Godere delle stesse cose

La pandemia ha stravolto tutto. Anche il mio modo di vivere lo sci. Nella primavera scorsa, di ritorno dalle Antille dopo una traversata atlantica con la mia vecchia barca a vela, non vedevo l’ora di sciare. Dopo mesi di assoluta libertà sull’acqua sono piombato, impreparato, in pieno lockdown duro. Le montagne intorno a casa sembravano di panna montata e io non potevo che stare a guardarle. Non capivo bene perché potessi solo andare al supermercato, poi mi hanno spiegato che se mi fossi fatto male sciando, gli ospedali erano pieni. Ho pensato che con 74 anni di sci alle spalle, senza mai usare il casco, non mi ero mai rotto un osso e che forse era più facile che mi facessi male cadendo dalle scale. Ho anche pensato che sarebbe stato meglio che fossi rimasto a navigare oltreoceano, anziché rientrare in una Italia infetta. Confesso che, non avendo capito bene la gravità della situazione, la voglia di trasgredire si è fatta sentire, forte. Ho programmato fughe notturne con gli sci sulle spalle, un po’ come ai vecchi tempi, quando si partiva dalla città ancora addormentata, dopo una notte brava, per qualche gita demenziale. 

Un po’ come i miei amici di Livigno (non posso fare nomi) che sono riusciti in quei giorni a eludere i controlli, effettuando un perfetto raid in sci. Soffrendo non poco, ho aspettato la fine di aprile per iniziare la stagione scialpinistica. Le necessità di distanziamento, unita all’età e allo scarso allenamento, mi hanno portato a ripetere più volte in solitaria itinerari collaudati come la classica salita a Punta Rocca in Marmolada. Proprio io che non ho mai amato vivere lo scialpinismo da solo e ripetere gli stessi itinerari. Speravo di chiudere bene allo Stelvio a fine giugno con il Tuckett ma ho trovato una coda chilometrica di giovani atleti alla funivia e così ho dovuto accontentarmi dei bei pendii ripidi di Cima Nagler, dove un tempo ci si allenava a fare lo speciale con i pali rigidi. Bilancio di fine stagione tutto sommato positivo, come pretendere di più in questi mala tempora! Però niente raid di rifugio in rifugio, che sono la forma di sci che prediligo in primavera. Tutto rimandato a chissà quando. Lo sci, ai tempi della pandemia, perde purtroppo la dimensione di continua scoperta propria dei raid e il piacere del viaggio vissuto con gli amici, il che non è certo poco. O forse sono io che non sono capace di vivere altrimenti questa dimensione di plenitudine dello sci? La pandemia solleva in me questi dubbi profondi. 

Poi arrivò l’estate, e sembrò che il peggio fosse passato. Ho ordinato gli sci nuovi,
sci da ragazzetto, sognando il prossimo inverno. Ma, con l’autunno, apriti cielo! I contagi sono ripresi alla grande e finalmente ho capito la gravità della  situazione ed i rischi che, soprattutto alla mia età, stavo correndo. La paura del contagio è diventata una costante e la pratica dello sci nulla di più che un modo per evadere, almeno per qualche ora, dall’incubo. La fortuna ha voluto che la neve arrivasse copiosa già ad inizio dicembre a soli 950 metri di altitudine, dove abito. Nel timore, anzi nella certezza, che durasse poco ad una quota così bassa, ho sciato fino a notte fonda sul prato illuminato davanti a casa, risalendo il pendio con una manovia di una cinquantina di metri. Poche curve ma di alta qualità su di una bella polvere mi hanno proiettato nel mondo bianco della mia infanzia sciatoria. Quando instancabile andavo su e giù su di un prato simile a questo, a Sauze d’Oulx, allora perfetto paese di montagna, risalendo decine di volte il pendio a scaletta, senza l’aiuto di manovie, di skilift o degli orribili e diseducativi tapis roulant che infestano oggi i campi scuola. Quando prendevo orgoglioso, bardato da sciatore, il tram 22 con il mio papà e, attraversata tutta Torino, si arrivava al capolinea di Sassi.
Di qui si proseguiva con la cremagliera di Superga. Che discesa il vallone di Cartman dove adesso corre la strada del traforo del Pino! Un freeride per palati fini fra le vigne ed i muretti a secco. Su e giù più volte come dei matti, intervallate dalle code di sciatori alla biglietteria. 

Poi, come previsto, il caldo è ritornato e la neve davanti a casa si è sciolta quasi tutta. Per superare il senso di smarrimento dato dal rivedere l’erba verde del prato sono salito più in alto, sfidando il pericolo dei cani lasciati liberi nei masi sopra il mio, fino a raggiungere i bellissimi boschi esposti a nord della Panarotta, la piccola stazione in crisi non tanto per il lockdown quanto per una cronica mancanza di idee. Ho risalito con le pelli più volte le piste deserte, ho respirato a pieni polmoni l’aria pulita, ho ritrovato il profumo della neve e del lariceto. In fondo mi basta questo, ho pensato che la pandemia è servita a qualcosa, a farmi rivivere i piaceri delle brevi e semplici gite d’altri tempi, nell’incanto bianco di boschi vivi e silenziosi. 

