AlpFrontTrail, da Grado al Passo dello Stelvio di corsa per non dimenticare

Il 10 ottobre 1920 l’Alto Adige venne formalmente annesso all’Italia. Cento anni dopo quattro team internazionali, ciascuno composto da due atleti di spicco, tra il 6 e il 14 ottobre percorreranno il confine storico tra Italia e Austria. Affronteranno 850 chilometri e un dislivello di 55.000 metri. AlpFrontTrail, questo il nome dell’iniziativa, non è solo un evento sportivo. Attraverso lo sport il confine, un elemento che separa, si trasforma in un’esperienza che lega e viene tenuto alto il valore della libertà. «Correre è una cosa che chiunque può fare, indipendentemente dalla nazionalità, dal colore di pelle o dalla religione. Per correre non serve un’attrezzatura costosa e lo si può fare ovunque» ha detto Philipp Reiter. Il trail runner e videomaker ventinovenne originario di Bad Reichenhall (Baviera) ha avuto, insieme al fotografo altoatesino Harald Wisthaler, l’idea dell’AlpFrontTrail, che prenderà il via martedì 6 ottobre con la prima tappa da Grado al santuario di Castelmonte.

Il percorso toccherà poi Sesto passando per la Val Canale e Tarvisio, da lì proseguirà per Arabba e Grigno fino a raggiungere Riva del Garda, da cui sarà percorsa l’ultima parte che, affrontando il passo del Tonale e l’Ortles, raggiungerà infine il Passo dello Stelvio. «Parteciperanno Anton Palzer, Daniel Jung, Eva Sperger, Jakob Hermann, Martina Valmassoi, Hannes Perkmann, Marco De Gasperi, Ina Forchthammer e Tom Wagner: alcuni tra i migliori trail runner al mondo. Inoltre ci sarà anche l’olimpionica del biathlon Laura Dahlmeier» ha spiegato Wisthaler. L’iniziativa è sostenuta, tra gli altri, da Suunto e della zona  turistica delle 3 Cime/3 Zinnen in Alta Pusteria.

© Wisthaler

Lo Swiss Peaks Trail da dentro

Sono le ore 00:00 del primo settembre quando in mezzo a quella manciata di case dove le auto non arrivano, che si chiama Bettmeralp, prende il via la quarta edizione dello SwissPeaks Trail. Poco meno di 300 gli atleti al via e potrebbe essere tutto molto normale, se non fossimo nel terribile 2020 del Covid. Arrivare qui, arrivare alla partenza, è stato difficilissimo per tutti. Per gli organizzatori, che hanno dovuto superare problemi di ogni tipo e gettare il cuore oltre gli ostacoli, scommettendo sul fatto che ci sarebbero riusciti, anche quando era tutt’altro che certo. Per gli atleti, per molti dei quali la certezza di poter arrivare in Svizzera è arrivata solo pochi giorni prima del via, e che comunque hanno dovuto crederci e continuare ad allenarsi anche in quei lunghi mesi di lockdown, in cui i più fortunati potevano al massimo inanellare giri in cortile. Perché un ultra trail di 320 km non si prepara certo in un paio di mesi estivi: lo devi coltivare per anni, con cura e pazienza.

Quest’anno la SwissPeaks Trail 360, a cui per motivi di sicurezza sono stati tagliati i primi 40 km, è stata l’unica gara d’Europa al di sopra dei 200 km, forse l’unica al mondo. Quella che era la sorella minore del Tor des Géants o dell’Ultra Trail del Monte Bianco, si è conquistata quest’anno, a causa dell’annullamento delle edizioni 2020 di tutte le principali gare internazionali di trail, tutta la scena, dimostrando di esserne pienamente all’altezza (ma anche di dover fare ancora un po’ di strada per raggiungerne la qualità complessiva dell’organizzazione).
Il percorso, anche nella sua versione ridotta di quest’anno, è risultato molto impegnativo. Alla lunghezza e al dislivello si aggiunge infatti un tracciato estremamente vario e spesso molto tecnico, con settori su pietraie o roccia che non sarebbero banali neppure in un’uscita di un giorno e che, dopo cinquanta o ottanta ore sulle gambe, e magari affrontati durante la notte, risultano a dir poco ostici.

L’ambientazione è semplicemente fantastica. Il Vallese, con la sua processione di strette valli alpine costellate di minuscoli villaggi da cartolina, di cime al di sopra dei 3.000 metri e di ghiacciai fra i più grandi d’Europa, è lo scenario perfetto dove immergersi completamente lasciandosi alle spalle, per una settimana o poco meno, tutta la vita normale. Impossibile, al termine delle oltre 100 ore necessarie alla maggior parte dei concorrenti per arrivare fino al lago di Ginevra, ricordare tutti gli scorci, tutte le cime, tutte le pietraie attraversate, tanto che guardando ogni fotografia scattata sul percorso, viene da pensare sono stato davvero là? anche quando nell’immagine ci sei proprio tu. Quello che rimane dentro, sia nel torpore dei primi giorni dopo la gara, in cui il fisico deve ancora riprendersi dall’enorme dispendio di energie fisiche e mentali, sia nelle settimane e nei mesi successivi, quando la vita di tutti i giorni torna a prendere il sopravvento, è una fortissima sentimento di appartenenza. I contorni precisi dei ricordi di luoghi e fatti sfumano in una sensazione profonda di essere diventato parte di quel mondo, non perché lo pensi e te ne senti in diritto, ma perché la fatica, il sudore, la sofferenza, la gioia che hai vissuto su quei sentieri lo hanno semplicemente fatto accadere. Non c’è stato nessun filtro fra te e la roccia, fra te e i ghiacciai, fra te e il sole, fra te e la notte e c’è stato tutto il tempo perché ti entrassero dentro; o tu entrassi in loro, spogliato come eri, ora dopo ora, di tutte le protezioni di cui la vita di casanormalmente ti avvolge.
I primi a tutto questo forse non sono neanche arrivati a pensarci. Franco Collé e Jonas Russi ci hanno messo poco più di 62 ore a tagliare il traguardo, appaiati, mentre il vincitore dello scorso anno, Andrea Mattiato, si è dovuto accontentare del terzo posto, a quasi otto ore dai primi. Fra le donne è stata invece Anita Lehman a chiudere davanti a tutte, in poco più di 85 ore, seguita da Claire Bannwarth e Emily Vaudan.

E il Covid? È innegabile che gli organizzatori abbiano fatto tutto il possibile per evitare il contagio, stabilendo le procedure necessarie mettendole in pratica, ma, a posteriori, è altrettanto innegabile che i risultati siano stati modesti. Si è dimostrato impossibile, in una manifestazione così lunga e complessa, con così tante persone coinvolte, rispettare e far rispettare in modo rigoroso tutte le prescrizioni, soprattutto nei momenti in cui la stanchezza ha preso il sopravvento, facendo percepire molti altri bisogni come assolutamente prioritari, rispetto a quello di proteggersi dal rischio di contrarre il Covid. A distanza di due settimane dalla partenza e di una dall’arrivo, senza segnalazioni di contagi, si può sperare che sia andata bene.


Kilian a nudo/seconda puntata

Hai mai usato sci più larghi, pesanti e con più struttura?

«In Norvegia, dove c’è molta neve fresca e poca gente a fare le tracce, uso anche i miei 95; in salita è molto più facile aprire la traccia nella neve profonda e poi scendere galleggiando, ma in condizioni normali preferisco gli 88 o i 79, perché si possono ancora fare buone uscite con 4.000 metri di dislivello senza dover rallentare e nella neve dura non è importante il fatto che siano sci stretti. Posso scendere a qualche compromesso sul peso dello sci (l’88 è 1.000 grammi, contro i 700 dell’attrezzo da gara) ma uso gli stessi attacchi e scarponi perché non vedo una grande differenza. Ho provato scarponi e attacchi pesanti senza alcun vantaggio rispetto a quello che invece perdevo».

In alcuni video ti abbiamo visto sciare con due piccozze, è così vantaggioso o è solo sicurezza in apparenza?

«È vantaggioso in certe condizioni, su un pendio ghiacciato dove è necessario scendere lentamente o in tratti dove si passa costantemente dallo sci alla discesa su ghiaccio con gli sci e per non prendere e lasciare le picche si scia qualche metro tenendole tra le mani. Quando il tratto da sciare diventa lungo, non è più sicuro che con i bastoncini».

Ho letto un tuo post in cui parlavi di esposizione, rischio e difficoltà. Personalmente non trovo tutto questo minimizzabile, forse anche la percezione del rischio è influenzata dalla tua stessa confidenza o dalla preparazione, però il rischio rimane.

«Sì, i pericoli sono oggettivi, naturalmente, è con le tue capacità e in funzione delle condizioni che decidi se la probabilità di sbagliare è grande o no».

Che cos’è la velocità? È relativa?

«È la conseguenza dell’andare leggeri. E mi permette di fare di più, quindi quando non hai molto tempo è fantastica».

Da sciatore ricordo le gesta di Stéphane Brosse in alcune discese, una sorta di precursore che ha portato la preparazione atletica della gara sull’impegnativo terreno dello sci ripido. Chi era per te e quale rapporto avevi con lui?

«Quando ho iniziato a fare scialpinismo, Stéphane vinceva tutto, avevo una sua foto sulla mia bacheca e tutti lo guardavamo come un modello da seguire. Quando ha smesso di gareggiare ha iniziato a fare discese davvero interessanti. Il Nant Blanc con Tardivel senza calata in doppia è stato un capolavoro e un’altra fonte d’ispirazione. Abbiamo abitato nella stessa zona e nel 2011 abbiamo iniziato a sciare insieme. È stato lui che mi ha iniziato allo sci ripido negli Aravis, poi sul Monte Bianco con la Face NNE des Courtes e il couloir Barbey. Per me è stato un vero e proprio mentore su come muoversi in montagna, su come portare il know-how delle gare nelle lunghe traversate e nei progetti in montagna. È stato prima un idolo, poi è diventato un mentore e un amico».

Recentemente abbiamo intervistato anche François Cazzanelli. Visto che avete percorso insieme la cresta delle Grandes Murailles in estate, come valuti il suo exploit invernale su quelle creste?

«François è un grande alpinista, è bravo in tutto, è completo. La traversata Cervino-Murailles in estate non è difficile, ma è lunga, con roccia non così solida, per questo in inverno le difficoltà sono molte di più, quello che ha fatto è un’impresa eccezionale!».

Veniamo allo sci: anche in questo campo sei un fautore dell’attrezzatura leggera. Con quali vantaggi e limiti?

«Beh, nelle lunghe traversate è bene andare con gli sci leggeri perché comunque nelle discese l’obiettivo non è andare a tutta, ma risparmiare energia. Nello sci ripido uso sci un po’ più larghi (Salomon S/Lab X-Alp 79 o MTN 88) così ho una maggiore altezza tra scarpone e neve e posso concedermi qualche errore in più, ma sempre scarponi e attacchi leggeri. È quello che sono abituato a usare e mi dà un enorme vantaggio in salita, perché nello sci ripido (se si esclude l’Aiguille du Midi) bisogna prima salire e le giornate diventano lunghe. Per curvare sul ripido, mi sento più sicuro con una combinazione leggera che con un’attrezzatura pesante. Gli scarponi Gignoux sono molto rigidi, il che significa anche precisi e solidi per sciare forte».

© Matti Bernitz

Parliamo ancora di fast & light e attrezzatura, quali sono le tue priorità?

