Finché c’è neve c’è Speranza
In montagna ho fatto più o meno tutto, più o meno bene: salite invernali, arrampicate in falesia d’estate, trekking, corse in quota, ciaspolate a non finire, sci su pista e sci da fondo. In quest’ultimo settore ho partecipato pure a qualche gara e ad almeno una dozzina di Marcialonghe, a partire dalla prima, quella del remoto 1971. Solo per farvi intendere l’età che ho accumulato. Mi mancava dunque lo scialpinismo. È un po’ che ce l’avevo in mente ma per smuovermi davvero ci volevano due cose indispensabili: l’occasione e la compagnia giusta. Adesso l’occasione l’ho trovata: la quarantena nella casa di montagna. E devo sfruttarla in fretta prima che anche qui, nelle terre alte piemontesi, arrivi l’ingiunzione di dover uscire solo con una Guida. Un po’ mi scoccerebbe, non tanto per i soldi, che in quanto extra da qualche parte dovrei far saltar fuori, quanto perché ero convinto che lo scialpinismo, a differenza degli altri sci, fosse l’essenza della libertà assoluta: vai proprio dove vuoi, seppur con la consapevolezza dei tuoi mezzi e dei rischi.
Poi ho trovato anche la compagnia giusta, le tracce da seguire, quelle di Speranza Vigliani, una signora del centro di Milano che tutto sembra tranne che una signora del centro di Milano. Speranza ha anche una casa alpina non lontano dalla mia, e non vede l’ora che cada la neve per mettere le pelli sotto gli sci e andarsene per monti e valli. Quelle vicine, per poi allargare man mano il giro. Scia scia, è arrivata a serpeggiare anche sui versanti del monte Ararat e perfino tra quei valloni scoscesi e ghiacciati che precipitano sui fiordi della Norvegia. Per il resto, non è che se ne sta con le mani in mano: fa triathlon, trail in mountain bike, traversate a nuoto di laghi e corse in bici sulle strade bianche. Vanta pure un brevetto di Accompagnatore di media montagna, così almeno gli aspetti culturali e ambientali del cammino li può raccontare e condividere in via ufficiale. Non può certo insegnare scialpinismo, è ben chiaro, ma non l’ho contattata per questo, ma perché conosce i posti giusti per cominciare vicino a casa nostra, per farmi dire come funziona tutto l’ambaradan per un principiante, cosa mi serve davvero. Insomma, finché c’è neve c’è Speranza.
«Prima di tutto, è necessario informarsi sul tempo che verrà, sullo stato della neve. Non chiederlo però ai local. Per loro la neve l’è semper bela, una farina anche se in realtà è molto più simile ai cubetti di ghiaccio del freezer. Ma loro scendono sempre e dappertutto, perciò non fanno testo».
«Ok, poi?».
«Poi l’attrezzatura giusta. Vai in un negozio qualificato, di qualcuno che conosci e fatti consigliare. Magari, all’inizio, è meglio noleggiarla».
Perfetto. Dalle mie parti, che sono defilate, c’è un negozio storico. Beh, più che un negozio è una specie di outlet-antiquario (nel senso che qui le cose nuove arrivano quando altrove sono già vecchie), beh, più che un outlet, un magazzino dove tutto è piuttosto confuso, ammucchiato.
Se vedi sbucare un paio di guanti che ti piacciono non toccarli! Lascia fare al padrone di casa, che sa come sfilarli delicatamente senza far venire giù tutto. Lui è un tipo convincente, l’autunno scorso sono entrato per prendere un paio di robusti guanti da sci e sono uscito con un paio di guantini di seta in colori mimetici, forse buoni per i cacciatori, che non metterò mai. In compenso stanno nell’astuccio degli occhiali, non si sa mai. Una volta ho visto dare a uno un paio di ghette di tela cerata con il pelo di volpe dentro, ammuffito alla perfezione, avanzate probabilmente dalla prima spedizione polare di Roald Amundsen. Non ero comunque l’unico nel suo antro; davanti a me c’era una signora (non so se milanese o meno) anche lei per prendere l’attrezzatura da scialpinismo. L’ho capito chiaramente verso il finale, quando le ha dato la scatola delle pelli. Lei l’ha aperta, ha guardato, ha palpato tra indice e pollice e ha esclamato con disappunto: ma non sono di foca!.
«No signora, gli ambientalisti ce lo vietano». Detto con un sorrisetto.
«Maledetti, anche qui sono arrivati» ha risposto madame con un ringhio.
Cosa volete, noi puristi dello scialpinismo un po’ âgée siamo così, ci piace la foca.
È toccato finalmente a me. Il negoziante mi ha scrutato un attimo, su e giù, giù e su, come fosse uno scanner, ha afferrato il primo paio di sci larghi a tiro e me li ha spiattellati contro una spalla: «Questi sono perfetti».
E io che mi aspettavo prove da galleria del vento. Poi però mi sono detto che Ottorino Mezzalama quando nel ’27 è salito e poi sceso vivo dal Monte Bianco aveva due strisce di legno con ganasce, molle, lacci e fermapunta in canapa. E se ce l’ha fatta Ottorino…
«Ok, Speranza, con la roba sono a posto. Dove si va?».
«Alla Dormillouse, salendo dalla Val di Thures».
Il posto mi piace. A partire dal nome, la Dormillouse, che mi dà l’idea di una figura adagiata su un fianco morbido. E così è. L’intera montagna, larga e polposa, alta 2.908 metri, è glabra, solo qualche arbusto che sbuca dalla neve qua e là ma non ci sono proprio alberi, quindi, una volta constatata la stabilità del terreno, si può galleggiare, planare, svolazzare, svoltare dove si vuole.
«Calma, non è detto che uno che sa sciare dignitosamente in pista se la cavi altrettanto decorosamente sulla neve naturale. Anzi. Perciò si parte più sotto, dalla Crête de la Dormillouse, dove il fondo è più compatto e la ripidità meno accentuata».
«Come dire che invece che partire dalla spalla della dormiente partiamo dalla coscia» aggiungo io per fare lo spiritoso.
«Più o meno. Comunque qui stiamo parlando di scendere. Però c’è un fatto: prima bisogna salire. Ricorda, sci-alpinismo, e quest’ultimo prevede che prima si salga».
La salita, giusto.
Non capisco perché certe signore milanesi quando sono in città, quando anche vanno di fretta, hanno un passo e quando sono in montagna ne hanno un altro. Non riesco a starle dietro. Nemmeno sulla strada di neve già ben battuta che dalle case di Rhuilles, dove abbiamo lasciato le auto, sale alle Grange Chabaud e al colle omonimo, un pianoro enorme che se lo percorri tutto sconfini sulle praterie francesi che scendono verso la solitaria valle della Cerveyrette, nelle cui microscopiche borgate non arriva ancora la corrente elettrica.
Decenni di passo alternato nello sci da fondo mi aiutano a coordinare i movimenti, ma un conto è andare in piano tra i binari ben tracciati delle vicine piste olimpiche di Pragelato, un conto è salire, salire, salire e cercare di stare dietro a Speranza che sembra andare con una lentezza esasperante e invece guadagna centimetri ad ogni scivolata. Lei scivola, io zampetto, qui sta la differenza. C’è anche da aggiungere che il sottoscritto, da neofita, ha portato nello zaino tutto quel che serve per proteggersi dal blizzard, dalla nevicata del secolo, dall’invasione delle locuste, dall’arrivo del vento dal Sahara, dall’alluvione e da ogni altra avversità dovuta ai cambiamenti climatici, sempre più imprevedibili. Speranza, che aveva controllato di nuovo le previsioni meteo, solo quel che serve davvero in una giornata di sole tiepido che fa rintanare il freddo del mattino nelle zone ombrose di fondovalle. Nello zaino ha la pala e la sonda, mentre l’Artva lo abbiamo addosso entrambi. Il mio l’ho naturalmente affittato insieme agli sci, ma Speranza mi raccomanda di acquistarlo nel caso intendessi proseguire l’attività dopo le prime lezioni. «Con il kit di sopravvivenza te la cavi con circa 250 euro, beh, poi c’è l’attrezzatura, poi ci aggiungi cinque o sei uscite con una Guida o un Maestro di sci…». Mentre sbuffo e sudo, bagnato come la Fontana di Tritone a Roma, con l’acqua che gli zampilla dalla testa e gli ricade addosso, faccio mentalmente due conti e concludo che il resto dell’inverno, altro che montagna; lo trascorrerò a passeggiare sul lungomare di Bordighera, come molti pensionati di professione, fermandomi a scrutare il mare ogni tre minuti, con la mano a visiera sulla fronte, anche se il panorama è sempre quello.
La mia amica milanese tiene subito a precisare che questa che stiamo facendo è una scampagnata, tanto per guardarci in giro e assaporare il buon gusto della libertà e della solitudine e per far due scivolate su terreno sicuro, ma poi per imparare davvero e affrontare la polvere (si capisce da questo che lei ne sa, pur se the wild world of powder lo dicono solo quelli che hanno imparato il free ride tra le foreste della British Columbia) qualche lezione bisogna pur prenderla.
Alla base della Crête riprendiamo fiato prima di iniziare a salire (ancora!) tra quelle che sono delle collinette, le gobbe di cammello, avrebbero detto in una telecronaca sciatoria di qualche tempo fa. Qui sembra che di cammelli ce ne siano mandrie intere, il fianco della montagna pare la superficie di un panettone ricoperto di uvette, ce ne sono tantissime. Meglio, penso, tutti quegli avvallamenti serviranno a frenarmi. Davanti a me, molto davanti a me, Speranza sale con calma, con regolarità e scioltezza, anzi, naturalezza, e dà al movimento un perfetto tono armonico. Ogni tanto cambia direzione, si ferma, respira, osserva tutt’intorno, alza lo sguardo verso le creste.
«Grazie, che ogni tanto mi aspetti» le dico quando la raggiungo emanando vapori come una locomotiva d’altri tempi.
«Più che aspettarti – risponde ridendo mi godo la salita e la fatica, quella che regala benefici. E, a parte questo, lo scialpinismo richiede osservazione, attenzione, decisione, sensibilità. Bisogna cercare di entrar a far parte dell’ambiente intorno. Se non fai così, tanto vale restarsene a sciare sulle piste lisce e soleggiate del Fraiteve cercando di schivare le bande di ragazzini degli sci club».
Saliamo ancora un po’ fino a superare le gobbe di cammello, simili più a meringhe soffici cosparse di zucchero abbondante. «Direi di partire da qui – dice Speranza ma prima beviamoci un sorso di tè, copriamoci bene e immaginiamo un tracciato da seguire e soprattutto un punto di arrivo». Allaccio e stringo tutto quel che è allacciabile e stringibile. In alto c’è il sole ma dalla valle della Cerveyrette sale una lama di aria gelida. Il vento francese è sempre così, ce l’ha con noi italiani, avverte subito quando stai per avvicinarti troppo alla linea di confine.
«Naturalmente immagino che tu abbia curiosato su YouTube e avrai visto quei rider giapponesi che si immergono e riemergono da mucchi di neve fresca tenendo fuori solo la testa e la punta degli sci. Dimenticali! Avrai pure visto quelli del Mezzalama, che quando si buttano giù dai pendii sembra debbano sfracellarsi da un momento all’altro. Beh, dimentica anche quelli! Loro sono in gara e devono recuperare secondi preziosi. Per fare quelle cose ci vogliono anni di pratica e un fisico bestiale, e mi sa che tu…».
«Perciò?».
«Posizione centrale, niente uso degli spigoli, movimenti accentuati di flessione-distensione e appoggio dei bastoncini, che danno il ritmo. Fluidità, scioltezza, naturalezza. Niente lunghi diagonali, per non rallentare e rendere difficili le curve. Tutto qui».
Certo, tutto qui. Ora che mi concentro su ogni singolo elemento viene Natale 2021 ma in questo caso bisogna fare tutto insieme, contemporaneamente.
«Vado avanti, così vedi».
«Sì, vai, vai».
In effetti è un bel vedere. Punte subito a valle, curve sinuose e continue, piccoli sbaffi simmetrici sulla neve fresca, una danza soffice. Sono incantato e dall’incanto vengo svegliato da un agitare di bastoncini nell’aria, giù in fondo. Tocca a me, arrivo. Punte subito a valle, piccola spinta, provo la prima curva, provo la seconda, la terza, lasciando dietro di me solo sbavature di una linea retta che diventa sempre più minacciosa. Accentuo ancora di più la flessione/distensione, allungo il braccio in avanti/di lato ma le punte stanno sempre fisse a valle e vanno dritte verso una meringa. Beh, poco male, almeno mi fermo con la risalita e la neve fresca. Ma no, perché il versante Nord della meringa è più ghiacciato degli altri versanti, e prendo ancor più velocità. La meringa fa effetto trampolino, salto nell’aria e atterro una ventina di metri più in là, nella neve soffice. Di schiena, naturalmente, per via dello zainone (che però, pieno com’è di roba inutile, fa effetto airbag) e resto immobile con le gambe rigide nell’aria, come un passero abbattuto da un pallino. Speranza mi si avvicina: «tutto a posto?».
«Una meraviglia».
«Beh, passare dal freeride al freestyle è stato un attimo!» dice ridendo.
Ma io non demordo. Proviamo qualche altra inerpicata con conseguenti discese. Mi fa rifare i movimenti da fermo. «Perfetti» mi incoraggia.
