Lontano dalle tracce
«Il raid degli amici ha iniziato a fare capolino nella mente di François qualche inverno fa, così un gruppo di persone si riunisce ogni anno per qualche giorno per sciare e scoprire un massiccio. È un’esperienza per uomini, non ci sono ragazze e Layla è l'unica donna a essere accettata perché sa sciare, bere vino e raccontare stronzate o fare battute pesanti come i ragazzi. Ma il raid degli amici non è solo scherzi e vino, si scia molto anche se il biglietto d'ingresso è un magnum di rosso o champagne nello zaino. Qui niente barrette energetiche e bevande vitaminiche, è come una versione hard core della Sentinelle. I protagonisti sono per lo più Guide alpine, cercatori di cristalli, alpinisti, medici del Soccorso alpino. Insomma, il livello atletico e sciistico è alto. Basti pensare che a volte del gruppo ha fatto parte anche Hélias Millerioux…».
Introduce così Bruno Compagnet il raid degli amici in Val Maira e Val Varaita. Qualche giorno lontano dalle code per firmare la powder di Chamonix, lontano dalle responsabilità, tra amici, per riscoprire i valori più autentici dello scialpinismo, quelli che non verranno mai meno. Discese, silenzio, bufere, villaggi popolati da cani e gatti. Nelle 14 pagine con le coinvolgenti foto in bianco e nero di Layla Kerley c’è l’anima dello skialp. E nelle sei pagine a seguire una mini-inchiesta di Federico Ravassard sulla Val Maira, icona di un turismo slow e human powered che si candida a paradigma del turismo alpino del futuro. Appuntamento su Skialper 132 di ottobre-novembre.
Transamericana
Probabilmente per la prima volta Salomon TV abbandona il format del cortometraggio per un film di 75 minuti. Lo fa con uno straordinario tempismo perché il viaggio di corsa e a piedi di Rickey Gates dalla South Carolina alla California, Transamericana, è un pellegrinaggio alla scoperta di un Paese che Rickey si rende conto di non conoscere, soprattutto quel cuore degli States dove è radicato il successo di Donald Trump. E Rickey parte da Folly Beach il primo marzo del 2017, poco dopo quell’elezione, per scoprire non solo i luoghi, ma soprattutto le persone, per capire, per conoscere meglio se stesso.
Il primo tempismo, voluto, è quello di andare alla scoperta degli States più profondi con il più antico mezzo di locomozione dell’uomo, i piedi, nel momento in cui ci si interroga sull’esito delle prossime elezioni. Il secondo, ancora più potente e non voluto, è che Transamericana è tutto quello che ci manca ora: abbracci, dialoghi con sconosciuti o amici, senza timore, senza mascherina, senza diffidenza e distanza. «Sono partito pensando di essere più diverso che simile e sono tornato pensando di essere più simile che diverso» dice Gates. Ecco, in fondo il segreto di Transamericana è proprio questa sfilata di persone, parole, stili di vita che si parano davanti ai passi leggeri di Rickey. Dopo un’ora abbondante quello che ti rimane dentro è proprio il senso del viaggio, della corsa come mezzo, per scoprire, per cambiare, per spurgarci da tutte le schiavitù quotidiane, per essere pienamente presenti in quel momento e in quel luogo. Certo poi ci sono gli straordinari panorami del deserto dello Utah o delle Montagne Rocciose, ma passano quasi inosservati, perché c’è anche tanta pianura tutta uguale o foreste di robinie degli Appalacchi, ma soprattutto perché c’è l’America delle persone prima ancora che dei luoghi.
Le soggettive di Rickey inquadrano volti, case, auto, negozi. Un diario on the road fatto di up & down, di momenti belli e difficili, quando senti di avere dato tutto e il tuo fisico non risponde più, quando per attraversare il deserto ti ingegni prima con un caddie da golf e poi con un passeggino e un ombrellino per trasportare un po’ d’acqua. Quando capisci che non puoi correre di notte e dormire di giorno semplicemente perché fa troppo caldo anche per dormire e trovi la soluzione più equilibrata (no spoiler). Quando devi dormire fuori, hai solo un poncho che serve anche da tenda e nevica. I appreciate è la parola più utilizzata da Rickey, apprezzo. Apprezzo il vostro interesse per me, il vostro aiuto, anche solo spirituale. «Sono le persone più povere quello che sono pronte a darti di più» osserva Gates. Cinque mesi e 3.700 miglia in 75 minuti, da Folly Beach a Ocean Beach a San Francisco, con la delicata curiosità di Gates e la collaudata regia di Wandering Fever. Per trovare la risposta al perché andiamo raminghi con le scarpe da trail. Da vedere.
Skialper 132, alla ricerca dello spirito selvaggio dello scialpinismo
Come sarà l’inverno che verrà? Quanto le limitazioni imposte dalla pandemia incideranno sui nostri comportamenti? Non lo sappiamo, sappiamo però che l’estate appena finita ha visto la montagna in forte crescita e che nella primavera 2020, dove il lockdown è stato meno severo, lo skialp è stato lo sport più trendy. Perché è prima di tutto uno sport di distanziamento, nella natura. E il numero 132 di Skialper di ottobre-novembre va proprio alla scoperta - o alla ri-scoperta - dei valori più belli e profondi dello sci con le pelli. 176 pagine ricche di spunti per un inverno mai atteso come quest’anno.
Su quale nuvola vivevamo per non accorgerci della nostra fortuna?
Il diario dal lockdown in un monolocale di 26 metri quadrati di Maxence Gallot è un invito alla riflessione e a fare tesoro di quelle lunghe settimane per vivere il prossimo inverno con uno spirito nuovo. Abbiamo sempre avuto l’impressione di dominare il mondo, eccoci ora molto meno potenti e molto più insignificanti. Ma potremo vivere la montagna e l’inverno con occhi diversi.
Covid-19, provare a conviverci
È un dato di fatto, con la pandemia bisogna convivere, cercando di adottare le strategie più utili ad evitare il contagio (anche per proteggere le persone più deboli). Ne abbiamo parlato con un personaggio molto conosciuto nel nostro ambiente perché è l’organizzatore del festival Milano Montagna. Però Francesco Bertolini è anche molto competente in materia perché direttore della Divisione di Laboratorio di Ematoncologia all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. Così abbiamo sfruttato la sua esperienza per capire se ci sono dei consigli ad uso skialper.
Lontano dalle tracce
Un gruppo di amici, un gruppo abbastanza eterogeneo, con Guide alpine, cercatori di cristallo, professionisti della montagna. Un appuntamento, ogni anno, per qualche giorno con le pelli ai piedi, per una traversata nella quale condividere i valori più belli dello stare insieme. In valli meno frequentate di Chamonix & co. Dopo averlo intervistato, abbiamo chiesto a Bruno Compagnet di scrivere per noi e lui ci ha raccontato la sua traversata dalla Valle Varaita alla Val Maira. Le stupende foto in bianco e nero sono di Layla Kerley. Sulle orme di Bruno & co, Federico Ravassard è andato in Val Maira alla scoperta della proposta turistica diversa di questa valle e di come si proponga a esempio per il turismo alpino post-Covid.
Alta Valtellina: scoprire, riscoprire, condividere
Non si può dire che la zona dei Forni, Bormio o Livigno siano destinazioni poco popolari tra gli scialpinisti. Però ci sono itinerari o momenti nei quali è possibile sciare senza incontrare nessuno. Basta, per esempio, andare ai Forni in pieno inverno, quando la strada è chiusa. Oppure darsi allo ski sauvage nelle valli più difficili da raggiungere, abbinando avvicinamenti in e-bike, ravanage, qualche passo alpinistico… Abbiamo chiesto di parlarci delle loro esperienze solitarie a un local doc come Giuliano Bordoni, Guida alpina e da sempre amante della glisse valtellinese, e a una local acquisita, Eva Toschi, che ha scelto la Valfurva come casa. Un ampio dossier con consigli pratici e racconti da leggere con attenzione.
