST HAVE - Ben 23 pagine di prodotti per l’alpinismo selezionati dalla redazione e fotografati dal nostro fotografo di fiducia Daniele Molineris.
E POI… - Le discese di sci ripido sul Monte Bianco appena finito il lockdown, albe in quota, grandi Quattromila alpini e le imprese alpinistiche di Andrea Lanfri, atleta diversamente abile, sono gli argomenti del nostro portfolio fotografico. Mattia Salvi invece traccia un romantico parallelo tra la solitaria di Gian Piero Motti al Pilier Gervasutti e il primo passo dell’uomo sulla Luna, separati solo da poche ore, nei pensieri a inizio rivista.
Skialper 130 sarà in vendita in edicola dal 23 giugno ed è prenotabile qui
Pomoca, sotto la pelle
Dopo una porticina, che apriamo senza chiedere permesso, c’è un corridoio di una quindicina di metri. Lungo la parete di destra sono esposti in ordine cronologico una dozzina di set sci più pelli Pomoca. Si parte dalle più antiche pelli di foca-foca fissate con i cinturini sotto sci stretti e lunghi, per arrivare alle attuali Race e Climb Pro Glide, dieci metri più avanti. Come succede in simili occasioni a chiunque si ritrovi ampiamente dopo gli anta, resto vagamente spiazzato notando che le pelli che scandiscono le mie, di stagioni, iniziano subito dopo le prime. Quelle dei Flintstones. Che oltretutto facevano parte dell’armamentario di papà e alle quali diedi personalmente il colpo di grazia, lasciandole ammuffire.
Tutti pazzi per gli sci, per qualcuno solo status symbol o almeno segnale visibile di appartenenza. Le pelli invece sono alla base dello skialp, anche fisicamente, ma vengono trascurate dalla maggioranza. Si sta sopra le pelli mediamente per l’80% del tempo di un’uscita touring e dalle pelli dipende molto del successo della salita. Sicuramente dipende dalle pelli il piacere dello sci come ineguagliato mezzo di trasporto human powered sulla neve, ma ancora più sicuramente possono dipenderne un sacco di dispiaceri se vengono trascurate. Comunque 85 anni di ricerca e sviluppo Pomoca non sono trascorsi invano. Anche se il principio di base resta quello del pelo orientato nel senso che permette lo scivolamento in avanti e poi si aggancia alla neve fornendo appoggio al passo, le cose sono molto migliorate per tutti. Sciatori, sciatori distratti e foche.
Ricerca e sviluppo sono sempre stati condizionati, e sempre lo resteranno, dalla completa variabilità dei fattori. La neve prima di tutto; le caratteristiche della lana Mohair dalla capra d’Angora, che variano secondo l’età dell’animale e la sua alimentazione (la lana Merino invece è costante); la tendenza della colla all’instabilità in relazione soprattutto alla temperatura, elemento difficile da controllare così come la direzionalità finale della pelle (avete presente le pelli, rotoli interi, che traslano a destra o a sinistra rispetto all’avanzamento frontale?). Tutto sommato, i fattori stabili e ripetibili si limitano alle scelte nel processo di tessitura del semilavorato, alla membrana di rivestimento impermeabile e ai trattamenti. Il plush – vello, velluto, felpa – determina presa e scorrevolezza secondo la materia prima utilizzata e la tessitura delle fibre. È il momento in cui si decide la struttura della pelle, che pelle sarà. Fibre più fitte o più rade, più spesse o più sottili, più o meno angolate, lunghe o corte. Il principio generale è: più scorrevolezza uguale meno grip e viceversa. Il trattamento Everdry si fissa a tutta la lunghezza del pelo e, oltre agli effetti idrorepellenti contro la formazione di zoccolo o ghiaccio, migliora il fissaggio del tessile, l’angolazione delle fibre, l’aspettativa di vita utile, scorrimento e grip.
Il rivestimento deve separare il tessile e l’adesivo, formando quello strato impermeabile che impedisce a umidità e acqua di bagnare la colla, con tutte le conseguenze che chi c’era prima ricorda ancora molto bene. La produzione delle pelli resta un processo con forte componente manuale. Sicuramente non si tratta di artigianato puro perché posizionatori, macchinari e sistemi di controllo sono tipici strumenti industriali, ma l’automazione si ferma alla produzione in tessitura del plush in grandi tappeti in rotoli. Pomoca interviene poi con taglio laser, marcatura, spazzolatura, trattamenti vari, applicazione della colla e dei fissaggi, più i controlli qualità in diverse fasi. In estate e fino a settembre si concentra la gran parte della produzione, con l’impiego stagionale di circa il 50 per cento di lavoratori in più rispetto allo standard. Nell’estate 2018 il picco, con 50 giorni di produzione su 24 ore. Lo sci di montagna sta crescendo ancora. Sulle pareti della sede di Pomoca campeggiano immagini di azione dei testimonial, ma quelli più evidenti, quelli che ritornano con più frequenza, magari affiancati nello stesso spazio, sono Kilian Jornet e Jérémie Heitz. Anche sulla homepage pomoca.com. Tecnicamente lontani, antropologica- mente vicini, storicamente dirompenti. L’elemento dell’attrezzatura che condividono veramente, che potrebbero realmente scambiarsi, che li accomuna a ogni sciatore di montagna old /new school, sono solo le pelli. Con un po’ di attenzione tutte quelle nel corridoio all’entrata, comprese quelle della foca nata troppo presto rispetto al Mohair della famiglia Dufour, potrebbero ancora portarci su tutti quanti.
CURIOSITÀ
Quante pelli?
Si stima che nel mondo, in 25 Paesi, si vendano ogni anno circa 300.000 units, set di pelli. Pomoca ne distribuisce 100.000, un terzo del totale, quota che la posiziona largamente come leader del mercato.
All’origine degli sport invernali
Dal 1867 la storia della famiglia Dufour è legata al turismo e agli sport invernali. Louis Dufour, albergatore di Les Avantes, è il primo a utilizzare gli sci nella Svizzera romanda. L’albergo di famiglia ospita la clientela prestigiosa di Montreux in un ambiente che oggi sarebbe all’avanguardia fitness & outdoor, organizzando anche gare di sci e di bob. Con il contributo del figlio Éric, ingegnere e sciatore di fondo, negli anni ’30 vengono ideate e prodotte dalla famiglia Dufour numerose attrezzature da montagna, una futuristica slitta di soccorso in tela che utilizza sci e bastoni dell’infortunato e le pelli antislittamento. Il marchio Pomoca viene registrato nel 1937 come acronimo di Peau (pelli, la pronuncia) - Mohair - Caoutchoutée (gommato). Le suole dei Dufour per scarpe da montagna e da città, in caucciù come precursore della gomma, vengono lanciate con successo nel 1941. La famiglia prosegue nello stesso settore anche con la generazione successiva, sviluppando l’impermeabilità delle pelli. Nel 2011 Pomoca entra nel gruppo Oberalp: nuovo capitolo, sfide inedite. Gli scarponi Dynafit, per restare in contesto ski touring, sono oggi gommati Pomoca.