Ci credo, da fermi son buoni tutti. Però nei successivi tentativi qualche curva a parentesi tonda (invece che a parentesi quadra come le precedenti) mi riesce, offrendo allo sguardo un paesaggio meno sconnesso, più lineare, e qualche brivido di piacere assoluto. Dopo un paio d’ore di su e giù riprendiamo la strada che ci riporta alle auto. È tutta discesa e, sul battuto, i miei sci scodinzolano stretti come quelli di un vecchio maestro dello storico Sci Club 18 di Cortina; tecnica, anche questa, d’antan. A valle ci salutiamo, dandoci appuntamento a un domani impreciso, vago, forse inesistente. La sera ci penso: in fondo non è stato un brutto giro, sono vivo ed è questo che conta. Quasi quasi chiamo Speranza per farmi dare il numero di un esperto autorizzato, per quelle lezioni base. Oppure prenoto a Bordighera?
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Ararat amaro per Nico Valsesia
Nico Valsesia ci ha abituati a imprese titaniche a suon di pedalate e passi di corsa per raggiungere le cime più alte della terra partendo dal mare. Imprese che il cinquantenne di Borgomanero con un secondo e terzo posto nella Race Across America di ciclismo ha sempre affrontato con disinvoltura. Solo il Monte Ararat l’ha respinto. Il D-Day era previsto sabato scorso, 22 maggio. Partenza da Hopa, una piccola cittadina affacciata sul Mar Nero, e dopo 500 chilometri e 8.000 metri di dislivello da pedalare in completa solitudine, arrivo ai 2.200 metri della base dell’Ararat, con ancora altri 3.000 metri di dislivello da scalare a piedi per raggiungere la vetta. Una montagna, l’Ararat, tecnicamente facile da salire in estate ma ancora ricca di neve e ghiaccio in questo periodo. Con in più le difficoltà della pandemia, con la Turchia sottoposta a pesanti restrizioni. Per non farsi mancare nulla Nico ha pensato bene di raggiungere la destinazione in auto, aggiungendo altri 4.000 chilometri non proprio agevoli.
Cronaca di un tentativo
La partenza sabato alle 12.33. La strada, quasi sempre ben asfaltata, scorre prima in una valle e poi inizia una lunga e massacrante salita di oltre 100 chilometri, quindi prosegue su e giù per altipiani prima molto verdi e poi dalle tonalitа più aride. Il vero problema sono i cani randagi che attaccano più volte Valsesia, costringendolo anche a scendere dalla bicicletta e usare la stessa per difendersi. Poi sarа l’auto al seguito a mettersi in mezzo e a fare da deterrente per i tanti cani incarogniti contro il ciclista. La notte, fredda e molto ventosa di suo, con gli agguati improvvisi di questi branchi di pericolosi randagi, diventa un tormento. Alle prime luci dell’alba e con il cambio di zona il cielo diventa grigio e le temperature iniziano a salire. Una foratura e alcuni posti di blocco militari, in un’area contesa con la vicinissima Armenia, rallentano leggermente il ruolo di marcia, mentre bar, market e qualsiasi tipologia di negozio sono chiusi, mettendo a dura prova il pianificato reintegro alimentare. Arrivati a Dogubayazit, la piccola cittadina sulla piana ai piedi dell’Ararat, giа base logistica per la prima ascensione conoscitiva e d’acclimatamento con salita in vetta, dei giorni precedenti, si decide per un reintegro energetico importante. Dopo un riposo di un’ora e mezza, Valsesia cambia anche la bicicletta, una gravel, per gli ultimi 20 chilometri che portano allo spiazzo da cui partono tutte le ascensioni al monte. Una salita flagellata dal vento e con il cielo che diventa sempre più nuvoloso e scuro. La frazione ciclistica termina dopo 25 ore e 31 minuti. Dopo un paio d’ora di marcia, Nico, accompagnato dal figlio Felipe e da un Guida locale, è costretto a un riparo di fortuna sotto una roccia per evitare una forte grandinata e i tanti fulmini che saettano in cielo. Un altro spostamento verso l’alto in un momento di apparente calma, mentre il nero della notte si è impossessato della montagna e un secondo stop forzato da un’altra grandinata spinta da un vento fortissimo. A quota 3.200 metri l’ospitalitа in una tenda di un gruppo di escursionisti. anche loro bloccati dalle avversitа meteorologiche, un riparo che servirà per tutta la notte. Questa mattina, con il vento leggermente in calo e nessuna precipitazione, un ultimo tentativo fino ai 3.800 metri dove li avrebbe dovuti attendere una tenda di servizio, purtroppo distrutta dalla forza della natura. Restano comunque la vetta dell’Ararat conquistata nei giorni precedenti e un tentativo di record portato nuovamente al limite da un atleta che a 50 anni ha ancora qualcosa da dire.
Una corsa alla fine del mondo
Ero curioso di tornare nella valle Chacabuco e al lago Jeinemeni. Ma non era solo la natura ad attrarmi, piuttosto gli uomini e il loro rapporto con l’ambiente. Queste valli, questi monti, sono forse il luogo dove ho lavorato più a lungo come Guida di montagna, dove ho corso più lontano. Qui ho scritto record di salita e discesa in velocità su cime selvagge. Queste montagne le sento un po’ come mie, anche se non vivo qui, ma vicino a Santiago, nella valle Maipo. All’inizio del 2018, grazie alla donazione allo stato del Cile della terra della Valle Chacabuco da parte di Tompkins Conservation, la Reserva Nacional Lago Jeinemeni e la Reserva Nacional Lago Cochrane sono state unite nel Parque Nacional Patagonia. Queste valli sono state trasformate negli anni dall’allevamento e l’ecosistema, al di fuori dei panorami da cartolina, rischiava di essere compromesso irrimediabilmente, però la creazione del parco è andata contro alcuni degli interessi economici locali. Così, a distanza di due anni, volevo vedere come è stato accolto dalle persone che vivono da quelle parti e che effetto ha prodotto sull’economia locale. Volevo farlo a mio modo, tornando lì per correre. Allora ci sono ricascato. Come un anno fa, sono partito per il Sud. Questa volta ho scelto un Volkswagen T2. In realtà è lui che ha scelto noi: l’abbiamo trovato in un parcheggio e ce ne siamo subito innamorati.
Ho corso sul sentiero delle Lagunas Altas o al Mirador Douglas Tompkins per guardare dall’alto il Lago Cochrane, ho attraversato il Chacabuco sul lungo ponte pedonale, ho riscoperto la bellezza selvaggia del Lago Jeinemeni e i paesaggi extraterrestri della Valle Lunar e della Piedra Clavada, una roccia vulcanica alta 40 metri. Tornare a casa è stato speciale. Inutile dire che correre qui, ma anche semplicemente partire per un trekking lungo uno dei tanti sentieri segnalati, è un'esperienza unica. I guanacos (una specie di lama) sono una presenza costante, ma ci sono altri occhi che vegliano su di te, dal condor al flamenco cileno che volteggiano nel cielo, ai puma e agli armadilli, fino ai simpatici huemules, i cervi cileni. Per dormire ci sono i tre campeggi all’interno del parco, così il contatto con la natura ti rimane dentro ogni minuto della giornata. Però tutto questo lo sapevo. Tompkins Conservation è stata creata da Douglas Tompkins, fondatore di The North Face ed Esprit, e dalla seconda moglie Kristine per comprare terre in Sud America, creare parchi, proteggere la fauna e incentivare l’agricoltura rigenerativa. Nel 1968 Tompkins partì in auto dalla California per raggiungere la Patagonia insieme a Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia, e aprire una nuova via sul Fitz Roy. Ora che Douglas è morto, Yvon e sua moglie Malinda fanno parte del board direttivo della Tompkins Conservation. Il Parque Nacional Patagonia è una scommessa riuscita, un segreto che è sempre più difficile tenere nascosto per partire alla scoperta di una Patagonia meno frequentata e più autentica di altri santuari naturali, come per esempio il Parque Nacional Tierra del Fuego, a Ushuaia, in Argentina o il De Agostini, in Cile. Ma la sorpresa più bella è che il modello di turismo del parco e soprattutto di agricoltura rigenerativa che si sta sviluppando, anche fuori dall’area protetta, sta funzionando. Le persone del luogo iniziano a vivere di turismo e agricoltura sostenibile e si è messo in moto un volano che porta lavoro e benessere.
Gli allevamenti di bestiame e i danni all’ecosistema sono un ricordo. Le grandi valli modellate dal Rio Chacabuco e la steppa patagonica, dopo un secolo di pastorizia, ospitano un livello di biodiversità tra i più alti della regione di Aysén. Invece di produrre anidride carbonica, la catturano. E le montagne, i boschi di lengas e i grandi laghi sono lo scenario perfetto per questo film a lieto fine.
Huerto Cuatro Estaciones
Mi ricordo il mio primo giorno di agronomia all’università, quando uno dei professori ci ha detto che saremmo stati responsabili di nutrire il mondo perché stavamo affrontando una fase di grande crescita demografica. Però c’era una contraddizione con quello che nella realtà ci insegnavano e produrre vino e frutta a buon mercato per i Paesi sviluppati perché potessero soddisfare il capriccio di avere tutte le primizie sulla tavola in ogni periodo dell’anno, senza preoccuparsi dell’origine e di come fossero prodotte. Con Javier abbiamo pensato di costruire un’alternativa. All’università non abbiamo imparato come coltivare la terra, ed eravamo agronomi. Così siamo andati in Ecuador, dove siamo diventati contadini. Poi con questa esperienza siamo venuti in Patagonia e siamo stati quattro anni nell’Estancia Chacabuco, nel Parque Nacional Patagonia, dove abbiamo adattato la nostra esperienza al clima patagonico. Qui il meteo è ostile e variabile, la stagione corta. La sfida da vincere era quella di poter produrre senza l’utilizzo di fertilizzanti chimici, ma soprattutto di dimostrare che fosse economicamente sostenibile. Così è nato Huerto Cuatro Estaciones (la fattoria delle quattro stagioni). Ora siamo sulle rive del lago General Carrera dove c’è un microclima favorevole per l’agricoltura. La regione di Aysén è una delle zone meno popolate del Cile e l’agricoltura intensiva qui non è ancora arrivata.
È un’opportunità unica per costruire il futuro di queste terre e della comunità locale. Ci ispiriamo al concetto dell’agricoltura rigenerativa che non cerca solo di rigenerare il suolo, ma anche di creare abbondanza e sviluppo, però è importante non essere fraintesi, non sembrare quelli che impongono le loro conoscenze alla comunità locale, che insegnano come coltivare il loro cibo. Di questa comunità abbiamo deciso di fare parte. Puerto Guadal è un piccolo villaggio, tutti si conoscono e vendiamo i nostri prodotti al mercato ogni settimana. È un’opportunità di condividere con loro il nostro lavoro e abbiamo ispirato alcuni abitanti a coltivare l’orto e a iniziare a vendere i prodotti ai vicini. Organizziamo corsi dove i giovani possono vedere e imparare come coltiviamo la verdura. La nostra idea è quella di dare loro l’esperienza per fare partire altri progetti. Il modo migliore di imparare è fare. Ci sono le lezioni teoriche, ma la cosa più importante è sporcarsi le mani, seminare, raccogliere, fare il compost e passare la giornata in un orto organico. Utilizziamo il metodo bio intensivo perché non richiede fertilizzanti e pesticidi e non dipende dai prodotti fossili. Si basa sulla vita del terreno e lo rende più fertile di anno in anno. Coltiviamo più di 30 diverse specie, usiamo i fiori per attrarre gli insetti benefici, aumentando la diversità. Sono molto fortunato a vivere in uno degli ultimi territori non devastati dall’uomo e voglio proteggerlo e dimostrare che è possibile vivere bene rispettando il mondo che ci circonda, la natura e gli uomini.
Francisco Vio
Peninsula Mitre
Flashback. Gennaio 2019. Sono sui soffici ciuffi di erba, ma poco oltre c’è una bianca scogliera che precipita per centinaia di metri verso le onde del mare. Il vento mi fa barcollare. Di tanto in tanto arriva qualche provvidenziale goccia d’acqua. La Península Mitre è l’estrema punta meridionale del Sud America, quella punta dell’Argentina che guarda a Est. Ieri abbiamo provato a bere l’acqua degli acquitrini rendendoci conto che, anche bollita, è imbevibile perché inquinata dai castori. Sembra incredibile, ma questi roditori, introdotti dall’industria delle pellicce, hanno devastato l’ecosistema locale. L’alternativa era bere quel liquido disgustoso o l’acqua salata del mare, poi abbiamo capito che si poteva raccogliere l’acqua che ogni giorno cade dal cielo ed è stata la nostra salvezza. Essere qui, senza tutte quelle comodità del nostro mondo, a partire da un collegamento internet, mi ha obbligato a risolvere i problemi, tanti, facendo solo ricorso al mio intuito. Mi ha fatto capire che a volte devi avere fortuna. Ormai siamo in strada da quasi sette settimane io e la mia compagna. Ci siamo uniti al gruppo di Adolfo, un attivista che da 20 anni frequenta la Península Mitre e che sta portando degli scienziati a studiare le colonie di leoni marini. Loro vanno a cavallo, noi corriamo su questi tappeti morbidi e la sera ci ritroviamo. Qui ogni estate arrivano diverse specie migratorie. Da oltre 30 anni organizzazioni no-profit, scienziati, attivisti e abitanti di queste terre si battono per renderle un territorio protetto. Salvaguardare le torbiere e il loro ecosistema è importante perché coprono solo il 3% della superficie terrestre ma contengono 550 miliardi di tonnellate di carbonio organico, il doppio di quello di tutte le foreste del mondo, e sono uno dei migliori alleati nella lotta al cambiamento climatico. Correre qui, tra venti e maree, è stata una delle esperienze più speciali della mia vita, ma mi rimane da visitare l’isola di Navarino.