Ho trovato assurdo che la seggiovia fosse ferma a causa dei divieti. Ma lo sci non è uno sport individuale all’aria libera? Capisco chiudere le cabinovie, i chiassosi ritrovi lungo le piste, le discoteche. Ma perché anche le seggiovie e gli skilift? Che male fanno? Ho provato addirittura un’istintiva solidarietà con i pistaioli chiusi in casa e con i gestori di questa vecchia seggiovia, ora ferma fino a chissà quando. Anche se a me tutto sommato va bene così, perché posso risalire quando voglio con le pelli la pista deserta. Arriva dunque, con il Natale, il regalo della nuova raffica di decreti governativi che vietano anche i più innocui spostamenti in auto. Ecco riaffacciarsi imperiosa la voglia di trasgredire. Una voglia che mi riporta ai miei anni migliori, quando godevo a salire e scendere alte montagne senza permessi. Con gli sci nuovi appesi alla prodigiosa e-bike e gli scarponi da telemark nello zaino risalgo da casa le forestali che raggiungono la neve. Ancora gli stessi pendii, gli stessi boschi, gli stessi dislivelli con le pelli, le stesse curve. Ormai mi è chiaro che la pandemia impone di godere delle stesse cose, dei microcosmi che la montagna sempre sa offrire. È come essere in un supercarcere dotato di un grande parco giochi. È come vivere in un mondo chiuso, in una bolla surreale che ha assunto le dimensioni di una artificiosa normalità. 

Potrò ancora partire, viaggiare, rivivere i grandi spazi, le grandi traversate con gli sci? Mi rimane poco tempo per farlo, alla mia età. I grandi spazi a cui continuo, imperterrito, ad anelare, oggi mi sembrano così distanti, così difficilmente raggiungibili, che non so rispondere. Nell’attesa che qualcosa cambi e di sentirmi nuovamente libero, ecco una bella notizia: la neve ha ripreso a cadere copiosa sul prato davanti a casa. Polvere sopraffina, un vero regalo. Posso riprendere senza indugio la ricerca di quella curva lenta che prolunga al massimo il piacere del fruscio dei fiocchi di neve sotto le solette degli sci. Una curva ideale che descrive tutto il bello dello sci, alla faccia della pandemia. È la ricerca della curva perfetta. 

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 134


Arnold Lunn, una vita per lo sci

L'evoluzione dello sci, dall'inizio del Novecento fino allo sviluppo dello sci di massa, ha avuto nell'inglese Arnold Lunn il suo massimo artefice. Lunn ci ha lasciato una mole di libri e di saggi sullo sci (e non solo: parecchie sono le sue opere di pensiero e di filosofia) di grande importanza. Inoltre, gli annuari del The British Ski Year Book, di cui è stato direttore dal 1920 al 1971, sono una fonte imprescindibile di informazioni per chi si interessa alla storia dello sci moderno. È anche stato il direttore di The Alpine Ski Club Annual dal 1908 al 1912. I suoi scritti coprono un arco temporale di oltre sessanta anni e riflettono i grandi cambiamenti avvenuti nello sci dalla fine dell'Ottocento al 1974, anno in cui ci lasciò, a ottantasei anni. Lunn giocò anche un ruolo molto fondamentale in questi cambiamenti: l'evoluzione dello sci risulta infatti intimamente collegata a quella del suo pensiero. Viene soprattutto ricordato per il forte contributo che ha dato al discesismo competitivo, con l'invenzione dello slalom speciale e dell'Arlberg Kandahar, la mitica gara di combinata fra discesa libera e slalom che fino agli anni Settanta ha rappresentato il trofeo più prestigioso per uno sciatore alpino. Noi vogliamo però ricordarlo anche come grande sciatore di montagna. È davvero peculiare che, mentre si batteva per fare della discesa e dello slalom una disciplina olimpica, sia stato anche un appassionato cultore dell'alpinismo con gli sci, con numerosissime imprese da inserire nell'albo d'oro dello scialpinismo: basti citare la prima all’Eiger (3.970 m) e al Dom de Mischabel (4.545 m). Si può dire che Lunn iniziò a sciare facendo scialpinismo e continuò a farlo ad altissimo livello per tutta la sua lunga vita.

Scialpinismo e gare di sci alpino rappresentano due mondi che, salvo eccezioni, risultano oggi piuttosto distanti. Ma per Lunn non era affatto così. Egli era uno sciatore completo, amava ogni cosa dello sci, salvo indignarsi di fronte alla piega consumistica assunta dallo sci di massa e non condividere le tendenze dell'agonismo negli ultimi anni della sua intensa vita. Peculiare, direi unica, rimane la sua capacità di essere stato l'appassionato artefice dello sviluppo di due modi di vivere lo sci che con il tempo si sono distanziati sempre di più uno dall'altro. Ricordando le principali tappe della sua lunga vita vediamo di capire il segreto di questa felice sintesi.