«Tre tipi di attrezzatura. Prima di tutto per la progressione, cioè quella necessaria per completare l’itinerario. Poi in caso di, quella che si usa per proteggersi, per calarsi, quando si va in riserva o si rompe qualcosa. Infine c’è il lusso che può essere un buon sacco a pelo, cibo non gelatinoso o un libro da leggere durante una spedizione. La prima è irrinunciabile e lavoro con i miei sponsor per cercare di sviluppare l’attrezzatura che ci permetta di seguire questo stile. Deve essere leggera, ma allo stesso tempo soddisfare le esigenze di base. Gli scarponi per l’Himalaya hanno un obiettivo specifico: evitare il congelamento delle dita dei piedi. Sono composti da tre strati che possono adattarsi ai diversi terreni. Sulla seconda si può giocare un po’, ma non sono scelte senza conseguenze. Ti faccio un paio di esempi: posso non prendere un bivy-bag e non fermarmi, ma… oppure non portare una corda e disarrampicare, però sarebbe utile se devo salire in vetta e calarmi dall’altro versante. Il lusso rimane a casa (ride)».

Sei uno skyrunner e uno scialpinista che ha portato la velocità sui quattromila o in Himalaya, poi ci sono Ueli Steck e Andreas Steindl, per fare solo due nomi, che sono partiti dall’alpinismo e lo hanno velocizzato. Qual è la differenza tra i due stili?

«Probabilmente la differenza sta nelle capacità tecniche e fisiche all’inizio più che nella visione, io devo concentrarmi sulla tecnica e loro lavorano sul fisico. Penso che gli stili siano molto simili, è solo il nostro background a essere diverso».

Qualche volta sei andato in montagna con Ueli, che cosa avete fatto?

«Abbiamo scalato insieme in Nepal, intorno a Chukkung. Abbiamo parlato molto di allenamento, approccio alpinistico alle grandi vette, acclimatamento, alimentazione. Un giorno ero a casa e, parlando, mi ha chiesto se avessi mai scalato l’Eiger. Io ho risposto di no, così mi ha detto di andare a trovarlo il giorno dopo a Interlaken, ho preso l’auto e la mattina siamo andati a Grindelwald. Abbiamo parcheggiato, una corsa fino alla parete, poi siamo saliti in simul-climbing, ma non così velocemente, solo godendocela e scattando foto. Dalla macchina alla macchina ci abbiamo messo dieci ore. Il suo è stato un approccio molto interessante, si è allenato tanto, ha curato ogni dettaglio ed è sempre stato aperto a provare il nuovo e a evolvere. Ogni uscita con lui è stata ricca di insegnamenti!».

Sei co-autore di Allenarsi per gli sport di montagna: hai cambiato il mondo di allenarti per l’alpinismo e l’alta quota?

«Per l’allenamento in alta quota non tanto, più che altro mi sono concentrato sull’acclimatamento, per trovare il giusto equilibrio tra l’allenamento in altitudine e il riposo, rimanere in forma e ben acclimatato mantenendo alta la motivazione nelle lunghe spedizioni».

Mente o corpo? Steve House ha scritto che l’alpinismo è per l’80% mentale e per il 20% fisico. Sei d’accordo?

«È davvero una combinazione di entrambi. Il corpo pone a tutti dei limiti. Puoi pensare di correre una maratona in poco più di due ore, ma se non hai le doti fisiche di Kipchoge, la testa da sola non ti farà correre così veloce. Oppure puoi pretendere di fare freesolo a El Cap, ma se sei in grado di superare massimo il 6a legato, non è la forza mentale che ti permetterà di farlo da solo e slegato. Però la mente gioca un ruolo chiave per superare le barriere e avvicinarsi ai limiti fisici del proprio corpo. Per esempio, quanti possono salire l’8a senza cadere? Molti. Ma quanti possono metterci la forza mentale per farlo da soli su El Cap? Pochi. Quanti possono salire in solitaria un WI5 o M5? Tanti. Quanti lo farebbero in alta quota in Pakistan? Nell’alpinismo spesso scaliamo al di sotto dei nostri limiti fisici e tecnici, ma in condizioni di estremo disagio e accettando un rischio e un ingaggio elevati. L’energia mentale è necessaria per continuare a salire quando tutte le ragioni ti dicono di scendere».

Hai usato le tende ipossiche per acclimatarti prima di andare in Himalaya, credi che siano una soluzione valida?

«Servono per ridurre un po’ il tempo di acclimatamento in Himalaya, diciamo una settimana, come se si restasse in un rifugio sulle Alpi per un po’ di tempo, ma non si tratta di dove si passano le ore in quota, ma di quante se ne fanno. Il corpo ha bisogno di 400 ore per essere pronto, quindi le puoi fare in una tenda o in un rifugio o nei villaggi in Nepal, ma bisogna comunque farle quelle ore. Questo per arrivare a 6.000 metri, volendo anche fino a 7.000 o 7.500, poi probabilmente una volta a 8.000 metri per i grandi esperti di Ottomila. Il problema non è acclimatarsi. Fino a 6.000-7.500 metri non è un problema, puoi stare in quota e sentirti in forma, è oltre, è la fatica che l’acclimatamento richiede. Dormire a 7.500 o 8.000 metri ti prende molte energie e dopo ti senti stanco a lungo. Credo che la cosa migliore, se sei preparato a superare 2.000 metri di dislivello in un giorno e muoverti velocemente, sia di non dormire mai oltre i 6.300 metri, salire fino a 8.000-8.300 e tornate in basso a dormire. Così stressi il fisico a sufficienza per attivare i meccanismi di acclimatamento, ma non abbastanza per stancarti troppo. Il vantaggio è che puoi fare più attività perché sei meno provato, il problema che hai bisogno di muoverti sempre, dato che non sei così acclimatato come se passassi una notte a 8.000 metri, ma più fresco».

Come è cambiato il tuo approccio al rischio ora che sei diventato padre?

«Non avevo idea di come avrebbe potuto cambiare e, sorprendentemente, il mio modo di affrontare i rischi in montagna non è cambiato. Forse perché ho sempre pensato molto prima di prendere le decisioni e analizzato le situazioni. Invece è cambiato tanto per altri aspetti della vita, come guidare l’auto con più attenzione, mangiare meglio, pensare all’inquinamento e ai rischi ambientali».

2/fine

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© Matti Bernitz

Kilian a nudo

La storia del fast & light non può che coinvolgere Ueli Steck e Kilian Jornet. Perché rappresentano due strade diverse per arrivare alla velocità con ingaggio, quella dell’alpinista e dello skyrunner. Due strade che partono lontane, ma che a un certo punto corrono parallele fino a incrociarsi. Ma pur sempre due strade diverse. Non c’è dubbio che curiosità e sperimentazione abbiano accomunato questi giganti delle montagne e siano i fattori che li hanno fatti incontrare e dialogare. Ueli ha scritto la storia del fast & light, Kilian anche e ha ancora margini per scriverne altre di pagine. Lo abbiamo intervistato tante volte, ma mai eravamo andati tanto in profondità su argomenti come rischio, leggerezza, ingaggio, acclimatamento, attrezzatura, tecnica o allenamento. E anche sul suo rapporto con Ueli, of course.

Recentemente su Instagram e sul tuo blog hai dialogato con altri interpreti del fast & light in montagna, ma tu come definiresti con un aggettivo il fast & light?

«Nudo».

Quali sono i vantaggi e gli svantaggi?

«Il vantaggio principale di questo stile è che permette di andare veloci in montagna per raggiungere più posti in meno tempo. Non si può portare molto peso, per questo è necessario partire leggeri. Percorrere grandi spazi e dislivelli in breve tempo permette di evitare alcuni pericoli come l’esposizione all’altitudine, il rischio di valanghe, la caduta di massi. Ed è anche molto meno costoso perché si viaggia spesso da soli o in piccole squadre e con poco equipaggiamento. Lo svantaggio principale è che andando leggeri ci si assumono più rischi, in quanto non si è attrezzati per alcuni problemi che potrebbero presentarsi lungo il percorso».

Come ti ritrovi in questo approccio piuttosto che in uno più tradizionale, se per te esiste, ora, un approccio tradizionale?

«Rispetto qualsiasi modo di andare in montagna. Per quanto mi riguarda, dopo aver provato diversi approcci, questo è quello che mi piace di più e dove mi sento a mio agio. So che il rischio può essere maggiore rispetto ad altri stili, ma lo accetto per poter essere veloce».

© Kilian Jornet

Lo hai chiesto tu stesso ai tuoi colleghi di velocità e non puoi esimerti dal rispondere: qual è stata la prima volta che sei andato in montagna leggero e veloce?

«Probabilmente su terreno non tecnico è stata la salita del Dôme de Neige des Écrins nel 2006, salendo di grado, l’Innominata e la nostra spedizione invernale del 2013 in Himalaya».

 Come ti prepari per essere veloce?

«Preparazione fisica per essere in grado di mantenere il ritmo e preparazione tecnica per superare le difficoltà in solo o velocemente, più preparazione mentale per accettare l’ingaggio e trovare soluzioni quando le cose vanno male. E l’esperienza, penso che con il passare degli anni si impari un po’ di più a leggere la montagna. Ma non la si conosce mai del tutto».

Il fast & light rappresenta forse davvero l’evoluzione del muoversi in montagna, la direzione a cui mirare. Per ora può appartenere consapevolmente solo a un gruppo elitario di alpinisti, ma attira sempre più persone meno preparate. Quali potrebbero essere i rischi e come affrontarli se si decide di spostarsi con questo stile?

«Come dicevo, i rischi sono più alti perché a volte non si è attrezzati per ogni evenienza. Non posso dire alle persone di uscire e di seguire questo stile perché è qualcosa di molto personale e per il quale mi sono allenato per buona parte della mia vita. Si tratta piuttosto di accettare un certo ingaggio e questo potrebbe non essere raccomandabile...».

Utilizzare materiale ultraleggero richiede condizioni favorevoli, penso per esempio all’utilizzo dei ramponi con scarpe non tradizionali: quali sono i limiti in questo senso?

«Dipende davvero dal percorso, dalle condizioni, dalle tue capacità. I limiti o i punti PTI (per tornare indietro) devono essere sempre individuali e alla fine un compromesso con te stesso. L’attrezzatura continua a evolversi ed è incredibile quello che puoi fare oggi con pesi minimi, ma solo tu sai come usarla e fino a dove spingerti».

Pensi che questo approccio possa essere utilizzato anche su terreni più tecnici e alpinistici? Per vie difficili su roccia e ghiaccio? O c’è ancora qualcosa riservato solo all’élite?

«Guarda cosa ha fatto Ueli Steck sull’Eiger o sull’Annapurna o Dani Arnold con la Walker in due ore, Beta Block Super WI7, la Via Carlesso o ancora Colin Haley in Alaska e Patagonia e Alex Honnold…».

Sei mai stato attratto dall’alpinismo tecnico nel più stretto significato del termine?

«Non oggi, amo muovermi su un terreno dove posso sempre essere veloce, dove mi sento a mio agio da solo o in simul-climbing, ovviamente la difficoltà di questa zona di comfort si evolve, ma l’arrampicata tecnica pura, dove la ripetizione e l’assicurazione sono un must, non mi motiva».

Detieni molti fastest known time, per esempio al Cervino. Credi che l’alpinismo possa essere catalogato come sport o per te è qualcosa di più?