Lettera da…
Negli anni Trenta Ernest Hemingway pubblicava delle lunghe lettere da Cuba o dal cuore dell’Europa su Esquire. Dei racconti su come viveva e cosa faceva. Così abbiamo provato anche noi a stare al gioco in questo momento così particolare, scegliendo luoghi e persone lontani, non sempre dal punto di vista geografico, ma anche negli stili di vita. Il postino arriva da Val di Rhêmes, Gennargentu, Sauris, Alaska, Nuova Zelanda. A scrivere Louis Oreiller, Maurizio Oviglia, Anna Pugliese, Gabriella Palko e Joe Harrison.
Giù al Nord
A volte gli stereotipi si capovolgono. Così può capitare che i Monti della Laga, nel Centro Italia, siano ricoperti di powder, non ci sia il vento, ma solo il fluff e il silenzio della montagna. Come è successo a Lorenzo Alesi.
Waffle, powder e wilderness
Il nome è abbastanza impronunciabile, Låktatjåkka Mountain Lodge, però è il rifugio più alto della Svezia e - oltre a essere molto accogliente - si trova al centro di una delle ultime zone di natura selvaggia europee. A visitarlo per noi Mattias Fredriksson, autore anche delle favolose fotografie.
Dentro il van
L’hashtag #vanlife conta più di otto milioni di citazioni. Non c’è dubbio che dormire su quattro ruote sia ormai una moda e che rientri tra i trend in crescita nell’emergenza pandemia. Così abbiamo pensato di fare scrivere a una ‘vera’ vanlifer, con varie esperienze e di lunga data, Veronica Balocco, cosa vuol dire vivere in van in inverno. E per documentare il tutto siamo andati a fotografare alcuni nomi noti del mondo outdoor con i loro mezzi. Cala Cimenti, Enrico Mosetti o Paolo Marazzi dicono qualcosa? Le foto sono di Federico Ravassard.
Must have
Abbiamo tutti una dannata voglia di tornare a scivolare sulla neve polverosa. Così abbiamo scelto alcuni giocattoli che renderanno i nostri vizi ancora più belli e li abbiamo fotografati per farveli vedere meglio. E per farvi venire voglia…
E tanto altro…
Come sempre presentazioni materiali (il nuovo scarpone skialp race Ayr Nirvana, la gamma Ortles, Stelvio e Gavia di Ski Trab, la Scarpa Spin Ultra con Gore-Tex Invisible Fit), le pagine dedicate ai prodotti must have, ma anche portfolio fotografici e riflessioni per fermare l’obiettivo sul momento particolare che stiamo vivendo. E su un inverno che – ne siamo sicuri - sarà indimenticabile.
Effetto Albedo, il cuore oltre la linea
Una volta - che poi sarebbe solo qualche anno fa - gli sciatori frequentavano forum e siti su cui postare le proprie uscite e confrontarsi su temi più o meno seri nascosti sotto nickname improbabili tipo Powder_Boy o Marietto82. Poi il mostro di Zuckerberg ha fagocitato anche loro e tutti, o quasi, hanno cominciato a utilizzare Facebook anche per sapere chi avesse sciato cosa, quando, su che neve. Ai ragazzi di Effetto Albedo ci sono arrivato così, vedendo amici o amici di amici che venivano taggati nelle loro uscite. Non nascondo di averli guardati all’inizio con un certo scetticismo, sembravano l’ennesimo gruppo di amatori presi bene, tutti powder e GoPro. Poi le cose si sono fatte più chiare: questa è gente che scia un sacco e scia pure bene. Per sciare bene intendo dire la capacità di sapere scegliere le linee, andando a posare i propri sci e le proprie split in montagne poco o per nulla frequentate e su neve spesso più bella di quella che trovano gli altri. Insomma, ho dovuto ammettere a me stesso che la mia disistima altro non era che una malcelata forma di invidia e ammirazione. Probabilmente perché in montagna viene più facile storcere il naso che battere le mani. Nel frattempo loro continuavano a martellare una linea dopo l’altra, spesso su cime dai nomi sconosciuti e tuttavia dietro l’angolo, situate tra l’alto Piemonte e la Val d’Aosta: postacci in cui solo chi aveva voglia di fare fatica andava a infilarsi. E già questo spezzava una lancia a loro favore, perché se nel variopinto mondo dei social network ci sono quelli che parlano e quelli che camminano, con le loro uscite esplorative stavano dimostrando di appartenere alla seconda categoria.
L’occasione per conoscerci di persona è arrivata quest’anno, durante un ciclo snervante di alta pressione che ha colpito pressoché tutto l’arco alpino. Quei periodi in cui chi può si dedica ad altro, va ad arrampicare o a pedalare. O, come nel caso di Effetto Albedo, si continua imperterriti a cercare linee, magari spostandosi sui versanti sud alla ricerca di neve primaverile nonostante il calendario indichi che siamo a metà gennaio. L’appuntamento è anche lui disallineato con la stagione: ore 4.30 al parcheggio di Ivrea. Mi incontro con Flavio e Paolo, più tardi ci raggiungeranno Francesco e Stefano, rinvigoriti da ben mezz’ora di sonno in più. La direzione è la Valpelline, la meta è stata scelta con lo stesso criterio delle precedenti, che grossomodo può essere riassunto con un abbiamo visto un bel canale di cui non si sa nulla sul versante Sud del Monte Berrio. Mi fanno vedere le foto, bello sembra bello. È quello che lo precede che mi preoccupa un po’. Due numeri: quota di partenza, 1.342 metri; vetta, 3.077 metri; quota neve, 1.900 metri circa sui pendii a Sud, chiaramente quelli su cui dobbiamo salire oggi. Cercando di non farmi notare al parcheggio tiro fuori dal bagagliaio sci e scarponi leggeri mentre faccio qualche battutina sulla splitboard di Flavio. Iniziamo a camminare nel bosco, la luna piena ci illumina nelle poche radure che incontriamo. È ripido, il sentiero è poco più che una traccia e ne avremo per ancora un bel po’. Portage asburgico, lo chiamano. Dopo un’ora sento prudere la schiena: la maglia termica è piena di aghi di larice. Chiacchieriamo, iniziamo a conoscerci. Il gruppo si è formato perché qualcuno cercava soci con cui assistere al Mezzalama e ha pensato di utilizzare la chat di Gulliver. Probabilmente è una prima anche questa, non pensavo che qualcuno utilizzasse davvero quella sezione del sito. Qualcuno lavora, qualcun altro studia ancora. Flavio quest’anno è il più attivo, complice anche il fatto che in questo momento ha l’occupazione più ambita dagli scialpinisti: ha cambiato lavoro e deve stare a casa per qualche mese.
Mi spiegano l’origine del nome: l’albedo è, in soldoni, il potere riflettente di una superficie nei confronti della luce. E, guarda caso, nella neve l’albedo massima è quella che caratterizza la polvere, la stessa che tutti gli sciatori - specialmente loro - vanno bramando. Ad accomunarli è anche altro. La provenienza, ad esempio: fatte un paio di eccezioni, il grosso del gruppo vive nel Canavese, sparsi intorno a Ivrea e a montagne che se a qualcuno non dicono un granché, ad altri fanno scintillare gli occhi, come il Mombarone e la catena della Bella Dormiente, con le punte Quinzeina e Verzel. Quest’ultima è impossibile non notarla, parandosi di fronte a chiunque entri in Val d’Aosta dalla Pianura Padana.