A dicembre lì, a Sud di Ushuaia, ho partecipato al trail più meridionale del mondo e ho conosciuto Fede e Facu, che mi hanno ospitato a Ushuaia, ma ora voglio tornare per correre anche sul versante Sud e andare a esplorare un grande lago. Lì finisce il sentiero più meridionale del mondo. Oltre ci sono solo le Wollaston Islands e l’Antartide. Dovremo aspettare due giorni per poter attraversare il Canale di Beagle a causa dei venti forti e del mare mosso. Puerto Navarino, in Cile, è il piccolo attracco sull’isola ed è piccola pure la barca per la traversata. Ho pensato di non tornare vivo, è stata un’esperienza difficile tra le onde. Poi da Puerto Williams ci spingeremo sulle montagne e al lago. Le nostre tende, al risveglio, verranno ricoperte da una spessa coltre di neve. Non c’è niente e nessuno al di fuori del piccolo villaggio di Puerto Williams, gli smartphone non prendono. Ushuaia e i suoi turisti sono lì di fronte, ma basta girare l’angolo per essere nel nulla. Prima di Peninsula Mitre e Navarino siamo stati a correre nel Karukinka Natural Park, un parco privato sull’isola della Tierra del Fuego, gestito dalla Wildlife Conservation Society, in pratica un laboratorio a cielo aperto per la difesa dei diversi ecosistemi della Tierra del Fuego. Karukinka significa ultima terra dell’uomo. Ed è stato così anche per noi perché la tappa successiva era il Yendegaia National Park, nel cuore della Cordillera Darwin. Questa terra ha una storia simile al resto della regione: sfruttata per l’allevamento, che ha incoraggiato il genocidio delle popolazioni indigene, è stata comprata dal Conservation Land Trust che nel 2014 l’ha donata al Cile ed è stata dichiarata parco nazionale. Però si tratta di un parco che esiste solo sulla carta perché è inaccessibile e per questo estremamente selvaggio. I militari stanno costruendo una strada per renderlo accessibile, ma questo posto non sarà più lo stesso. Così, a causa anche dell’uso degli esplosivi, utilizzo comunque regolamentato per non disturbare l’avifauna locale, l’accesso è vietato. Però credo che se hai degli obiettivi e ti guida la passione, devi prenderti qualche rischio e, approfittando di una pausa nei lavori e del rischio basso di essere scoperti, siamo riusciti a entrare. Sono stato spesso in zone remote, ma questa volta è stato diverso, oltre ogni aspettativa. Non esiste nulla, neppure una traccia nella vegetazione. Lì, fuori dal mondo, ho riflettuto sulla fortuna di essere uno degli ultimi a vedere dei posti così selvaggi. La strada sicuramente cambierà i luoghi, però pensando ai benefici portati dal Parque Nacional Patagonia credo che i cambiamenti positivi saranno maggiori di quelli negativi. Correre su sentieri è un modo diverso per connettersi con i luoghi e le persone che li vivono. Più impariamo dalla natura, maggiore è la probabilità di essere coinvolti e rispettarla. Se tutti potessimo capire che i parchi nazionali non servono solo a proteggere un posto meraviglioso, ma sono strumenti che abbiamo per salvare il nostro pianeta, penso che li guarderemmo con altri occhi. E la corsa è un ottimo punto di partenza.
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Every Single Street
Le sterminate distese di sabbia e le gelide onde di Ocean Beach, a San Francisco, hanno qualcosa di catartico. E il gesto simbolico di Rickey Gates, che qui ha chiuso il primo agosto del 2017 la sua corsa da costa a costa degli Stati Uniti e da qui il primo novembre del 2018 è partito per il progetto Every Single Street, un’ultra-maratona per toccare ogni singola strada di San Francisco, è stato premonitore. O forse profetico. Passare dalle immense distese di uno dei Paesi più grandi del mondo alle 49 miglia quadrate di una città di poco meno di un milione di abitanti assume un significato ancora più profondo ora che, a causa delle restrizioni dei lockdown e delle conseguenze dell’era Covid, abbiamo riscoperto tutti una dimensione più local. E l’hashtag #everysinglestreet, oltre che un cortometraggio della Salomon TV, è diventato virale, con seguaci in ogni parte del mondo. Per correre dalla South Carolina a Ocean Beach, Rickey Gates ha coperto 3.700 miglia (poco meno di 6.000 chilometri), per raggiungere tutte le strade di Frisco, come i local chiamano la città del Golden Gate, 1.317 miglia (poco più di 2.100 chilometri) e 147.000 piedi di dislivello, quasi 45.000 metri.
Dopotutto in sette miglia per sette miglia ci sono ben 1.100 miglia (1.770 chilometri) di strade e per percorrerle tutte, anche se sei efficiente al massimo, devi coprire alcuni tratti più volte. «Correre su ogni singola strada di San Francisco in 45 giorni è stato come fare un’ultra ininterrotta tra le montagne, perché non puoi mai staccare con la testa, devi essere sempre concentrato e il dislivello è importante - dice Rickey - Però per altri versi è molto diverso, perché la nostra idea di trail running è spesso legata alla fuga, è semplicemente esistere in un posto e non essere perfettamente presenti e consapevoli in quel luogo: correre per le strade della città è l’opposto di fuggire». Ed è un rompicapo degno del cubo di Rubik, al quale si stanno appassionando centinaia di adepti che si ritrovano su citystrides, dove è possibile tenere traccia di tutte le strade percorse collegando il proprio account Strava o di altri servizi simili. «Si tratta di risolvere il problema del postino cinese e, si badi bene, non quello del postino americano. È un problema classico della matematica che consiste nel tracciare un percorso per raggiungere ogni lato di una strada e non semplicemente ogni indirizzo a cui va consegnato un pacco». Un problema di difficile soluzione pratica se è vero che Gates ha cercato di risolverlo elaborando un algoritmo con l’amico Michael Otte e alla fine ha dovuto ripiegare su un più empirico metodo fatto di mappe da tracciare con penne colorate. «È incredibile, sei in un quartiere e dici ancora un po’ e ho finito, e invece ti prende tutta la giornata». Every Single Street è la sfida e l’avventura dietro casa, dove non avresti mai immaginato. «Probabilmente ora è il momento migliore per partire alla scoperta della propria città, siamo uomini e il viaggio è nel nostro DNA, ecco perché accettare con curiosità la sfida è quello che abbiamo bisogno durante questi momenti di restrizioni».
Naturalmente correre a Frisco non è esattamente come farlo in qualsiasi dannata città o cittadina, perché San Francisco, come dice Rickey dopo averne percorso in lungo e in largo tutte le strade, compresa Gates Street, è il mondo. «Per me correre è sempre stato un mezzo, per incontrare le persone, per conoscere i luoghi o me stesso: ci sono stati tempi in cui il cronometro mi motivava, ma ora a 39 anni la corsa è diventata molto di più e farlo in una città densamente popolata ti porta in contatto con volti, odori, rumori. Siamo creature abbastanza semplici, le persone vogliono solo un po’ di attenzione, che le guardi e che sorridi con loro e correre nella città ti mette nelle condizioni di andare in profondità nel concetto di empatia, di cercare di dare a ogni persona che incontri la stessa importanza, come se fossimo tutti nello stesso orologio e vivessimo allo stesso livello momenti ed emozioni». Correre in città è uno stimolo incredibile per la curiosità, quella stessa curiosità che ci muove verso obiettivi impensabili. Rickey Gates, correndo per le strade di Frisco, si è preso i ritmi e i tempi per fermarsi e curiosare, scattando migliaia di fotografie. Ci sono raccolte con titoli curiosi, come per esempio la scritta Jesus saves, i cartelli di animali domestici persi o le decine di Karmann Ghia, ma anche temi più seri come i tanti barboni che dormono per strada. «Alcune cose hanno attirato la mia attenzione come mai prima: Jesus saves l’ha scritto la stessa persona, su alcune strade vicine, mi sono divertito a immaginarlo seduto sull’asfalto a tappezzare l’asfalto di quella scritta; la Karmann Ghia è la macchina sportiva più sexy di sempre e il mio furgone VW del 1974 ha un motore molto simile».
Correndo su ogni dannato chilometro di asfalto o di sterrato di una città diventi anche la migliore guida di quel luogo. E sai che a Frisco non puoi non fare un salto a Bernal Heights, dove ci sono dei murales e si vede dall’alto la skyline, o a Bayview, zona afro-americana perfetta per una soul session o un BBQ. «Quando esco a correre mi porto dietro qualcosa da mangiare, ma una delle piccole gioie di Every Single Street è stata mangiare cinese, messicano, arabo, provare il cibo di El Salvador: peccato che i migliori ristoranti etiopi siano fuori dalla città, a Berkeley e Oakland». C’è un altro aspetto di Every Single Street nel quale Gates è stato profetico: correre con una mascherina FFP2. Quando l’ho visto in una fotografia non volevo crederci: «C’era un grande incendio a circa 100 miglia di distanza, il risultato di una cattiva gestione delle foreste e della siccità. Spesso le città si credono lontane dalle calamità naturali e così ho pensato che fosse importante sperimentare la vibrazione di San Francisco durante questo periodo e l’unico modo per farlo era indossare una maschera. Non è così male, è difficile solo se vai forte, ma non faceva parte dei miei piani». Forse non ci voleva il Covid per riscoprire l’avventura in città e Rickey l’aveva capito in anticipo, ma dopo la pandemia la vita sarà la stessa e soprattutto, le città saranno ancora così popolate? «Penso che il mondo non tornerà mai più all’era pre-Covid e che sia un bene; avevamo bisogno di un tasto con scritto su pausa, anche se naturalmente sono addolorato per tutte queste morti. Credo che nelle città succederà quello che è successo al tempo della prima White Fight negli anni ’50 quando sono diventate un luogo più sicuro per gli afro-americani e i bianchi che potevano permetterselo si sono trasferiti nelle vicinanze, perché la minaccia di essere troppo vicini agli altri è un’autentica paura, però siamo un Paese in crescita demografica e anche le piccole città stanno crescendo, così la differenza tra i luoghi è sempre minore». L’idea di Rickey è diventata matura e ora c’è un sito interamente dedicato a Every Single Street con resoconti da tutto il mondo. E lui non abita più a San Francisco, ma a Santa Fe, nel Nuovo Messico, dove ha replicato il progetto. «È stato simile e diverso allo stesso tempo, simile perché è un modo per conoscere meglio un posto, diverso perché sono due città diverse. Santa Fe ha una lunga storia di poche persone che hanno combattuto per la terra e il potere, gli indiani Pueblo, gli spagnoli e gli americani, e questa tensione la senti ancora.
Ci sono strade pubbliche dove non sei benvenuto, perché chi abita lì le sente come proprie e ti lanciano contro i cani o chiamano la polizia». Se uno che ha corso a San Francisco lo ha fatto anche in tutte le strade di una sonnolenta cittadina del Sud inseguito da cani e polizia, allora ognuno di noi può provare a farlo a casa propria. Io ho iniziato subito dopo avere scritto questo articolo.
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Translagorai Classic FKT Run
Ha senso creare un evento per stabilire un fastest known time che potrebbe venire facilmente superato da un atleta professionista lungo un percorso che tutto sommato è già conosciuto? Sì, ha senso, specialmente se nella propria vita e sfera sociale si attribuisce alla corsa un ruolo che va al di là dell’allacciarsi le scarpe e uscire a fare attività fisica, che è poi quello che pensa la maggior parte delle persone normali. Per iniziare a capire il perché nove semi-sconosciuti si siano trovati una sera a Passo Rolle per attraversare di corsa (o il più possibile di corsa, ecco) il Lagorai bisogna fare un passo indietro e partire dall’ideatore, Francesco Paco Gentilucci: uno che la corsa la prende parecchio sul serio e contemporaneamente ne rifiuta la mercificazione, una reazione comprensibile per qualunque cosa uno ami. Paco è quello che se ne va a correre cento miglia semi-sconosciute in California e non scatta neanche una foto, per intenderci: però è probabile che conosca per nome tutti i volontari incontrati lungo il percorso, o perlomeno quelli incontrati in uno stato di apparente lucidità mentale. Oltre che quella personale, la corsa per Paco ha anche una dimensione sociale: non importa solo quanti chilometri fai, conta anche con chi li fai e perché li fai.
Ecco che allora stabilire un fastest known time sulla Translagorai ha pienamente senso: primo, si dà una dignità propria a un percorso - e a un modo di percorrerlo, con un minimo di regole - che non c’era. Un po’ come stilare la relazione di una via alpinistica: non che prima non esistesse, ma da ora sarà più facile conoscerla e provare a percorrerla. E, contemporaneamente, si crea un archivio storico di tentativi con i quali confrontarsi o, semplicemente, per informarsi su tempi e logistica. Esattamente come i portali che raccolgono resoconti di ascensioni in montagna. Secondo, la scelta del luogo: la Translagorai non è un sentiero buttato lì in mezzo ad altri, messo in programma perché faceva comodo per la logistica o per le foto panoramiche. No, l’FKT in Lagorai serve anche per far parlare di un luogo controtendenza per gli standard trentini, dove impianti sciistici, strade e grosse infrastrutture turistiche non la fanno ancora da padrone. Potremmo parlare per ore dell’imponenza maestosa delle Dolomiti, ma sarebbe ipocrita descriverle come selvagge o incontaminate: il Lagorai, a fatica e forse ancora per poco, lo è. Il terzo motivo, forse intrinseco nella concezione stessa di corsa secondo Paco, era quello di voler prima di tutto creare qualcosa per condividere una passione con gli altri, non per forza persone già conosciute, e contemporaneamente cercare di trasmettere una visione di sport e di relazione con la natura che andasse al di là dei chilometri corsi tra Passo Rolle e Panarotta. Insomma, quello che si è fatto è stato lasciare una traccia: ora bisogna sperare che qualcuno la segua.