«L’alpinismo è uno sport? Sì, senza dubbio. Prima che i romantici comincino a lanciarmi pietre, pensiamo a cosa sia uno sport. L’origine del termine viene da disport, che significa attività che facciamo per divertirci, anche se il significato che ha assunto è limitato all’attività fisica. La Carta Europea lo definisce come Tutte le forme di attività fisica che, attraverso la partecipazione organizzata o meno, hanno come obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica e psichica, lo sviluppo di relazioni sociali o l’ottenimento di risultati nella competizione a tutti i livelli. Ci sono sport come la danza o il nuoto sincronizzato dove il valore qualitativo è la creatività e l’esecuzione dei movimenti, in altri come l’atletica leggera è un tempo, un peso o una distanza, negli scacchi è l’anticipazione e la strategia. L’alpinismo è un’attività fisica, suppongo che tutti noi comprendiamo che scalare una montagna con la funivia non può essere considerato alpinismo, anche se non ci sono competizioni. Beh, ditelo ai russi che fin dagli anni Trenta organizzavano gare dove si valutavano non solo la qualità fisica e tecnica ma anche la difficoltà di apertura delle vie, la sicurezza utilizzata e altri parametri. Comunque è classificato da un sistema di difficoltà, da regole non scritte, chiamate etica o stili, e dal grado di incertezza. Ma è anche scalare una montagna per cercare i cristalli o una collina per divertirsi con gli amici o per dipingere un quadro, senza dubbio. Così come lo è la corsa anche quando un ladro scappa dalla polizia o perché si sta per perdere un aereo. Si balla in discoteca cercando di cuccare o per divertirsi con gli amici. Lo sport non è esclusivamente di alto livello, ma comprende tutti gli scopi di un’attività, anche se purtroppo lo valutiamo solo in termini di performance in prima battuta».

1 / continua

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© Kilian Jornet

Lettere dai 4.000

Capitolo 1 / Silvestro, la Guida

Mentre scrivo queste riflessioni sono a Courmayeur, è il 26 di giugno e sono trascorsi 45 giorni da quando sono partito con il mio compagno Gabriele Carrara e abbiamo salito la Barre des Écrins. Lo scopo del nostro viaggio era traversare tutti gli 82 quattromila delle Alpi e per farlo avevo calcolato di impiegarci circa 40 giorni. Volevo sapere se in 33 giorni effettivi, con condizioni e meteo favorevole, fosse possibile salire tutte le vette più alte delle Alpi. Per prepararmi ad affrontare questo viaggio ho programmato e portato a termine delle gite che concatenassero, possibilmente con il minimo sforzo, più cime in uniche giornate di scalata. L’incognita era capire se queste tappe fossero state studiate bene e se il mio fisico avrebbe retto. La programmazione del viaggio è stata di per sé un motivo di divertimento e apprendimento. È proprio vero che i viaggi si vivono tre volte: in sogno, nel momento in cui sei lì e nel ricordo. Ad oggi posso dire di essere molto contento perché dopo la prima settimana, quando mi sentivo stanco, ora che sto rientrando da Courmayeur dopo tre giorni passati su e giù per il monte Bianco mi sento riposato. Il mio fisico ha risposto perfettamente agli sforzi a cui l’ho sottoposto e mi stanco molto meno in montagna. Le condizioni meteo di questa primavera sono state pessime, tanto da costringerci a fermarci per ben 18 giorni. Però, essendo riusciti a fare quello che abbiamo fatto con questo meteo, credo di potere affermare che non mi sbagliavo: in 40 giorni alpinisti con il nostro allenamento avrebbero davvero potuto completare senza eccessive difficoltà la salita degli 82 quattromila delle Alpi. Grazie alla nostra sfida ci siamo confrontati con gli altri alpinisti che in passato si sono imbarcati in questo progetto. A differenza di loro abbiamo scelto una stagione ibrida, né estate, né inverno.

In primavera ci siamo mossi tantissimo con gli sci, affrontando il pericolo della neve non ancora assestata e scoprendo che in questa stagione la maggior parte dei rifugi e degli impianti di risalita sono chiusi. L’altra scelta alla base del nostro progetto è stata quella di spostarci in furgone, in compagnia di Werby. Siamo partiti in quattro: io, Gabriele, Tiziano e suo padre. Non abbiamo avuto nessun appoggio logistico, altro aspetto che ci ha distinto rispetto a chi ci ha preceduto. Con il nostro allenamento un avvicinamento di 1.500 metri di dislivello con successivo riposo può essere una passeggiata defaticante, ma quando le funivie erano aperte le abbiamo prese, per ottimizzare i tempi e per rendere i percorsi meno noiosi. In totale le abbiamo utilizzate in cinque occasioni e in due i trenini, quello dello Jungfraujoch nell’Oberland e uno a Chamonix, rientrando dal rifugio Couvercle. In 27 giorni abbiamo fatto 200 ore di attività in montagna. Quando ci si espone così tanto, dei piccoli rischi ci sono sempre e siamo stati fortunati perché non è successo niente e non abbiamo neppure avuto acciacchi fisici rilevanti. Come per il concatenamento delle Ande nel 2018, per ogni cima scalata ho scattato una foto georeferenziata. Sicuramente in una settimana di bel tempo salirò anche le 15 cime che ci rimangono, ma non ora, non ho la giusta motivazione per continuare. Per completarle mi piacerebbe puntare più sulla qualità, per esempio salendo in giornata l’integrale di Peuterey, come ha fatto il mio socio Gabriele, accoppiando la salita di Blanche e Grand Pilier d’Angle. Infine mi piacerebbe portare con me sull’ultima cima, che potrebbe essere lo Zinalrothorn, la mia ragazza per regalare a lei il suo primo quattromila e a me una doppia soddisfazione. Arrivederci, a presto!

Silvestro Franchini

©Silvestro Franchini/Gabriele Carrara

Capitolo 2 / Gabriele, il Berghem

Sono un ragazzo normalissimo, si fa per dire. Ho un fratello gemello e altri due più piccoli. Finito il periodo travagliato delle superiori, ho iniziato a lavorare stagionalmente nei rifugi, passando dal Tosa Pedrotti nelle Dolomiti di Brenta, al Torino e al Monzino sul Monte Bianco. Non basterebbero le parole per spiegare la mia passione per la montagna e ora ho finito il corso Aspiranti Guide alpine del Collegio Lombardia. Credo molto nella forza della natura e della montagna come motivo di salvezza e viaggio dentro di sé. Ritengo l’alpinismo una forma di sano egoismo necessario a conoscere se stessi. I silenzi che questi ambienti ci regalano e gli attimi di solitudine ci permettono di arrivare a un equilibrio interiore. Il nostro è stato un viaggio nato per caso da un messaggio che Silvestro mi aveva mandato più di un mese prima della nostra partenza e che io non avevo visualizzato.

Ci siamo incontrati e lui si era già organizzato, a me non è rimasto che aggregarmi; volevo conoscere parte dell’arco alpino e avevo bisogno di ritrovare un po’ di pace dopo un periodo non facile, pace che i ritmi della società sicuramente non mi avevano aiutato a trovare. Questo viaggio mi ha regalato una bella amicizia e la realizzazione di un grande sogno: attraversare in stile alpino la cresta integrale della Peuterey in giornata, partendo e tornando dal campeggio La Sorgente in Val Veny. Avendo lavorato al Rifugio Torino e al Monzino la vedevo tutte le mattine e la traversata è sempre stata un sogno nel cassetto da realizzare. Su questa affascinante e affilata linea si sono spese e si spendono un sacco di parole, spesso inutili. Sarebbe sufficiente stare in silenzio, chiudere gli occhi per iniziare a sognare il tragitto, facendo il primo passo verso di lei. Per me è stato così.

L’ho osservata e le sono girato attorno parecchi anni, sono serviti altrettanti giorni di ravanate e delusioni lontano da lei per potermi sentire pronto ad affrontarla nel mio stile: in autonomia, in velocità e in compagnia dell’amico Marco Farina. In questa salita non sono stato accompagnato dal mio compagno Silvestro perché per motivi di lavoro era impegnato. Non è una salita qualunque e per affrontarla come volevo era neces- sario un buon feeling, che ho trovato fin da subito con il mio socio. Mi piace pensare che non sia solo una cresta, ma la cresta. Mi piace credere che rappresenti il legame tra la terra e il cielo, tra la realtà e il sogno e quel giorno ero lì a camminare nel mio sogno più grande, accarezzando il cielo, in compagnia di un amico. È stato magico condividere con Marco questo momento. È stato bello fare il giro dei quattromila con Silvestro.

Sembrerà strano ma ho imparato di più dalle 13 cime che abbiamo saltato piuttosto che dalle 69 che abbiamo raggiunto e che si sono concesse. Porterò sempre con me l’insegnamento di saper rinunciare umilmente di fronte alla forza della natura, consapevoli che è la montagna che si concede. A noi non resta che attendere e nel dubbio allenarci. I dettagli del viaggio li ho lasciati raccontare a Silvestro, Guida alpina di Madonna di Campiglio, che in montagna ci è nato e ci vive e sicuramente ha molta più esperienza di me. Io adesso porterò Werby al mare a cercare una bella furgonetta: se la merita. Grazie Alpi, grazie soci! Adesso è ora di aprire gli occhi e pensare a qualcos’altro. Ah! Grazie Werby, sei una roccia. Grazie a tutte le persone che in questi anni ho incontrato e che con la loro umiltà, determinazione e lealtà mi hanno indicato la strada. Sono stati due mesi alla Grande Grimpe.

Gabriele Carrara

©Silvestro Franchini/Gabriele Carrara

Capitolo 3 / Diario: 45 giorni in cresta

di Gabriele Carrara

13 maggio / La prima tappa ci fa capire subito che non sarà per nulla facile: la visibilità scarsa e il vento che soffia forte, abbinati alla neve caduta al suolo nei giorni precedenti, diventano una combo molto pericolosa. Per fortuna, grazie anche all’aiuto del GPS, arriviamo in cima, direttamente con gli sci, prima al Dôme de Neige des Écrins (4.015 m), dove il papà di Tiziano ci aspetta, poi alla Barre des Écrins (4.101 m). Le condizioni sono tutto tranne che facili a causa del verglas. Ambiente selvaggio, montagna vera.

14 maggio / Siamo in direzione del Grand Combin, il vento non molla nemmeno oggi, anzi, sembra voler spingere ancor di più; nella parte alta raffiche a 70 km/h ci fanno perdere un po’ l’orientamento, ma saliamo tre cime: il Combin de Valsorey (4.184 m) dalla Parete Nord-Ovest per poi proseguire verso il Grand Combin de Grafeneire (4.314 m). Purtroppo saliamo anche la cimetta in parte, convinti che sia il Combin de la Tsessette (4.141 m), invece due giorni più tardi ci accorgeremo che è l’Aiguille de Croissaint, sempre un quattromila che però non fa parte degli 82.

Giornata resa molto fredda dal vento e direi anche abbastanza lunga, visto lo sviluppo e il dislivello. Ci toccherà tornare in futuro per una buona gita scialpinistica, del resto sarà una motivazione in più, anche se questo posto di motivazioni per tornarci ne ha ben più di una: magnifico.

15 maggio / Prima giornata quasi rilassante alla Dent D’Hérens (4.171 m). Se si esclude la passeggiata lungo il lago, abbastanza frustrante da fare con gli sci in spalla, si rivelerà una delle mete top, sciisticamente parlando.

16 maggio / Siamo a Pont in Valsavarenche, verso il Gran Paradiso (4.061 m). Niente piani da spingere, poco portage degli sci, in pratica un vertical. Giornata quasi relax se non fosse per la malsana idea di ripartire subito verso Campo Moro, ai piedi del Bernina.

17 maggio / Meteo orribile, nebbia da nausea, neve tutto tranne che bella: Piz Bernina (4.049 m), il GPS funziona davvero, ma a me si rompe lo scarpone. È l’ultima cima fatta insieme a Tiziano e suo papà, per me e Silvestro sarà ancora lunga.

22 maggio / Saliti il giorno prima al bivacco, dopo la pausa per
il maltempo e condizioni pericolose, ripartiamo dal Weissmies (4.023 m). Sempre tanta neve, anzi, più di prima, e far traccia con queste condizioni inizia a pesare anche di testa: per fortuna abbiamo gli sci ai piedi. Poi il Lagginhorn (4.010 m), salito dalla cresta, questa volta a piedi, e affondare fino al ginocchio non è un caso. Nel pomeriggio prendiamo la funivia a Saas-Fee e saliamo a dormire alla Britannia Hütte.