Sbuchiamo dal bosco mentre il sole fa capolino dalle cime di fronte a noi. Abbiamo messo gli sci da un po’ ma tra rami e crosta non stiamo mantenendo una media particolarmente veloce. Le uniche tracce presenti oltre a quelle dei camosci sono quelle che hanno lasciato loro stessi tre settimane prima: fa sorridere pensare che nessuno sia passato di qua, eppure non siamo così in fondo al mondo. Lo si potrebbe chiamare scialpinismo esplorativo della porta accanto, e in Valpelline, così come nelle Prealpi, è un giochino che riesce bene. L’idea che smuove questi ragazzi non ha a che fare con l’ansia da primati e gradi impossibili: piuttosto, amano andare a infilarsi in posti di cui si sa poco o nulla, su discese che attraggono prima di tutto per la loro estetica. Se poi ci scappa una prima discesa - che loro ci tengono sempre a specificare come probabile - tanto meglio. In ogni caso una birra la si stappa comunque. Con le dovute proporzioni, sulle Alpi si può fare un paragone con i 6.000 dell’Himalaya: mentre a quote inferiori si affollano i turisti e sulle cime più alte le poche linee non ancora salite rimangono appannaggio di pochissimi e fortissimi, nel mezzo esiste un mare di possibilità per continuare a sognare.
Tra una chiacchiera e l’altra ci alziamo di quota mentre qualche centinaio di metri sotto di noi spuntano due puntini, anche loro in splitboard: Francesco e Stefano. Aspettandoli ne approfittiamo per una pausa; fa insolitamente caldo per il periodo e crogiolarsi al sole, per quanto strano, è piacevole. Siamo nella conca che separa il Berrio dalla Punta Gorret, dove poco fa hanno firmato una probabile prima. Le tracce sono ancora visibili a distanza di settimane, sono le curve larghe e regolari di chi si è divertito su bella neve.
Parecchie - cinque, forse sei, forse di più - ore dopo essere partiti arriviamo al colle che ci separa di pochi metri dalla cima del Berrio. Probabilmente siamo i primi a passare di qua da parecchio tempo, la Valpelline è ben lontana dall’iperfrequentazione di altre valli. Qualcuno (pochi, a dire il vero) si avventura nelle altre stagioni nella traversata della Catena del Morion, la vetta di fianco alla nostra: un itinerario alpinistico selvaggio, di cui si sa poco o nulla, e che dall’anno scorso si può tentare appoggiandosi al nuovo, spettacolare, bivacco Pasqualetti, appollaiato su una cengia nel mezzo del nulla. La vista dalla cima del Berrio, a dispetto della sua quota modesta, è incredibile, grazie al fatto di affacciarsi quasi direttamente sopra la Val d’Aosta. I più vicini sono il Mont Vélan e il Grand Combin, conosciuti da qualsiasi amante del ripido degno di questo nome. Di fronte a noi ci sono le vette del Gran Paradiso e gli impianti di Pila, in lontananza svetta il Monte Bianco, alla sua destra la mole della parete Est delle Grandes Jorasses fa ancora più impressione che da sotto. Sotto un palo che fa le veci della croce di vetta si snoda il nostro canale.
Non è estremo, ma non siamo qui per quello. Probabilmente nessuno però ci ha ancora sciato dentro, e questo ci rende entusiasti e curiosi, anche perché non l’abbiamo risalito. Panino, abbracci, Flavio fa partire un drone mentre Stefano si allaccia la tavola ed entra per primo, seguito a ruota dagli altri. Io aspetto Flavio, vedo gli altri giù in fondo divertirsi parecchio. La discesa è bella, la neve pure, e lo sarà per più di 600 metri, dopodiché iniziamo a traversare per riportarci verso i boschi dai quali siamo spuntati questa mattina. Beh, se aveste tempo e voglia di leggere potrei scrivere pagine sulla battaglia che abbiamo poi condotto in mezzo ai larici. Di sicuro è stata una delle peggiori sciate boschive che io abbia mai fatto, prevalentemente su crosta non portante tendente a sfondare su una base di sassi e radici. Ma anche questo, in fondo, fa parte del gioco: effettivamente se nessuno passa mai di qua un motivo ci sarà. Quando mancano 400 metri di dislivello ci arrendiamo definitivamente: è ora di togliere gli sci e finire il giro come era iniziato, camminando. Alle auto ci arriviamo un po’ più di dieci ore dopo averle lasciate, mentre sopra di noi le montagne si tingono con i colori del tramonto. Per tutta l’ultima ora Paolo e Francesco hanno sbavato osservando un altro canale sul versante opposto, cercando di capire come e quando andare a curiosarci. Gli riconosco un entusiasmo e una voglia di mettersi in gioco che spesso alla maggior parte degli altri sciatori manca, sostituite dalla confortante sicurezza di seguire la massa in base a relazioni online e resoconti del weekend sui social network. Non che sia tutto rose e fiori, anzi: già più di una volta si è dovuti tornare a casa a bocca asciutta o con le mutande piene per aver sbagliato nel valutare un itinerario o le condizioni del manto nevoso, ma anche quello, fino a un certo punto, fa parte del gioco.
Qualche sera dopo ci rivediamo a Torino, al Monte dei Cappuccini, dove sono ospiti per una serata nella sede del CAI. Stanno per presentare The Backyard, un video autoprodotto nelle passate stagioni e in cui raccontano la propria visione dell’andare in montagna tra amici. Il pubblico è variopinto, ci sono i vecchietti caiani e giovani splitboarder, ammassati dentro una sala che trasuda l’austerità e la storia di certi ambienti. Il fatto stesso di essere tutti qui, a parlare di ripido e di polvere (sacrilegio!) però è la dimostrazione che in fondo tutte queste chiusure mentali di cui si parla forse esistono solo nella nostra mente. The Backyard è un piccolo inno all’essere degli amatori, in tutte le sfaccettature del termine: chi ama e prova trasposto verso una determinata azione; chi pratica uno sport non per professione, ma per piacere proprio. Alla platea raccontano - un po’ imbarazzati e cercando di stare defilati rispetto al palco - di come passino le serate tra webcam, dati delle centraline meteo e scrollate infinite su Google Earth e in parecchi ci si ritrova a sorridere, perché si capisce che alla fine siamo tutti parte di qualcosa. La differenza fra loro e noi è che a loro, appunto, viene voglia di raccontare delle loro uscite, della loro passione, senza fare i preziosi o le prime donne. Tornando a casa penso che forse al nostro mondo più momenti così non potrebbero che fare del gran bene, e per momenti così intendo dare il proprio contributo a sviluppare una cultura di massa che nel mondo dello scialpinismo ancora latitata; spesso perché si è troppo gelosi della propria attività (o semplicemente spocchiosi) per essere interessati a condividerla con altri, come se fosse una cosa importante, ma che in fondo conta solo per coccolare il nostro ego e sentirci in qualche modo speciali senza esserlo veramente. I ragazzi di Effetto Albedo invece hanno capito che di speciale non c’è tanto quello che si fa, ma soprattutto il cuore che ci si mette, e in quello sono amatori da dieci e lode. Uè, grazie, e alla prossima, che nelle nostre montagne sfigate c’è ancora un sacco di roba da fare.
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Nasce la Kilian Jornet Foundation
Ha scelto un motto in tema con l’attualità, rifacendosi A Black Lives Matter. Per lanciare la sua fondazione per la protezione delle montagne Kilian Jornet si è affidato a un coinvolgente Mountains Matter. L’atleta simbolo degli sport endurance in montagna ha scelto di scendere in campo in prima persona per la difesa delle montagne e del loro delicato equilibrio ambientale. Lo ha fatto annunciando sul suo account Linkedin la nascita della Kilian Jornet Foundation.