Federico Ravassard
Ossessione
Esistono le gare, o almeno, esistevano fino a qualche tempo fa e, a livello teorico, dovrebbero esistere ancora in futuro. Gare di cui spesso sento la mancanza, ma che - non l’ho mai nascosto - mi annoiavano già da tempo. Il problema è che l’atteggiamento bulimico dei corridori, sfruttato dalle leggi di mercato, ha portato alla nascita di tante, tantissime, troppe, gare mediocri, senza personalità né ragion d’essere, se non economica. Tolta la scusa di vedere un posto nuovo, il più delle volte la routine corro-faccio la doccia-torno a casa mi ha stancato. Insomma, l’annullamento del calendario agonistico mi è dispiaciuto fino a un certo punto e non mi ha destabilizzato più di tanto. Al netto di tutto soffrivo il fatto che in giro ci fossero tantissimi sbirri (in divisa e non) che potevano multarmi o fermarmi, sanzionando quello che ho sempre considerato come un diritto inalienabile per una persona nel 2020: correre da solo su un sentiero partendo da casa. Per il resto, tolta una 100 miglia nell’Oregon che sognavo da una vita, ho accolto la gran parte degli annullamenti del calendario con un’alzata di spalle. In Italia siamo ossessionati dalla competizione.
Per qualche ragione scegliamo le gare sulla base della classifica e degli atleti élite che le corrono e abbiamo bisogno di categorie, premi, medaglie, servizi e foto/video. In poche parole: abbiamo bisogno di acquistare sempre un prodotto e di sentirci appagati, fino all’acquisto del prodotto successivo. Perché questa premessa? Per il fatto che l’attitudine che vedo in giro verso i fastest known time sta prendendo la piega di cui sopra, che li priva del significato profondo che secondo me hanno.
Si chiamano FKT perché non sono gare
Un FKT non è l’esaltazione di un’impresa singolare. Per quello esistono gli avventurieri che tanto vengono utilizzati nei talk motivazionali delle aziende. Saltare da un aeroplano in paracadute e correre in un deserto non è un FKT e credo sia chiaro a tutti. L’idea di FKT è inoltre lontana da quella di atleti che come soldatini vanno a correre un segmento nel tempo più veloce che possono. Gli FKT esistevano molto prima che esistessero i segmenti di Strava, per capirci. Gli everesting sono un prodotto (molto interessante) nato da Strava in tempo di quarantena, ma tuttavia lontano dalla concezione classica dagli FKT nati nell’ultrarunning, ovvero l’obiettivo del dislivello a prescindere dal percorso, che invece negli FKT è una parte fondamentale.
Un FKT deve come prima cosa poter essere ripetibile, da tutti. Deve poter essere logico e, per quanto mi riguarda, non è volto all’obiettivo di ricevere pollici alzati dagli amici virtuali, visto che esistono già i record e i progetti personali. Trovo assurdo vedere striscioni e gonfiabili montati alla fine di un FKT perché, ancora una volta, sono record di un singolo atleta volti alla performance e non alla ripetibilità e condivisione. Gli FKT si basano infine sulla lealtà e onestà dei corridori. Potresti farne un pezzo in bici e nessuno lo saprebbe mai. Potresti fare registrare un record mondiale essendo un atleta dopato e in questi casi dovresti, secondo me, vergognartene.
Arrangiati
Translagorai Classic FKT Run nasce in modo piuttosto semplice. Ordino 50 adesivi pagandoli a mie spese e decido che sono il premio per chi arriverà in fondo alla traversata in meno di 24 ore. Servono a rendere l’idea che se sei a caccia di un riscontro materiale importante è meglio che aspetti che ricomincino le gare. Attenzione, la Translagorai esiste da sempre come percorso, io non ho inventato assolutamente nulla. Esisteva la traccia e, intuendo da ciò che in molti mi hanno scritto, in tanti hanno un cugino o un conoscente che aveva già stampato un tempo strabiliante.
Però mancava l’ufficialità, ma soprattutto qualcosa che rendesse questa traversata un vero FKT, un percorso condiviso, ripetibile e che facesse sognare anche i non local. Abbiamo quindi creato la traccia cercando di individuare il concatenamento più logico e lineare. Possiamo dire che è uno standard collaudato, non esclusivo, e ovviamente aperto alla creatività personale di ognuno.
Per me era la terza volta su questo percorso e non ero mai riuscito ad arrivare in fondo nell’arco di una giornata sola. Il nostro obiettivo è quello di creare un archivio degli intertempi, di consigli per chi vuole ripeterlo, oltre alla salvaguardia di questo posto che è perfetto così, nella sua imperfezione. In un FKT è giusto avere una visione diversa da quella che si ha su un percorso tracciato con le fettucce di una gara, senza pubblico e senza materiale obbligatorio: insomma, devi arrangiarti.
Sabato 11 luglio 2020 - ore 22
Per chi si è posto la domanda, non c’è stato un motivo reale dietro la scelta di partire con il buio. Da un punto di vista della performance non ha senso, ma anche il fatto che ci fosse ancora neve sul percorso non ne ha se l’obiettivo è la velocità pura. In tutta onestà ho ritenuto che sarebbe stato più divertente e che avrebbe allontanato la possibilità di correre due notti se qualcosa fosse andato storto. Per qualche ragione in 9 persone hanno deciso di essere lì quel giorno, e in 9 siamo partiti, dopo esserci mangiati una pizza insieme e avere fatto due chiacchiere al parcheggio del Passo Rolle. Abbiamo passato una nottata memorabile. C’è chi si è perso, chi ha deciso di ritornare indietro superata la metà e chi è arrivato in fondo. Luca Forti ed Enrico Scanavin sono riusciti ad arrivare a Panarotta dopo 16 ore e 56 minuti; un tempone, soprattutto conoscendo i retroscena e l’atteggiamento scanzonato con cui hanno affrontato la Translagorai.
Il vero motivo per cui Luca Forti è, secondo me, la persona più rappresentativa della giornata però non è tanto il tempo, quanto il fatto che il giorno prima avesse fatto preparare da sua madre un chilo di pasta (il pasta party per l’arrivo) che ha servito a tutti sul parcheggio della Panarotta, insieme a una bella cassa di birre, che ci siamo bevuti raccontandoci la giornata passata sulle gambe. Quanto ci ho messo io? Posso rispondere meno di 19 ore, ma la vera risposta è: chissenefrega. È stata una giornata bellissima e spero che qualcun altro voglia provare questa esperienza, chiunque era presente quel giorno è pronto a mettersi a disposizione per aiutarlo. Questo è ciò che per me è un FKT. Poi chi sarà il più veloce si vedrà, ma conta fino a un certo punto.
Francesco Paco Gentilucci
Lagorai
Così perfetto nella sua imperfezione
Potremmo continuare a parlare del 2020 come dell’anno senza gare, oppure vederlo come l’anno del ritorno all’autonomia e della riscoperta del senso della corsa in montagna. Tolti i ristori, tolti i festeggiamenti all’arrivo, tolte le classifiche, quello che resta è anche ciò da cui tutto è partito: una ricerca di libertà e, soprattutto, un ambiente che ti permette di trovarla. E non c’è luogo più adatto della catena del Lagorai per mettersi alla prova in questo senso. Poche sere fa mi trovavo a Passo Rolle, limite orientale del gruppo che ospita la più vasta Zona di Interesse Speciale del Trentino, una delle meno antropizzate dell’intero arco alpino. Ho visto nove persone partire correndo e scomparire in pochi minuti nell’oscurità del sottobosco, decise a dimostrare a nessuno se non se stesse che avrebbero potuto percorrere l’intera traversata facendo affidamento solo sulle proprie forze. Meno di 24 ore dopo, all’estremo opposto di quegli 80 chilometri di quote, picchi e lastèi (lastroni di roccia inclinata), ne ho viste arrivare appena cinque sulle proprie gambe, ma non ce n’era una che non fosse estasiata, per quanto stanca. Non erano lì per caso, non è lo stesso essere in Lagorai o su una qualunque altra alta via con gli stessi chilometri di sviluppo e dislivello e non è difficile capire perché.
Il Lagorai non è bello, almeno non nell’accezione di bello che si è soliti dare a un territorio alpino. Le cime non superano quasi mai i 2.700 metri, i boschi, oscuro intrico di abeti rossi per buona parte distrutti dalla devastante tempesta del 2018, ti costringono a farti strada attraverso una perenne cortina di umidità. I sentieri, che i ragazzi del fastest known time non smettevano di definire poco corribili, si potrebbero dire addirittura poco camminabili: gran parte del percorso in quota che attraversa l’intera catena si snoda lungo una rete infinita di mulattiere e tracce non segnate di origine militare che spesso scompaiono, perdendosi tra i rododendri.
Vecchie linee di trincea ormai coperte da mucchi di rocce instabili obbligano a tenere un passo sempre cauto, si procede intimiditi e quasi oppressi a ridosso di strapiombi e oscure scogliere porfiriche mentre cumuli di nubi si alzano di continuo dagli oltre cento laghi incastonati tra i tanti ghiaioni e le praterie acquitrinose.
Niente che assomigli ai paesaggi idilliaci con i quali si è soliti promuovere una vacanza in montagna, eppure dopo due Translagorai per due anni di fila resto innamorata di ogni centimetro che separa passo Rolle dalla Cima Panarotta. Per me non è mai stata una corsa contro il tempo, mi sono sempre mossa con il ritmo del camminatore appesantito dalla tenda e dalle scorte di cibo, scarponcini rigidi e zaino in spalla, eppure sempre in totale autonomia, provando a non lasciare tracce del mio passaggio. Non ero un’appassionata di alte vie, ciò che mi aveva spinta a partire era la possibilità di trascorrere quattro giorni in cammino senza incontrare anima viva. E di vivere il rischio di essere una delle ultime a poterlo fare.
Da pochi mesi era infatti stato approvato il progetto di riqualificazione e valorizzazione dell’area. Provincia di Trento, SAT, magnifica Comunità di Fiemme e comuni limitrofi avevano firmato un accordo per Dare nuova vita e valorizzare il percorso Translagorai e [...] rimediare al problema dell’inadeguatezza dei punti-tappa lungo il percorso. Diversamente dalla maggior parte dei cammini di lunga percorrenza dotati di strutture ricettive al termine di ogni tappa, la traversata del Lagorai richiede di saper gestire autonomamente una media di tre o quattro soste. Lungo il percorso si incrocia un solo rifugio con pernotto, per il resto o si scende a valle oppure ci si affida alla tenda e ai tanti bivacchi non gestiti: una peculiarità che le amministrazioni locali e i progettisti definiscono inadeguatezza. Ecco perché è stata prevista la ristrutturazione edilizia di un rifugio già esistente e di altre sei malghe-bivacco per creare nuovi punti ristoro gestiti: i primi lavori sono iniziati e in breve tempo si potrebbero incontrare agriturismi e ristoranti lì dove al momento non ci sono che qualche pastore e molte praterie. Nessuno di questi, tra l’altro, sorgerà lungo l’unico tratto di percorso davvero sprovvisto di punti di appoggio, ma tutti strategicamente vicini a vie d’accesso percorribili in auto dal fondo valle così da garantire livelli di affluenza tali da giustificare l’investimento e, allo stesso tempo, condannare irrimediabilmente l’integrità dell’intera zona.
Un progetto di riqualificazione del genere non servirà a dare nuova vita alla traversata, anzi. Così come gli atleti della Translagorai Classic FKT Run sono sempre di più coloro che si dirigono verso quest’angolo del Trentino attirati dalla possibilità di vivere un’esperienza di outdoor forse più scomodo e più difficile da gestire, eppure proprio per questo più appagante e più reale, soprattutto oggi che gli ambienti alpini, saturi di infrastrutture, finiscono per assomigliarsi quasi tutti. Per quanto l’aura di wilderness che accompagna questi luoghi possa diventare motivo di attrattiva per un pubblico più vasto di visitatori, la stessa ostilità di queste terre sarebbe un filtro sufficiente a regolarne l’afflusso, stabilendo un equilibrio sostenibile tra turismo, ambiente ed economia locale.
Se invece il progetto verrà portato a termine, quella del Lagorai potrebbe rappresentare una delle più grandi occasioni perdute per sperimentare modelli alternativi di valorizzazione del territorio montano. Diversi comitati, collettivi e associazioni si stanno battendo perché questo non accada: già dagli anni ’80 il WWF proponeva alla provincia di istituire un parco provinciale. A livello locale i gruppi Giù le mani dal Lagorai e Vicini al Lagorai si sono da subito impegnati sul fronte legale e amministrativo e attraverso eventi di sensibilizzazione della popolazione, mentre i ragazzi di The Outdoor Manifesto continuano a sostenere e organizzare azioni dimostrative come Translagorai Classic FKT Run per mantenere alta l’attenzione sul tema e promuovere una cultura degli sport outdoor che non sia fatta di soli record e prestazioni. La speranza è che sempre più runner, scialpinisti, trekker e professionisti del settore diventino parti attive in vicende come questa, restituendo così qualcosa a quello stesso ambiente senza il quale non potrebbero vivere le proprie passioni.
Elisa Bessega
Si chiama Translagorai perché è il percorso della Translagorai, circa 80K e 5.000 metri di dislivello positivo, da Passo Rolle a Panarotta.