Sci di fondo skin
Le pelli stanno rivoluzionando lo sci di fondo. Nella tecnica classica, per gli amici l’alternato, c’è sempre stato un cancello vero e proprio chiuso a quattro mandate davanti ai neofiti e agli occasionali: la sciolinatura di tenuta, quella che lascia penetrare il cristallo nello spessore ceroso al momento della spinta, e lo lascia fuori durante lo scorrimento. Se la sciolina è quella giusta per quella neve. Equilibrio delicato dipendente anche da un’infinità di altri elementi fisici, dalla tecnica dello sciatore alla struttura dello sci. In condizione zero (gradi), attorno al punto di fusione della neve, la situazione diventa ingestibile per la maggior parte. Ma proprio in queste condizioni di neve umida variabile le pelli danno il meglio. Sottili strisce di pelli race vengono applicate in produzione nelle sedi fresate al centro del ponte dello sci per lunghezze attorno ai 40 centimetri. Pomoca fornisce gli inserti di pelli sagomate ai migliori costruttori (che puntano molto sul sistema e ci stanno lavorando), gli sci da fondo skin sono già finiti sul podio ai massimi livelli. Chissà che anche nel mondo skialp race non si accenda qualche lampadina rispetto a pelli la cui zona utile è meno della metà del totale.
di Guido Valota
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 128
Desert Love Affair
Quando chiudo gli occhi e lascio divagare la mente, mi ritrovo sulla vetta di una montagna innevata e illuminata dai raggi del sole, con il riverbero e una leggera brezza che penetra nel casco e fa vibrare ogni capello. Essere su una vetta mi trasmette una sensazione di familiarità, ma anche di passione e avventura. Ma ora, con gli occhi chiusi e il vento che fa svolazzare i capelli, sento come un prurito sulla pelle. Attraversa la faccia e arriva ai denti. Sabbia. Sabbia negli scarponi, sotto gli sci e nella pelle. Questa volta, sulla vetta di una grande duna del Sahara, con una linea vergine da sciare sotto di me, mi ritrovo immerso in un corteggiamento con il deserto.
Il sole aveva assunto una tonalità rossastra filtrato da quelle nuvole di sabbia. Non c’erano alberi, né moto che rombavano per le strade e neppure negozi illuminati fino a notte fonda come a Marrakech. Era una città piatta che pullulava di vita e di commerci che si adagiava sulle colline. Le colline piano piano diventavano montagne e le montagne si perdevano nel cielo sporco. Dai ciliegi in fiore ai pini, dalla neve alla sabbia: avevamo viaggiato nove ore verso Sud-Ovest attraverso il Marocco e le valli dell’Atlante fino al villaggio di Merzouga, nella regione di Erg Chebbi, deserto del Sahara. Dietro di me c’erano i pro skier Chad Sayers e Tof Henry e il fotografo Daniel Rönnbäck che stavano sorseggiando una calda tazza di tè del deserto e sgranocchiando i biscotti che avevano trovato alla stazione di servizio. Un viaggio fino in Marocco per sciare dove quasi tutti non l’avrebbero fatto. Chad cercava la curva perfetta nella powder con profumo di deserto, Tof nuovi couloir in stile Chamonix e Daniel di catturare quell’allure esotica di un viaggio con gli sci in Africa attraverso l’obiettivo. E poi io, che mi sono unito all’avventura di una vacanza sciistica diversa in qualità di quarto nomade. Davanti a noi c’era Muhammad, la nostra guida del deserto. Ci siamo seduti sotto il cielo nuvoloso con la sabbia che stava ancora depositandosi al suolo dopo due giorni di tempesta. La luna piena bucava le nubi con la sua luce chiara e illuminava le sagome dei cammelli di Muhammad, Mali e Jimmy. Stavamo per lasciare il comfort della casa di Muhammad per un accampa- mento da dove il giorno successivo saremmo partiti per la nostra pellata sulle dune del deserto.
Ora il pulviscolo della sabbia era sparito dall’aria, lasciando trasparire in tutta la sua potenza il contrasto tra il bronzo della sabbia e il blu intenso del cielo. Le nuvole correvano sopra di noi, creando un filtro ai potenti raggi del sole. Alle 8 il termometro segnava 22 gradi e la pelle iniziava a scottare. Con i turbanti ad avvolgere i capelli, gli sci sulla schiena e i bagagli ridotti al minimo siamo partiti in groppa ai cammelli verso un infinito di sabbia. Le tracce tra i granelli raccontavano le storie di altri viaggi. Nonostante il vento che aveva soffiato da Sud a Nord erano rimaste le tracce di altri cammelli passati prima dei nostri, di pesci delle sabbie (una specie di lucertola tipica del deserto) che scappavano dai topi del deserto e le piccole orme degli scarabei. Piccoli e paffuti, tutti neri con dei puntini sul guscio, gli scarabei avevano rimescolato la sabbia facendola sembrare ancora vergine e il Sahara si era fatto bello per noi dopo giorni di tempesta.
Eravamo da poco arrivati al campo che Tof stava già scrutando la sua prima discesa. Le dune di sabbia circondavano l’accampamento e creavano dei miraggi fatti di spine e couloir. Il vento del Sud aveva deposi- tato granelli di sabbia sui versanti Nord, creando delle piccole valanghe sui pendii oltre i 40 gradi. Con gli sci sugli zaini e gli scarponi ai piedi, eravamo pronti per la nostra avventura sulle montagne più alte che vedevamo. Jimmy e Mali salivano veloci nella sabbia lasciando impronte grandi il doppio di una mano umana. Eleganti e potenti allo stesso tempo, i cammelli ci hanno fatto guadagnare quota al comando di Chad e Tof. Siamo passati dalle valli di sabbia alle creste. Stare in groppa a un cammello è simile a cavalcare un cavallo, con la differenza che sembra di essere tre volte più alti ed è un ottimo punto di osservazione alla ricerca delle migliori linee. Man mano che salivamo di quota, aumentava la pendenza e a un certo punto abbiamo dovuto scendere e proseguire con gli sci ai piedi. La sabbia era calda e abrasiva e non abbiamo avuto bisogno delle pelli per scalare questi pinnacoli di 350 metri. Ogni duna cambiava mentre la guardavi, trasformata dalle forti folate di vento che arrivavano dall’Algeria, distante solo 17 chilometri. La serie di dune era diversa da come me la sarei aspettata: solo cinque chilometri di larghezza, ma ben 50 da Nord a Sud.
Le più grandi erano al centro di quella striscia e le loro creste proiettavano ombre nere sulla sabbia più in basso. I miei sci per fortuna salivano senza nessun problema su quella sabbia così grippante e quasi non mi sono accorto di essere arrivato in cima e avere tutto il deserto ai miei piedi. Tof si è messo la sua maglietta e ha aperto le zip di ventilazione dei pantaloni mentre Chad serrava bene gli scarponi e chiudeva gli attacchi. C’era eccitazione nell’aria ed eravamo in vetta al Sahara. Ero curioso di vedere Tof disegnare la prima discesa su una spina di 200 metri rivolta a Nord. Con le braccia larghe come ali e la nuvola di sabbia dietro come se fosse neve, si è messo sulla linea di massima pendenza. Chad ha infilzato i bastoni nella sabbia per spingersi e guadagnare velocità. La sabbia creava uno strato appiccicoso che frenava gli sci, come quando l’acqua ti rallenta sulla neve marcia. Il trucco era quello di riuscire a trovare lo strato più compatto dove potere scivolare piuttosto che sprofondare nella soffice polvere e impantanarsi. Chad è riuscito a disegnare una perfetta C dietro di lui, lasciando una scia esile. Sulla neve ti giri per guardare con soddisfa- zione i tuoi otto, sulla sabbia hai solo un momento per dare uno sguardo, prima che il vento cancelli i segni del tuo passaggio. Ho scritto la mia storia sulle dune, ma l’unica prova che è rimasta è stata la sabbia che si è infiltrata negli scarponi.