Dall’India a Mürren

Arnold Lunn nasce a Madras in India nel 1888, il padre Henry è medico e pastore metodista. Rientrato in Inghilterra nel 1892 con la famiglia, Henry organizza a Grindelwald in Svizzera un incontro fra pastori metodisti, anglicani e non conformisti per tentare un'utopistica unificazione. Ovviamente non risolve nulla ma scopre le sue indubbie doti di organizzatore di viaggi. Abbandona quindi la professione di medico e costituisce la Sir Henry Lunn Ltd, un'agenzia specializzata nell'offrire agli inglesi facoltosi soggiorni nelle prime stazioni invernali svizzere, da Adelboden a Wengen, da Montana a Mürren. Nel 1905 crea la Public Schools Alpine Sports Club, che sarebbe diventata la più importante agenzia specializzata nelle vacanze invernali della Svizzera. Lo sci è una novità che interessa i ricchi inglesi e Henry, che non è uno sciatore, ha subito grande successo. Il figlio Arnold inizia a sciare a dieci anni, a Chamonix. Nasce spontanea in lui una grande passione per la montagna e per lo sci che non lo abbandonerà più per tutta la vita. Studente a Oxford, a venti anni fonda l'Alpine Ski Club, del quale il celebre alpinista e critico d’arte Martin William Conway fu il primo presidente. Neppure un grave infortunio a 21 anni durante un'arrampicata in Galles, in cui rischia di perdere una gamba, che rimarrà per sempre più corta dell'altra, mette fine alla sua passione per lo sci. Appena cade la neve in autunno, Arnold si trasferisce a Mürren per rimanerci fino a tarda primavera. La meravigliosa stazione dell'Oberland Bernese in cui si arriva, come a Wengen, solo con il treno a cremagliera, diventa la sua patria adottiva. A Mürren la Henry Lunn Ltd acquista il prestigioso Hotel des Alpes, diventato poi Palace Hotel. La camera numero 4 diventa il celebre ufficio, caotico e disordinato, di Arnold.  In esso si svolgono le storiche riunioni che danno vita allo sci moderno.

Nel 1911 Arnold Lunn si reca a Montana (1.500 m), una stazione di sci del Vallese, su invito di Frederick Roberts, conte di Kandahar e Waterford, famoso vincitore della battaglia di Qandahār in Afghanistan e vice-presidente del Public Schools Alpine Sports Club, per collaborare al primo Roberts of Kandahar, la gara di discesa su terreno non battuto da lui inventata. Una gara di ben 1.500 metri di dislivello, con una parte di salita all'inizio per attraversare la Weisshornlücke (2.852 m) e il Rezlipass (2.830 m). Particolare da non sottovalutare: il punto di partenza, il rifugio Wildstrubel (2.791 m), viene raggiunto dai concorrenti in sei ore, il giorno prima della gara. Dieci membri del Public Schools sopra menzionato partecipano alla gara, vince Cecil Hopkinson in 61 minuti: è la prima volta che si misura il tempo in una gara di questo tipo. Lunn si rende subito conto del fascino e dell'importanza di una sfida così completa, antesignana di quelle attuali di freeride, e ottiene di effettuare il Roberts of Kandahar a Mürren nei successivi tre anni, immediatamente prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. Lunn intervalla l'attività di promotore dello sci in Svizzera e ideatore di nuove gare con un'attività scialpinistica di prim'ordine. Nel febbraio 1908 compie, senza guide, insieme a Cecil Hilton Wybergh, anche lui membro del Public Schools Alpine Sports Club, un raid in sci di quattro giorni da Montana a Villars, attraverso i massicci del Wildstrubel e dei Diablerets. Sono anni in cui si tracciano con grande entusiasmo nuove grandi traversate con gli sci, come la Chamonix-Zermatt ad opera della guida Joseph Ravanel, nel gennaio 1909, con altre tre guide e due clienti. Lunn non è certo da meno e dal 2 al 7 gennaio 1912 effettua una grande traversata delle Alpi Bernesi da Kandersteg a Meiringen. Sono con lui il famoso professor François-Frédéric Roget (compagno delle prime gite di un altro grande: Marcel Kurz...) e tre portatori: Arnold Schmid, Christian Gyger e ‘Adolf’. Per quest'ultimo Lunn non scrive il cognome: nella sua relazione The Oberland from End to End sul The Alpine Ski Club Annual lo descrive come «il peggiore sciatore (ski-runner) e il peggiore portatore che ho avuto la sfortuna di incontrare». Per completezza aggiungiamo che Theodor Lalbermatten ha portato lo zaino del prof. Roget da Kippel al rifugio sopra Lótschenlücke, oggi chiamato capanna Hollandia.

Nel 1910 Arnold Lunn pubblica il primo volume di The Alpine Ski Club Guides: The Bernese Oberland, il massiccio da lui prediletto in cui ritornerà a più riprese. Il magistrale resoconto di Lunn di un'altra traversata primaverile dell'Oberland, dallo Jungfraujoch (già servito dalla ferrovia, dal 1912) a Meiringen, viene pubblicato nel libro Alpinismo invernale di Marcel Kurz. Lunn e Kurz, i due grandi dell'età d'oro e d'argento dello scialpinismo, si conoscono e si stimano, ma il caso vuole che non riescano mai a fare una gita o una traversata insieme. Nel 1913 Arnold Lunn pubblica Ski-ing, in cui introduce nelle gare di discesa il divieto di frenare con i bastoncini. Erano i tempi in cui nei punti difficili si preferiva spesso cadere anziché frenare. Per questo Vivien Caulfield, autore di How to Ski and How Not To del 1910 aveva inventato le gare no-fall, in cui vinceva chi riusciva a cadere meno! Come ricorda Daniel Anker su Der Schneehase-Jahrbuch des Schweizerischen Akademischen Skiclubs vol 37, 2002-2007, in quegli anni, oltre a Lunn e Caulfeild, diedero una notevole spinta allo sviluppo dello sci Rickmers con il suo Ski-ing for Beginners and Mountaineers (1910) e Richardson con The Ski-Runner (1910).