23 maggio / Giornata da incorniciare. Le prime tracce che incontriamo sul nostro viaggio: che goduria non sfondare, ma non durerà molto... La discesa con i nostri sci stretti è da panico, neve cartone. Saliamo così lo Strahlhorn (4.190 m), poi il Rimpfischhorn (4.199 m) e per finire il dislivello positivo di giornata puntiamo diretti dalla west face dell’Allalinhorn (4.027 m). Sarebbe top anche da sciare in discesa, peccato che Werby sia dalla parte opposta e allora arriviamo con gli sci ai piedi, sul cosiddetto firn remol, fino a Saas-Fee: discesa altrettanto da sogno.

24 maggio / Altra gita da sogno per ogni scialpinista, se poi si riesce
a trovare anche la powder, beh allora il Bishorn (4.153 m) è una delle gite scialpinistiche più belle dell’arco alpino. Poca fatica, massima resa.

27 maggio / Siamo già al rifugio Couvercle, dove siamo saliti il giorno prima. Ci aspetta una giornatona, la prima un po’ più tecnica. Avvicinamento alle cime con gli sci, ma poi li lasciamo alla base e proseguiamo con picca e ramponi. Saliamo e scendiamo Les Droites (4.000 m), riscendiamo, traversiamo con gli sci e infine li lasciamo alla base del Couloir Whymper, da dove scenderemo a piedi. Saliamo in sequenza l’Aiguille du Jardin (4.035 m), Grande Rocheuse (4.102 m) e Aiguille Verte (4.122 m) per poi scendere a valle e prendere il trenino di Montenvers e raggiungere Chamonix. In cresta troviamo tanta neve, condizioni più che invernali e... appena il sole scalda meglio, togliersi dai pendii! Una volta a Chamonix basta la sfida a chi mangia il panino più grosso e una sola birra per collassare tra le lamiere di Werby e svegliarsi il giorno dopo sotto l’ennesima pioggia primaverile.

30 maggio / Il meteo oggi ci grazia. Le condizioni sarebbero
da powder day con un palettone sotto i piedi, altro che scarponi
e ramponi sulla Dent Blanche. Ieri il GPS è stato utile: tre ore per arrivare al bivacco della Dent Blanche nella nebbia, bufera con visibilità a 10 metri: uno schifo. Oggi 20 metri di kevlar, qualche moschettone e cordino, ramponi, due piccozze e via a fare la king of ravanage del nostro viaggio. Se la salita è impegnativa, la discesa sarà abbastanza da panico. Saliamo dalla cresta della via normale fino alla Dent Blanche (4.357 m): panorama tra i più belli di tutte le Alpi. Non scendiamo dalla cresta, da dove siamo saliti, perché le parti più ripide dove abbiamo dovuto scalicchiare risulterebbero troppo laboriose per calarci e non abbiamo molto materiale a disposizione. Scendiamo dalla parete Ovest. In certi punti c’è neve fino al bacino, per fortuna fa freddo, il pendio è stabile e, recuperati gli sci, ci godiamo le discese polverose con ampi curvoni verso Ferpècle e, con la solita oretta di portage degli sci sullo zaino, rientriamo da Werby.

31 maggio / Siamo a Zermatt da ieri pomeriggio e questa mattina prendiamo la funivia del piccolo Cervino. La tecnica è sempre la stessa: sci dove si può e ravanage dove gli attrezzi rimangono sulle spalle. Partiamo dal Breithorn Occidentale (4.165 m), per poi proseguire sempre sul filo di cresta dove, tolte le normali sulle cime classiche, di tracciato non c’è nulla e così testa bassa e tritare. Passiamo dal Breithorn Centrale (4.160 m), Breithorn Orientale (4.141 m), Gemello del Breithorn (4.106 m), Roccia Nera (4.075 m), Polluce (4.092 m), Castore (4.228 m), punta Felik (4.087 m), Lyskamm Occidentale (4.481 m), Lyskamm Est (4.527 m) per arrivare verso pomeriggio-sera alla Capanna Gnifetti.

1 giugno / Partiamo presto perché di neve ce n’è ancora parecchia
ed è meglio muoversi nelle ore meno calde. Si comincia dalla Punta Giordani (4.046 m), proseguendo per la Piramide Vincent (4.215 m), Corno Nero (4.322 m), Ludwigshöhe (4.342 m), Punta Parrot (4.436 m), Punta Gnifetti (4.554 m). Sembra davvero una collezione di figurine vista la facilità nel percorrerle, ma per fortuna dalla Punta Zumstein (4.563 m) alla Grenzgipfel (4.618 m) e Punta Dufour (4.634 m) cambia il terreno, che diventa più tecnico e, dovendo batter traccia, la motivazione risale. L’ultima cima di giornata è la Nordend (4.612 m) che dobbiamo salire dal pendio Nord-Ovest perché i crepacci sulla via normale sono troppo aperti e alcune Guide ci hanno detto che son tornate indietro. Ora non ci resta che goderci un’altra sciata, almeno fin dove si riesce.

3 giugno / Inizia davvero a fare caldo, ieri siamo saliti in bivacco, oggi alle tre di mattina siamo già in marcia verso il Weisshorn (4.506 m), uno dei quattromila più classici ed estetici delle Alpi.  Di notte non c’è più rigelo, lo zero termico è sopra i 4.000 metri
e dobbiamo muoverci senza sci, si fa una gran fatica. Serve solo pazienza, di certo non si può pensare di essere veloci, ma allo stesso tempo anticipare le ore di sole, muovendosi di notte, è l’unica opzione. Basta dire che alle otto di mattina, tornando verso valle,
la neve è già marcia e a quote intorno ai 4.000 si sprofonda fino
al bacino. Il pomeriggio siamo dall’altra parte del versante e con
la funivia arriviamo alla stazione intermedia del Piccolo Cervino
per dormire e dirigerci il giorno dopo verso la Gran Becca.

4 giugno / La notte ha piovigginato e il cielo nuvoloso non ha indurito la neve, un calvario fino al rifugio Hörnli. Si sprofonda su una crosta che, a forza di battermi negli stinchi, fa male. Il rifugio è ancora chiuso, allora entriamo nel locale invernale dove io cerco di riprendermi un attimo, oggi sto davvero male. Per fortuna la cresta dell’Hörnli è ben pulita e in poco raggiungiamo la cima del Cervino (4.478 m). Il nostro progetto inizia a prendere forma, da qui riusciamo a identificare gran parte delle cime salite, dal Monte Rosa, alle vette sopra Zermatt, il Combin, la Dent d’Heréns, il Weisshorn, lo Zinalrothorn e l’Obergabelhorn, dove tenteremo di salire domani mattina.

5 giugno / Rinunciamo all’ Obergabelhorn per condizioni davvero troppo pericolose:
sempre più caldo e ancora troppa neve. Più lontano si vede il Monte Bianco, là ci sono le gite che mi hanno dato la motivazione in tutto il nostro viaggio e presto sarà il loro momento.

17 giugno / Riprendiamo il viaggio lasciando Werby a Fiesch e prendendo il trenino rosso, che in cinque ore tra attesa e viaggio
ci porta allo Jungfraujoch. Centosettanta euro a testa di biglietto:
a questo giro le cime da salire hanno un sapore più costoso. Si passa da Grindelwald. Saranno le nostre ultime cime con gli sci d’alpi- nismo, una volta scesi dal trenino si sale prima la Jungfrau (4.158 m) e poi il Mönch (4.105 m). Se gli altri giorni, tolte le due giornate al Monte Rosa e quella a Zermatt, dovevamo tracciare e non abbiamo incontrato nessuno, qui di gente ce n’è anche troppa.

18 giugno / A mezzanotte suona la sveglia, la luna è quasi piena, tutto stellato, il top. Dal rifugio Mönch mettiamo gli sci verso valle
e su questi immensi ghiacciai per ben 10 minuti non facciamo nemmeno mezza curva; ci lasciamo trasportare dai nostri sci su lievi pendenze, solo il rumore delle solette che sfregano sulla neve dura e i giochi di ombre che la luna crea, non un filo di vento. Arrivati all’attacco della prima salita, iniziamo a togliere metri positivi a una giornata abbastanza lunga: prima il Gross Grünhorn (4.044 m), Hinter Fiescherhorn (4.025 m), Gross Fieschhorn (4.049 m) e infine l’ultima lunga salita al Finsteraarhorn (4.274 m), altra cima bellis- sima. Non ci resta che andare verso il Concordia, altri 200 metri di salita fino al colle e poi più di 100 metri di dislivello su scale di ferro per raggiungere il rifugio, il calvario finale.

19 giugno / La nostra ultima cima con gli sci cerchiamo di godercela al meglio, è l’Aletschhorn (4.195 m). Gita bellissima e rientro fino
a Fiesch veramente lungo. Sopra il paese prendiamo la funivia che
ci riporta in valle. Se sulle Alpi esiste un paradiso dello scialpinismo, è proprio qui, nell’Oberland Bernese!

23 giugno / Messi gli sci in cantina, siamo finalmente al Monte Bianco. Dal rifugio Monzino, per me il più bello che abbia mai visto, saliamo verso Eccles con l’idea di scalare il Pilier d’Angle e l’Aguille Blanche. Le condizioni sono le solite, si sprofonda, fa caldo anche se, come dice qualcuno in montagna, di caldo non è mai morto nessuno. Il nostro caldo è riferito solo alle condizioni ottimali per muoversi in alta montagna, quindi bisogna variare il programma. Passare sotto il pilone è da follli. Anticipiamo parte della gita del giorno seguente e saliamo al Col Émile Rey per poi salire il Monte Brouillard (4.068 m) e Punta Baretti (4.006 m).

Torniamo infine al bivacco Eccles dove passeremo il resto della giornata a dormire, mangiare e bere, cercando di immagazzinare più energie possibili in previsione dei tre giorni successivi.

24 giugno / Direzione Monte Bianco, la cima più alta del nostro viaggio, e per arrivarci facciamo la cresta del Brouillard passando dal Picco Luigi Amedeo (4.470 m), poi Mont Blanc de Courmayeur (4.765 m) e vetta (4.807 m). Sembra di essere sulle strade dello Stelvio nella stagione di punta, dove di ciclisti ne salgono veramente tanti; uguale, una processione che una volta giunti al Dôme du Goûter (4.306 m) abbandoniamo per dirigerci verso l’Aiguille de Bionnassay (4.052 m). Da qui scendiamo dal rifugio Gonella, verso il Miage.

25 giugno / Siamo sulla cresta più arrampicatoria dei quattromila delle Alpi, l’Arête du Diable: giornata super, granito eccellente, voglia di scalare a bomba e senza accorgercene saliamo in successione Corne du Diable (4.064 m), Pointe Chaubert (4.074 m), Pointe Médiane (4.097 m), Pointe Carmen (4.109 m), L’isolée (4.114 m) e Mont Blanc du Tacul (4.248 m). Qui lasciamo gli zaini e, un po’ veloci, sicuramente più leggeri, procediamo verso il Mont Maudit (4.468 m). Rientriamo poi al rifugio Torino, dove eravamo già saliti il pomeriggio prima con la funivia Skyway.