Giro dopo giro, salita dopo salita, Tof e Chad hanno preso confidenza e il sorriso sui loro volti ne era la prova più evidente. Hanno sciato spine e versanti aperti fino a quando il sole ha iniziato a tramontare. Il bagliore della luce si è trasformato in un arancione vivo quando finalmente il vento da Sud è diventato fresco. In vetta, con gli occhi chiusi e la faccia illuminata dagli ultimi raggi, con il vento che accarezzava la pelle e la sabbia soffice sotto i piedi, mi sono sentito a casa, proprio come su una vetta innevata. Tof ci ha lasciati per godersi un’ultima discesa fino all’accampamento mentre i turisti erano saliti sulla duna più alta per vedere il tramonto. La sera è stata allietata dal calore delle braci di tamerice che hanno rosolato una pizza del deserto, carne e verdure. Muhammad e i suoi portatori ci hanno trasmesso tutto il loro amore per l’Africa battendo le mani sui tamburi e cantando. Muhammad è uno di noi.
Ha viaggiato 52 giorni in groppa a un cammello da Timbuktu, dove vive la sua famiglia, in cerca di legno di frassino da bruciare, nuove opportunità e vino. Il Marocco è la creazione di un nomade. La sua cultura, la religione e le abitudini sono il risultato del vagabondaggio di Berberi, Arabi e viaggiatori che hanno traversato il più grande deserto del mondo fino alle vette innevate dell’Atlante o al Mediterraneo alla ricerca di commerci, viveri e amore. Con la sabbia intrappolata tra gli interstizi del mio attacco Kingpin e il turbante rosa legato allo zaino, anche io ho lasciato un segno nel Paese dei nomadi. Mentre le tracce sparivano nella sabbia e le dune venivano modellate dal vento, mi sono sentito a casa. Gli sciatori sono dei nomadi. Ogni montagna è una nuova avventura da scrivere. Giriamo il mondo in cerca di linee ancora da sciare, grandi pareti e nuovi tipi di neve. O sabbia. Siamo una tribù di entusiasti girovaghi. Senza uno stile di vita precostituito, solo un’avventura dietro l’altra. Dando il benvenuto a nuovi nomadi da fare entrare nelle nostre vite e nuove discese nel nostro viaggio.
Donny O'Neill
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Scialpinismo in falesia
Ho imparato che nella vita non bisogna dare nulla per scontato. Ho imparato che la bellezza è spesso relativa e che dipende dagli occhi con cui guarda lo spettatore. Ho imparato che se un posto è famoso per una cosa non è detto che non possa essere apprezzato per altri motivi. Ho imparato che ci sono alcuni luoghi con un’energia particolare, e non c’è stagione che tenga, la loro forza la sprigionano sempre. Ho anche imparato che è bello andare un pochino controcorrente, e quindi perché non andare in un posto totalmente lontano dai primi pensieri e dalle mete che istintivamente vengono in mente pensando allo scialpinismo?
Céüse. C’è chi dice che sia la falesia più bella del mondo; c’è chi dice che sia la falesia più bella di Francia. Noi pensiamo che sia La Falesia. Ho letto che in cima, o forse meglio dire sopra, ai suoi bellissimi quanto duri tiri, c’è un altipiano. Sciabile. Il punto più alto, il Pic de Céüse, si trova a 2.016 metri. Pensando a Céüse, credo che la maggior parte di noi chiudendo gli occhi se la immagini così: una imponente scogliera a forma di ferro di cavallo in cima a un promontorio che aspetta solo di essere arrampicata. Un luogo silenzioso, tanto famoso quanto selvaggio. Un luogo in cui i tramonti sono belli da far paura, soprattutto quando si è ancora appesi sul tiro, baciati dagli ultimi raggi di sole.
Siamo abituati a vederla dal basso, ad arrivare ai suoi piedi dopo un’ora di cammino.
Ma cambiamo le carte in tavola. Arriviamoci dall’alto, vediamo cosa c’è sopra e se la magia del posto vale anche per l’altro versante. Ogni aspettativa è stata più che rispettata. Alla partenza della stazione sciistica abbandonata ci sono degli scialpinisti. Tutti francesi, Marco e io siamo gli unici non local. Scarichiamo l’attrezzatura dalla macchina, convinti di fare un giro ad anello tutt’intorno al suo perimetro, di circa 13 chilometri. Poi ci ragioniamo qualche secondo in più, la giornata è splendida, tutti hanno le pelli ai piedi e d’impulso decidiamo di cambiare i piani, così mettiamo nello zaino anche corda, imbrago e rinvii, che non si sa mai. Nel settore Un Point sur l’Infini c’è una ferrata che porta alla base della falesia.
Il paesaggio è spettacolare e ci siamo solo noi e un branco di camosci. Abbiamo optato per il percorso più lungo, nonché più panoramico, e siamo fuori dalle tracce battute dai local. Passiamo sopra ai vari settori, alcuni riconoscibili anche dall’alto, La Cascade, Biographie, Demi Lune, un Point sul l’Infini, dove ci caliamo. C’è neve fino alla base della falesia ma al sole e contro la roccia la temperatura è perfetta per scalare. Giusto il tempo di fare qualche tiro e torniamo sull’altipiano per goderci il tramonto da un altro punto di vista e questa volta non appesi alla parete ma facendo qualche curva. Il tramonto è affascinante. Anche dall’alto. Sci invece di corda, ski-lift in contro luce e quel silenzio assordante che non fa altro che enfatizzare e confermare la bellezza di questo posto. Ho imparato che nella vita non bisogna dare nulla per scontato. E spero di ricordarmelo sempre.
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Enrico Brizzi, partire adesso
Scusa Sarax, imprevisto con le ragazze, 15 minuti e ci sono.
Il messaggio aleggia azzurrino sullo schermo del mio smartphone da quattro soldi. Avevamo appuntamento mezz’ora fa, ma il telefono suona a vuoto. Sorrido sornione e digito:
Don’t worry, man. Io, nel frattempo, butto sotto la doccia il mio bimbo. A frappé!
È così che va per noi papà separati: quando sei coi piccoli, loro vengono prima di tutto. Non c’è santo che tenga. E se io ho vita abbastanza facile col mio Alberto che, durante l’intervista telefonica (presto trasformatasi in un fiume in piena), ascolta divertito, legge Topolino e gioca col Lego, Enrico, lo scrittore che c’è dall’altro capo del telefono, ha un ménage un po’ più movimentato nella sua casa di Rimini: insieme a lui, in questa ventosa giornata di fine giugno, ci sono le sue quattro figlie e la nipotina.