Sempre nel 1913 Arnold Lunn sposa Mabel Northcote. Bella, dolce, elegante, Mabel non è un’alpinista ma si innamora presto dello sci. Inizia una bella vita di coppia nella montagna bianca, un lungo viaggio durante il quale nascono i loro tre figli: Peter, Jaqueta e John. Mabel è di fede anglicana, lui è agnostico ma non rimarrà tale per tutta la vita. Nel 1916 Lunn fa conoscenza con un ragazzo di Mürren di quattordici anni che scia velocissimo a telemark, lasciando sulla neve tracce perfette. Si chiama Walter Amstutz ed è destinato a diventare uno dei suoi più cari amici e uno dei più famosi sciatori di tutti i tempi. Ideatore del Kl (chilometro lanciato, oggi speed skiing o sci di velocità), Amstutz va anche ricordato per l’invenzione delle famose lunghe molle che, collegando la parte posteriore dello scarpone allo sci, permettono di controllare meglio il tallone: le famose Amstutz-Feder o molle Amstutz. Il 18 giugno 1917, insieme alla guida Josef Knubel, Lunn compie la sua scialpinistica capolavoro arrivando, sci ai piedi, sul Dom de Mischabel (4.545 m), la cima più alta che si trova integralmente in Svizzera. Ancora oggi il Dom rappresenta uno dei traguardi più ambiti per gli scialpinisti di alto livello.

Nel 1921, un anno dopo aver effettuato, sempre con la guida Knubel, le prime scialpinistiche al Weisshorn (4.506 m, lasciando gli sci alla base delle rocce della cresta a 3.450 m) e al Brunegghorn (3.833 m), Lunn pubblica uno dei suoi libri più belli e innovativi: Alpine Skiing at All Heights and Seasons. Si tratta di un'analisi dello sci nelle quattro stagioni, con la primavera che primeggia sulle altre, come epoca ideale per lo sci. Il terzo capitolo, Spring Ski-ing, è un piccolo capolavoro di fondamentale importanza per chi considera lo sci qualcosa più di uno sport. Sempre nel 1921, a dimostrazione dell'eclettismo di Lunn, escono i primi articoli e disegni sul suo slalom, come gara di destrezza e velocità fra un ostacolo e l'altro. Prima di allora Mathias Zdarsky aveva già organizzato, nel 1905, una gara con passaggi obbligati sul Muckenkogel di Lilienfeld in Austria: l'obiettivo in quel caso non era il mantenimento della velocità ma la sua riduzione. Il primo slalom moderno ha luogo a Mürren nel 1922 e un articolo di Lunn su The British Year Book ne sottolinea la filosofia e il successo. Nel 1923 Mabel fonda il Ladies Ski Club, destinato a esercitare una grande influenza nello sviluppo dello sci femminile e a portare la squadra inglese a dominare in tutte le gare dell’epoca. Il 18 maggio 1924, come reazione alla prima Olimpiade invernale di Chamonix in cui sono presenti solo le discipline nordiche, Lunn fonda il Kandahar Ski Club e organizza la prima gara internazionale di discesa e slalom. Nella stessa stagione sale con Amstutz, Richardet e Amacher l'Eiger (3.970 m), portando gli sci fino allo Nördliches Eigerjoch (3.607 m). È la sua ultima scialpinistica importante, a trentasei anni di età.

Nel 1927 Hannes Schneider, inventore della tecnica dell'Arlberg e fantasioso interprete dei film di sci di Arnold Fanck, invita Lunn a St. Anton: nasce così fra i due un'amicizia e un sodalizio importante che porta all'invenzione dell'Arlberg-Kandahar. Si tratta di una gara di discesa libera e di un successivo slalom in cui l'ordine di partenza riflette la classifica della discesa: in questo modo è possibile, sommando i tempi, individuare nella combinata lo sciatore più completo. Sempre nel 1927 Lunn pubblica la sua prima monumentale History of Ski-ing, una insostituibile fonte di informazioni sulla storia dello sci. Nel 1928 viene organizzata a St. Moritz la seconda Olimpiade invernale, sempre aperta alle sole discipline nordiche. E Lunn e Schneider inventano a St. Anton il primo Arlberg Kandahar, che assume subito il ruolo di maggiore competizione internazionale per le discipline alpine. L’Arlberg Kandahar viene disputato ogni anno dal 1928 al 1970, salvo l'interruzione durante la Seconda Guerra Mondiale, in stazioni diverse: St. Anton, Chamonix, Garmisch-Partenkirchen, Sestriere. All'inizio degli anni Trenta la continua ricerca spirituale di Lunn, che si ritrova nelle sue opere The Flight from Reason (1930) e Difficulties (1932), lo porta ad abbracciare la fede cattolica. La sua prima passione rimane lo sci: sulla copertina della traduzione italiana di Now I see, Ora ci vedo, pubblicata dai salesiani della Sei nel 1937, c’è lui che imbraccia gli sci come una croce.