«Sono felice di affrontare quella che sarà sicuramente la cima più difficile da scalare: la Fondazione Kilian Jornet - ha scritto - Amo la montagna, profondamente, e ho sempre avuto una grande consapevolezza dell'importanza della sua conservazione. Nonostante la mia coscienza ambientale, sono uno dei più grandi distruttori dell'ambiente. Il mio stile di vita nell'ultimo decennio come atleta professionista è stato strettamente legato ai viaggi frenetici in giro per il mondo e con ciò contribuendo su larga scala al riscaldamento globale. Le montagne sono essenziali per la vita sulla terra. Ci forniscono l'acqua immagazzinata nei loro ghiacciai, fiumi e laghi. Ci forniscono risorse come alimenti ed energie rinnovabili. È spaventoso pensare a come il riscaldamento globale potrà plasmare il pianeta nei prossimi decenni o come l'inquinamento potrà cambiare la biodiversità del mondo e il modo in cui mangiamo o troviamo acqua da bere. Questa paura mi ha fatto capire che devo cambiare il mio modo di vivere per essere più coerente con i valori e l'amore per le montagne che ho. La Kilian Jornet Foundation lavora per la conservazione delle montagne e del loro ambiente, comprendendo gli effetti del cambiamento climatico negli ambienti montani e stabilendo i migliori strumenti possibili per affrontarli.»
La mission della nuova fondazione è semplice: azioni dirette per la protezione delle montagne, iniziative di sensibilizzazione ed educazione e ricerca. Il primo progetto sostiene il World Glacier Monitoring Service dell’Università di Zurigo. L’obiettivo è di acquistare almeno 20 stazioni di monitoraggio dei ghiacciai tra il 2020 e il 2021. Si tratta di strumenti sviluppati in Francia che permettono di misurare lo scioglimento dei ghiacciai e gli effetti del global warming a distanza. Il costo di ogni stazione è di 10.000 euro. Tramite il sito della fondazione è possibile fare donazioni a partire da poche decine di euro.
Il grido d'allarme di Bruno Compagnet per salvare i boschi dei suoi Pirenei
È arrivato l’autunno e il bosco cambia colore. L’estate indiana è uno dei momenti più belli nelle valli, quando gli alberi si colorano delle tonalità più calde, giusto prima che il bianco gelo ricopra tutto (e tanta neve, almeno così speriamo noi amanti della glisse). Un’occasione unica per riflettere su quanto siano importanti gli alberi per il nostro ecosistema e per le nostre montagne.
Proprio sull’argomento arriva un grido d’allarme da Bruno Compagnet, freeskier pirenaico, tra i fondatori del marchio Black Crows (beh, se leggete Skialper sapete bene chi è…). Nel comune di Lannemezan, sui Pirenei, è in progetto la costruzione di una grande segheria e Bruno sta cercando di risvegliare le coscienze perché ritiene che si tratti di un piano faraonico e non sostenibile per quei boschi dove tante volte ha posato le sue lamine. «Sono cresciuto in un piccolo villaggio a mille metri e i boschi hanno sempre fatto parte del mio ambiente e di quello degli abitanti della valle, hanno scandito le stagioni e oggi sappiamo quanto siano importanti per combattere l’emergenza climatica. Non sono contrario allo sfruttamento del bosco, ma è un progetto che va contro la realtà ambientale e umana di queste valli» ci ha detto Bruno che invita a firmare la petizione di SOS Forêt Pyrénées.
L’associazione segnala alcuni dati chiave dell’operazione: per fornire i faggi necessari alla segheria dovrebbero essere tagliati l’equivalente di 1.200 campi di calcio sul territorio di 400 comuni pirenaici ogni anno con 5.000 camion in più sulle strade. In pratica si tratta di una quantità da due a tre volte superiore a quella fornita oggi dai Pirenei Atlantici e dal Massiccio Centrale d’Acquitania. SOS Forêt Pyrénées ritiene che il volume di legno richiesto permetta di sostenere la segheria solo per qualche anno, mettendo in pericolo l’ecosistema della foresta pirenaica e la biodiversità. Il progetto sarebbe inoltre finanziato per almeno la metà con fondi pubblici.
Secondo Europe Écologie les Verts Midi-Pyrénées la quantità di legno da tagliare si aggirerebbe tra i 200.000 e 360.000 metri cubi all’anno: «la foresta copre più della metà del territorio dei Pirenei e questo ecosistema dai fragili equilibri ha un ruolo essenziale come serbatoio di biodiversità che preserva il futuro degli esseri viventi, cattura e immagazzina l’anidride carbonica, limitando i cambiamenti climatici e drena l’acqua, limitando le inondazioni e l'erosione del suolo».
La segheria potrebbe dare lavoro a 25 persone e gli studi di fattibilità valutano in 90 i posti di lavoro che si creerebbero nell’indotto negli anni a seguire, ma gli attivisti locali temono che la filiera chiuda prima ancora che possa esserci un indotto, rovinando irrimediabilmente quella natura che è il vero tesoro dei Pirenei.
Ryan Gellert è il nuovo CEO di Patagonia
Patagonia ha nominato il nuovo CEO di Patagonia Works, Ryan Gellert, dal 2014 alla guida di Patagonia in Europa, in Medio Oriente e Africa. Patagonia Works è la holding che presiede Patagonia, Inc (abbigliamento e attrezzature), Patagonia Provisions (alimentare), Patagonia Media (libri, film e progetti multimediali), Lost Arrow Solutions (settore government), Fletcher Chouinard Designs, Inc. (tavole da surf), Tin Shed Ventures, LLC (settore investments) e Worn Wear, Inc. (upcycling di abbigliamento usato).
Gellert ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti, in Asia e in Europa. Prima di entrare in Patagonia, ha trascorso 15 anni presso Black Diamond Equipment, dove ha ricoperto diversi ruoli tra cui Brand President, VP of Supply Chain Management e Managing Director di Black Diamond Asia. Sotto la sua guida, Patagonia ha lanciato la sua prima campagna ambientale globale relativa a un'iniziativa europea: Save the Blue Heart of Europe, proteggendo gli ultimi fiumi incontaminati d'Europa dalla minaccia di oltre 3.000 progetti idroelettrici pianificati. Ha inoltre lanciato nel vecchio continente Patagonia Action Works, uno strumento digitale per connettere le persone con i gruppi ambientalisti, sia nella loro area sia in tutto il mondo, dando loro modo di partecipare alle iniziative e agire concretamente. Gellert succede alla carismatica guida di Rose Marcario e la sua nomina arriva dopo un periodo di qualche mese di guida ad interim dell'azienda da parte del COO Doug Freeman.
Il Consiglio di Amministrazione di Patagonia ha annunciato due ulteriori cambiamenti nella sua leadership: Jenna Johnson e Lisa Williams sono state incaricate di un nuovo importante ruolo. Jenna Johnson, che precedentemente ha guidato il settore outdoor tecnico di Patagonia è ora a capo di Patagonia, Inc., dove avrà il compito di allineare ulteriormente il business della divisione di abbigliamento e accessori alla mission aziendale e alle comunità sportive. Lisa Williams, che è entrata a far parte del team prodotti di Patagonia nel 2001, assume un nuovo incarico esecutivo come Head of innovation, design and merchandising. In questo ruolo, avrà il compito di accelerare la mission di Patagonia attraverso progetti e materiali rivoluzionari e in grado di catturare CO2.
«Sono davvero onorato dell'opportunità e profondamente consapevole della grande responsabilità di guidare l’azienda in questo momento critico – ha detto il nuovo Ceo Ryan Gellert - Siamo noi stessi ad avere le maggiori aspettative su Patagonia. Tutto ciò che facciamo deve ricondurre alla nostra mission: siamo in business per salvare il nostro pianeta e dobbiamo farlo in un modo che sia giusto, equo e inclusivo per tutte le persone. È una grandissima ambizione e dovremo affrontare giorni difficili quando proveremo a sfidare le regole, ma sono entusiasta di poterlo fare fianco a fianco con i talentuosi e appassionati professionisti che fanno parte del team Patagonia. E sono sicuro che ci sarà anche da divertirsi durante il percorso!».
Il sito statunitense Fastcompany ha pubblicato la prima intervista a Ryan Gellert e Jenna Johnson, online qui.