Enrico Brizzi, da che lo conosco e mi nutro delle sue pagine (e son quasi cinque lustri) è una meravigliosa scoperta. Come narratore, certo. Ma, soprattutto, come strepitoso essere umano. Autore da un milione di copie a poco meno di vent’anni - il suo Jack frusciante è uscito dal gruppo è stato il romanzo culto di almeno tre generazioni (una era la mia) - tradotto in più di venti lingue, oggetto di studio di cattedratici e laureandi, Enrico fa parte della storia della letteratura italiana. Brizzi non si è crogiolato sul successo degli esordi, ha saputo costantemente reinventarsi surfando tra i generi: dal noir precocissimo di Bastogne alla trilogia ucronica di Lorenzo Pellegrini, ambientata in un dopoguerra immaginario in cui l’Italia fascista ha rotto l’alleanza con Hitler ed è uscita vittoriosa (con tanto di impero coloniale intatto) dalla Seconda Guerra Mondiale; dai geniali saggi sportivi che raccontano le sue passioni, calcio e ciclismo su tutte (il recente Nulla al mondo di più bello, sulle stagioni calcistiche a cavallo dell’armistizio, è appena uscito per i tipi di Laterza; col glorioso Di furore e lealtà, biografia del campione Vincenzo Nibali, ha vinto il Premio bancarella Sport 2015) all’ultimo strepitoso romanzo sulla Bologna dei primi Novanta divisa tra curva, droghe, ribellione, punk e l’immancabile struggente amore adolescenziale. Tu che sei di me la miglior partechiude il cerchio aperto da Jack Frusciantequasi un quarto di secolo fa (nel libro compaiono sia Alex che Martino, protagonista e antieroe del fortunato proemio brizziano) in un poderoso crescendo di chitarre distorte e colpi sotto la cintura. In mezzo a questo florilegio di pagine da antologia, c’è un punto di svolta. Una fase sorprendente della produzione letteraria dell’artista che entusiasma e continua a spiazzare: dal 2004 Enrico Brizzi scrive di viaggi a piedi. Insieme ai suoi buoni cugini, i pellegrini con cui ha fondato il gruppo degli Psicoatleti (perché è il polpaccio che spinge, ma è la testa che ti porta a fine tappa, c’è poco da fare…), ha compiuto alcuni straordinari cammini: dal Tirreno all’Adriatico, da Canterbury a Roma lungo il percorso della Via Francigena e poi da Roma fino a Gerusalemme. E ancora: ha percorso l’Italia da Nord a Sud durante i festeggiamenti per il centocinquantesimo anniversario del tricolore, ha camminato da Torino a Finisterre, calpestato ogni singolo miglio del Vallo di Adriano e, di recente, calcato palmo a palmo i terreni carichi di storia delle Residenze Reali Sabaude col patrocinio dell’omonimo consorzio.
Da ognuno di questi viaggi è nato (o sta per nascere) un libro, un racconto, una entusiasmante giustapposizione di parole, pagine, passi, immagini, musica ed emozioni. E pensare che tutto è nato quando l’autore era stanco di scrivere. Enrico me lo racconta appeso alla cornetta mentre il vento di Rimini sferza il ricevitore. Io e Alberto ascoltiamo rapiti. L’anno di svolta, s’è detto, è il 2004, ma in realtà il richiamo della strada e dei sentieri viene da molto più lontano. Il primo grande viaggio risale a quando Enrico aveva vent’anni: da Bologna a Cervia, cinque giorni in autonomia tra le colline: nel cuore quella voglia matta di libertà germinata da bambino, ai piedi d’una montagna povera e generosa. E maturata con pazienza nei campi scout. Enrico parte con un amico, Giovanni, destinato anch’egli a guadagnarsi il pane battendo sui tasti (Giovanni Cattabriga, a.k.a. Wu Ming 2, membro fondatore del collettivo di scrittori Wu Ming). È un viaggio fatto di stupore e ingenuità: «Ci portammo dietro un’ascia. Si sa mai, magari si fan brutti incontri, pensavamo…». Gli scappa da ghignare. «Oh, hai in mente quanto pesa un’ascia? Mai più nella vita! Però finché non prendi due misure non impari nulla. È là che abbiam cominciato a capire cosa significa andare a piedi». La conferma della meraviglia arriva al ritorno, in autobus, verso casa: le colline che sembravano infinite scorrono veloci via dal finestrino. I due giovani viandanti riconoscono i bivacchi dove hanno passato le notti avvolti in una coperta di stelle e intuiscono che il mondo, per essere conosciuto davvero, va misurato un passo alla volta.
La famiglia di Brizzi ha radici profonde, che fan sognare e profumano d’avventure salgariane. «La mia gente ha campato di farina di castagne praticamente per mille anni. I miei zii, bisnonni e trisavoli, fin dal primo momento che è stato possibile imbarcarsi su una nave e solcare l’Oceano, per scansar la fame han preso a imbarcarsi. Partivano: si faceva la naja e poi via, da Genova verso il Nuovo Mondo, a cercar fortuna. Le loro mani forti e ingombre di calli hanno costruito le ferrovie del Missouri. Son tornati cinquantenni con le tasche piene e han preso mogli giovani, nate molti anni dopo la loro partenza». Enrico a camminare è avvezzo fin dalla culla. «La montagna dove son cresciuto, dove mamma ci portava a fare le prime escursioni, è la stessa che Francesco Guccini ha scelto come casa. Ho imparato a masticare dislivello perché mamma ci diceva: se volete la merenda, bambini, bisogna arrivare al rifugio! e noi dietro, senza paura. S’impara così ad andare». E sta tirando su le sue ragazze con lo stesso spirito con cui è diventato grande: «La prima notte in tenda, in quota, le più grandi l’han fatta che avevano neanche sei anni e ancora ne parlano come di una delle più belle esperienze della loro vita. Le ho portate sul Corno alle Scale, la montagna classica di noi bolognesi».
A far sul serio coi viaggi a piedi, però, Brizzi inizia in quel mitico 2004, con la Tirreno-Adriatico. Quella traversata ormai mitica, da cui scaturisce il romanzo Nessuno lo saprà, coincide con un turning point della vita dello scrittore. È l’autentico momento di svolta. A dieci anni esatti dall’inizio della sua avventura editoriale, per la prima volta, Enrico si ritrova a provare una sensazione mai sperimentata prima: «Stavo scrivendo una storia per Mondadori e non provavo nessuna emozione. Mi pareva di scrivere semplicemente perché dovevo ottemperare a un contratto. Era scioccante: è come accorgersi, di punto in bianco, che la donna con cui stai da una vita non prova più niente per te». La scrittura, che prima era piacere puro e autentico, è di colpo diventata fatica. È allora che Enrico decide di prendere una pausa dalla tastiera. Di staccare andando a fare qualcosa che ama da sempre: perdersi per le montagne con uno zaino in spalla. Dopo la Bologna-Cervia ci sono stati altri viaggi, sia con Giovanni che con altri ex compagni scout del Bologna 16. Ma è tempo di alzare l’asticella. E allora perché non realizzare quel sogno tante volte immaginato in classe, durante i giorni più noiosi, fissando la cartina d’Italia? Attraversare lo Stivale nel senso stretto, proprio come gli eroici ciclisti della Tirreno-Adriatica tante volte acclamati per le strade dell’infanzia. Ma a piedi.