26 giugno / Ultimo giornatone in compagnia di Silvestro, prima della pausa per impegni lavorativi. A mezzanotte suona la sveglia e, dopo una colazione doc al rifugio Torino, ci dirigiamo verso la prima cima di giornata: Dente del Gigante (4.014 m), proseguendo poi per l’Aiguille de Rochefort (4.001 m) e Dôme de Rochefort (4.015 m). Alle prime luci dell’alba siamo in zona bivacco Canzio, dove saliamo punta Young, poi verso la Punta Margherita (4.065 m), Punta Elena (4.045 m), Punta Croz (4.110 m), Punta Whymper (4.184 m) e per finire la Punta Walker (4.208 m). La discesa è un calvario, eppure non sono ancora le dieci di mattina: neve granita, si sfonda fino al bacino. È impensabile riuscire a sfruttare le giornate a pieno e una volta arrivati in Val Ferret ci fermiamo
e decidiamo che le prossime cime per ora rimangono lì. Consapevoli
di averci provato e di aver imparato tanto, portandoci a casa una bella amicizia ed emozioni che rimarranno per sempre.

©Silvestro Franchini/Gabriele Carrara

Postfazione / Due ragazzi e un furgone

Siete passati dal vento gelido della Barre des Écrins al caldo torrido del Monte Rosa; dalla polvere della Dent Blanche alle creste in condizioni perfette dell’Arête du Diable; dalla selvaggia cresta delle Brouillard al sovraffollamento della cima del Monte Bianco; dalla neve alla roccia, dalle creste ai sentieri, in una primavera strana con le condizioni che vi dicevano di non partire, ma il vostro spirito vi ha spinto a provarci. Vi siete avventurati in luoghi in cui non eravate mai stati, là dove si sono scritte le pagine storiche dell’alpinismo di ricerca. Alla fine ne è nata una bella amicizia oltre che la conoscenza di tutto questo territorio (l’arco alpino e i suoi quattromila) che tanto ci ha dato e tanto continua a toglierci. Avete percorso il tragitto a bordo di Werby, il nostro compagno di avventure: un furgone Volkswagen targato alfa whisky ormai più che maggiorenne, che vanta oltre 300.000 chilometri in giro per l’Italia, dalle Alpi alle coste della Sardegna, sempre con lo stesso spirito randagio. Sono stati 46 giorni di azione e allo stesso tempo di attesa, immersi nella natura più selvaggia delle Alpi, lontani dal turismo dell’alta stagione, lontani dalle comodità che la società ci propone.

Le tappe si sono rivelate più difficili del previsto; il vostro obiettivo non è mai stato un record, ma prendervi il giusto tempo per legare come persone e vivere i momenti con le loro emozioni. Il dover spesso battere traccia, l’aver incontrato poche persone,
il periodo primaverile vi hanno fatto un grosso regalo, quello di potervi sentire parte di questo ambiente misterioso, dove il vento che accarezza le creste sembra narrare le storie di chi prima di voi ha percorso lo stesso tragitto alla ricerca di se stesso. È stato un viaggio all’insegna dell’avventura e della ricerca, legati alla natura
e ai suoi ritmi, alle sue scelte e opportunità. Vi siete fatti ispirare da chi in passato ha avuto il coraggio di avventurarsi in questi luoghi, da chi ha saputo coltivare e condividere le idee e le emozioni di un viaggio così. Avete passato otto notti in rifugio, sette in bivacco e le restanti con il vostro terzo compagno di viaggio, Werby. Si potrebbe anche definirla un’avventura dall’alba al tramonto, sicuramente non facile da gestire.

Ricordo una notte. Eravate ormai alla fine del viaggio, la montagna aveva deciso così. Erano le 4,15 del mattino e vi vedevo dalla finestra della mia camera del Rifugio Torino. Alle prime luci dell’alba si scorgeva la sagoma del Dente del Gigante e le lucine, in prossimità del DÔme du Rochefort, muoversi a fil di cielo in direzione delle Grandes Jorasses. Un altro giorno, esattamente il quarto dalla vostra partenza, tu Gabriele eri felice di essere partito e anche Werby sembrava esserlo. Arrivati in Valgrisenche il clacson ha iniziato a suonare all’impaz- zata. Ricordo ancora la tua voce quando mi hai chiamato per dirmi che avevi tagliato i fili perché non smetteva di suonare. Non ne voleva sapere di tacere. Era un po’ come tu in quel momento: felice di essere in viaggio, alla ricerca di nuove emozioni, alla ricerca della tranquillità. È stato magico condividere tutto questo con voi, passando le notti insonni leggendo i pochi messaggi che mi mandavate. È stato emozionante farmi vivere la vostra avventura. Non sarei mai stato
in grado, ma amo questi luoghi e li osservo tutti i giorni con tanta passione e stupore.

Sono sicuro che i tempi non ve li ricorderete e tanto meno il numero di birrette bevute – troppe per contarle – ma sono certo che rammenterete per sempre chi si mangiava il panino più grande una volta rientrati dalla gita. Come quel giorno che siete arrivati al rifugio Couvercle dopo aver attraversato le Droites, l’Aiguille du Jardin, Grande Rocheuse e Aiguille Verte in giornata, passando dagli sci per tracciare la via nelle neve fresca, agli scarponi per percorrere le creste. Il rifugista vi ha riempito di orgoglio con quella frase c’est pas possible, incredulo della vostra prestazione. È forse da qui, fratello, che è iniziato il tuo vero viaggio alla conquista di quella pace e serenità che sembrava tanto difficile da raggiungere ma che con la tua determinazione sei riuscito a guadagnare. Era il tuo momento e hai saputo sfruttarlo; l’impossibile stava diventando possibile.

Nessuno vi ha obbligato a partire, nessuno vi ha detto di fare questo giro. Avete dimostrato che quello che conta sono i sacrifici fatti negli anni e di averli fatti divertendovi, senza mai perdere la passione per questi luoghi. Forse è questa la cosa che più di tutto vi ha unito. La vostra passione si legge negli occhi e nelle parole, in un periodo in cui i tempi e le prestazioni da record sembrano essere l’unica cosa importante. Siete stati due montanari romantici. Perché se i record sono fatti per essere battuti, le emozioni sono per sempre. Ho amato il vostro stile leggero e veloce. Ho ammirato il vostro incedere oltre la soglia di questi ambienti misteriosi e fragili, cercando di lasciarli incontaminati e senza traccia. Ormai si trovano bivacchi in condizioni vergognose, gente irrispettosa dell’ambiente che li ospita, così maestoso ma allo stesso tempo fragile. Ognuno di noi, nel proprio piccolo, può fare qualcosa ed essere di grande aiuto nella salvaguardia di questi fantastici luoghi. Grazie Silvi per aver condiviso con il mio gemello questo viaggio. Grazie gemello per aver condiviso con me queste emozioni che rimarranno per sempre. Queste non ce le batte nessuno.

Francesco Carrara

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 126

©Silvestro Franchini/Gabriele Carrara

Tor in gamba, 9 atleti amputati sulle alte vie 1 e 2 della Valle d’Aosta

Il singolo non conta, i valori da condividere sono altri. Perché percorrere i 342 chilometri e 24.000 metri di dislivello positivo che uniscono Courmayeur attraverso l’Alta Via n. 1 e n. 2 della Valle d’Aosta sarà un viaggio. Ecco la sostanza di Tor in Gamba, al via il 12 settembre prossimo da Courmayeur, percorso da nove atleti amputati che non saranno mai soli. Accanto a ognuno di loro, atleti disabili, ci saranno un accompagnatore personale e una serie di compagni. Il progetto è nato grazie alla collaborazione tra Team3Gambe, Gamba in spalla e un gruppo di amici.

La partenza di Tor in Gamba avverrà da Courmayeur alle 10 di sabato 12 settembre. I nove endurance trailer e i loro accompagnatori avranno tempo fino alle 16 di sabato 19 settembre per completare le 30 tappe del programma della staffetta. Le trenta tappe del Tor ripercorrono il tracciato già utilizzato al Tor des Géants. Si partirà da Courmayeur – Piazza Brocherel – alle 9 del mattino di sabato 12 settembre e la prima frazione assicura già 1.411 metri di dislivello positivi e 578 negativi nei 12 chilometri di sviluppo. La tappa regina di Tor in Gamba è la numero 8. Il menu prevede 1.624 metri di dislivello positivo e 1.697 negativi per coprire la distanza di 24,5 chilometri che separano Eaux Rousse, nella Valsavarenche, da Cogne.

«Abbiamo studiato le tappe – dice Sergio Enrico, disegnatore del percorso – a misura dei nove atleti amputati che saranno al via. Ma non basta. Ognuno di loro presenta caratteristiche fisiche differenti a seconda dei diversi handicap fisici. L’idea della staffetta nasce dal rispetto delle capacità di ogni atleta che sarà impegnato nell’evento. Alcuni di loro percorreranno tratti più lunghi, altri più brevi, alcuni cammineranno in salita, altri in discesa. I trailer saranno impegnati giorno e notte coprendo, a turno con cambi di staffetta in luoghi messi a punto dall’organizzazione, quattro tappe nell’arco delle 24 ore. La base vita del Tor sarà a Villeneuve, presso l’Hotel des Roses dove gli atleti troveranno massaggiatori pronti a prendersi cura dei propri muscoli, pasti caldi, docce e camere dove riposarsi.

I nove paratleti al via saranno Andrea Lanfri, Cesare Galli, Francis Desandrè, Lino Cianciotto, Massimo Cavenago, Massimo Coda, Salvatore Cutaia, Loris Miloni e Moreno Pesce.

 


Il 20 settembre c'è il Trail degli Eroi

Si avvia al termine l’estate senza gare del trail running. Sono stati pochissimi gli eventi andati in scena, sostituiti da FKT e record personali. A fine mese però quella che è diventata ormai una delle classiche del panorama italiano andrà regolarmente in scena: il Tecnica Trail degli Eroi, che festeggia proprio quest’anno la sua decima edizione. Si corre lungo i principali crinali del Massiccio del Grappa, ricalcando dove possibile i tratti di trincea teatro della Prima Guerra Mondiale e l'Alta Via degli Eroi. Il nome della manifestazione è un omaggio ai protagonisti della Grande Guerra, per una manifestazione che propone un connubio unico e autentico di sport e storia, compreso il suggestivo passaggio presso il Sacrario di Cima Grappa, dove riposano le spoglie di oltre 20.000 soldati caduti su queste montagne. Per il decennale hanno già dato la loro adesione a una delle tre gare in programma gli uomini che hanno formato il podio della prima edizione: il vincitore Mirco Righele, il secondo Fabio Caverzan e il nostro collaboratore Nicola Giovannelli, terzo classificato. Tra i top ci saranno anche Riccardo BorgialliStefano Rinaldi e Riccardo Montani.

L’appuntamento è domenica 20 settembre a Seren del Grappa, in provincia di Belluno, su tre diversi percorsi e distanze:

- Tecnica Trail degli Eroi: 48 km di distanza con 2910 m di dislivello positivo

- Tecnica Sky degli Eroi: 23 km di distanza con 1800 m di dislivello positivo

- Tecnica Ultra degli Eroi: 60 km di distanza con 4110 m di dislivello positivo

Nel pacco gara ci sarà uno scaldacollo molto particolare che, ripiegato in almeno 4 strati, questo fornisce una protezione con efficienza di filtrazione (BFE) elevata, pari al 90% (il valore per essere nella categoria medicale è 95). Indossato come una mascherina gli strati diventano 12, fornendo un grado di efficienza ancora maggiore.

Tecnica sarà presente durante la manifestazione per presentare e far testare ai trail runner presenti Origin, la prima scarpa da trail running con tecnologia C.A.S custom adaptive shape, che consente di personalizzare la calzata in negozio in soli 15 minuti.