Grazie alle sue battaglie, la discesa e lo slalom sono finalmente accolti ai Giochi Olimpici del 1936 a Garmisch-Partenkirchen. Siamo però in piena epoca nazista. Lunn partecipa ai giochi come referente per lo slalom e suo figlio Peter è capitano della squadra britannica. Nessuno dei due prende parte alla cerimonia di apertura e al banchetto offerto da Hitler. Nel 1939 Lunn riesce a far raggiungere gli Stati Uniti a Hannes Schneider e famiglia, dopo l'incarcerazione di quest'ultimo senza una chiara motivazione, sostanzialmente perché inviso ai maestri di sci nazisti. Lo fa fingendo di accettare un ricatto: possibilità di espatriare per Schneider e famiglia in contropartita al mantenimento dell'Arlberg-Kandahar a St. Anton. Schneider riesce a partire ma l'Arlberg Kandahar ritornerà a St. Anton con lui solo nel dopoguerra, nel 1949. Nel 1952 Lunn pubblica The Story of Ski-ing una versione aggiornata e parecchio rivista rispetto a quella del 1927. Nel libro cambia idea su molti punti. Prima di tutto sulla tecnica di discesa. Nello stesso anno, per i suoi meriti nel mondo dello sci, viene nominato baronetto. Nel 1959 muore Lady Mable. Due anni dopo Lunn si risposa con la sua segretaria Phyllis Holt-Needham, assistant editor del British Ski Year Book, che non è una grande sciatrice. Era stata Mabel a presentarla ad Arnold e ad affermare che sarebbe stata la persona adatta per prendere un giorno il suo posto nella vita del marito... Nel 1969 Arnold Lunn pubblica la sua ultima opera sullo sci: si tratta di The Kandahar Story: a Tribute on the Occasion of Mürren's Sixtieth Skiing Season. Un tributo alla grande gara da lui ideata e a Mürren, sua patria adottiva. Muore a Londra nel 1974, a ottantasei anni. Il suo ultimo scritto è una poesia che parla della fede, della gioia di sciare e dell'immensa bellezza delle montagne. La traduzione in tedesco dell'amico Walter Amstutz viene affissa nel porticato della chiesa di Mürren.

La storia dello sci secondo Arnold Lunn

La storia dello sci nelle Alpi a suo parere si può dividere in quattro fasi:

  1. l'età dei pionieri 1890-1896
  2. l'età d'oro 1897-1917
  3. l'età d'argento 1918-1927
  4. l'età moderna 1928-1970

La prima è quella delle imprese di fine Ottocento, dalle prime traversate di Christophe Iselin e Conan Doyle con i fratelli Branger, fino alla salita all'Oberalpstock di Wilhelm Paulcke. L'età d'oro si apre con la traversata nell'Oberland Bernese di Paulcke e si chiude con la salita con gli sci fino in cima al Dom de Mischabel dello stesso Lunn. Durante questo periodo Lunn è un fervido sostenitore dello sci norvegese, ossia del telemark, del quale il grande interprete sulle Alpi è senza dubbio Wilhelm Paulcke. Lunn si schiera inizialmente con lui nella querelle con Zdarsky, che con la sua tecnica di Lilienfield propone uno sci più facile da apprendere e più adatto ai terreni alpini ma molto meno elegante. Già nel 1905 si notano però tentativi di creare una tecnica ibrida, con un'attrezzatura che permette di sciare sia secondo la tecnica di Lilienfield che a telemark, quando le condizioni di neve e il pendio si adattano alla sciata norvegese. Una felice sintesi dei due modi di sciare si ritrova nel testo Der alpine Skilauf del 1910, dell'ufficiale dell'esercito austriaco Georg Bilgeri. Con il tempo anche Lunn, già difensore della tecnica norvegese, cambia parzialmente idea e in The Story of Ski-ing del 1952 considera «magistrale» la sintesi di Bilgeri da cui nasce lo sci alpino. Ne segue quindi l'evoluzione che lo porta alla tecnica dell'Arlberg dell'amico Schneider: i suoi talloni sono quasi bloccati per ogni tipo di curva e di neve. Questo cambiamento in Lunn non deve stupire. È giustificato dalla lunghezza dell'arco temporale di riferimento e dalla forte evoluzione che lo contraddistingue.