Il viaggio dura quasi tre settimane e ad accompagnare Enrico ci sono suo fratello e altri amici, che fanno piccoli pezzi di strada con lui, alternandosi lungo il cammino. L’unica tappa prefissata è l’approdo a Perugia da un sodale bolognese trasferitosi colà. Ed Enrico ci sbarca quando è tempo, senza avvisare, seguendo la poesia dei passi. L’amico riparte con lui dopo una cena luculliana e insieme raggiungono l’Adriatico. Quel viaggio è seminale. Per la scrittura, per il ritrovamento della pace interiore e della nuova direzione da prendere. Quel viaggio non sarà l’ultimo. Soltanto il primo di moltissimi. L’asticella prende a volare, tanta è la fretta che ha d’essere alzata ancora, e ancora. Nel 2006 Brizzi parte da Canterbury alla volta di Roma, proprio come un pellegrino medievale, e il racconto di quell’avventura inestimabile diventa un reportage a puntate per L’Espresso. Due anni più tardi il sogno di proseguire il cammino, proprio come facevano i fratelli pellegrini del passato, diventa realtà, e i buoni cugini partono da Roma per raggiungere Gerusalemme. È uno di quei voli pindarici che, solo a pensarli, fanno battere il cuore e tremare i polsi. E di solito, quando racconti l’itinerario c’è sempre qualcuno che dice: «Sì, ma c’è l’acqua in mezzo». Enrico risponde sorridendo: «C’era anche nel 1200… e noi l’abbiamo attraversata come si faceva allora».
Da Roma a Brindisi a piedi: niente Via Appia che è troppo trafficata, ma dritti sui monti d’Abruzzo, poi Molise, Isernia, Benevento e giù fino al mare, in mezzo alla natura beatamente desolata. A Taranto c’è un amico che lavora per la Marina Militare, e per passione ha riarmato un relitto alla vecchia maniera: niente radio, niente tender, niente giubbotti di salvataggio. A questo punto dovrebbe comparire la scritta lampeggiante in sovrimpressione do not try this at home, ma per i buoni cugini quel legno è quello giusto. Peccato che il nocchiero, a pochi giorni dalla partenza, sia richiamato dalla Madre Patria ai propri doveri militari, e di colpo la nave si ritrova senza capitano. A quel punto sì che la storia prende un’autentica piega salgariana: Brizzi e i compadres girano ogni bettola del porto finché non s’imbattono in Nicola, un marinaio d’esperienza, con l’accento di Lino Banfi e il volto di Ernest Hemingway (C’hai presente la foto di Hem sui Meridiani Mondadori? Uguale!), folle a tal punto da imbarcarsi nell’avventura. È lui che li traghetta di là del mare stretto. È grazie a lui se i pellegrini approdano festanti a Gerusalemme dopo più di due mesi dalla partenza. Quel viaggio è una consacrazione. Enrico e soci decidono di organizzarsi e fondano la Società di Psicoatletica (che a oggi conta all’incirca ottanta membri) e immaginano e percorrono itinerari sempre più ambiziosi:
Nel 2010, anno del centocinquantenario dell’Unità Nazionale, viaggiano dalla Vetta d’Italia fino a Capo Passero, marciando letteralmente lo Stivale da Nord a Sud. Nel 2012 viene varato il nuovo circuito per camminatori denominato Gran Giro Psicoatletico d’Italia: i buoni cugini ne percorrono la prima tranche calpestando i sentieri del Giro delle Tre Venezie: da Venezia a Riva del Garda via Trieste e Trento. Nel 2014 ripartono da Limone sul Garda alla volta di Torino attraverso Lombardia, Canton Ticino, Piemonte e Valle d’Aosta. Nel 2016 è la volta del cammino tanto rimandato, quello di Santiago. Enrico decide di percorrerlo ancora una volta sulle orme dei pellegrini medievali e parte da Torino per approdare, dopo milioni di passi, a Finisterre. Da questa magnifica classica scaturisce un reportage in sedici puntate per il sito della Gazzetta e, soprattutto, il libro Il sogno del drago, entusiasmante volume inaugurale della collana di Ponte alle Grazie in collaborazione col CAI, magnificamente vergato in seconda persona. Il resto, come si suol dire, è storia.
Enrico e i buoni cugini non si sono fermati, e continuano a camminare con il ritmo costante di due viaggi all’anno. Uno in primavera e uno alla fine dell’estate. C’è chi, camminando, cambia vita: Maurizio Manfredi - per tutti, Manfro - decide viaggiando con Brizzi e soci che l’esistenza è troppo breve per negarsi la felicità. E molla un lavoro sicuro per realizzare il proprio sogno: diventare tatuatore. Oggi Manfro vive d’arte e inchiostro ed è, ça va sans dire, il tatuatore ufficiale degli Psicoatleti. Un bel po’ di quell’inchiostro decora il corpo snello e muscolare di Enrico: «Han fatto il conto le ragazze qualche giorno fa qui al mare. Ne ho quindici, pare. E, a parte i nomi delle mie figlie e un vecchio tributo d’onore alla mia squadra del cuore, son tutti ricordi dei nostri grandi viaggi».
Prima di congedarmi annoto le ultime imprese per sacrosanto dovere di cronaca: il Grand Tour del Vallo di Adriano, la risalita del Reno che sta per cominciare in Olanda, e lo splendido tracciato patrocinato dal Consorzio delle Residenze Reali Sabaude: un giro di 300 chilometri circa, delimitato a nord dal Castello di Aglié e a Sud da quello di Govone. Enrico e i buoni cugini lo hanno percorso in nove giorni, terminando la marcia nel cuore di Asti. La telefonata volge al termine: è durata un paio d’ore ma a me e Alberto sembra d’aver viaggiato per un milione di miglia. La stretta al cuore che proviamo sa d’invidia e di promesse d’avventura.
«Papà, quando sarò più grande andiamo anche noi, vero?» dice il mio bimbo.
«Dove, amore? Dove andiamo?» domando io.
«Dappertutto» risponde lui.
E davvero non c’è chiosa più bella. È questo l’effetto che fan le parole e il ricordo delle impronte lasciate da Enrico Brizzi sui sentieri di mezzo mondo: fan voglia di partire. Di non aspettare le ferie e neppure la primavera. Partire domani, anzi no. Partire e basta. Partire adesso.
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Patagonia, finisce l'era Marcario
Quando nel 2008 Rose Marcario varcò la porta dell’headquarter di Ventura, in California, per assumere il ruolo di CFO di Patagonia, nessuno poteva immaginare che avrebbe lasciato un segno così indelebile nella storia del marchio di abbigliamento tanto da avvicinarsi a quello del suo carismatico fondatore, Yvon Chouinard. Patagonia ha ufficialmente annunciato che Marcario, fino a qualche giorno fa presidente e CEO del brand, ruolo che ricopriva da sei anni, da oggi, 12 giugno, lascia ogni carica. Secondo quanto riportato da Fast Company, che ha dato la notizia in esclusiva il 10 giugno, Marcario aveva comunicato all’azienda la sua decisione di lasciare a fine anno, ma la necessità di riorganizzare il business in seguito all’emergenza Covid-19 ha reso più urgente un cambio al vertice, in modo che il nuovo modello di sviluppo venga pensato fin dall’inizio dal nuovo team dirigenziale. Team dirigenziale che però non c’è ancora e la fase di transizione verrà per ora guidata dal COO Doug Freeman in attesa che Chouinard trovi una persona degna di raccogliere l’eredità di Marcario.