Mare Amaro

«Sono cresciuto con la scuola, il calcio e il mare, volgendo lo sguardo all’orizzonte, verso Est, verso il mare. Alla montagna ho sempre dato le spalle e per me non era nient’altro che parte del landmark del mio territorio. Quando avevo 12 anni, dopo una settimana verde a San Martino di Castrozza, la mia vita è cambiata. Rientrati a casa, io e mio padre abbiamo iniziato a raccogliere informazioni sulla nostra montagna, abbiamo scoperto che sulla Majella ci sono oltre 700 chilometri di sentieri e iniziato a frequentarla. Sì, nostra. Da quel momento l’abbiamo chiamata così, con gelosia e orgoglio, quando ne parlavamo con i forestieri. Il mio sguardo non era più rivolto a Est, ma a Ovest, verso la mia montagna». Non ricordo esattamente quando ho pensato per la prima volta a Mare Amaro, ma la prima idea mi è venuta nel 2017, quando vivevo all’estero, in Nuova Zelanda, e mi mancavano la mia terra, la mia famiglia e la mia Majella. Una volta tornato in Italia avrei voluto fare una lunga corsa dal mare alla montagna per promuovere il nostro territorio, dimostrando che l’Abruzzo è davvero una regione dove in un giorno puoi passare dal mare alla montagna.

Ho iniziato a correre nel 2011. A Roma, negli anni dell’università, mi ero allontanato dal calcio e da ogni sport. Poi ho preso troppi chili e per perdere peso ho scelto lo sport più facile da praticare e che fino ad allora avevo sempre odiato perché troppo faticoso, il running. A 21 anni la mia vita è cambiata, per sempre. Mi sono subito fatto prendere, ho iniziato a gareggiare sui 10 e i 15 chilometri e in poco tempo ecco la prima maratona. Pestare terra e roccia mi è venuto subito più facile che macinare chilometri sull’asfalto. E così ho iniziato a correre nei trail, collezionando partecipazioni
ad alcune della gare più belle e prestigiose, sia in Italia che all’estero, e allungando la distanza fino all’ultra-trail.

Marzo 2018, Atessa. Il mio paese si trova nel territorio Sangro Aventino, esattamente fra la Costa dei Trabocchi e la catena montuosa della Majella. Mentre parlo con mio padre della mia idea, mi interrompe bruscamente: «Dal Monte Amaro dovrai pur poi scendere da qualche parte». E così il progetto ha preso forma e ho deciso che avrei corso dalla costa al Monte Amaro e sarei ritornato al punto di partenza. Mare Amaro - L’Abruzzo in un Giorno una corsa in solitaria di 120 chilometri con 3.000 metri di dislivello positivo, da Fossacesia Marina fino alla seconda cima degli Appennini e ritorno lungo lo stesso percorso. Novanta chilometri di corsa su strada e 30 di skyrunning. La sfida? Chiudere il giro dall’alba al tramonto. In autunno ho iniziato a cercare gli sponsor e ho messo in calendario il mio sogno per il 4 agosto 2019. Il tempo è volato, era tutto pronto quando, poche settimane prima del via, è stato chiuso il sentiero H1. È quello che avrei dovuto seguire da Fara San Martino al Monte Amaro ma, a causa di una frana nelle famose Gole di Fara San Martino, sono stato costretto a cambiare percorso. La scelta più comoda era il sentiero H5 che fino ad allora non avevo mai percorso. Durante un sopralluogo mi sono accorto che era poco frequentato, con passaggi tecnici su alcune delle creste più belle e panoramiche dell’intero massiccio.

4 agosto 2019, Atessa. La sveglia suona alle tre, ho riposato davvero poco per l’eccitazione. Faccio un’abbondante colazione e alle quattro sono già a Fossacesia Marina dove trovo ad attendermi i miei familiari e molti amici che mi accompagneranno durante tutto il viaggio. Mi preparo lentamente, cercando la giusta concentrazione prima di partire alle cinque in punto. Stringo i lacci delle scarpe, recito le preghiere, preparo
il GPS ed ecco che parte il conto alla rovescia con il cielo all’orizzonte che si colora di giorno pur essendo ancora notte. 5,4,3,2,1 via! In un attimo mi ritrovo dal clamore al silenzio della notte che volge all’alba, solo con i miei angeli custodi: Grazia, la mia fidanzata che mi seguirà in auto per tutto il tempo con Natascia e Antonio, due cari amici. Devo fare 45 chilometri fino a Fara San Martino, la zona cambio prima della salita a Monte Amaro. Provo a smorzare l’emozione con qualche scambio di parole con Antonio, che pedala al mio fianco con la sua bici, cercando comunque di restare concentrato e seguendo il mio ritmo senza esagerare. Attraversata la Lecceta di Torino di Sangro sono sul lungo rettilineo che dal mare sale lungo la Valle Sangrina e dopo 22 chilometri passo a Piazzano di Atessa, davanti casa. È ancora molto presto, dormono tutti, ma non qualche curioso che, sapendo della mia avventura, non ha perso l’occasione per venire a salutarmi. Una di loro è nonna Maria, che trovo a bordo strada con gli occhi pieni di lacrime dall’emozione ad urlare Forza Alex. Forza Nonna, che carica che mi hai dato. Le do un bacio e proseguo. Continuo la mia marcia solitaria e, man mano che passano le ore, sulle strade trovo sempre più persone pronte a battermi le mani al mio passaggio, ma il bello deve ancora arrivare. Intanto sui miei account Facebook e Instagram ci sono le dirette, seguite dai tanti amici lontani.

© Mirko Picco

Vedo lentamente la Majella che diventa sempre più grande davanti ai miei occhi, mi avvicino alla zona cambio e passo dopo passo crescono le emozioni. Intorno al chilometro 27 vivo una breve ma intensa crisi di stanchezza alle gambe, ma per fortuna passa velocemente. Dopo 3 ore e 45 minuti arrivo a Fara San Martino dove trovo tanti amici, parenti e il sindaco Carlo de Vitis ad accogliermi. Grazia ha preparato la zona cambio al meglio. Mi rifocillo come posso, cercando di caricarmi di energie e mi cambio per la frazione di skyrunning. Dopo dieci minuti di sosta arriva la salita: da 440 metri di quota ai 2.793 del Monte Amaro in 15 chilometri. Mi accompagna Lorenzo, amico e atleta molto forte che curerà le riprese video live durante questo tratto. In un paio di chilometri sono già davanti alla dura salita che mi porterà su a Cima Tarì: questi primi cinque chilometri sono un vero e proprio vertical, con mille metri secchi di dislivello. Scolliniamo con un ottimo tempo e con il sole che nel frattempo inizia a bruciare sulle spalle, ma per fortuna stiamo guadagnando quota e la temperatura è ancora buona.

A Cima Tarì trovo Gianni a fare il ristoro, il primo dei tanti lungo il sentiero. Mentre io partivo dal mare alle prime luci dell’alba, in montagna c’era un gruppo con più di 30 persone che saliva lungo il mio tracciato per prepararsi a farmi assistenza durante la prova. Da qui inizia la parte più bella e panoramica del sentiero, le creste. Ripartiamo ed ecco che dopo poco sento il suono del drone sulla mia testa, alzo lo sguardo e davanti a me, a qualche centinaio di metri, vedo mio padre che urla fra i suoni dei campanacci. In testa mi ronzano le sue parole: Alex, gestisci bene, mi raccomando.
In fondo, fra la nebbia, vedo la cima di Monte Amaro riconoscibile da quel puntino rosso che significa Bivacco Pelino, il simbolo della cima. Mi sento davvero bene, tanto che Lorenzo m’invita a rallentare perché abbondantemente in anticipo sulla tabella di marcia. L’obiettivo era arrivare in cima intorno all’una, ma fra le urla delle decine di persone sul tetto del bivacco e l’entusiasmo di essere arrivato fin lì, alle 12.08 abbraccio la croce di vetta. Sono arrivato qui in 7h08’14’’, ho corso questa prima frazione davvero molto bene e veloce. Pensare che un’escursionista impiega anche nove ore per il solo tratto da Fara San Martino a Monte Amaro.

Mi fermo qualche minuto per mangiare un panino, mi godo il momento, ritrovo la giusta concentrazione e faccio stretching, visti i crampi agli adduttori che sono arrivati negli ultimi chilometri. Riparto con la consapevolezza che sono solo a metà dell’opera e che la parte più dura deve ancora arrivare, insieme alla stanchezza che ben presto inizierà a farsi sentire. Su queste aride pietraie voglio concentrarmi al massimo per vedere dove metto i piedi: una storta o una caduta in discesa potrebbero rovinare tutto, ma comunque scendo bene e forte. La nebbia fitta ci mette lo zampino, ma per fortuna sul mio Garmin ho la traccia e ben presto mi ritrovo a correre con un occhio a terra e uno sull’orologio per evitare di uscire fuori rotta, da solo perché Lorenzo ha un problema alle ginocchia. Dopo un’ora di discesa sono già da mio padre sulle creste e realizzo che da lì con lo stesso ritmo potrei essere a Fara San Martino entro un’ora. Inizia la parte più tecnica della discesa che equivale a quella che all’andata era stata la più faticosa, faccio molta attenzione a dove metto i piedi e a scivolare il meno possibile. Sono ormai a qualche centinaio di metri dal paese, è quasi andata, però inizio a sentire la stanchezza nelle gambe e il grande caldo fa salire la temperatura della pelle. Al cambio di Fara San Martino sono in tantissimi ad attendermi, ma i forti dolori alle gambe e la nausea rovinano il momento.

© Mirko Picco

Sono passate da poco le due e ho quasi due ore di anticipo rispetto alla tabella di marcia. Faccio lunghi respiri con la speranza che lo stomaco torni ad aver voglia di cibo, ma niente. Riparto con tanti liquidi in corpo, ma purtroppo senza aver mangiato. Non ci voleva! So che quest’ultima parte di 45 chilometri fino al mare sarà la più sofferta: sono stanco, fa caldo e non ho mai corso 90 chilometri sull’asfalto in un solo giorno. Però è qui che iniziano i ricordi più belli, i momenti più sofferti ed emozionanti. Riprendo la mia marcia e intanto per strada incontro tante persone, a ogni angolo c’è sempre qualcuno a battere le mani e a urlare il mio nome. Cerco di ringraziare e sorridere a tutti perché tutto questo non lo do per scontato, soprattutto in una domenica di agosto. Però la stanchezza e il senso di nausea aumentano, il ritmo è rallentato e non è sicuramente come quello dell’andata. Fa molto caldo e bevo continuamente. Arrivo a Piane d’Archi e sul rettilineo in fondo a me vedo una nuvola di persone per strada. Inizialmente penso che sia successo qualcosa ma, man mano che questa immagine diventa grande davanti ai miei occhi, realizzo che tutte quelle persone aspettano me. Che emozione e che carica. Dopo una ventina di minuti eccomi ancora davanti casa: ad attendermi un’altra folla di gente con tutti e quattro i miei nonni a braccia aperte. Purtroppo lo stomaco è ancora sottosopra, provo a vomitare ma ho solo aria, la nausea aumenta e le gambe sono ormai distrutte.

Mancano 22 km e quando mi accascio a terra, l’asfalto è bollente. Toccando la suola delle scarpe ho come l’impressione che si stia sciogliendo il battistrada delle mie
New Balance. Faccio avvicinare Grazia con l’auto, le do la mano mentre corro e mentre la guardo sfinito lei mi dice: mi raccomando, non puoi mollare adesso, pensa a quanto hai sognato tutto questo. Stringo i denti e lentamente sulle strade vedo aumentare le persone, le bici al mio fianco con amici e sconosciuti si moltiplicano così come la fila di auto che diventa sempre più lunga. Il traffico è ormai bloccato dal mio passaggio. Mancano solo quattro chilometri, sono finalmente nella Lecceta di Torino di Sangro e fra gli alberi vedo il mare; ci sono tanti amici a bordo strada che iniziano a correre insieme a me fino al traguardo. Quando manca un chilometro vedo Grazia ad aspettarmi insieme a tanti runner. È un momento di grande emozione. Sto realizzando il mio sogno. Percorro l’ultimo chilometro fra urla, clacson e applausi. Vorrei fermare il tempo in questo istante. Davanti a me, in fondo alla strada, c’è l’arco d’arrivo che vedo a malapena, coperto da tutta la gente che è lì ad aspettarmi. Percorro gli ultimi metri fra due ali di folla con centinaia di persone a gioire insieme a me. Ce l’ho fatta. Ho realizzato il mio sogno in 13 ore e 55 minuti, correndo fra le bellezze di una regione unica e inimitabile, dimostrando che in Abruzzo puoi fare mare-montagna-mare in un solo giorno.