Si chiama Classic perché devi farla a piedi, in autonomia e perché è favorevole alla fruizione del Lagorai senza strutture per turisti e senza riqualificazioni inutili destinate a rovinare lo spirito selvaggio di questa catena.
Si chiama FKT perché devi arrangiarti e farla sulle tue gambe.
Si chiama Run perché se vuoi arrivare a farla in meno di 24 ore devi correre.
FB Translagorai Classic FKT Run
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Outdoor Guide 2021, 320 pagine per sapere tutto prima di acquistare
Il mondo dell’outdoor estivo in meno di dodici mesi dall’ultima edizione della Outdoor Guide è cambiato profondamente: processi in atto che la pandemia ha accelerato alla velocità della luce. Decine di migliaia di persone che avevano visto la montagna e la natura solo sui loro smartphone si sono riversate in massa nella wilderness. Così anche l’Outdoor Guide 2021 (320 pagine, 10 euro), in edicola a partire dal 13 maggio, cambia pelle. Non ha più senso una separazione netta tra camminare e correre e in parte anche tra camminare e usare mani e piedi per salire. Sono categorie mentali che corrispondono a mondi collegati tra di loro. Abbiamo eliminato le vecchie categorie trail, ultra, sky & vertical, day hiking, multiday hiking e mountain per passare a quattro idee: correre (Speed Race), correre e camminare (Trail), camminare (Hike), salire (Mountain). Ogni categorizzazione porta sempre con sé qualche forzatura, è normale. Ma, oltre la semplificazione nel passare da sei a quattro categorie, c’è una riivoluzione nel modo di pensare e di approcciarsi all’attività all’aria aperta. Non abbiamo più ragionato con schemi rigidi, legati esclusivamente o prevalentemente ad aspetti fisici e misurabili come il peso o il drop dei prodotti testati, ma partendo dalla passione e dalle emozioni di chi frequenta l’outdoor che si traducono in obiettivi, atteggiamento, tipo di movimento e di terreno. Nonostante la rivisitazione delle collezioni estive 2021 a causa della pandemia, là fuori ci sono davvero tante novità e, ancora una volta, si è fatto uno step verso qualità e funzionalità. Prodotti brutti non ce ne sono più, o quasi. E andare a fare sport o attività fisica (per rimanere alle distinzioni dei DPCM) è divertente e fa bene. Meglio un sorriso di una smorfia di dolore. No smile, no gain.
I PRODOTTI IN TEST
Circa 300 tra scarpe, zaini, bastoni, cinture e marsupi, GPS palmari, sportwatch, smartwatch, lampade frontali, tende, sacchi a pelo, materassini, fornelletti, filtri. Tutti provati.
IL TEAM
Una squadra di esperti e appassionati con un nucleo di veterani e qualche new entry. Trail runner top, amatori, Guide alpine, Accompagnatori di media montagna. Tutti insieme per consigliarti il migliore prodotto per le tue esigenze, come se un amico di cui ti fidi ti dicesse i pro e contro di una scarpa o di uno zaino che vorresti acquistare. Il test è stato reso possibile grazie a: Alessandro Brunetti, Franco Collé, Giuditta Turini, Graziana Pè, Niki Gresteri, Nicola Giovanelli, Silvio Pesce, Michael Dola, Francesco Paco Gentilucci, Sergio Pezzoli, Alessio Alfier, Federico Foglia Parrucin, Lorenzo Cavanna, Alice Arata, Elisabetta Caserini, Guido Chiarle, Carlo Gabasio, Paolo Tombini, Valerio Dutto, Luca Serenthà. Ai testatori si è aggiunta una squadra di fotografi appassionati, pronti a fermare l’obiettivo sui dettagli che contano: Federico Ravassard, Chiara Guglielmina, Lorenzo Bognetti, Matteo Cottardo, Daniele Molineris.
LA LOCATION
Finale Ligure è la capitale italiana dell’outdoor e ci ha consentito di provare nelle migliori condizioni, anche quando poco lontano nevicava. Trail, arrampicata, hiking: tutto nel giro di pochi chilometri e vista mare. Per la parte mountain ci siamo spostati ai piedi del Cervino.
LE SCHEDE
Abbiamo rivisitato il format e i parametri di valutazione. Le scarpe più interessanti sono state trattate in una pagina con prova a secco, sul campo, diverse misurazioni e test non solo sul terreno ma anche in laboratorio. Più informazioni nelle schede tecniche, dalla taglie disponibili alla possibilità di scegliere una versione con membrana impermeabile. Tra i dati rilevati, l’indice minimalista (che fornisce un parametro di quanto la calzatura influisce sulla naturale biomeccanica di corsa) e il tipo di ammortizzazione. Tra i nuovi test quello del grip in laboratorio, su piastra bagnata a inclinazione costante.
SPEED RACE
Abbiamo inserito le scarpe più leggere e veloci in una nuova categoria pensata per chi sa e vuole correre, possibilmente con appoggio di avampiede o mesopiede. Non necessariamente per fare gare, ma per affrontare l’outdoor alla ricerca della prestazione. 19 calzature, 15 zaini e cinture, 3 bastoni top: tutto quello che serve per chi sa come correre bene, ma niente di più perché ogni grammo di troppo è superfluo.
TRAIL
Il grande mondo di va in montagna preferibilmente per correre, ma non necessariamente. 48 scarpe, 15 zaini, 16 bastoni per per la maggioranza dei runner della natura. Potrebbero essere una scelta ragionevole anche per qualche escursionista.
HIKE
Camminare, camminare e camminare. Prevalentemente su sentiero, ma anche più in quota e su qualche sfasciume. 27 scarpe, 18 zaini, 12 bastoni: tutto quello che serve per muoversi con sicurezza e in comodità nella natura.
MOUNTAIN
Quando il gioco si fa duro: salire, a volte usando le mani, magari con la vetta di un quattromila come obiettivo, ma anche solo per fare una ferrata o una traversata con passaggi su ghiacciaio. Oppure per avvicinarsi alla parete. 29 scarpe, 12 zaini, 4 bastoni per salire. Le proposte da media montagna, che accettano i semi-automatici e hanno una migliore rullata, sono ormai diventate le migliori per l’alpinismo estivo. E nel mondo dell’avvicinamento i modelli mid e low cut rosicchiano quote di mercato alle tradizionali pedule.
GPS
Orologi per monitorare il training e le performance in montagna, comunicatori satellitari utili in caso di emergenza, palmari cartografici: il Covid ha rallentato produzione e innovazioni ma non mancano new entry. 10 modelli provati in ogni condizione.
LAMPADE FRONTALI
11 lampade: minuscole e leggerissime da dimenticare nello zaino e un po’ più grandi e pesanti per chi ha bisogno di tanta luce per correre veloce o andare in mountain bike.
BASE CAMP
10 tende, 5 materassini, 11 sacchi a pelo, 4 fornelletti, 2 filtri. Modelli tre stagioni o per un turismo un po’ più stanziale, ma sempre nella natura selvaggia. Dormire in tenda nella natura è la forma di turismo più sostenibile ed è perfetta per mantenere il distanziamento. Una sezione completamente rivisitata con foto dei prodotti nelle condizioni di utilizzo. La riscoperta di una montagna più selvaggia a causa della pandemia ha reso interessanti alcuni prodotti che fino a poco tempo fa acquistava solo chi partiva per la grande wilderness come i filtri per purificare l’acqua e così li abbiamo aggiunti anche noi all’elenco del materiale provato.
FARE SPORT PER ESPLORARE
Fare fatica nella natura è bello ed è un’occasione per andare alla scoperta di nuovi posti. Komoot è un’app perfetta per partire con questo spirito, che consente di scegliere il proprio sport, pianificare itinerari e la navigazione sul proprio smartphone o GPS. Acquistando la Outdoor Guide si ha diritto a un coupon per scaricare gratuitamente un pacchetto di mappe per la navigazione offline.
RIVOLUZIONE PLATE
Il plate in carbonio sembra essere il futuro anche nel mondo del trail running. Con Xenia, azienda leader nella produzione di materiali compositi, abbiamo approfondito l’argomento e i possibili sviluppi.
CORRERE E CAMMINARE BENE
Non si va a scuola di camminata e di corsa perché sono due dei gesti più naturali, però in funzione di come si corre o si cammina si consumano più o meno energie e si hanno più o meno possibilità di infortunarsi. Tutti i consigli e le informazioni degli esperti della Clinica del Running.
Esanatoglia state of mind
Qualcuno le ha definite l’Oregon italiano. Con le dovute differenze, bisogna ammettere che le Marche sono un territorio piuttosto selvaggio e dimenticato dove si può ancora trovare un po’ di spazio per avventure e corse di molte ore in totale solitudine. Tutti conoscono le strade bianche e le colline della Toscana, ci vivono i pro del ciclismo e ci sono molti eventi ma, quando parli delle Marche, è già tanto se il tuo interlocutore riesce a collocare la regione nella cartina geografica.
Le Marche, nel bene e nel male, sono un posto lasciato a se stesso. Nella stessa giornata puoi esaltarti per la scoperta di luoghi che al Nord sarebbero giostre per turisti a pagamento e puoi rabbrividire vedendo i cacciatori sparare a qualsiasi cosa gli capiti sotto tiro indisturbati, magari fuori stagione di caccia, senza che nessuno muova un dito. Io le Marche non è che le odio o le amo, mi è solo capitato di nascerci. Non nutro nessun sentimento di particolare attaccamento al luogo da cui provengo. Credo di essere una di quelle persone che non si fa grossi problemi a dire senza campanilismi quali sono le cose belle e quelle brutte del posto in cui vivo. Insomma, non starò qui a sostenere che le montagne delle Marche sono quasi come le Dolomiti, perché non lo sono. Non starò a raccontare la favola dell’oasi perfetta: basta fare un giro sui Sibillini e veder giacere a terra piloni di funivie mai entrate in funzione (e invece di ragionare sul rimuoverle si teorizza ancora sul potenziamento degli impianti di risalita). Però vi posso assicurare che, se non avete mai visto la fioritura delle lenticchie a giugno o sciato un canale dei Sibillini in inverno, vi state perdendo qualcosa. E poi esistono anche luoghi ancora più remoti e nascosti dei Sibillini, per esempio Esanatoglia.
Siamo tutti un po’ malati del più
Quando lavoravo per un’azienda che produce scarpe, una volta una signora mi chiese il costo degli scarponi d’alta quota. Li voleva comprare sul momento, seppure il costo di listino fosse alto e ovviamente non si effettuasse vendita di scarponi da 8.000 metri a un festival in pieno centro a Milano. Le chiesi se andasse in montagna e mi rispose che entro qualche mese sarebbe partita per l’Everest. Le domandai quali altre montagne avesse scalato: la sua esperienza alpinistica si limitava a una salita della Marmolada con l’ausilio della funivia (aveva camminato meno di un chilometro). Perché voleva andare sull’Everest, tralasciando il fatto che sarebbe stata ovviamente una salita fatta con sherpa, bombole dell’ossigeno e farmaci contro il mal di quota? Perché è la più alta. Questo è ciò che chiamo la sindrome del più. Ecco, se sei alla caccia del più qualcosa, non ti trovi nel luogo giusto.
A Esanatoglia non ci sono montagne più qualcosa di altre; la quota rimane sempre sotto i 1.500 metri. Non ci sono località balneari famose nelle vicinanze (il mare è a 70 chilometri), non ci sono location che si prestano come sfondo per foto su Instagram o didascalie da claim aziendale di industrie del fitness, profumi o auto sportive. Ed è proprio per questo che amo Esanatoglia. Qui le montagne e le colline non sono (ancora e spero mai) giostre per turisti portati in autobus a depredare il territorio e comprare souvenir e non esistono tutte quelle strutture simbolo del turismo non sostenibile delle Alpi, i belvedere in cemento o i kindergarden, i baracchini di patatine fritte e gli hotel di lusso per i russi. Esanatoglia, ma un po’ tutta la zona dell’entroterra marchigiano, permette di vivere giornate piuttosto reali, senza troppi fronzoli. Il rovescio della medaglia è ovviamente che per qualsiasi cosa devi arrangiarti. Se vuoi passare un giorno correndo, devi essere preparato al fatto che i sentieri potrebbero interrompersi nel nulla, che potresti trovarci trappole di bracconieri o filo spinato ad altezza collo e devi essere autosufficiente quando ti muovi. Questo aspetto si rispecchia nelle attività di manutenzione dei sentieri e in generale di salvaguardia del tuo sport: se ci tieni, devi rimboccarti le maniche. Esanatoglia è sempre la mia prima scelta per correre un po’ di chilometri nel bosco senza troppi patemi d’animo.
Esanatoglia
C’è ancora un piccolo borgo di meno di 2.000 anime in cui tutti si conoscono, la gente corregge il caffè al bar con il Varnelli e le vecchiette ti chiedono di chi sei il figlio. Un paese a 70 chilometri dall’autostrada, circondato da colline e montagne e lontano dai grandi flussi turistici, dalla tecnologia all’avanguardia e dai ritmi di vita esasperati delle metropoli. E poi sentieri, tantissimi sentieri, tutti curati e mantenuti in modo impeccabile, chilometri di single track nel bosco segnalati alla perfezione dove è impossibile perdersi: per avere la cartina, gratuita, basta andare a chiederla al tabacchino del paese. Questa oasi curata e tenuta sempre in condizioni perfette è opera dell’olio di gomito di Leopoldo Giordani e dei suoi soci appassionati di mountain bike che nel corso degli anni hanno iniziato a prendersi cura dei sentieri locali, rimettendoli in funzione e segnalandoli con segnavia in legno, fino alla loro ultima creazione, l’Esatrail Supehero, ovvero il collegamento di molti dei sentieri in un giro unico: 90 chilometri e 4.000 metri di dislivello positivo. Ecco ritornare il mantra: se ci tieni, devi rimboccarti le maniche. Il percorso è diviso in 12 checkpoint, ognuno di essi ha una piccola foratrice con un design diverso. Chi lo vuole, può acquistare la tessera per collezionare i 12 timbrini (10 euro) e dimostrare il proprio passaggio. Se riesci a percorrere il giro in un giorno vieni premiato al bar con una coppa, in due con una medaglia.