Marcario lascia Patagonia nel momento di più grande prosperità nella sua storia lunga 47 anni e da quando ha messo piede in azienda il giro d’affari è quadruplicato, superando il miliardo di dollari. Il ruolo della manager in questa storia di successo è di primo piano e, al suo arrivo, a un’immagine aziendale forte non corrispondeva un’organizzazione altrettanto importante. L'immagine pubblica di Marcario, dapprima dietro le quinte, è rapidamente cresciuta, soprattutto nell’era Trump, fino ad arrivare a creare un’alchimia con quella di Chouinard difficilmente rinnovabile. Patagonia si è sempre più trasformata in uno strumento di cambio, con visioni e campagne dal forte impatto politico e apparentemente in contrasto con il modello di business dominante nel mondo dell’outdoor e della moda, fino ad arrivare ad appoggiare apertamente alcuni candidati nelle elezioni midterm del 2018 in Nevada. In questi anni sono stati prodotti film a sostegno delle cause ambientali, destinati 10 milioni di dollari risparmiati grazie alla politica fiscale dell’amministrazione Trump a iniziative di tutela dell’ambiente. Sono arrivati anche un fondo di venture-capital interno per finanziare start-up sostenibili e Patagonia Action Works, un digital hub per mettere in contatto attivisti e organizzazioni ambientali.
Nella fase pubblica degli ultimi anni anche il coming out nella comunità LGBT che l’ha fatta salire al primo posto dell’indice Queer 50 di Fast Company che raggruppa le personalità più influenti della comunità LGBT nel mondo del business e del tech. In una dichiarazione rilasciata proprio a Fast Company c’è la sua filosofia del business: «Non è tempo di essere riservati, di essere complici, di stare zitti. Stiamo vivendo in un momento in cui è così importante per le aziende guidare questa nuova economia, questa nuova visione, questo futuro ambizioso degli affari come forza per il bene. Perché quello che abbiamo visto negli ultimi 25 anni è stato il business come forza del male». Un’eredità pesante, una nuova sfida per un marchio che ha fatto parlare di sé ben oltre il perimetro dell’industria outdoor. Ma la linea del futuro l’ha già tracciata la stessa Marcario, lasciando un’azienda in salute e con valori ben definiti al suo successore. Chiunque sarà.
Michele Graglia, oltre le ultra
La storia dell’ultra running risale ai tempi dell’antica Grecia, ma solo nell’ultimo decennio correre sulle lunghe distanze è diventato un argomento di discussione comune, permettendo a chiunque, purché abbastanza coraggioso di sperimentare la sensazione indescrivibile di spingere il proprio limite, di esplorare le proprie potenzialità. Andare oltre 42,195 chilometri e diventare ultrarunner non è un’impresa facile, richiede indubbiamente un’enorme quantità di desiderio e impegno. E forse anche un pizzico di follia. Si dice spesso che l’ultra è mentale al 90% e l’altro 10% è nella tua testa. Questo per sottolineare quanto sia importante il coinvolgimento personale, la propria forza trainante e la motivazione per superare i mille alti e bassi che si incontrano in distanze così ampie. Il corpo può portarti lontano, ma quando arriva il momento, quando ogni muscolo del corpo ti chiede di fermarti, è solo la tua capacità di recupero e ciò che ti motiva ad andare avanti che può aiutarti a raggiungere quel traguardo.
Sviluppare una solida routine di allenamento e seguire uno stile di vita sano è ovviamente fondamentale, ma possono esserci diversi approcci all’allenamento, specialmente se pensiamo in termini di tecnicità, distanza, quota, temperature estreme. Visto che il corpo può portarti solo fino a un certo punto, secondo me, se esiste una ricetta per il successo per arrivare in fondo, la si trova in qualità non fisiche. Bisogna allenare la pazienza, il rispetto e la gratitudine: la corsa ultra richiede tempo e perseveranza. Dobbiamo sviluppare un senso di gioia verso l’idea di passare un’intera mattinata o addirittura un giorno a correre nella natura, spesso soli con i nostri pensieri, e naturalmente anche con i calzini sporchi. Non dovremmo mai avere fretta, ma goderci semplicemente il viaggio. Il successo sulle lunghe distanze nasce anche da un senso di rispetto per la natura, una sorta di consapevolezza esistenziale verso la madre terra e la profonda connessione che sviluppiamo entrando in contatto con la sua pura semplicità. È una cultura dell’umiltà, insieme al rispetto per i grandi spazi aperti.
La capacità di tollerare esperienze spiacevoli e di soffrire durante una corsa ha molto più a che fare con la testa che con il corpo. È proprio come la meditazione. Solo esplorando le nostre menti scopriamo che siamo senza limiti e che la percezione del dolore è tutta relativa. C’è un detto buddista che sembra perfetto: Il dolore è inevitabile, ma la sofferenza è facoltativa. Ricordiamo a noi stessi perché stiamo facendo quello sforzo e niente ci impedirà di raggiungere il nostro obiettivo. È importante sviluppare la pianificazione strategica. Qui entrano in gioco una grande quantità di tentativi ed errori, ma con il tempo capirai cosa funziona per te e cosa no. Una volta che abbiamo scoperto e messo a fuoco i bisogni, tutto ciò di cui abbiamo veramente bisogno è pianificare in anticipo, praticare. Capire gli aspetti logistici di questo sport, in particolare rifornimento, idratazione e equipaggiamento.
Per sviluppare l’abilità di pianificare non c’è un’alternativa all’esperienza. La pratica rende perfetti, quindi bisogna continuare a provare. Poi trovare i migliori stimoli: abbiamo tutti diverse ragioni per cui partecipiamo a una gara ultra, ma c’è un tratto che li accomuna, la motivazione, forse l’aspetto più importante. Bisogna scavare nel proprio io alla ricerca di quell’unica ragione per cui si è disposti ad alzarsi ogni giorno prima dell’alba per spingere un po’ più in là i propri limiti. Capire che cosa ci fa correre cento chilometri, quando tutto dentro di noi fa male e sembra non esserci più forza per andare avanti, che cosa ci fa mettere un piede davanti all’altro finché non raggiungiamo il nostro obiettivo. Trovare quella ragione che, quando il gioco si fa duro, ci prenderà per mano, anche solo per un momento, ci permetterà di sfruttare il nostro infinito potenziale, connettendoci con la parte più profonda di noi stessi e sperimentare la vera felicità.
Michele Graglia
MICHELE IN PILLOLE
I tre personaggi che mi hanno ispirato a spingermi oltre nella corsa sono Dean Karnazes, Anton Krupicka e Marco Olmo. Leggere il libro di Karnazes mi ha aperto le porte a una ragione di vita perché per me l’ultrarunning non è uno sport ma uno stile esistenziale. L’idea di ritrovarsi ad attraversare spazi estremi sulle proprie gambe in modo primordiale è stata come un colpo di fulmine, ma non sapevo come iniziare. Mi piace l’ultra come concetto di spingersi oltre, che sia sulla strada, deserti o in alta montagna, non amo chiudermi in una gabbia.
Sono istruttore di yoga e lo yoga ha rivoluzionato la mia vita e soprattutto la percezione del tempo e dello spazio. Mi ha insegnato a vivere nel momento, ad assaporare l’ora, a dare il meglio di me stesso in quell’istante. Così ti distacchi dalle distrazioni, non hai aspettative e stress. Un concetto che applicato alla corsa mi aiuta a dare tutto me stesso in quel frangente e la somma di ogni minuto ti porta all’arrivo. Senza pensare a quello che sarà ed è stato.