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© Mirko Picco

De Gasperi e Gerardi stabiliscono i nuovi FKT sul Sentiero Roma

Nuovo FKT sul Sentiero Roma per Marco De Gasperi e Hillary Gerardi del team Scarpa. L’itinerario in quota (54 km 4.500 m D+) collega la Valchiavenna alla Valmalenco e, nel tratto intermedio della Val Masino, ripercorre a ritroso quello del Trofeo KIMA. De Gasperi ha migliorato il precedente primato siglato meno di un mese fa dallo skyrunner di casa Valentino Speziali (8h’42’32”), quello stabilito dall’americana risulta essere a tutti gli effetti il primo riscontro cronometrico di riferimento al femminile.

Marco De Gasperi ha fermato il crono a 7h53’41” Hillary Gerardi a 10h06'41". L’itinerario con partenza da Novate Mezzola e arrivo a Torre Santa Maria viene abitualmente percorso dai trekker in tre giorni e si superano otto passi alpini sopra i 2.500 metri.

«Come scrivevo un mese fa, il Sentiero Roma (da Novate Mezzola a Torre di Santa Maria, in provincia di Sondrio) non è una semplice gita in montagna che può passare inosservata - da scritto in un post su Facebook De Gasperi -. Chi camminando o correndo ne percorre i passi che si affacciano su vallate incredibili non può che rimanere ammaliato da queste montagne! L’amicizia che mi lega a Valentino, il detentore del precedente FKT su questo tracciato, mi rendeva dubbioso se provare a fare questo tentativo o meno. Invece il suo sostegno oggi è stato come sempre disinteressato ed encomiabile, come quello di tanti cari amici che hanno assistito sul percorso sia Hillary Gerardi che il sottoscritto. Grazie Vale, lo skyrunning unisce sempre!».

Hillary Gerardi ©Maurizio Torri

Franco Collé vince lo SwissPeaks Trail

«Non saprei dire se è più dura del Tor des Géants, da valdostano sono ovviamente di parte. Quello che so è che la SwissPeaks davvero tosta e alpinistica. La consiglio a chi ama percorsi di questo tipo. Anche qui le montagne non vengono aggirate, ma scalate una ad una. In certi tratti ci siamo trovati anche 20 centimetri di neve fresca». Sono queste le prime parole di Franco Collé al traguardo dello Swisspeaks Trail 360, la gara di 314 km e 22.500 m D+ partita alla mezzanotte del primo settembre da OberWalp, nel Vallese.
Il valdostano del team Hoka One One, testatore della nostra Outdoor Guide, è arrivato primo ex aequo con lo svizzero Jonas Russi fermando il crono in 62h43’ in quella che era una delle gare più attese di questa stagione povera di traguardi, perché consentiva di confrontarsi sulla ‘distanza Tor’. L'ideatore  dell’evento, Julien Voeffray, un decimo e un quindicesimo posto al Tor des Géants, ha riproposto nel proprio paese una competizione simile con molti passaggi a quota 3.000, diversi dei quali tecnici in luoghi selvaggi… una vera e propria avventura. Qualche novità anche per lo SwissPeaks Trail nel 2020, che quest’anno, causa Covid, è andata in scena su una distanza minore. Nonostante la riduzione chilometrica a rimescolare le carte in tavola è stato il meteo che ha messo i concorrenti di fronte a pioggia battente e neve. C’è ancora Italia sul terzo gradino del podio, con Andrea Mattiato, che ha tagliato il traguardo con poco meno di otto ore di ritardo dai due battistrada.


Il cammino sostenibile

Ho sempre amato la montagna e, in qualche modo, mi sono sempre illusa che la montagna amasse me. Una storia di amore romantico e condiviso, fatta di lunghi trekking in solitaria, di nottate in tenda con gli amici, di pensieri all’alba sussurrati dal caldo dei nostri sacchi a pelo. Il rapporto tra amanti dell’outdoor e natura vuole essere stretto, noi amanti del sentiero pensiamo di essere nel nostro habitat naturale quando attraversiamo le montagne, ma negli ultimi mesi ho iniziato a pensare che forse non è del tutto così.

Qual è l’impatto del turismo outdoor sull’ambiente?

Da questa domanda, alla quale non so dare una risposta esauriente, è nata l’idea del Cammino Sostenibile: è possibile fare un trekking di più giorni mantenendo un impatto ambientale molto basso? Per questo esperimento ho scelto un itinerario battuto, sulle Dolomiti: l’Altavia 4. Abbastanza frequentato per essere un buon test, abbastanza turistico per poter apprezzare in pieno la bellezza del trekking. Prima di partire ho pensato a tre punti chiave per lasciare meno tracce possibili: abbigliamento e attrezzatura, alimentazione e pernottamento, sostenibilità turistica. Noi trekker ci fregiamo di attrezzature molto tecnologiche, in materiali super performanti, ma mi sono chiesta quali potessero essere le buone norme per scegliere abbigliamento e attrezzatura con il minor impatto ambientale. Ho fissato tre regole, che mi sono parse di grande buon senso: innanzitutto usare ciò che si ha. Guardare nell’armadio e riutilizzare l’abbigliamento che già possediamo è la prima regola, fondamentale per diminuire l’impatto ambientale. E se ne trascina dietro una seconda: acquistare prodotti resistenti e di grande qualità, che possano essere utilizzati per molti anni. Questo significa evitare l’effetto usa e getta dato dalla grande disponibilità di abbigliamento low cost di oggi. Meglio pochi capi, ma flessibili, durevoli e validi. In terzo luogo scegliere marchi che lavorano nella ricerca per materiali sostenibili, ecologici, riciclati o comunque a basso impatto. Ci sono marchi, per esempio, che certificano la produzione e l’eco footprint del prodotto finito, spingendosi fino alla valutazione dell’intero ciclo di vita. Il secondo punto cardine riguarda alimentazione e sostentamento durante il trekking.

© Giuseppe Ghedina

Quali prodotti scegliere?

Il leitmotiv è uno: meno imballaggi. Oggi il packaging è il primo vero nemico dell’ambiente. Acqua in bottiglia, ma anche alimenti precotti, gel e integratori, stoviglie monouso, bibite finiscono spesso nello zaino. Da anni per i prodotti alimentari e di igiene della persona ho una predilezione per una catena di negozi pack-free. Il Negozio Leggero, infatti, fornisce moltissime referenze o sfuse o con imballaggio riutilizzabile. Nello zaino ho messo quindi couscous integrale, riso, sale, uvetta, frutta secca, shampoo solido, saponetta, olio di mandorle, protezione solare, il tutto acquistato a peso e contenuto nei miei soliti contenitori da cucina o, come per i cosmetici liquidi, in confezioni con vuoto a rendere. La seconda regola che mi sono imposta per l’alimentazione era di acquistare pasti e dormire utilizzando i rifugi sul percorso, dove ho presupposto che la regola fosse quella del chilometro zero. Acquistare prodotti freschi lungo il percorso di un trekking è un buon modo per introdurre il terzo punto, quello della sostenibilità turistica. Per progettare una vacanza responsabilmente dal punto di vista eco, sarebbe bene selezionare i luoghi di ricettività anche in base alla proposta offerta. Spesso diamo per scontato che durante una vacanza sportiva e a contatto con la natura anche le nostre attività siano più ecologiche. Invece scegliere un rifugio invece di un altro in base alla proposta che offre è un buon metodo per rendere migliore e più green la vacanza. Il nostro trekking è durato quattro giorni, con partenza da San Candido e arrivo a Cortina. Abbiamo camminato per circa 22 ore totali e pernottato in tre rifugi: il Tre Scarperi, l’Auronzo e il Vandelli. Abbiamo acquistato solo le scarpe e due pile a bassa dispersione di microfibre. In totale abbiamo prodotto i seguenti rifiuti: due vassoi di cartone e due tovaglioli di carta durante il pranzo on the road del primo giorno; due bottiglie di acqua di plastica al rifugio Auronzo, dove l’acqua non era potabile e veniva venduta solo in bottiglie in PET; altrettante bottiglie di plastica al Vandelli per lo stesso motivo; una lattina di tonno e una di bibita trovate al Colle del Diavolo. A questo andranno aggiunti i rifiuti che non abbiamo potuto raccogliere al rifugio Auronzo, dove abbiamo cenato con pietanze visibilmente conservate (e quindi imballate).

In conclusione? Ho voluto tentare questo esperimento perché volevo proporre un modo diverso di vedere il turismo outdoor. Il trekking era un trekking di facile livello, praticabile da tutti e quindi molto frequentato. Forse dovremmo renderci consapevoli di come il nostro amore per l’outdoor può anche non essere del tutto a impatto zero. Amare l’ambiente significa soprattutto mantenerlo più intatto possibile, senza necessariamente fare delle rinunce, ma operando delle scelte consapevoli. La nostra montagna così ci amerà.

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© Giuseppe Ghedina

Pindo, la neve prima dello sci

Tutto comincia con una riga che passa più o meno da Firenze. Un personalissimo parallelo che fa da spartiacque dei nostri interessi. Sopra, le solite Alpi, quelle fatte apposta per lo sci, e poi più su il freddo che aumenta, la neve che non manca, i paesi nordici, la Norvegia, l’Islanda, il mare sì, ma quello che se vuoi tuffarti di testa devi controllare che non sia ghiacciato. Sotto quella riga, il mare, quello vero dello stereotipo estivo, che d’inverno non ci va nessuno, e le montagne che figurati se c’è neve così a Sud. Il nostro gruppo di cavei gris ormai la pensa così: abbandonate, o quasi, per limiti d’età le velleità verticali, la nostra mente si sposta soprattutto in orizzontale. L’adrenalina della forza di gravità, delle punte dei ramponi e delle picche piantate per pochi millimetri, del filo delle lamine, della precarietà, dell’incognita dell’abisso ha lasciato il posto al gusto dell’esplorazione sulla superficie del globo. Unica costante gli sci, con annessi e connessi.

In realtà globo è un parolone esagerato, siamo in fondo estimatori della prossimità. L’algoritmo potrebbe allora essere il seguente: trovare il luogo più vicino dove lo scialpinismo sia una cosa strana, ma non senza senso. Va da sé che quella linea immaginaria è la necessaria base di partenza. Oltre alla linea, nel tempo ci siamo costruiti un rettangolone, in continua espansione e arricchimento, soprattutto nella sua parte orientale. Il lato superiore è quello che da Firenze va verso Ovest fino all’Oceano Atlantico e verso Est più o meno fino ad Armenia e Georgia. Il lato inferiore è per ora tangente all’isola di Creta, il punto più a Sud dove abbiamo sciato, sempre se si parla di luoghi strani e relativamente vicini; escluso per intenderci l’altro emisfero e le mete più esotiche. Ecco, l’esotismo è l’altra parola chiave della nostra attività degli ultimi anni. Ah, per nostra s’intende del gruppo di amici che vedete nelle fotografie in queste pagine, un nucleo storico più qualche aggregato occasionale, come Riccardo, il glaciologo che ogni tanto viene con noi (e che ha scritto per Skialper l’articolo sullo scioglimento del permafrost sul numero 123). Perché è vero che nel rettangolone di ghiacciai ne sono rimasti ben pochi, ma non si sa mai. Esotismo, dicevo, ma dobbiamo intenderci sul significato del termine. Con sign. astratto, in genere, il gusto, la ricerca e l’uso delle cose forestiere, estranee alle tradizioni locali, nelle arti e nella vita; adesione a forme artistiche esotiche, e in partic. orientali. In senso specifico, l’aspira- zione, che ebbe la massima diffusione col romanticismo e col decadentismo, verso i paesi dell’Oriente e del Sud, vagheggiati come paesi più ricchi di sensazioni, e, in minor misura, verso quelli di civiltà ancora primitiva recita il vocabolario Treccani.