Afghan Ski Challenge, lo sci è una cosa semplice
A febbraio del 2014 io, Arnaud Cottet e Loïs Rabotel ci siamo ritrovati con gli sci ai piedi per partecipare a una gara di scialpinismo in Afghanistan, la quarta edizione dell’Afghan Ski Challenge, a Bamyan. Tutto è nato leggendo un articolo sul Neue Zürcher Zeitung scritto dal giornalista e ideatore della gara Christoph Zürcher. Cercavo idee per sciate fuori dall’ordinario. Così nel 2013 ho partecipato a una charity night al Frau Gerolds Garten di Zurigo e ho iniziato a essere attratto dall’idea di seguire una gara di skialp in Afghanistan, anche se ero combattuto tra la voglia di andarci e l’idea che forse era solo un evento costruito per pubblicare reportage giornalistici. Però ha prevalso la prima e ho convinto due amici che erano abbastanza coraggiosi e curiosi ad accompagnarmi. L’anno successivo Arnaud mi ha invitato a seguire il suo progetto We Ride in Iran, per promuovere il freestyle nell’antica Persia. A febbraio eravamo a Dizin per alcune gare e così ci siamo incontrati a Dubai con Loïs, che arrivava da Ginevra, per proseguire insieme verso Kabul. Sembra una storia semplice, ma la notte prima di lasciare Dizin
il nostro oste Amir ci ha detto che i biglietti aerei non erano ancora stati prenotati, ma che ce l’avremmo fatta lo stesso. Dovevamo solo fare arrivare i nostri passaporti all’aeroporto, con il taxi. Dopo una notte insonne abbiamo scoperto che era tutto a posto. La fortuna ci ha seguiti fino a Kabul, dove Arnaud aveva contattato Ferdinando Rollando, un ligure trapiantato in Valle d’Aosta che per primo ha fatto rinascere lo sci in Afghanistan. Si era traferito a Kabul per provare a sviluppare una cultura della sicurezza dalle valanghe, istruire le persone e costruire paravalanghe nei villaggi afghani con l’aiuto dell’Unione Europea. Poco prima di imbarcarci sul volo per l’Afghanistan, via Facebook, ci ha detto che sarebbe venuto a prenderci all’aeroporto e ci avrebbe ospitati a casa sua a Kabul prima e dopo il viaggio a Bamyan. Lo abbiamo incontrato dopo i meticolosi controlli di sicurezza.
La sua ONG, Alpistan, faceva davvero un lavoro encomiabile in quel Far West del ventunesimo secolo. Un ex militare dei servizi segreti francesi, insieme a quattro altre persone, si occupava della sicurezza. Una sera siamo usciti in uno dei ristoranti frequentati dagli stranieri. Ferdinando ci ha chiesto se immaginassimo perché fosse quasi vuoto e noi pensavamo che fosse a causa dei prezzi alti. Ma non era così: solo dieci giorni prima in quella stessa strada c’era stato un attentato dei Talebani con diversi morti, così per il dolce abbiamo preferito trasferirci a casa.
Il giorno seguente abbiamo preso un volo per uno dei posti più sicuri dell’Afghanistan. Dopo la demolizione delle gigantesche statue dei Buddha nel 2001 in quella deliziosa valle non ci sono stati altri episodi di cronaca. I grossi buchi nella pietra sono impressionanti ed è difficile immaginare che lì ci fosse stato un fiorente monastero. Mentre camminavo tra le rovine un afghano mi ha chiesto se quei resti fossero importanti per me e io, senza pensarci un attimo, ho fatto cenno di sì con la testa. Lui ha detto di no, che per lui non erano interessanti. Così mi sono ritrovato a pensare al valore che diamo agli edifici storici e alla linea tra conservare e ricostruire, anche se sui Buddha non ci sono dubbi: è stata una demolizione criminale. Abbiamo passato un paio di giorni a esplorare le montagne dei dintorni con una Guida locale con la quale dovevamo sempre insistere per fare gite un po’ più lunghe e che ci ha consentito di entrare direttamente nella cultura locale. Siamo stati anche a Jawkar, villaggio isolato, soprattutto nei mesi invernali, a Sud-Est di Bamyan. Quando c’è la neve e la strada è chiusa i bambini vanno a scuola nella moschea. L’imam ci ha invitato a partecipare a una lezione e siamo rimasti sorpresi per quanto la scuola fosse ben organizzata; alcuni bambini parlavano inglese e ci hanno chiesto di portare libri di matematica e fisica alla nostra prossima visita. L’imam ha insistito perché scattassimo fotografie, per mostrarle in Europa e trasmettere il messaggio che, indipendentemente dalla religione e dalla cultura, siamo tutti esseri umani e lavoriamo per migliorare la nostra società. Il giorno dopo abbiamo traversato le montagne superando un passo innevato, raggiungendo un altro villaggio dove le persone si nascondevano al nostro passaggio. L’opposto di quello che era successo il giorno precedente, quando tutti volevano provare sci e scarponi appena ce li toglievamo. Era un momento collettivo di divertimento per gli abitanti di Jawkar, mentre a due chilometri di distanza sembrava di essere in un altro mondo.
Quell’anno Sajjad Housaini e Alishah Farhang hanno fatto compagnia ad Arnaud sul podio dell’Afghan Ski Challenge e non sapevano ancora che quel risultato avrebbe cambiato la loro vita. Christoph Zürcher e il Bamyan Ski Club hanno creato un programma di supporto per aiutarli a realizzare il loro sogno di partecipare ai Giochi Olimpici di Pyeongchang del 2018. Per tre inverni si sono allenati a St. Moritz con un allenatore professionista e hanno partecipato alle loro prime gare FIS di sci alpino per provare a raccogliere i punti necessari a essere ammessi ai Giochi. Però non ce l’hanno fatta ed è comprensibile. Immaginate di imparare a sciare a 26 anni e gareggiare con chi è sugli sci da quando aveva sei anni. Alla fine il loro penultimo e terzultimo posto è stata l’occasione per essere presi in giro dagli amici: «Ma quelli che hanno vinto erano tutti stranieri?». Per chi ha sempre vissuto in Svizzera è difficile capire le difficoltà che hanno dovuto affrontare per entrare nel mondo dello sci agonistico. Il contrasto tra una delle località più famose del mondo come St. Moritz e l’Afghanistan rurale è drammatico. «Rimanete in Europa!» hanno detto loro i parenti e gli amici, ma Sajjad e Alishah non hanno mai cercato asilo politico, volevano solo mostrare un volto diverso dell’Afghanistan e dare un segnale di pace e ci sono riusciti grazie all’eco mediatica della loro storia.
L’Afghan Ski Challenge è un evento che attira l’attenzione dei media da tutto il mondo. Ed ecco che quel sentimento controverso che avevo provato alla charity night, un anno prima di partire per l’Afghanistan, quando ci penso, riaffiora. È un progetto sostenibile o solo un’occasione per realizzare reportage? La gara delle donne rappresenta un vero sforzo per cambiare qualcosa o sciano solo per le telecamere? Però il giorno della gara a Bamyan è pieno di afghani con gli sci e in tanti vengono a vederli. A fare il tifo sono venuti anche alcuni dei bambini che avevamo visto a Jawkar, camminando per tre ore sulle montagne dove noi abbiamo sciato, con ai piedi scarpe da città e indossando dei normali jeans. Lo hanno fatto solo per vedere lo Ski Challenge ed è per questo che i miei dubbi, quando ripenso a quei momenti e guardo le foto che ho scattato, vengono spazzati via in un attimo. Credo che sia davvero un bel progetto e la speranza è che possa continuare ancora per tanti anni. La storia di Sajjad e Alishah mostra quanto la nostra cultura sportiva sia permeata dal professionismo e sia difficile entrare in questo mondo, soprattutto quello degli sport invernali. L’altro lato della medaglia è che siamo attratti da ciò che è esotico e portati a dare un’allure romantica a posti come le montagne dell’Afghanistan, che per noi sono luoghi per un viaggio sugli sci dal sapore diverso. Noi abbiamo detto a quei ragazzini che invidiavamo quel loro approccio così semplice e genuino alla vita e allo sci. Tutto quello che avrebbero voluto loro invece era la nostra di vita, il benessere e soprattutto la possibilità di scegliere. In poche parole, la nostra libertà.