L'età d'argento è segnata dal successo delle opere di Marcel Kurz e dello stesso Lunn.  Di fondamentale importanza per fare il punto sullo sci di quegli anni sono i volumi Alpinisme hivernal del primo e Alpine Ski-ing at All Heights and Seasons e History of Ski-ing del secondo. Si può notare una perfetta sintonia in molte parti delle due opere. Il periodo d'argento si chiude con l'incontro fra Lunn e Schneider, che con la tecnica dell'Arlberg e i perfetti cristiania sembra avere definitivamente messo in cantina il telemark sulle Alpi. Nei film interpretati da Schneider, da Wunder des Schneeschuhs a Caccia alla volpe in Engadina, da La montagna sacra a L'ebbrezza bianca a fianco di Leni Riefensthal, Schneider mette in evidenza l'eleganza della sua tecnica dell'Arlberg a talloni bloccati. Egli peraltro non considera superato lo sci norvegese, ne riconosce gli aspetti estetici e si limita ad affermare che il suo cristiania si adatta a qualsiasi situazione. L'età moderna secondo Lunn si apre e si chiude con l'Arlberg-Kandahar, la gara perfetta che solo i grandi sciatori completi possono aspirare a vincere. Nell'età moderna lo scialpinismo si apre ai percorsi tecnici e al ripido: con riferimento al suo Oberland, Lunn ricorda la traversata dello Jungfraujoch con discesa sulla Wengernalp del 1939 e quella dell'Eigerjoch con discesa sulla Scheidegg del 1951. Senza dimenticare il raggiungimento con gli sci del Colle di Meade (7.160 m) in Karakorum da parte di Romilly Lisle Holdsworth nel 1931, record di altitudine dell'epoca.

L'età moderna rappresenta per Lunn un lungo periodo felice di soddisfazioni. Ciò non significa però che in questi anni della maturità, proprio lui non si renda conto che lo sci, accanto ai successi sia nel campo della competizione che nello scialpinismo, non stia correndo grossi rischi, con scelte di fondo che lui non condivide. La presa di distanze rispetto allo sci moderno, ossia alla sua stessa creatura, non è solo degli ultimi anni della sua lunga vita. Già nel 1941, in un simposio in cui si parlava di nuovi impianti di risalita, dice che ogni invenzione «dalle automobili alle teleferiche, rompe la barriera che ancora ci protegge dagli orrori della civilizzazione omologata». Lo storico Andrew Denning, nella sua approfondita ricerca Skiing into Modernity del 2015 interpreta le critiche e il pessimismo di Lunn sul futuro dello sci come «lamento di una élite che dallo sci ha avuto molto». Lunn farebbe insomma parte di quella esigua schiera di pionieri «saccenti ed entusiasti» che dovevano allo sci la loro celebrità. Sarà pure così ma non si può non essere d'accordo con Lunn quando afferma, nella sua autobiografia pubblicata nel 1941, che «lo sci è passato attraverso un ciclo spengleriano. È iniziato come cultura e contatto con la natura (...) sciavamo su nevi modellate solo dagli eventi naturali, dal sole, dal vento, da gelo e dal disgelo (...) oggi lottiamo in teleferiche gremite come i ghetti della civiltà metropolitana e la superficie su cui sciamo è dura e artificiale quasi come le pavimentazioni cittadine che nascondono la terra gentile». Frasi del genere, pronunciate oltre settanta anni fa da un uomo che amava profondamente lo sci, hanno il peso di una triste profezia...

Nel 1943 Lunn arriva a dichiarare che gli impianti minano il piacere di sciare. Se la prende anche con la specializzazione e il professionismo che interessa sempre di più il mondo delle gare, con gli atleti che sciano undici mesi all'anno, con le competizioni sempre più veloci e pericolose e sempre più distanti dal pubblico. In un'ultima intervista, rilasciata a Massimo di Marco per la rivista Sciare nel 1971, afferma senza mezzi termini che l'epoca dello sci che sta vivendo non gli piace. Pur dovendo molto del suo successo allo sviluppo dello sci e delle gare non manca di manifestare il pessimismo circa il rapporto fra sci e montagna. La sua negatività è legata in parte all'aver dovuto accettare la fine dell'Arlberg-Kandahar nella originale formula in cui era stato concepito, perché incompatibile con la Coppa del Mondo La sua passione a 360 gradi per il mondo bianco, dal grande scialpinismo alle gare intese come grandi feste dello sci, rimane genuina fino all'ultimo. Davvero un bell’esempio di un grande dello sci, sul quale val la pena meditare.


Marcel Kurz, l'età d'oro dello scialpinismo

Lo svizzero Marcel Kurz non è stato solo fra i primi a introdurre lo scialpinismo sulle Alpi a fine ottocento, ma ne ha influenzato più di ogni altro lo sviluppo a partire dagli anni venti in Svizzera, Francia e Italia, soprattutto grazie al suo libro Alpinisme Hivernal del 1925. Pubblicato in Italia nel 1928, questo poderoso volume è stato l'indiscusso punto di riferimento per più generazioni di sciatori alpinisti, compresa la mia. Kurz è stato, anzi è, il grande ispiratore dell'attuale scialpinismo classico. Mio padre, come ogni appassionato scialpinista, possedeva una copia di Alpinismo Invernale. Ora il libro, ingiallito dal tempo, impreziosisce la mia collezione di opere fondamentali sullo sci. È curioso come nel titolo non appaia la parola sci, mentre tutto il volume, a parte il primo capitolo dedicato ai precursori, che andavano in montagna d'inverno a piedi, è un vero inno allo sci come  modo ottimale per vivere la montagna bianca.