© Umberto Isman

Detta in soldoni, oramai l’esotismo di un luogo si misura con la quantità di like generata da un nostro selfie in quel luogo. Come i giapponesi con i piccioni in piazza Duomo a Milano o noi con le scimmie allo stupa di Swayambhunath a Kathmandu. Un esotismo sbandierato e unilaterale, che allo stupore degli uni contrappone la commiserazione degli altri. Non è questo il genere di esotismo che ci interessa, ma quello che semplicemente ci porta a entrare in contatto con luoghi e realtà diversi dai nostri, in punta di piedi, anzi di sci. Perché sta proprio negli sci la vera componente esotica dei nostri viaggi, quella che anche a noi fa scappare qualche selfie, come le foto che vedete in queste pagine. Non cerchiamo scimmie e neanche esportiamo piccioni, ci portiamo semplicemente dietro la nostra esperienza in montagna, che ci permette di frequentare luoghi altrimenti inaccessibili d’inverno. L’esotismo non sta nel fare una cosa strana che per chi vive lì è normale, ma nell’esplorazione tout court, nello scovare quel terreno vergine per gli sci che fuori dal rettangolone, senza andare in capo al mondo, non esiste praticamente più. Il nostro contorno immaginario è anche la linea di orizzonte, il confine di Mister Google, quello oltre al quale nemmeno lui, incredibile, è in grado di scovare informazioni scialpinistiche. Probabilmente perché non ne esistono, perché quelle montagne lì probabilmente vivono una dimensione ancora pre-esplorativa, pre-alpi- nistica, certamente pre-ludica. Perché quella linea immaginaria è anche quella dello stereotipo, che a livello turistico fa per esempio della Grecia il paese del sole, del mare, delle isole, degli dei e quindi dell’Olimpo, l’unica montagna che si conosce perché la si studia a scuola.

I più eruditi forse conoscono anche qualcosa del Taigeto, al centro del secondo dito del Peloponneso, il monte su cui gli spartani abbandonavano i neonati non in perfetta salute. Ma solo i pochi che ci sono stati d’inverno sanno che dalla cima si può sciare per almeno mille metri di dislivello con vista mare. È lo stesso stereotipo delle guide turistiche che fanno della Grecia un’accozzaglia di spiagge segrete, dove tutti bevono ouzo e mangiano tzatziki, e neanche una parola, o quasi, sulle montagne che coprono gran parte del territorio. Guide che, sia chiaro, non disdegniamo, soprattutto per l’infarinatura di storia, sulla quale siamo carenti e smemorati, per le indicazioni sui ristoranti, fondamentali, per le foto cartolina che non puoi non fare anche tu, spesso per le spiagge. Perché vuoi mettere la soddisfazione di salire una cima con gli sci la mattina e fare un tuffo in mare il pomeriggio? Soprattutto perché quelle spiagge in inverno sono deserte. In questo nostro peregrinare la penisola balcanica gioca un ruolo fondamentale e contiene gran parte delle bandierine del rettangolone. Bulgaria, Bosnia- Erzegovina, Montenegro, Grecia sono state teatro delle nostre esplorazioni sci ai piedi (alcune già pubblicate sulle pagine di Skialper). I Balcani ci affascinano, ci interessa la loro orografia tormentata, così come è tormentata la loro storia. Ci piace la realtà delle aree naturali, di quelle rurali, quel loro essere qualche decennio indietro rispetto alle nostre, nel bene e nel male, ma soprattutto nel bene. Balcanizzando Francesco Guccini: un mondo dove è ancora tutto da fare e dove è ancora tutto, o quasi tutto, da sbagliare. Dal punto di vista geografico la penisola balcanica è prevalentemente un’area montuosa, attraversata appunto, tra Serbia e Bulgaria, dalla catena dei Balcani, il cui nome, di origine turca, significa proprio monte. Verso Sud-Ovest numerosi altri gruppi montuosi si estendono in direzione dell’Adriatico e dello Ionio, fino all’estremità Sud del Peloponneso con la dorsale del Taigeto.

© Umberto Isman

La catena del Pindo è una delle principali e si estende dal Sud dell’Albania al Nord del Peloponneso per circa 180 chilometri. Geologicamente è una prosecuzione delle Alpi Dinariche, situate nella parte occidentale della penisola balcanica, e fa da vera e propria spina dorsale della Grecia. È proprio sulla porzione greca del Pindo che cade la nostra scelta dello scorso febbraio. In preda allo sconforto per la totale assenza di neve sul versante italiano delle Alpi, decidiamo ancora una volta di puntare al magico Sud-Est, che per quantità di neve non ci ha mai traditi. È un altro degli stereotipi da sfatare, quello che in Grecia nevichi poco. Non è così, specialmente sul Pindo, che fa da baluardo alle perturbazioni e le trasforma in copiose nevicate. Scegliamo in particolare la regione dell’Epiro, che comprende la Zagoria, il Parco Nazionale delle Gole di Vikos e il Parco Nazionale del Pindo. Raggiungiamo Konitsa, che sarà la nostra base per la prima metà del viaggio. Fa un freddo cane, il vento si infila violento tra i vicoli del paese, mentre sulle vette è bufera. L’atmosfera è strana, certamente dimessa, ma non è chiaro se sia dovuto al fuoristagione o a una crisi generalizzata, probabilmente un misto di entrambi. Molti dei locali sono chiusi e le case dall’aspetto aristocratico mostrano i segni di un passato certamente più florido. Anche la villetta che abbiamo affittato sul web non viene probabilmente abitata d’inverno da decenni. Lo capiamo rimuovendo il finto fuoco a led dal camino e provando ad accenderne uno vero: il fumo in pochi istanti si impadronisce della casa e dei nostri polmoni. In fondo è l’inizio balcanico che ci aspettavamo.

L’ufficio turistico è stranamente aperto ma logicamente deserto. Le due impiegate si girano di scatto quando ci vedono entrare: sei persone in un colpo solo, a febbraio? Ci riempiono di brochure, ci regalano anche quelle a pagamento, ma gli diamo poca soddisfazione: cerchiamo robe di neve e lì ci sono solo prati in fiore, ruscelli e mucche al pascolo. Per gentilezza prendiamo comunque tutto, lanciandoci occhiate d’intesa, come a dire: vi aspettavate i depliant dell’Alta Badia? Certamente no, e allora un piccolo depliant personalizzato proviamo a costruirlo qui, per punti.

Monastero Moni Stomiou

Ci si va a piedi da Konitsa in un’oretta di cammino. D’inverno, nonostante il cartello esposto, non pagherete il biglietto per mancanza di cassiere. Troverete quasi certamente dei lavori in corso in vista dell’estate. Gli operai vi guarderanno strano, ma poi condivideranno con voi le patate lesse più buone del mondo, senza poter colloquiare se non a gesti. Scoprirete che anche i monaci ormai hanno le fognature di plastica arancione.

Ponte di Aoos

Lo si percorre per andare al monastero. Se avete un drone come il nostro, che si chiama Dario (il dronedario), fate attenzione che nella gola una raffica di vento improvvisa potrebbe spararvelo a due chilometri di distanza e riuscire a farlo tornare ha del miracolo. Forse dei monaci.

Papigo e Micro Papigo

Dal nome sembrano luoghi usciti da Topolino. In più li troverete scritti almeno in cinque modi diversi e vi capiterà di girare invano in auto per raggiungerli tutti e cinque. Una volta capito che il luogo è uno solo, finalmente vi gusterete la sua atmosfera, la vista sulle dolomitiche cime del Tymfi, gli enormi platani fuori dalle chiese medievali, le vestigia di un ricco passato che fu. E probabilmente ci dovrete tornare, perché quel giorno la pigrizia si è impadronita di voi e sul Tymfi non ci siete saliti.

Monte Bogdani

Avete letto La strada di Cormac McCarthy? Se la risposta è no, fatelo assolutamente. Oppure andate a Samarina e poi sul Bogdani. Portateci vostro figlio e vi troverete nella stessa atmosfera post-atomica, dove in un paese che una volta era un fiorente snodo commerciale, d’inverno incontrerete solo cani randagi, con meravigliosi cuccioli. E i pendii boscosi saranno così selvaggi e innevati da riportarvi a quello stesso stato primordiale del libro.

Stazione sciistica di Vasilitsa

Andateci se volete farvi un selfie mentre sciate su una pista greca (attenzione che il confine tra pista e fuoripista non è molto chiaro), se non amate la folla, se non vi dà fastidio ripetere la stessa pista, se volete provare ancora una volta il brivido del piattello sotto il sedere. Se però avete intenzione di salire con le pelli, avvisate subito gli addetti agli impianti, perché c’è il rischio che li accendano inutilmente appena vedono arrivare la vostra auto.

Monte Efharistò

Il nome è storpiato di proposito perché non vogliamo togliervi la soddisfazione di scoprirlo da soli, facendo ipotesi di salita e discesa, scovando la strada per arrivarci, inventandovi la traccia in mezzo metro di polvere, sciando tra monumentali pini loricati. Vabbè dai, si chiama Monte Gomara.

Monodendri e gole di Vikos

Non ci si scia, ma le gole sono le più profonde d’Europa e da sole meritano il viaggio. Come tutti i 46 villaggi della Zagoria e i loro ponti, in pietra, abbarbicati sulle montagne, in un territorio ancora selvaggio e difficile da attraversare.

Gente

D’inverno non se ne incontra molta, specialmente fuori dai centri più popolati. Dei luoghi che abbiamo visitato solo Metsovo, dove abbiamo fatto base nella seconda parte del viaggio, mostra segni di vitalità. Molto difficile anche incontrare altri scialpinisti, salvo qualche Guida alpina giramondo. Raccontiamo un episodio. Salendo al Monte Tsoukarela incontriamo, con i loro clienti, Oswald Santin e Hanspeter Eisendle, due mammasantissima dell’alpinismo e dello scialpinismo. Il secondo soprattutto, che personal- mente annovero nella categoria quelli che senza di loro Messner col cavolo che era Messner. Salendo notiamo una sorta di indisciplina, non la nostra che è prover- biale, ma tra le fila dei loro clienti. Probabilmente non succederebbe se fossimo sulle Alpi o su qualunque altro itinerario conosciuto e tracciato, ma qui il terreno è vergine, in tutti i sensi, ancora da esplorare. L’istinto di sperimentare ognuno la propria traccia è più forte di qualunque ordine di scuderia. D’altra parte non ci sono pericoli e un costante guinzaglio visivo lega le Guide ai clienti. Mentre Hanspeter, impassibile, continua per la sua strada: io vado dove l ’acqua va.

Obliquare

Deriva dal latino, ma è il verbo per eccellenza dello scialpinismo greco. È un’esigenza che in discesa si presenta ogni qualvolta sia necessario rientrare sull’itinerario di salita. Viene il più delle volte disattesa, complice l’entusiasmo e la sete di esplorazione. Tanto, male che vada, si ripella.

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© Umberto Isman