Oggi a Bamyan non è cambiato quasi nulla, la gente si veste allo stesso modo, però c’è una manovia e per questo si potrebbe dire che è la prima località sciistica dell’Afghanistan. Il motore è quello di una motocicletta e muove una semplice fune. Ci sono anche progetti per installare un vero ski-lift (se conoscete qualcuno che vuole smantellare un impianto in Italia, fatecelo sapere!). Sajjad e Alishah continuano a promuovere lo sci nel loro Paese e cercano di alimentare una cultura degli sport invernali facendo tesoro dei mesi passati ad allenarsi in Svizzera. Questo è lo scambio culturale che è nato grazie all’apertura dei cuori e delle menti delle persone coinvolte nel progetto, da entrambe le parti. Ritornati a Kabul abbiamo passato due giorni a visitare la città devastata dalla guerra. Il costo del biglietto d’ingresso alle rovine del Darul Aman Palace, corrompendo il soldato di guardia, è lo stesso del museo di storia nazionale. Una sera Ferdinando ci ha chiesto di dargli una mano. E come avremmo potuto dirgli di no dopo che ci aveva ospitati? Abbiamo camminato per una trentina di minuti e siamo arrivati in un parcheggio buio dove aveva parcheggiato i suoi due pick-up. Uno era senza targa e mi ha chiesto se potevo guidare anche io e seguirlo. Ha scelto strade minori per evitare i checkpoint e siamo arrivati al garage di un amico dove abbiamo parcheggiato al coperto. Più tardi ci avrebbe spiegato che quei pick-up li aveva comprati al mercato nero e solo dopo aveva saputo che erano stati rubati al governo, così doveva nasconderli, cercando di sbarazzarsene prima possibile. Purtroppo Ferdinando non è più tornato a casa dal Monte Bianco nel luglio di quello stesso anno. Il suo progetto Alpistan si è fermato ma è ripartito nel 2018 grazie al figlio Ernesto. L’Afghan Ski Challenge continua e ha spento le dieci candeline quest’anno. «C’erano 100 concorrenti, anche dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dalla Finlandia e dall’Italia» mi ha detto Sajjad che sta già pensando all’undicesima edizione. Alisah è felicemente sposato e ha un figlio.
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Adamello Ultra Trail, tutto rinviato di una settimana
L’Adamello Ultra Trail andrà in scena con una settimana di ritardo. Paolo Gregorini e il team organizzatore dell’evento inizialmente in programma dal 25 al 27 Settembre hanno infatti deciso di rinviare l’intero programma al 2-4 ottobre. Le previsioni per il fine settimana, e in particolare per la nottata fra venerdì 25 e sabato 26 settembre, sono molto negative. In pratica si slitta di una settimana esatta.
«Dover attuare un cambio di programma così importante a pochi giorni dall’evento non è certo quello che auspicavamo, ma è un atto dovuto nei confronti di chi ama questo evento e ci dà fiducia: a loro dobbiamo garantire di vivere Adamello Ultra Trail in condizioni di serenità e sicurezza» spiega Paolo Gregorini, leader del comitato organizzatore di Adamello Ultra Trail.
«Purtroppo venerdì 25 e sabato 26 settembre sono previste piogge intense sul tracciato della gara, con neve fino a bassa quota. Questo significa temperature inadatte alla disputa di un evento di trail running e impossibilità di garantire la sicurezza in alcuni passaggi particolarmente tecnici del percorso. A questo si aggiunge, nell’attuale contingenza legata al Covid-19, la difficoltà di assicurare il distanziamento nel momento in cui un gran numero di atleti fossero costretti a ripararsi in corrispondenza dei punti ristoro o delle basi vita»
Le iscrizioni ad Adamello Ultra Trail 2020 rimangono automaticamente valide per le nuove date. Coloro che non fossero in grado di partecipare all’evento dal 2 al 4 ottobre 2020 possono mettersi in contatto con l’organizzazione all’indirizzo info@adamelloultratrail.it, chiedendo di confermare la propria iscrizione per l’edizione 2021 dell’evento, o viceversa domandando il rimborso dell’iscrizione nella misura dell’80%. In caso di defezioni, il comitato organizzatore aprirà una finestra per eventuali ripescaggi sino a domenica sera, 27 Settembre 2020.
Steve House. L’alpinismo come arte. E allenamento
4.100 metri di parete. Cinque viti da ghiaccio, nove chiodi, sei nut, tre friend, 50 metri di corda dinamica. Sei giorni di salita, due di discesa. I numeri sono freddi e sterili, ma se si è in grado di leggerli raccontano tantissimo anche da soli. Quando nel 2005 Steve House e Vince Anderson hanno scalato la parete Rupal sul Nanga Parbat, l’impresa è risuonata come uno sparo nell’ambiente alpinistico a causa della purezza dello stile, oltre che per l’audacia. Aprire una via del genere in stile alpino, scalando veloci e leggeri, richiede tantissima dedizione. Richiede però anche una forma fisica di ottimo livello, per riuscire a scalare tutte quelle ore (scriverei giorni, ma si perderebbe il senso di continuità dello sforzo) rimanendo lucidi ed efficienti.
L’alpinismo, da fuori ma anche da dentro, è visto come un’avventura, come un’attività che mette in gioco la testa delle persone. Questo è vero, ed è quello che lo differenzia da uno sport agonistico di resistenza, per quanto duro e lungo sia quest’ultimo: durante una salita come quella di House e Anderson non ci si può ritirare all’improvviso (anche scendere vuol dire comunque fare alpinismo ed essere impegnati in modo non dissimile dalla salita) e lo sforzo, più che un esprimere al meglio le potenzialità dei muscoli, diventa un raschiare il fondo del barile del proprio corpo, cercando di sopravvivere. Questo ha messo troppo spesso in secondo piano le capacità atletiche di alcuni alpinisti. Se un profano, guardando un video di Steck che scala una grande parete Nord in circa due ore, pensa che folle!, un alpinista, osservando lo stesso filmato, dovrebbe chiedersi:
come si è allenato per essere così veloce?
Ciò succede di rado perché gli alpinisti, professionisti inclusi, raramente si allenano con criterio. Forse perché la scalata è una pratica che si sceglie per anarchia, per contrasto agli sport e alle attività regolamentate, ma spesso gli alpinisti non seguono un metodo specifico, strutturato per le loro esigenze. La maggior parte si limita a cercare di scalare il più possibile e magari correre o andare in bici, meglio se forte. Non è un modo produttivo per impiegare il tempo. Anzi, alla lunga può essere la causa del ristagno delle prestazioni che colpisce la gran parte degli appassionati.