Morbido e selvaggio
Non mi dilungherò troppo sul percorso, perché oltre a trovare traccia ed esauriente descrizione sul sito esatrail.it, la cosa migliore da fare è partire per un giro. I fondi dei sentieri sono prevalentemente morbidi, ci sono strade forestali sterrate e qualche passaggio più roccioso. In alcune sezioni si trova un po’ di esposizione, ma niente di realmente pericoloso. Ci sono tantissime fonti d’acqua, che sono comunque segnate sulla cartina e sulle tabelle segnavia. Occhio solo a un paio di cani maremmani in una fattoria in frazione Sant’Angelo, ma incontrare dei cani pastori fa comunque parte dell’esperienza; per il resto bisogna solo metterci le gambe e godersi il viaggio.
Il mio Esatrail
La mia concezione di corsa va nella direzione di cercare di ridurre il superfluo il più possibile e portare con me solo il necessario. Non sono un grande pianificatore, non avevo idea del tempo che avrei potuto impiegare per correre questo percorso, quindi il materiale era più o meno lo stesso che uso sempre, anche in allenamento: un paio di pantaloncini, una t-shirt che ho utilizzato poco in quanto ho quasi sempre corso a torso nudo, due borracce a mano da mezzo litro, occhiali da sole e un cappello con visiera. Un paio di Hoka Speedgoat 2 (una vecchia versione) con su oltre 700 chilometri e un vecchio marsupio dove avevo infilato cinque gel e cinque Snickers completavano il mio assetto.
Sono partito al mattino presto dopo aver dormito in macchina, alle 5:17 ho fatto scattare il cronometro. Dopo pochi minuti di salita, evidentemente ancora assonnato, sono inciampato, cadendo in avanti, e ho rotto una delle borracce a mano, quindi ho proseguito per diverse ore tenendola stretta in discesa e incastrandola nell’elastico dei pantaloncini in salita. Tenete presente che quando ho fatto il giro (una settimana prima del lancio ufficiale) mancavano dei cartelli che rendono di fatto al momento impossibile perdersi e dover pensare dove girare nei bivi e il mio passo non è mai stato eccessivamente tirato. A metà percorso c’erano mio padre e mia sorella a fare un picnic e ho messo una frontale in testa (anche se non mi è servita), caricato altri cinque gel e cinque Snickers. Ho mangiato delle patatine fritte e bevuto della Cola. Dopo la salita al Monte l’Antica e al Monte Corsegno, sono ripartito da Palazzo (una piccola frazione con una bella fontana di acqua fresca) per la salita al Monte Gemmo verso l’una. Faceva veramente caldo e mi sono goduto tutta la salita perso nei miei pensieri, senza praticamente correre un metro e in discesa ho sbagliato strada, tornando indietro e accumulando svariate centinaia di metri in più del previsto. Non stavo puntando a una grande performance, volevo solo passare una bella giornata in montagna e così è stato. In 14 ore e 22 minuti di corsa ho incontrato due persone, alcuni cinghiali, tantissimi caprioli e un serpente. Basta. Il tempo di percorrenza serve solo per darvi un’idea, ovviamente se si vuole correre in maniera decisa, si può ridurre, e di parecchio.
Mezza
Spezzare il giro in due giorni è semplicissimo. A metà percorso, in corrispondenza del checkpoint del cartello del Fabulous Esatrail, si scende nel lungo fiume Esino, a pochi chilometri da Esanatoglia. Sui prati dell’argine ci sono piazzole di sosta, barbecue, tavolini e panchine. È il posto perfetto per una pausa e anche per fermarsi a campeggiare e ripartire il giorno seguente. Questo è anche il punto migliore se si vuole avere o prestare assistenza a qualcuno impegnato nel giro. Un altro punto chiave è l’abitato di Palazzo in cui si transita in una comoda zona con una fontana e un prato, dopo 70 chilometri circa. Altrimenti in paese ci sono B&B e altre sistemazioni. Mangiare non è un problema, in realtà uno degli aspetti più belli dell’Esatrail Superhero è che non devi preoccuparti di molto se non di correre e goderti i tunnel di bosco nei sentieri. Le quote mai elevate permettono di effettuare questo giro anche nelle mezze stagioni, in autunno e inverno, prima che arrivi molta neve. La mia speranza è che diventi prima o poi una gara, chi lo sa. Nel frattempo è un bellissimo giro ben segnalato che si può andare a provare ogni giorno dell’anno e merita di sicuro il prezzo del biglietto. Run it easy.
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Da casa al Monte Bianco e ritorno
Non che sul Monte Bianco non ci fosse già stata, nel 2010 e altre due volte l’anno scorso, però Hillary Gerardi, statunitense trapiantata nella valle di Chamonix, voleva inventarsi qualcosa per dare un senso alla permanenza forzata ai piedi del Monte Bianco e alla mancanza di gare nella stagione della pandemia. Così la trail runner e ambassador Black Diamond, guardando distrattamente la cartina in rilievo che ha in cucina, non ci ha pensato su due volte: partire da casa, a Servoz, all’inizio della valle di Chamonix, e salire dritta fino al Monte Bianco, per poi tornare a sedersi sulla sdraio nel giardino nella stessa giornata. Non la linea più logica, non la più bella, ma quella più diretta da casa alla vetta e ritorno. Partenza alle 2 di notte, arrivo in vetta alle 11,15 e rientro per godersi il panorama e riposarsi sulla chise-long. Ne è nato un simpatico cortometraggio, Home Summit Home, tutto da guardare, magari iniziando a pensare alla propria avventura dietro casa.
https://youtu.be/YyVYzuvu-f0
Le UTMB World Series sono la Superlega del trail?
L’annuncio della nascita delle UTMB World Series - non del tutto inaspettato - segna un ulteriore step verso la spettacolarizzazione, professionalizzazione (e la fine dello spirito trail, secondo i più nostalgici) del mondo della corsa in natura.
Il gioco è semplice ed è piramidale. Si parte dall’alto, dalle finali, OCC, CCC e UTMB. Le tre gare della settimana chamoniarda saranno, rispettivamente, il gotha sui 50K, 100K e 100M (miglia). Per qualificarsi bisogna partecipare o a una gara delle UTMB World Series Majors (sono qualificati i primi 10 uomini e donne di ogni categoria 50K, 100K e 100M), o a una delle UTMB World Series Events (si qualificano i primi 3 di ogni categoria e distanza). Poi, ancora più sotto, ci sono le migliaia di gare UTMB World Series Qualifiers. Partecipare alle Events farà guadagnare delle pietre che permetteranno di essere ammessi all’estrazione dei pettorali UTMB, mentre le probabilità di essere estratti aumenteranno per gli iscritti alle Majors.
Nasce anche un nuovo indice di performance calcolato su quattro categorie (20K, 50K, 100K e 100M). E le gare? per ora ci sono solo le prime otto perché il calendario definitivo verrà svelato in autunno e il sistema sarà operativo dal 2022. Oltre all’UTMB ci sono Val d’Aran by UTMB (Spagna), Thailand by UTMB (Tailandia), Panda by UTMB e Gaoligong by UTMB (Cina), Tarawera Ultramarathon by UTMB (Nuova Zelanda), Ultra-Trail Australia by UMB (Australia) e Mozart 100 by UTMB (Austria). Le ultime tre gare sono targate The IRONMAN Group con il quale viene organizzato il circuito.
Nella pratica l’iniziativa UTMB diventa il vero circuito mondiale del trail e dell’ultra-trail, al quale, prevedibilmente, parteciperanno gli elite. Una specie di Superlega del trail. Rimane da capire quale sarà la posizione di gare simbolo trail come, per esempio, la Diagonale des Fous o di altre storiche competizioni che sono nel calendario dell’Ultra-Trail World Tour, come d’altra parte la maggior parte delle gare delle World Series, per esempio la Western States. Non c’è dubbio che potrebbe essere proprio l’UTWT a essere messo in ombra dal nuovo circuito. Ci saranno gare italiane? Anche questa è una domanda alla quale non c’è per ora risposta. Peraltro il più importante appuntamento italiano, la LUT, insieme, tra le altre, a Patagonia Run, Ultra Pireneu e Trans Gran Canaria, non fa più parte dell’UTWT ma del circuito Spartan Trail World Championship.
Nel comunicato di presentazione delle UTMB World Series si fa riferimento alla consultazione di una decina di atleti elite prima di dare vita al nuovo circuito. E i runner italiani come la pensano? Stefano Ruzza, settimo a Chamonix nel 2018, ha preso una posizione netta con un lungo post su Facebook. La conclusione? «L’ultratrail non è l'ironman, e Chamonix non è Kona. Gli atleti elite cosa pensano? Io non sono abbastanza elite, ma non ho alcuna intenzione di fare una delle poche gare imposte da loro per qualificarmi per un futuro UTMB. Ci sono tantissime altre belle gare che vorrei fare. E per quest'anno, mi verrebbe proprio di non andarci e di guardarmi intorno».
Trail-food
Era bello fermarsi con gli amici a bere una birra dopo una sciata, certo. Per non parlare della comodità di poter pernottare in quota e raggiungere la cima dopo una colazione al caldo. Ma era ciò che ci motivava a partire? L’assenza di punti di appoggio gestiti in montagna obbliga a ingegnarsi col fai-da-te, e non è necessariamente una brutta cosa. Uno dei primi punti da affrontare, soprattutto per gite sugli sci di più giorni in autosufficienza in ambiente innevato, è proprio il cibo. Viaggiare leggeri e con una buona scorta di nutrienti a disposizione è una questione cruciale in inverno, ma non è facile. Un buon pasto caldo richiede lunghi tempi di preparazione, strumenti di cottura sofisticati e altrettanto spazio per essere trasportato. D’altra parte, il classico panino veloce e poco ingombrante dopo un po’ stanca, non si conserva a lungo e finisce per sbriciolarsi tra l’attrezzatura. La buona notizia è che gestire tutto ciò non solo è possibile, ma diventa anche un’ottima occasione per riflettere sul valore dell’autonomia e sulla portata dell’impatto sull’ambiente che attraversiamo. O almeno, questo è quello che è successo a me e ciò che mi ha portata a scoprire la cultura del trail-food e della filosofia zero-waste.
Era una delle mie prime traversate in totale autosufficienza, 80 chilometri in uno degli angoli più selvaggi del Trentino. Sulle spalle tutto quello che serviva a sopravvivere, oltre alle solite cianfrusaglie a cui l’escursionista alle prime armi non riesce a rinunciare. Appesantita da scatolame, pasta, vasetti, bustoni di cibo precotto e varie confezioni monodose di colazioni, pranzi e cene, capivo che una scelta non accurata dei viveri non influiva solo sulla resistenza degli spallacci: in quattro giorni avevo prodotto più spazzatura di quanta ne buttassi a casa in settimane. Nelle escursioni di più giorni ti rendi conto di quanti rifiuti produci perché sei obbligato a far posto nello zaino per portarli tutti con te: ne senti letteralmente il peso. A casa, al contrario, hai l’impressione che, una volta differenziato, un imballaggio o una bottiglia vuota smetta di esistere e che non sia più un tuo problema. Ero partita per stare a contatto con la natura in un ambiente selvaggio, ma stavo mantenendo ritmi di consumo peggiori di quelli cittadini; mi sembrava una contraddizione.
Cercando una soluzione più sostenibile, economica e comoda da trasportare ho scoperto il mondo del trail-food fai da te: come autoprodurre e conservare, per lo più con il metodo dell’essiccazione, tutti i tipi di snack e pasti che vengono usati nelle attività outdoor in modo da evitare l’acquisto di prodotti preconfezionati e di conseguenza sfruttare materie prime locali, ridurre lo spreco di imballaggi e risparmiare parecchio peso. Una pratica che nasce tra backpacker e thru-hiker d’oltreoceano dove, a differenza di quanto accade normalmente nei territori alpini, i punti per rifornirsi lungo i più famosi cammini di lunga percorrenza distano normalmente parecchi giorni l’uno dall’altro. Più che di scienza culinaria si tratta di una vera e propria cultura dell’arrangiarsi nella wilderness: un espediente pratico collegato al desiderio di muoversi in totale autonomia e senza lasciare traccia nella vastità incontaminata dei parchi statunitensi.
La sfida dell’autoproduzione mi ha subito appassionata, il tema infatti non riguarda solo l’alimentazione ma rispecchia, in generale, un approccio a basso impatto tanto nella frequentazione dell’ambiente naturale quanto nella quotidianità; se ci si vuole muovere in natura senza lasciare traccia, tenendo con sé tutta (tutta per davvero) la spazzatura prodotta, allora è comodo ridurla al minimo fin dall’inizio, cominciando a seguire abitudini di basso consumo già a casa.