Di solito faccio due ore di corsa prima di colazione, che spesso è presto, alle 7. Ho un’alimentazione quasi vegana. Ogni tanto mangio uova, prima delle gare importanti salmone, sono goloso di sushi. A fine mese mi gratifico con il gelato. È stato un percorso graduale, ho provato su me stesso quello che funzionava e che non funzionava. Mi sono avvicinato a uno stile di nutrizione low carb, hi fat (pochi carboidrati, tanti grassi) con tanti oli, di oliva e cocco, per esempio, frutta secca, avocado, ogni tanto quinoa, verdure, insalate a foglia scura, tanti spinaci, rucola, songino. L’unico carboidrato sono le patate dolci americane. Fuori stagione qualche pizza me la concedo però. Mi sono accorto che togliendo la carne mi sentivo più leggero.
Programmo la stagione al contrario: guardo all’obiettivo principale, di solito a fine estate o in autunno, e costruisco il resto di conseguenza. Il caldo a livello fisico ti distrugge di più del freddo, non puoi combatterlo, puoi solo cercare di limitarne gli effetti e hai bisogno dell’aiuto di un’equipe. Alla Badwater fai fuori anche 38-40 litri di acqua in 24 ore. Il freddo è meno invasivo, basta coprirsi. Ma è più pericoloso, se hai un minimo problema e non riesci a infilarti la giacca sei fregato. Però il caldo a livello atletico è stressante, devi bere una goccia d’acqua anche ogni minuto, se c’è vento secco ti disidrati senza sudare.
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Gilles Sierro, lo sci come arte
Parlare a quattr’occhi con chi hai sempre incrociato solo virtualmente è un piacere che ritengo fondamentale per poter conoscere qualcuno, specie al giorno d’oggi che mettersi in contatto con altre persone è questione di un click. Quando poi incontri un grande sciatore, diventa un privilegio. Vedere dove abita, come vive, gli occhi con cui guarda le sue montagne, ti fa capire un mondo di sfumature che si perderebbero tra i filtri di un più asettico scambio di mail. Gilles Sierro è un grande sciatore. Vive di sci e per lo sci. Non usa frasi fatte e ti basta uno sguardo per capire che la sua vita è veramente votata a questa disciplina. È cresciuto e vive nei pressi di Hérémence, Vallese, vicino ad Arolla. In linea d’aria pochi chilometri dal confine italiano. Con condizioni di neve migliori per raggiungerlo avremmo fatto prima con una pellata forse. Ce lo hanno detto anche gli operai al tunnel del Gran San Bernardo, chiuso.
Al Bianco sono sempre gentilissimi e accettano i quaranta e più euro anche se sono stropicciati. Poi il Col des Montets con la prima neve e i larici rossi, vuoi mettere? La schilometrata passa che quasi ti chiedi perché lo hanno fatto il Gran San Bernardo. Alla domanda invece di perché forse eravamo gli unici a non sapere della chiusura una risposta ce la siamo data dopo un secondo e faceva rima con… leoni. Poi le luci di un pomeriggio di novembre in un villaggio di chalet in legno svizzeri annullano o quasi i sensi di colpa. Per trovare quello di Gilles l’indicazione è poi ineccepibile: lo riconoscerete dalla buca delle lettere fatta con gli sci. Dopo circa mezz’ora passata a visitare ogni cortile della borgata, Gilles ha capito che era meglio se ci veniva incontro anche se il nostro navigatore si stava ostinando a indicarci una strada (in effetti corretta) che poi abbiamo scoperto essere la più innevata di tutto il vallese. È arrivato in retromarcia. Dopo un caffè abbiamo iniziato a conoscerci.
Gilles, la prima domanda che ci si fa tra sciatori in questo periodo: Sei carico per la stagione? Hai voglia di sciare oppure hai ancora voglia di altro?
«È vero! È la domanda classica del periodo tra chi scia! In realtà ho già iniziato questa settimana qui sopra. Con un amico ho testato un po’ il drone per fare delle riprese. La Magic Valley (come chiama la Val d’Hérens) è la mia casa, in stagione il comprensorio qui vicino è collegato con Verbier. Non posso lamentarmi. Anche se quando mi chiedono quale sia il mio spot preferito sono sempre in difficoltà perché in realtà il posto preferito è dove scio in quel momento, perché sto facendo proprio ciò che mi piace!».
Montagnard o sciatore? Ti piace vivere la montagna anche nelle altre stagioni?
«Posso ritenere di essere entrambe le cose, specie per il genere di sci che pratico. Sono diventato Guida proprio per poter sciare il più possibile, per vivere la mia passione quasi dieci mesi l’anno, tra clienti, spedizioni, viaggi e attività personale. Generalmente in luglio e agosto pratico attività più alpinistiche. I miei periodi preferiti per lo sci sono l’inizio dell’estate per la pente raidee il pieno inverno, quando riesco a godermi senza stress lo sci: freeski nel pieno della sua definizione, vivere la sensazione di gioco, di scivolare».
In una parola, facci capire che cosa è lo sci per te?
«Sembra banale ma posso dire che è vita: nel senso che la mia vita è orientata allo sci in modo totale. Perché è la cosa che mi è sempre piacito di più fare. Sono uno ski addicted nel senso più puro del termine. Ad esempio, quando a maggio finisco la stagione invernale con i clienti, stacco una settimana, vado al mare, faccio bici, libero la mente e mi preparo per iniziare la mia stagione dello sci. Lo faccio per lo sci».
Veniamo al tuo sci preferito, allo ski de pente, sinceramente non mi piace molto la definizione di sci ripido, o estremo, sei d’accordo?
«Non mi piace la parola estremo, ormai non ha più senso. Su qualsiasi rivista e ancor peggio sui diversi canali social dove ormai gira l’informazione tutto viene passato per estremo: usano termini come leggenda, enorme, ogni fatto viene galvanizzato. È talmente tutto leggendario che ormai lo sci estremo ha perso di significato perché il termine stesso è stato abusato e banalizzato. Se ci riflettiamo, il livello di estremo dipende dal limite soggettivo di ognuno. Paradossalmente anche una pista rossa può risultare estrema per un principiante. Un altro problema che vedo in questo mondo è che sono pochissimi quelli che sciano solo per se stessi. Grazie anche alla facilità di accesso alle informazioni sta diventando un circo in certi posti. Mi è capitato di parlarne con Davide Capozzi. Vedi il bacino di Argentière: è un posto dove le linee classiche sono indiscutibilmente bellissime, ma si riempie all’inverosimile perché sono conosciute, hanno nomi spendibili. Un piacere anche maggiore, senza anima viva intorno, lo si può trovare su una linea sconosciuta, ma appunto: non la conoscerebbe poi nessuno (ride)».
La tua idea di skieur de pente quindi quale è?
«Per fare veramente pente raide secondo me sono necessarie tre cose: bisogna essere buoni sciatori, e ce ne sono sempre di più in giro. Devi essere un alpinista e, cosa veramente importante, paziente. La pazienza! Sulle linee davvero impegnative le buone condizioni sono fondamentali. È veramente difficile trovare quelle perfette. Per sciarle in un bel modo, con una sciata estetica, è necessario aspettare il giusto momento. Ad esempio, prendiamo l’anno scorso: avete presente la parete nord della Pigne d’Arolla, qui sopra casa mia? È stata scesa, ma con doppie e derapate tra le rocce per cento e passa metri. Ed è una parete che diventa buona quasi tutti gli anni. Basta aspettare. Per me una discesa di quel tipo è inconcepibile. Anche su progetti più impegnativi sto aspettando da anni il momento giusto, ho visto bianche certe pareti in autunno mentre la parte bassa era impercorribile. Oppure, sempre qui in zona, il Mont Blanc de Cheilon è stato sceso per adesso non dalla punta. Ma secondo me potrebbe arrivare il momento. Mi piace aspettare, per cercare di scendere le pareti nel momento perfetto. Ci vuole pazienza».