Dopo il brutto incidente che ha avuto mentre scalava sul Monte Temple nel 2010, House ha dedicato molte delle sue energie a trasmettere le competenze accumulate durante la lunga carriera, con un occhio soprattutto verso le nuove generazioni di alpinisti, americani e non. Il suo libro Allenarsi per un nuovo alpinismo (appena pubblicato dalla nostra casa editrice) va in questa direzione, evidenziando gli errori e le soluzioni nell’allenamento che lo hanno portato a essere uno degli alpinisti di punta degli ultimi anni. Le tecniche e i principi di base non sono nuovi e sono ben spiegati da Johnston, allenatore della Nazionale di fondo statunitense. A Steve è toccato il compito di adattarli all’alpinismo e testarli. Cosa intendono per nuovo alpinismo e per chi è pensato questo manuale? L’alpinismo di cui parlano è quello fast & light, chiamato anche nudi di notte dai francofoni: scalare il più velocemente possibile, portandosi dietro una quantità minima di materiale. Le salite considerate come buoni traguardi per un alpinista medio, per loro sono solo elementi nei quali allenarsi. Per dare un’idea: il primissimo test proposto per valutare la propria forma fisica è una scalata slegati, con scarponi e zaino pari al 20 per cento del proprio peso corporeo, su una via di 300 metri di III. Non estremo, d’accordo, ma neppure qualcosa che consiglierei a un principiante. Questo libro è allora destinato solo ai futuri Steck? No, le norme contenute sono perfette per capire come funzionano il fisico e la mente d’ogni scalatore. Sta poi al singolo adattarle alle proprie esigenze (diamine, siete alpinisti: l’ultima cosa che dovete fare è seguire alla lettera delle norme, imparate e createvi il vostro mondo!). Se però volete puntare a vincere un Piolet d’Or e a essere la nuova speranza bianca dell’alpinismo, come ironica- mente era chiamato House da ragazzo, qui ci sono i consigli che vi spiegheranno come poterlo fare.
Parlando di libri, è interessante e impossibile non fare il confronto con uno dei mentori di House: Mark Twight. Come Twight, anche Steve è partito dalla narrativa, anche se direttamente da un libro autobiografico (mentre Twight aveva iniziato sulle riviste, con articoli poi raccolti nel celebre Kiss or Kill, confessioni di un Serial Climber) per approdare poi a un manuale tecnico. Le analogie sono evidenti, ma se nello stile narrativo House seguiva in modo più educato la linea del predeces- sore (risultando meno dirompente), con Allenarsi è uscito dalla scia e ha realizzato un lavoro che è innovativo.
Il manuale di Twight era un non-manuale, in cui sconsigliava ricette brevi e dava vari consigli e spunti - alcuni veramente estremi - più per tracciare una linea di pensiero, o per rompere un pensiero precedente, che per insegnare davvero a scalare le montagne. House, grazie anche alla collaborazione con un allenatore professionista, ci fa vedere qual è stata la sua routine per diventare un alpinista di punta e cosa si deve compiere per fare altrettanto, in modo semplice ma preciso. Non si troverà altro che allenamento, se non una piccola parte sull’alimentazione e sulla fisiologia in quota. Nessun nodo, nessun consiglio sull’attrezzatura e il vestiario. Solo come impiegare nel modo più intelligente il proprio tempo per preparare al meglio il fisico a essere devastato in alta quota.
Buona lettura e buone scalate.
Partiamo con una domanda di attualità: hai avuto difficolta ad allenarti in questo periodo? E le persone che alleni?
«Sono veramente fortunato: vivo in una piccola città di montagna, è stato facile continuare a correre e fare scialpinismo. Ho scelto di non fare nessuna scalata tecnica per evitare di prendere rischi durante il periodo del Covid-19. Per gli atleti che alleno è stato un po’ diverso. Una ragazza a Città del Messico vive in un appartamento di 60 metri quadrati e non poteva uscire. Fortunatamente si è potuta allenare sulle scale del suo palazzo di cinque piani. Un altro è pilota di aerei con base a Hong Kong e ha continuato a lavorare durante la pandemia. Quando atterrava in una nuova città doveva andare direttamente in hotel e non poteva lasciare la stanza dell’albergo per tutto il tempo, da 48 fino a 72 ore. Si è dovuto allenare quindi in camera, con tanti esercizi a terra o step su e giù dalle sedie».
Quando hai deciso di diventare un alpinista professionista? E quali sacrifici hai dovuto compiere?
«Io non ho deciso di essere un alpinista professionista. Infatti, in senso stretto, lo sono stato solo per i pochi anni in cui non ho realmente lavorato. L’idea di essere un arrampicatore di professione mi ha sempre fatto sentire a disagio. Penso che sia necessario creare qualcosa di utile nel mondo e non vedo come un alpinista possa creare niente oltre ai propri risultati. Per questo motivo ho sempre lavorato. Prima come Guida alpina, poi come autore e adesso come allenatore e imprenditore, aiutando gli atleti di sport di montagna ad allenarsi con le migliori conoscenze e pratiche».
Hai iniziato a scalare in Slovenia, con persone di una cultura differente dalla tua. Questo ha influenzato il tuo alpinismo?
«Mi ha aperto tante finestre. Una delle cose più interessanti è che mi ha mostrato una comunità di alpinisti. Negli Stati Uniti gli arrampicatori sono geograficamente isolati e le comunità sono veramente lontane le une dalle altre. Ci sono gruppi nei principali centri, Yosemite, Boulder, Teton, ma, soprat- tutto prima di internet, raramente si parlavano e interagivano. La cultura alpinistica in Slovenia invece è altamente integrata: gli alpinisti sono molto connessi e spesso parlano, socializzano e, ovviamente, scalano insieme; ed esternamente (la cosa più interessante per me) è integrata con la cultura generale slovena. Negli Stati Uniti l’arrampicata è un’attività molto marginale. Qualcosa da gente pazza. Qui se non puoi diventare ricco e famoso facendo qualcosa, la società di massa non vede come possa valere la pena farlo. Qui pericoloso è fare le scale senza usare il corrimano. In Slovenia l’alpinismo e lo sci sono visti come cose molto normali, se non nobili. E le montagne sono parte della cultura generale. Penso che a un italiano cresciuto sulle Alpi tutto questo sembri normale. L’ufficio delle Guide alpine è spesso di fronte alla chiesa nella piazza centrale: Guide e religione sono le due principali istituzioni del paese. In Slovenia ho visto cosa può essere una vera cultura della montagna. Ancora oggi i miei concittadini non hanno capito me o come mai passi così tanto tempo in montagna. Non hanno idea che per un gruppo di persone io sia famoso. Sono completamente anonimo».
Cosa intendi per stile alpino?
«In parole povere: fiducia in se stessi. Prendi l’attrezzatura minima necessaria, il tuo corpo e il tuo spirito. Questi sono gli unici strumenti necessari per fare le cose più incredibili».
Scalando su grandi pareti la velocità contribuisce ancora alla sicurezza
o il limite è stato raggiunto?
«La velocità contribuirà sempre alla sicurezza. Pensa per esempio al parlare in italiano. Se io provo a dire qualche parola, devo parlare veramente piano. Tu puoi parlare veloce. Ma se provi a parlare ancora più veloce, alla fine inciamperai, pronuncerai male alcune parole e non sarai più in grado di comunicare il tuo messaggio. Man mano che gli scalatori diventano più abili, diventano più fluenti a velocità più elevate. I limiti sono solo nelle nostre menti».
Perché gli alpinisti scrivono così tanti libri? È una tradizione del passato (i pionieri scrivevano delle loro imprese usando come modello le relazioni scientifiche) o è un modo per comunicare rimanendo isolati?
«Bella domanda! Ma non so la risposta».
Qual è l’obiettivo dei tuoi manuali?
«Semplicemente condividere quello che Kilian Jornet, Scott Johnston e io abbiamo imparato nel corso di decenni di allenamento e di prestazioni elevate. Vogliamo che il pubblico disponga di una fonte affidabile di informazioni sull’allenamento per gli sport di montagna».
C’è differenza tra l’allenamento di un alpinista e quello di un atleta olimpionico?
«Non c’è differenza, tutti i corpi lavorano alla stessa maniera. La differenza sta nel come le persone affrontano il loro percorso di allena- mento personale».
Le tue salite, o quelle di Steck, hanno dimostrato cosa può fare un alpinista grazie a un allenamento olimpionico. Hai notato molte differenze nel modo di allenarsi degli arrampicatori nel corso della tua carriera?
«Sì, ora tante persone si allenano in modo più intelligente. Quando ho iniziato nel 2000 ero il solo alpinista che si allenava come un atleta profes- sionista. E quando ho incontrato Ueli per la prima volta, nel 2005, aveva appena iniziato il suo percorso di allenamento ed eravamo gli unici».