COME FUNZIONA
Alla base delle varie tecniche per autoprodurre alternative casalinghe ai più comuni alimenti preconfezionati troviamo quasi sempre l’essiccazione, uno dei più antichi metodi di conservazione naturale del cibo. Con un buon forno, un essiccatore o un semplice telaio in ambiente caldo e ventilato è possibile disidratare qualsiasi alimento e ad- dirittura un intero piatto già pronto. Tolta la componente umida, il pasto perde la maggior parte del suo peso, mantenendo intatte tutte le proprietà nutritive; e può essere conservato in contenitori ermetici per mesi. Che siano snack, gel energetici fai da te, guarnizioni per panini o pasti completi, gli alimenti essiccati occupano pochissimo spazio e possono essere trasportati in normali sacchetti da freezer riutilizzabili all’uscita successiva. Si consumano così come sono (frutta secca, barrette, chips di verdure) oppure reidratandoli con un procedimento del tutto simile alla preparazione delle più comuni buste di cibo precotto. Il gusto sarà quello di un piatto fatto in casa e ci si ritroverà con parecchi rifiuti in meno da gettare lungo il percorso. Se poi si sceglie di partire da materie prime sfuse acquistate localmente, l’impatto complessivo della preparazione si avvicinerà ancora di più allo zero.
COSA SERVE
Ottenere un pasto pronto fai da te in pochi minuti con attrezzatura e tempi ridotti al minimo è semplicissimo: la prossima volta che preparate un piatto completo a casa, che si tratti di zuppe, cereali, pasta o legumi, aggiungete qualche porzione in più. Quello che avanza può essere essiccato così com’è, conservato in vasetti ermetici e trasferito poi in sacchetti da freezer monodose al momento della partenza (con l’accortezza di sceglierne in plastica resistente alle alte temperature: dura di più e si può utilizzare diverse volte).
Il processo di essiccazione consiste nell’eliminare dal prodotto parte del contenuto di acqua iniziale per mezzo del calore senza però cuocerlo, limitando così i processi di fermentazione e riducendone il volume. La soluzione ottimale per ottenere questo risultato è l’utilizzo di un essiccatore, i cestelli ravvicinati permettono di essiccare grandi quantità di cibo ottimizzando tempi e consumi. Gli stessi effetti, a livello di qualità, si possono ottenere con un forno che funzioni a temperature sotto ai 70 gradi, con l’accortezza di impostare la modalità ventilato oppure lasciando lo sportello socchiuso per favorire la dispersione dell’umidità.
Per consumare un pasto essiccato basta un fornelletto a gas e una gavetta nella quale reidratare il composto a fuoco lento per qualche minuto. Volendo ridurre davvero al minimo tempi di cottura, pentolame e scorte di gas, si può versare l’acqua bollente direttamente nel sacchetto e aspettare una decina di minuti mentre il pasto si reidrata da sé: quest’ultimo metodo prende il nome di freezer bag cooking, funziona meglio con ricette semplici a base di alimenti di veloce cot- tura (come zuppe di cereali, piccoli legumi, verdure e accompagnamento per cous cous) ma permette di avere una cena calda istantanea, completa e gustosa senza accumulare piatti da lavare.
QUALCHE RICETTA
Quadretti energetici al cioccolato
Il freddo aumenta esponenzialmente il fabbisogno energetico e queste barrette ultra caloriche e super golose sono lo snack perfetto da consumare durante una giornata sulla neve.
Ingredienti
/ 125 gr di datteri
/ 2 cucchiai di cacao amaro in polvere
/ 125 gr di mandorle tritate
/ 1 banana
/ fiocchi d’avena sbriciolati per guarnire
Procedimento Frullate i datteri con mezzo bicchiere d’acqua e una banana fino a ottenere una crema densa. Aggiungete il cacao e le mandorle tritate mescolando fino a che l’impasto non sarà uniforme. Stendete l’impasto su un tagliere, formando una sfoglia dello spessore di un centimetro, poi tagliate in quadretti. Ricoprite di fiocchi d’avena sbriciolati facendoli aderire alla superficie dei quadretti. Versione raw: se avete in programma di consumarli a breve, sarà sufficiente lasciarli addensare qualche ora in frigo. Si conservano fino a una settimana. Versione scorta: personalmente preferisco prepararne in gran quantità una sola volta, in modo da avere snack pronti sempre disponibili con poco impegno. In questo caso disponete i quadretti sui cestelli dell’essiccatore per 3 ore a 50 gradi e trasferite poi in contenitori ermetici: dureranno per mesi. Si possono mangiare così come sono, ma risultano meno morbidi; potete togliere dal contenitore la quantità da consumare a breve lasciandola qualche ora in frigo per far riprendere al composto un po’ di umidità in modo che torni alla consistenza iniziale.
Mix di verdure e legumi con cous cous
La soluzione in assoluto più gustosa e più veloce per una cena pronta da bivacco: il cous cous, oltre a garantire energia e pancia piena con poco ingombro, è velocissimo da preparare. Accompagnarlo a un goloso mix di verdure e legumi reidratati sul posto darà tutto un altro sapore alla cena. Solitamente ne preparo in grandi quantità nella stagione estiva, quando le materie prime abbondano ed essiccarle diventa anche un modo per non sprecare le eccedenze dell’orto.
Ingredienti per 4 persone
/ 2 carote
/ 1 melanzana
/ 1 zucchina
/ pomodorini
/ 300 gr di ceci
/ 300 gr di cous cous
Procedimento Dopo aver tagliato le verdure a cubetti, saltatele in padella condendo a piacere per preparare una comune dadolata. Aggiungete i ceci lessati a parte e triturati grossolanamente a fine cottura (se lasciati interi impiegherebbero troppo tempo a reidratarsi). Disponete sui piani dell’essiccatore e lasciatelo in funzione tutta la notte a 60/70 gradi, estraendo il composto solo quando non saranno più presenti tracce di umidità. Si conserva in vasetti chiusi ermeticamente per parecchi mesi. Consumazione e preparazione in viaggio: prima di partire, trasferite la quantità di verdure desiderata in una busta di plastica da freezer resistente alle alte temperature insieme al cous cous e a un pizzico di sale. Una volta giunti a destinazione, sarà sufficiente versare dell’acqua bollente nella busta fino a coprire il composto e lasciar riposare una decina di minuti. Il pasto può essere consumato direttamente dalla busta, e questa si può riutilizzare all’uscita successiva.
Infuso di zenzero e limone
Il gesto ormai automatico quando la sveglia suona per andare a sciare è far bollire l’acqua per il thermos, immaginando già il piacere di una bevanda calda sulla cima. Il grande classico invernale che preferisco è l’infuso di zenzero e limone, energetico e riscaldante, oltre che semplicissimo da preparare.
Ingredienti
/ zenzero essiccato
/ limone essiccato (a buccia edibile)
/ scorze di limone essiccate
/ miele o zucchero
Procedimento Affettate limone e zenzero a fettine sottili e disponeteli sui cestelli dell’essiccatore (3 o 4 mm di spessore) per almeno 3 ore a 50 gradi. Una volta essiccati, sbriciolate il tutto e chiudetelo in vasetti ermetici: la scorta di infuso è pronta e durerà tutto l’inverno. Preparate la bevanda seguendo il normale procedimento di infusione, lasciando uno o due cucchiai del composto in acqua bollente per qualche minuto e aggiungendo un dolcificante a piacere.
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Arthur Conan Doyle, un passo alpino sugli ski
È incredibile come certe persone possano essere visionarie, ahead of their time, in anticipo sui tempi, come direbbero oltre oceano. Lo è stato sicuramente Arthur Conan Doyle. In un articolo pubblicato su The Strand Magazine (VIII, July-December 1894, pp. 657-661), che pubblichiamo a seguire, con divertente humour british, 126 anni fa, l’autore del più famoso detective di tutti i tempi, Sherlock Holmes, aveva già intuito le formidabili potenzialità di due assi di legno, ma soprattutto il potere che hanno sull’anima e sul nostro benessere. Arthur Conan Doyle aveva scoperto lo sci durante una lunga e forzata vacanza in Svizzera dove la moglie Louise era in cura per la tubercolosi.
Non v’è nulla di particolarmente insidioso nell’aspetto di un paio di ski. Si tratta di due lingue di legno d’olmo lunghe otto piedi e larghe quattro pollici, munite di coda quadrata, punta all’insù e legacci al centro per assicurare i piedi. A guardarli, nessuno immaginerebbe le possibilità che nascondono. Ma vi basterà calzarli, rivolgere un sorriso agli amici per controllare che vi guardino, e subito dopo cadrete di testa in un cumulo di neve e scalcerete come dannati fino a rimettervi in posizione più o meno stabile, per poi ricadere rovinosamente su quello stesso cumulo, con il risultato di offrire agli amici un divertimento di cui non vi sareste mai creduti capaci.
Questo succede agli inizi. È normale in quella fase mettere in conto guai, i quali non tardano ad arrivare. Man mano che si va avanti, però, la faccenda si fa più irritante. Gli ski sono gli oggetti più capricciosi della terra. Un giorno fila tutto liscio. Un altro, pur essendo immutate le condizioni di clima e neve, va tutto storto. Ed è quando meno ve lo aspettate che gli imprevisti sono in agguato. Ve ne state in cima a un pendio e disponete il corpo a una rapida discesa, ma gli ski s’incollano al terreno facendovi capitombolare di testa. Oppure vi trovate lungo un plateau che sembra piatto come una tavola da biliardo, quando all’improvviso, senza né cause né segnali, essi schizzano in avanti lasciandovi a terra a guardare il cielo. Su un uomo che dia segni di eccessivo amor proprio, un assaggio di scarpe da neve norvegesi potrebbe avere un ottimo effetto morale.
Quando vi preparate a cadere, state pur certi che non accadrà mai. Ritenetevi spacciati quando vi sentite affatto sicuri. Arrivate a un pendio di ghiaccio vivo, con un’inclinazione di settantacinque gradi, e lo salite a zigzag conficcando le lamine degli ski, sapendo che se una zanzara vi si posasse addosso sareste finiti. Ma non succede nulla e arrivate in cima sani e salvi. Vi fermate in piano a congratularvi con il vostro compagno e avete solo il tempo di dire «Che veduta meravigliosa!» prima di ruzzolare di schiena e ritrovarvi con gli ski incrociati attorno al collo. O ancora, vi capiterà di compiere una lunga escursione senza infortuni, dopodiché, tornando lungo la pista, vi fermerete ad annunciare il vostro successo a un gruppo di persone sulla terrazza di un albergo. Basterà un nonnulla, e d’un tratto quelle persone si troveranno a rivolgere i complimenti alla spatole dei vostri ski. Se non avete la bocca piena di neve, per trovare un qualche conforto non vi resterà che snocciolare i nomi di un po’ di paesini svizzeri. Ragatz potrebbe fare al caso vostro ed evitare uno scandalo.
Ma tutto ciò appartiene alle prime fasi dell’uso degli ski. Dovrete pattinare in piano, muovervi su per i pendii a zigzag o alla maniera di un granchio, scivolare senza perdere l’equilibrio e soprattutto curvare con agilità. Al primo tentativo di curvare, gli amici penseranno che fate i buffoni. Il grande volteggio in aria sugli ski ha un aspetto fra i più insoliti, come una sfrenata danza tribale. Eppure quel repentino scodinzolo è veramente la più necessaria delle manovre, perché solo così è possibile curvare sul fianco della montagna senza scivolare. Mai porgere i talloni al pendio: è questa la sola maniera per farlo.
Fatto sta che, disponendo di perseveranza e di un mese libero nel quale superare tutte le prime difficoltà, si giungerà a credere che gli ski aprono un orizzonte di sport che è, a mio avviso, unico. Non riscuote ancora apprezzamento, ma sono convinto che un giorno centinaia di inglesi verranno in Svizzera per la stagione dello ski, in marzo e aprile. Credo di potermi dichiarare il primo, a eccezione dei due svizzeri di cui vi parlerò, ad aver compiuto traversate in montagna sulle scarpe da neve (seppure su distanza piuttosto modesta), ma senz’altro non sarò l’ultimo, anzi mi seguiranno migliaia di persone.
Il fatto è che in inverno scalare una normale vetta e compiere la traversata di valichi alpini è più facile che in estate, a patto che il tempo resti sul bello. In estate dovrete sia salire che scendere, e le due fasi sono egualmente faticose. In inverno la fatica è ridotta a metà, poiché buona parte della discesa è una semplice pattinata. È molto più semplice salire zigzagando con gli ski sopra una neve passabilmente compatta, anziché scarpinare su per i massi sotto un cocente sole estivo. Inoltre la temperatura invernale è più propizia all’esercizio, poiché nulla è tanto delizioso quanto l’aria tonificante e pura delle montagne, purché, naturalmente, s’indossino gli occhiali per proteggersi dal brillio della neve.
Il nostro programma era di andare da Davos ad Arosa attraversando il Passo della Furka, a oltre novemila piedi di altezza. In linea d’aria il tragitto non supera le dodici-quattordici miglia, ma in inverno è stato compiuto soltanto una volta, quando, lo scorso anno, i due fratelli Branger lo percorsero sugli ski. Erano loro i miei compagni nella spedizione che descriverò di seguito, i più fidati cui un novizio potesse sperare di accompagnarsi. Sono entrambi uomini di notevole resistenza, capaci di non soccombere neanche a una lunga esposizione al mio tedesco.