Quello che ritieni il tuo più bell’exploit?
«La Dente Blanche sud-sud/ovest, dalla punta con due miei amici di qui, con cui ho condiviso l’attesa e la speranza di poterla sciare proprio come abbiamo fatto. Con le condizioni del 2013 e solo una doppia di meno di quaranta metri. Questo è proprio l’esempio di cosa intendo per ski de pente».
Ho letto che di cercatori di linee in realtà pensi che ce ne siano pochi, una decina tra Chamonix, Vallese e Valle d’Aosta? Chi sono?
«Senza dubbio tra questi posso citarti Davide Capozzi, Pica Herry. Anche Fransson, che purtroppo se ne è andato. Penso che abbiamo lo stesso modo di intendere questo tipo di sci. Personalmente mi piace cercare linee il più possibile pulite, possibilmente senza doppie o dry ski su cui alcuni si sono specializzati. Non è quello il mio modo di sciare».
Abbiamo parlato anche con Pierre Tardivel nell’intervista dello scorso mese dell’attuale tendenza della ricerca della massima fluidità e velocità possibili nello scendere certe pareti. Negli ultimi anni sono usciti parecchi video e immagini di questo tipo. Cosa ne pensi? Credi che sia, come ritengono alcuni, qualcosa di rivoluzionario, oppure no?
«Vedere sciare certe pareti in quel modo è senza dubbio impressionante, per la velocità stessa intendo. Non per la linea. Se si vuole parlare di rivoluzione bisogna specificare che è relativo alle linee classiche e più aperte. Non sono nuovi problemi, linee inedite o molto tecniche».
Però forse è stato messo nero su bianco come sciatori professionisti possono sciare pareti - sono d’accordo - classiche. Per un’attività libera come lo ski de pente dove anche lo sciatore della domenica, se preparato, può confrontarsi, se vuole, sullo stesso terreno di gioco del professionista, si è visto quale sia il livello e il margine dei professionisti! Si sono messi un po’ in ordine i valori tra tutti quelli che fanno discese e si spacciano per pro o ambiscono a esserlo.
«Su questo posso concordare. Però secondo me non si può parlare di rivoluzione nello sci ripido. L’evoluzione, per come la vedo, passa nella ricerca della linea. Sia chiaro, nutro molto rispetto per sciatori come Jérémie Heitz: ha spinto in avanti il limite del freeride. Però la mia visione di sci ripido, forse anche per questioni di età, ritengo sia differente».
Pensi che lo sci estremo nel futuro continuerà a progredire sulle Alpi oppure si sposterà in alta quota? Vedi dei limiti in questo?
«A mio avviso continuerà sempre sulle Alpi e le discese classiche vedranno sempre più sciatori, complici l’evoluzione dei materiali e le migliori capacità e preparazione. Questo discorso vale per le classiche. Su linee nuove non penso che ci sarà mai molta gente: per uno sciatore la preparazione e la ricerca delle condizioni è più complicata e ci si deve investire molto più tempo. Nella quota invece non vedo seriamente un limite. Prima o poi ci sarà qualcuno che ci mostrerà come fare e allora proprio quel limite non ci sarà più. Proprio come per certe salite se pensiamo a Ueli Steck o alle ascese in velocità di Kilian».
Un lato affascinante degli sciatori come te è il loro rapporto con i rischi e la paura durante l’azione.
«Io dico sempre che bisogna distinguere tra rischi e pericoli. I primi capita di prenderli, di accettarli e devi sempre cercare di minimizzarli. Tra i secondi invece non si deve dimenticare di considerare anche la pressione, le aspettative che uno ha intorno, la social pressure: sono come i seracchi. Personalmente anche con i miei sponsor cerco sempre di minimizzare e gestire al meglio questi aspetti. Poi l’aspetto mentale è importantissimo: ad esempio due anni fa in primavera avevo per la testa troppi pensieri. C’erano buone condizioni in montagna, ma non nella mia testa. E ho preferito tagliarmi fuori da questa situazione proprio perché non ero al 100 per cento mentalmente».
Che ruolo gioca la paura in quello che fai. Pierre Tardivel ci diceva che in realtà si mantiene sempre un margine.
«È importante prima e dopo, non durante l’azione. Bisogna essere focalizzati. Si deve sempre scendere mantenendo un margine di sicurezza: se sali e magari capisci che non ci sono le condizioni, devi saper rinunciare, anche se poi non posti nessuna foto su Facebook (ride)».
Gilles, quali sono stati i tuoi miti?
«Senza dubbio Dédé Anzévui, Guida e sciatore fortissimo di questa zona. Poi Stefano De Benedetti. Una linea che ho sognato a lungo e che mi piacerebbe sciare è proprio la sua parete est della Aiguille Blanche de Peuterey!»
Veniamo alle domande tecniche che ci si fa tra sciatori: che materiale usi, quali sono i tuoi setting?
«Generalmente scio con assi da 100-110 millimetri sotto il piede: così lo scarpone non tocca mai e poi sono gli sci che anche per lavoro uso di più, con i quali ho più confidenza: non ci sono sorprese. Scarponi tipo TLT6 o affini: non mi pongo particolari limiti per il peso dell’attrezzatura. Però gli sci devono essere facili, non esageratamente rigidi o duri. Generalmente 177 centimetri di misura circa. Attacchi tipo pin montati un centimetro indietro rispetto al centro scarpone: ho meno coda quando giro nello stretto e davanti ho la sensazione che galleggino meglio. Comunque ribadisco, non sono un fanatico del peso, anche se cerco di portare il meno possibile compatibilmente con ciò che faccio. Ad esempio preferisco i ramponi con le punte frontali in acciaio e la talloniera in alluminio».
I tuoi posti preferiti per sciare nel nostro paese?
«Senza dubbio Helbronner, è assolutamente fantastico! E poi Dolomiti, dove è tutto così vicino, di facile accesso e ci sono linee bellissime».
Come ti vedi tra 20 anni, quale potrà essere il tuo modo di sciare?
«Tra vent’anni? Spero di far conoscere alcune linee classiche, magari ai miei figli. Ah, dimenticavo, certamente non su uno snowboard!»
Chissà come mai lo avevamo capito già dalla cassetta della posta…
Chi è Gilles Sierro
Svizzero, classe ’79, Guida alpina, alpinista, Istruttore di sci certificato. Se chiediamo a lui: sciatore, punto. Cresciuto nel villaggio di Hérémence, non distante da Arolla, nel cuore delle Alpi Svizzere, tra Chamonix e Zermatt. Ha fatto le prime scivolate ad appena due anni, per poi praticare prima sci agonistico e quindi freestyle con l’arrivo dell’adolescenza fino a competere in Coppa del Mondo di halfpipe. La scelta di diventare alpinista e quindi Guida è stata presa per poter sposare il più possibile la sua passione per lo sci. Balzato alle cronache nel 2013 per la fantastica nuova discesa diretta dalla parete sud-sud/ovest della Dent Blanche (4.364 m), non smette di fare progetti e di riempire di neve le sue giornate in attesa delle condizioni perfette per poterli portare a termine.
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