Sono piuttosto il titolo e il sottotitolo del secondo capitolo, rispettivamente Il trionfo dello sci e La seconda conquista delle Alpi, a definire bene i contenuti dell'intero volume. Alpinismo invernale è innanzitutto un manuale tecnico denso di consigli e una guida preziosa sui grandi itinerari in sci delle Alpi Occidentali, percorsi per la prima volta da Kurz e destinati a diventare dei classici, come la haute route Bourg Saint Pierre-Zermatt, il circuito del Bernina, i quattromila intorno alla capanna Britannia. Alpinismo invernale però non è solo questo. È anche e soprattutto un saggio sulla bellezza e sul fascino della montagna vissuta con gli sci. Per Kurz lo scialpinismo è un fantastico modo di vivere, è entusiasmo puro, piacere di fermarsi per contemplare un panorama, per bearsi con calma della montagna bianca, per crogiolarsi al sole. Il tutto senza l'assillo delle lancette dell'orologio. La fatica, il gusto della performance e anche le disavventure sono sempre in secondo piano. Alpinismo invernale ci riporta insomma a valori dimenticati, a un modo sereno e gioioso di vivere lo sci. Il libro mette in evidenza molto bene le due diverse anime di Kurz, che si completano alla perfezione. Il Kurz passionale, che ama la montagna perdutamente e si abbandona a essa, e il Kurz razionale, l'ingegnere topografo pignolo, talvolta addirittura pedante, lo scrittore esigente, meticoloso. Perfette, sotto quest'ultimo punto di vista, le pagine dedicate agli albori dello scialpinismo, a Wilhelm Paulcke, Christoph Iselin, Arthur Conan Doyle. L'intera opera ha un valore letterario e fa parte a pieno diritto di quella letteratura dello sci che annovera opere di grandi scrittori, da Doyle a Hemingway, da Calvino a Parise, da Buzzati a Marchi, senza dimenticare Balzac...

Figlio d'arte

Marcel Kurz nasce a Neuchâtel nel 1887. È suo padre Louis, insegnante di violino e noto alpinista nonché autore di carte e guide del Monte Bianco, a trasmettere al figlio la passione per la montagna. A undici anni compiono insieme la prima al Grand Darrey (3.515 m). La famiglia Kurz possiede uno chalet a Saleina, campo base ideale per esplorare le Alpi del Vallese. Marcel inizia lì a fare seriamente scialpinismo, nel 1907, effettuando la prima salita invernale con gli sci del Grand Combin, insieme al professor François Frédéric Roget di Ginevra (autore del famoso e raro volume Ski runs in the high Alps del 1913) e alla guida Maurice Crettez. Per la verità gli sci vengono lasciati ai piedi del Col du Meitin (3.426 m). Laureatosi ingegnere topografo, nel 1913 inizia a lavorare per l'Ufficio Federale di Topografia. Nel 1921 partecipa, con la moglie Lilette Morand, a una spedizione al Monte Olimpo in Grecia, dove scala l'inviolato Trono di Zeuss e redige una pregevole monografia e una cartina.

Nel 1922 lascia l'impiego sicuro per dedicarsi anima e corpo alla montagna, alla redazione di carte e di guide come libero professionista. Una scelta non facile che gli permette però di organizzare spedizioni in Nuova Zelanda con Ned Porter nel 1926/27, con salite al Tasman e al Cook, e in Himalaya con Günter Dyhrenfurth nel 1930. In questa spedizione, che ha come obiettivo il Kangchenjunga, Kurz realizza la prima carta dettagliata della zona e raggiunge la massima altitudine di quegli anni: la vetta del Jongsong Peak (7.459 m). Gli sci non mancano mai nel suo bagaglio di grandi viaggi. Purtroppo però, a causa di una caduta da cavallo nella fase iniziale della successiva spedizione di Dyhrenfurth, in Karakorum, del 1934, non può dividere con l'amico Piero Ghiglione la vetta del Golden Throne (7.250 m). A un'intensa attività alpinistica e scialpinistica Kurz affianca una pregevole attività editoriale, pubblicando una versione aggiornata della guida e della cartina del padre sul Monte Bianco. Prepara inoltre le quattro guide sulle Alpi del Vallese che ancora oggi costituiscono una fonte di informazioni fra le più complete e apprezzate. Nel 1957 pubblica il volume Chronique Himalayenne, una ciclopica e fondamentale opera sulla letteratura himalayana. Negli ultimi anni ritorna a percorrere in veste estiva le grandi traversate in sci attraverso le sue adorate Alpi Pennine. Purtroppo la sua mente brillante si offusca tragicamente negli ultimi tre anni di vita. Muore a Neuchâtel nel 1967. Non avendo avuto figli, la moglie Lilette dona tutto il suo vasto archivio alla fondazione che porta il nome di Marcel e del padre: la fondazione Louis e Marcel Kurz, con sede a Neuchâtel.