Svegli già prima delle quattro, alle quattro e mezzo eravamo in cammino per il paesino di Frauenkirch, dove avremmo attaccato l’ascensione. Una grande luna pallida splendeva nel cielo violetto, punteggiato di quelle stelle che è possibile ammirare soltanto ai Tropici o sulle cime più alte delle Alpi. Alle cinque e un quarto deviammo dalla strada per scarpinare sulla salita, dove si alternavano distese ancora coperte d’erba e chiazze di neve. Gli ski li portavamo in spalla, gli scarponi da ski attorno al collo, poiché si progrediva spediti sulla neve dura, là dove il sole aveva picchiato durante il giorno. Qui e là, in corrispondenza di una conca, affondavamo fino alla cintola in un manto soffice, ma nel complesso la marcia procedeva facilmente, e finché la pista attraversò un’abetaia fu impossibile calzare gli ski. Attorno alle sei e mezzo, dopo una lunga e continua sfacchinata, uscimmo dai boschi e poco dopo passammo davanti a una malga di legno, l’ultimo segno di presenza umana che avremmo visto fino ad Arosa.
Poiché sui pendii la neve era ancora abbastanza dura da offrire un buon appiglio ai nostri piedi, proseguimmo veloci sopra ondulati campi di neve che tendevano generalmente a salire. Più o meno alle sette e mezzo il sole rischiarò i picchi alle nostre spalle e il bagliore su quella grande distesa immacolata si fece accecante. Scendemmo per un lungo tratto e poi, giunti al corrispondente versante esposto a settentrione, trovammo la neve soffice come polvere e così alta che il bastone non toccava il fondo. Fu lì che calzammo le scarpe da neve e zigzagammo su per il lungo e candido fianco della montagna, per poi fermarci in cima a riposare. Sono oggetti utili gli ski, poiché, vedendo che la neve era ancora abbastanza dura da reggerci, li convertimmo in un comodissimo sedile, dal quale ammiravamo la vista di un completo circo di montagne, i cui nomi il lettore sarà contento di sapere che ho completamente dimenticato.
La neve si ammorbidiva rapidamente sotto i raggi solari, così che senza le scarpe la progressione sarebbe stata impossibile. Ci inerpicavamo sul ripido fianco di una valle e la bocca del Passo della Furka ci stava grossomodo di fronte. La neve lassù si posava a un’angolazione di cinquanta-sessanta gradi e poiché quello scosceso pendio lungo il quale scarpinavamo precipitava in un baratro, scivolare poteva essere rischioso. I miei compagni più esperti mi lasciarono camminare più a monte per quel mezzo miglio circa che durò il pericolo, ma presto sbucammo su una salita più leggera, dov’era possibile cadere senza gravi conseguenze. E allora sì che cominciammo veramente a usare le nostre scarpe da neve. Fino a quel punto avevamo camminato alla stessa velocità di un paio di scarponi, però su un terreno dove gli scarponi non sarebbero passati. Ma adesso assaporavamo un piacere che gli scarponi non potranno mai regalare. Per un terzo di miglio pennellammo curve che solcavano delicatamente la neve, schizzando fino a valle senza muovere i piedi. In quel grande deserto inviolato, dove campi di neve facevano da cornice alla nostra vista su tutti i lati e dove non si scorgevano tracce di vita che non fossero le impronte di camoscio o di volpe, fu glorioso sfrecciare in quel modo agevole. Un breve zigzag ai piedi della china ci condusse, alle nove e mezzo, alla bocca del passo, e vedemmo i piccoli alberghi giocattolo di Arosa, laggiù in fondo tra le abetaie, migliaia di piedi sotto di noi.
Avevamo ancora grossomodo mezzo miglio, che percorremmo trascinandoci dietro i bastoni. Mi pareva che la parte difficile del viaggio fosse finita e che dovessimo soltanto stare in equilibrio sugli ski e farci portare a destinazione. Eppure fu lì che arrivarono i guai. La discesa si fece sempre più ripida, fino a precipitare in quello che per un soffio non era un burrone bell’e buono. Ma è appunto in ragione di quel soffio, là dove sia coperto di neve soffice, che è possibile sfruttare in un altro modo le meravigliose lingue di legno. I fratelli Branger concordavano sul fatto che il tratto era troppo difficile perché tentassimo di attraversarlo con gli ski. Quanto a me, mi pareva che la sola opzione possibile fosse un paracadute, ma mi limitai a fare quello che facevano i miei compagni. Si tolsero gli ski, li allacciarono l’uno all’altro con i legacci e li capovolsero per ottenere una slitta alquanto rudimentale. Ci sedemmo sopra, conficcando i talloni nella neve e premendo forte i bastoni dietro di noi, e cominciammo a scendere lungo lo scosceso versante del passo. Penso che i miei compagni giunsero a pentirsene, visto che arrivati al fondo erano bianchi come la moglie di Lot. Ma ero alle prese con guai così impellenti da non avere tempo per curarmi di loro. Cercai di moderare la velocità dei miei balzi premendo il bastone, il che ebbe l’effetto di far ruotare di lato la slitta, facendomi sbandare giù per la discesa. Fu così che ficcai i talloni nella neve e venni catapultato all’indietro, dopodiché in un lampo i miei ski, legati assieme, schizzarono come una freccia da un arco, oltrepassarono i Branger con un sibilo e svanirono sulla china dirimpetto, lasciando il proprietario carponi nella neve fonda. Sui campi più alti, dove i cumuli di neve vanno dai venti ai trenta piedi, poteva essere un incidente sgradevole, ma nel mio caso la ripidità era un vantaggio, perché lì la neve non si accumulava in grandi quantità. Scesi il tratto che mi restava alla mia maniera.
A detta del mio sarto, l’Harris Tweed non si logora mai. È una pura teoria, che non reggerebbe a un esperimento scientifico dotato di tutti i crismi. Brandelli della sua merce si trovano esposti, infatti, dal Passo della Furka ad Arosa, e per il resto di quel giorno fui particolarmente felice di camminare rasente ai muri.
Tuttavia, se non si conta che uno dei Branger si era slogato la caviglia nel corso della discesa, andò tutto bene e arrivammo ad Arosa alle undici e mezzo, dopo un viaggio di sette ore spaccate. Gli abitanti di Arosa, sapendo del nostro arrivo, avevano messo in conto che prima dell’una non ci saremmo fatti vivi, e così uscirono per assistere alla discesa del ripido passo più o meno quando noi finivamo un lauto pranzo al Seehof. Non starò qui a rimproverarli per un divertimento innocente, ma vi dirò che fui felice di sapere che il mio piccolo spettacolo fosse finito prima che loro si riunissero muniti di binocolo. Senza un pubblico, ce la si cava ottimamente durante un nuovo esperimento sugli ski.
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Godere delle stesse cose
La pandemia ha stravolto tutto. Anche il mio modo di vivere lo sci. Nella primavera scorsa, di ritorno dalle Antille dopo una traversata atlantica con la mia vecchia barca a vela, non vedevo l’ora di sciare. Dopo mesi di assoluta libertà sull’acqua sono piombato, impreparato, in pieno lockdown duro. Le montagne intorno a casa sembravano di panna montata e io non potevo che stare a guardarle. Non capivo bene perché potessi solo andare al supermercato, poi mi hanno spiegato che se mi fossi fatto male sciando, gli ospedali erano pieni. Ho pensato che con 74 anni di sci alle spalle, senza mai usare il casco, non mi ero mai rotto un osso e che forse era più facile che mi facessi male cadendo dalle scale. Ho anche pensato che sarebbe stato meglio che fossi rimasto a navigare oltreoceano, anziché rientrare in una Italia infetta. Confesso che, non avendo capito bene la gravità della situazione, la voglia di trasgredire si è fatta sentire, forte. Ho programmato fughe notturne con gli sci sulle spalle, un po’ come ai vecchi tempi, quando si partiva dalla città ancora addormentata, dopo una notte brava, per qualche gita demenziale.
Un po’ come i miei amici di Livigno (non posso fare nomi) che sono riusciti in quei giorni a eludere i controlli, effettuando un perfetto raid in sci. Soffrendo non poco, ho aspettato la fine di aprile per iniziare la stagione scialpinistica. Le necessità di distanziamento, unita all’età e allo scarso allenamento, mi hanno portato a ripetere più volte in solitaria itinerari collaudati come la classica salita a Punta Rocca in Marmolada. Proprio io che non ho mai amato vivere lo scialpinismo da solo e ripetere gli stessi itinerari. Speravo di chiudere bene allo Stelvio a fine giugno con il Tuckett ma ho trovato una coda chilometrica di giovani atleti alla funivia e così ho dovuto accontentarmi dei bei pendii ripidi di Cima Nagler, dove un tempo ci si allenava a fare lo speciale con i pali rigidi. Bilancio di fine stagione tutto sommato positivo, come pretendere di più in questi mala tempora! Però niente raid di rifugio in rifugio, che sono la forma di sci che prediligo in primavera. Tutto rimandato a chissà quando. Lo sci, ai tempi della pandemia, perde purtroppo la dimensione di continua scoperta propria dei raid e il piacere del viaggio vissuto con gli amici, il che non è certo poco. O forse sono io che non sono capace di vivere altrimenti questa dimensione di plenitudine dello sci? La pandemia solleva in me questi dubbi profondi.
Poi arrivò l’estate, e sembrò che il peggio fosse passato. Ho ordinato gli sci nuovi,
sci da ragazzetto, sognando il prossimo inverno. Ma, con l’autunno, apriti cielo! I contagi sono ripresi alla grande e finalmente ho capito la gravità della situazione ed i rischi che, soprattutto alla mia età, stavo correndo. La paura del contagio è diventata una costante e la pratica dello sci nulla di più che un modo per evadere, almeno per qualche ora, dall’incubo. La fortuna ha voluto che la neve arrivasse copiosa già ad inizio dicembre a soli 950 metri di altitudine, dove abito. Nel timore, anzi nella certezza, che durasse poco ad una quota così bassa, ho sciato fino a notte fonda sul prato illuminato davanti a casa, risalendo il pendio con una manovia di una cinquantina di metri. Poche curve ma di alta qualità su di una bella polvere mi hanno proiettato nel mondo bianco della mia infanzia sciatoria. Quando instancabile andavo su e giù su di un prato simile a questo, a Sauze d’Oulx, allora perfetto paese di montagna, risalendo decine di volte il pendio a scaletta, senza l’aiuto di manovie, di skilift o degli orribili e diseducativi tapis roulant che infestano oggi i campi scuola. Quando prendevo orgoglioso, bardato da sciatore, il tram 22 con il mio papà e, attraversata tutta Torino, si arrivava al capolinea di Sassi.
Di qui si proseguiva con la cremagliera di Superga. Che discesa il vallone di Cartman dove adesso corre la strada del traforo del Pino! Un freeride per palati fini fra le vigne ed i muretti a secco. Su e giù più volte come dei matti, intervallate dalle code di sciatori alla biglietteria.
Poi, come previsto, il caldo è ritornato e la neve davanti a casa si è sciolta quasi tutta. Per superare il senso di smarrimento dato dal rivedere l’erba verde del prato sono salito più in alto, sfidando il pericolo dei cani lasciati liberi nei masi sopra il mio, fino a raggiungere i bellissimi boschi esposti a nord della Panarotta, la piccola stazione in crisi non tanto per il lockdown quanto per una cronica mancanza di idee. Ho risalito con le pelli più volte le piste deserte, ho respirato a pieni polmoni l’aria pulita, ho ritrovato il profumo della neve e del lariceto. In fondo mi basta questo, ho pensato che la pandemia è servita a qualcosa, a farmi rivivere i piaceri delle brevi e semplici gite d’altri tempi, nell’incanto bianco di boschi vivi e silenziosi.
Ho trovato assurdo che la seggiovia fosse ferma a causa dei divieti. Ma lo sci non è uno sport individuale all’aria libera? Capisco chiudere le cabinovie, i chiassosi ritrovi lungo le piste, le discoteche. Ma perché anche le seggiovie e gli skilift? Che male fanno? Ho provato addirittura un’istintiva solidarietà con i pistaioli chiusi in casa e con i gestori di questa vecchia seggiovia, ora ferma fino a chissà quando. Anche se a me tutto sommato va bene così, perché posso risalire quando voglio con le pelli la pista deserta. Arriva dunque, con il Natale, il regalo della nuova raffica di decreti governativi che vietano anche i più innocui spostamenti in auto. Ecco riaffacciarsi imperiosa la voglia di trasgredire. Una voglia che mi riporta ai miei anni migliori, quando godevo a salire e scendere alte montagne senza permessi. Con gli sci nuovi appesi alla prodigiosa e-bike e gli scarponi da telemark nello zaino risalgo da casa le forestali che raggiungono la neve. Ancora gli stessi pendii, gli stessi boschi, gli stessi dislivelli con le pelli, le stesse curve. Ormai mi è chiaro che la pandemia impone di godere delle stesse cose, dei microcosmi che la montagna sempre sa offrire. È come essere in un supercarcere dotato di un grande parco giochi. È come vivere in un mondo chiuso, in una bolla surreale che ha assunto le dimensioni di una artificiosa normalità.
Potrò ancora partire, viaggiare, rivivere i grandi spazi, le grandi traversate con gli sci? Mi rimane poco tempo per farlo, alla mia età. I grandi spazi a cui continuo, imperterrito, ad anelare, oggi mi sembrano così distanti, così difficilmente raggiungibili, che non so rispondere. Nell’attesa che qualcosa cambi e di sentirmi nuovamente libero, ecco una bella notizia: la neve ha ripreso a cadere copiosa sul prato davanti a casa. Polvere sopraffina, un vero regalo. Posso riprendere senza indugio la ricerca di quella curva lenta che prolunga al massimo il piacere del fruscio dei fiocchi di neve sotto le solette degli sci. Una curva ideale che descrive tutto il bello dello sci, alla faccia della pandemia. È la ricerca della curva perfetta.
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