Ci sono altri alpinisti che stanno seguendo il vostro metodo di allenamento?
«Scott Johnston è l’allenatore dell’alpinista tedesco David Goettler da circa quattro anni. Abbiamo anche lavorato con Alex Honnold, con la campionessa del mondo di freeski (2017) Lorraine Huber, i membri del team The North Face Global Anna Pfaff e Andres Marin e con un paio dei migliori ultra-runner americani: Luke Nelson
e Mike Foote».
Vi aspettavate tutto questo interesse verso il primo libro da parte di non alpinisti?
«No. Siamo rimasti completamente sconcertati da chi stava acquistando Training for the New Alpinism: quando Kilian Jornet lo ha pubblicato sul suo account Instagram e ha detto che si sarebbe divertito a leggerlo, abbiamo visto tutti i commenti di altri corridori e sciatori che lo avevano letto. Allora abbiamo capito!».
Il libro ha venduto molto, ma principalmente a non alpinisti. Saranno lo scialpinismo o le corse in montagna a formare il corpo dei futuri conquistatori dell’inutile?
«Non lo so. Le montagne sono un luogo in cui tutti sono liberi di esprimersi come vogliono, quindi spetta alle generazioni future trovare la propria ispirazione».
Con l’incremento dell’intensità degli allenamenti si arriverà a un punto in cui - come gli atleti professionisti - anche gli alpinisti avranno solo una breve carriera in cui potersi esprimere al 100 per cento? È compatibile questo con le condizioni variabili delle montagne?
«Poiché l’alpinismo non è competitivo, la durata della carriera di un alpinista è molto più lunga rispetto, per esempio, al ciclismo. Penso che 20 anni ad alto livello siano possibili per un arrampica- tore, anche se solo 5-10 di questi saranno al culmine assoluto. Alla fine parliamo di fisiologia e noi non possiamo battere il tempo».
Scrivi che l’alpinismo è 80 per cento testa e 20 per cento fisico. Bisogna allenare anche la mente, dunque? O è impossibile?
«Allenare il corpo è anche allenare la testa. Le persone spesso non colgono questa connessione nel libro, quindi è un mio errore come autore che non l’ho chiarito meglio. Allenarsi richiede un’enorme quantità di disciplina ed è molto difficile da fare mentalmente. Le due cose procedono sempre insieme».
Hai scritto che ti sei allenato per 15 anni per scalare la parete Rupal. Quanti di questi seguendo il metodo illustrato nel libro?
«Ho iniziato con il mio primo allenatore nell’autunno del 2000 e ho cominciato ad allenarmi con Scott Johnston nella primavera del 2001. Mi sono allenato con lui fino al mio incidente nel 2010».
Hai scelto di scalare con una persona che non si stava allenando come te, giusto?
«Vince e io siamo cari amici dal 1994. Si era allenato. Non come me, ma lo conoscevo bene e sapevo che era all’altezza della scalata e un perfetto partner».
Senza un allenamento specifico eri abbastanza in forma per aprire nuove vie di misto estreme e per scalare non stop per 60 ore sul Denali. Questo metodo serve solo per migliorare super-alpinisti o per scalare a 8.000 metri o può essere utile per tutti?
«Ne parliamo molto nei nostri libri: certo, le persone possono raggiungere una forma fisica abbastanza elevata semplicemente arrampicando molto e facendo esercizi casuali (l’esercizio non progressivo non è uguale all’allenamento). Questo era in effetti tutto ciò che chiunque ha fatto prima del 2000 o giù di lì. Inoltre arrampicare è uno sport di alta abilità, quindi bisogna scalare molto per sviluppare le abilità necessarie, per non parlare della capacità di valutazione e dell’esperienza».
In alcune tue salite hai cercato quasi una relazione mistica con i compagni di cordata, in altre hai detto di essere stato ispirato più dal tuo ego. Queste cose coesistono o a volte è necessario scalare con qualcuno per le sue abilità e non per la sua personalità?
«Ogni salita è diversa e cambiamo mentre procediamo attraverso la vita e l’arrampicata».
A volte definisci l’alpinismo come un’arte. Però l’alpinismo non mira a comunicare qualcosa agli altri: si scalano le montagne solo per se stessi. Non è un controsenso?
«Io credo che comunichi qualcosa agli altri. Molto, nel caso di alcune salite. Pensa a tutti i grandi libri di alpinismo. Ma ciò che è più importante, secondo me, è quello che viene comunicato a te stesso. Gli alpinisti hanno questo meccanismo di riscontro incredibil- mente unico e ricco verso se stessi. Quando arrampico, imparo qualcosa su di me, sul mio immediato stato emotivo, fisico e metafisico. Può essere transitorio, non permanente, ma molta grande arte lo è: danza, musica dal vivo...».
Il lavoro di allenatore con il progetto Uphill Athlete e il dover essere comunicativo (fare video, curare i social, rispondere a lunghe interviste) hanno cambiato la tua routine?
«È la mia professione, sono impegnato a tempo pieno per quattro giorni a settimana e per parte degli altri tre».
Quando ho intervistato Steck (Skialper n.101) parlava di come gli alpinisti fossero ancora molto lontani dal limite. Per esempio, ipotizzava l’arrivo di un alpinista in grado di unire le capacità atletiche di Kilian con le sue capacità tecniche. Tu cosa ne pensi?
«Concordo in pieno con questa affermazione».
Per finire: hai ancora la scritta Bonatti is God (Bonatti è Dio, ndr) sull’auto?
«No».
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Arriva anche il pantaloncino... elettorale
È un fenomeno tutto americano, però un po’ di curiosità la può destare anche da noi. Negli Stati Uniti, in fibrillazione per le elezioni presidenziali del 3 novembre, ha iniziato a circolare la foto di un’etichetta di un capo di abbigliamento Patagonia con una scritta ‘Vote the assholes out’ (linguaggio molto colorito, diciamo ‘vota per lasciare a casa gli st….i’). La fotografia è apparsa per la prima volta in un post di Corey Ciorciari, ex consigliere del senatore della California Kamala Harris. In molti hanno pensato a un fotomontaggio, invece alcuni articoli della stampa, da Adventure Journal al Los Angeles Times, confermano che non è un fotomontaggio. Secondo quanto scritto da Steve Casimiro dell’Adventure Journal, che ha contattato la sezione affari pubblici del brand di abbigliamento outdoor californiano, si tratterebbe di un’edizione in tiratura ultra-limitata del pantaloncino Road to Regenerative Stand Up. Il messaggio sarebbe diretto genericamente, come avvenuto in altre forme in passato a ‘politici di qualsiasi partito che negano che il cambiamento climatico sia reale, o non credono che dovremmo fare nulla per il cambiamento climatico’.
La donna che vuole battere il record maschile
Una donna che punta dritta al record di un uomo. Peraltro fresco. Lo scorso 6 settembre il francese Aurélien Dunand-Pallaz ha superato 17.218,2 m di dislivello in 24 ore. Ora la connazionale Élise Delannoy vuole mettere la bandierina più in alto. Élise, settima all’ultima UTMB, ha scelto sabato prossimo, 19 settembre, per cercare di stabilire il nuovo record di dislivello in 24 ore. Lo farà su una collina di 129 metri a Nœud-les-Mines (Pas-de-Calais).
Il piano è di fare 290 giri di 520 metri con 59,4 m di dislivello per un totale di 151 km per 17.226 m D+. Nelle recenti prove in un giorno ha fatto 5h x 62 giri (3.680 m D+ - proiezione: 17.660 m in 24 ore), in un altro 3h x 39 giri (2.361 m D+ - proiezione: 18.500 m in 24 ore).
AGGIORNAMENTO 21/09/2020: Élise Delannoy non ha battuto il record maschile, ma stabilito quello femminile, che è il quarto assoluto con 16.572,6 m.