Uno scialpinismo gioioso

Lo scialpinismo di Kurz non è certo quello veloce mordi e fuggi in giornata. Ma non è nemmeno quello dei grandi raid senza punti d'appoggio. Neppure quello delle tutine. È uno scialpinismo lento, segnato dal piacere della sobria ospitalità dei classici rifugi alpini. Ossia dei veri rifugi, custoditi o incustoditi ma sempre aperti, alla svizzera per intenderci. Per Kurz e compagni l'arrivo in un rifugio è sempre un momento felice e importante, il raggiungimento «di un tetto ospitale e della sognata (e meritata, ndr!) cena» fa parte a pieno titolo dei piaceri dello scialpinismo. Di mattina Kurz non ha mai fretta di partire per arrivare in cima. Quindi niente levatacce notturne: si parte piuttosto tardi, quando si è pronti, dopo una buona colazione. Ritornare al rifugio o concludere la gita con una lanterna con dentro una candela accesa è di conseguenza una cosa piuttosto normale. Le soste per le ‘belle pipate’ durante le salite, anche quelle impegnative, sono un'altra caratteristica dello scialpinismo di Kurz. Fumare fa parte del gioco. Non ho contato quante volte nel suo libro nomina la pipa, ma sono davvero tante. Ovunque c'è un bel panorama, si ferma e si accende la pipa per godere pienamente della magia della montagna bianca. In particolare le albe e i tramonti sono considerati spettacoli sublimi da assaporare lentamente con questa prospettiva, per poi lasciarsi andare a descrizioni particolareggiate di quei momenti unici che grazie allo scialpinismo si ha il privilegio di vivere. Sempre con il «fumo azzurro che sale verso l'azzurro del cielo» si sognano altri colli, altre vette, laggiù all'orizzonte «puntando il cannello della pipa» verso di loro.

Kurz non è un solitario, il suo è uno scialpinismo condiviso con amici fidati e con guide locali. Nei suoi scritti egli è molto discreto nel parlare dei compagni di gita, particolarmente avaro di notizie sulla loro vita privata, come sulla sua. Ad esempio, per mettere in evidenza l'autorevolezza di un certo Roget, premette sempre il titolo di signore o professore al suo nome, mentre per sottolineare l'amicizia che lo lega a De Choudens lo chiama affettuosamente Chouchou. L'atteggiamento da condottiero che contraddistingue la guida Crettez, nonché la sua forza e la sua determinazione, risultano invece da battute e comportamenti riportati nel volume. A proposito di guide e di portatori, Kurz si serve spesso di montanari locali. Ciò non significa che non sia esperto, forte e allenato. Prendendo a modello i grandi alpinisti inglesi di fine Ottocento è però favorevole a questa prassi, non solo per evitare la fatica delle marce di avvicinamento ai rifugi con zaini giganteschi ma anche per dividere con le guide locali le soddisfazioni di tante prime salite con gli sci. In quell'età d'oro dello scialpinismo le Alpi permettevano ancora l'emozione di essere i primi a scoprire stupendi itinerari ed era bello farlo condividendo queste emozioni con i montanari locali.

Nello scialpinismo di Kurz sono assenti le donne. È pur vero che siamo agli albori dello scialpinismo, ma grandi scialpiniste erano già in attività sulle Alpi, da Nini Pietrasanta a Livia Bertolini Magni, da Ella Maillart a Paula Wiesinger. Kurz dedica pochissime righe al gentil sesso nelle sue pubblicazioni. Abbiamo trovato una sola citazione di sua moglie, a proposito dell'acquisto di un quadro di montagna del pittore Abrate, nello chalet di Saleina. C'è poi un unico riferimento al fascino femminile quando si trova fra le tante belle donne presenti a una festa danzante presso l'hotel Kronenhof di Pontresina, alla fine del circuito del Bernina. Qui Kurz, stanco ma felice, si rende conto che l'attrazione irresistibile, la «malìa», come la chiama lui, che esse esercitano è «tanto quanto ve n'era lassù nelle solitudini ghiacciate». Infine notiamo la metafora donna-montagna utilizzata a proposito del Blindenhorn in Val Bedretto, paragonato alla «più bella ragazza del mondo» che non si dà interamente: egli non serba infatti un buon ricordo di questa bellissima montagna a causa della neve troppo dura! A parte queste eccezioni, in generale per Kurz le donne non sembrano per nulla interferire con le sensazioni forti che gli vengono offerte dalla montagna e dallo scialpinismo. Occorre però tener presente la discrezione e il pudore nel parlare di sensazioni e di passioni diverse da quelle per la montagna, come se queste ultime non fossero in alcun caso influenzate da altre pulsioni.

Lo sciatore Marcel Kurz

Secondo Walter Amstutz, che scrisse il necrologio di Kurz per la rivista dell'Alpine Club, non era uno sciatore raffinato. Probabilmente si tratta di un giudizio oltremodo severo, in quanto Amstutz, nativo di Mürren e grande amico di Arnold Lunn, fu uno dei più talentuosi ed entusiasti sciatori della sua epoca, vincitore di moltissime gare nonché imprenditore di successo ed editore di Der Scneehase, l'annuario dello Schweizerischer Akademischer Ski Club da lui fondato. Per Kurz invece gli sci erano soprattutto un mezzo per raggiungere un obiettivo, per salire le montagne e non solo per scenderle. Questo non significa che non fosse un appassionato sciatore. Nei suoi scritti non mancano molti apprezzamenti alla ‘scivolata’. Ecco alcuni esempi tratti da Alpinismo invernale. La discesa dalla Rosablanche è stata effettuata in «dieci-quindici centimetri di polvere leggera nella quale i volteggi diventano un gioco inebriante». Dai 4.206 metri dell'Alphubel, «appena calzati gli sci, addio contemplazioni: ognuno s'abbandona al piacere della sciata. La neve favorisce tutte le audacie... .era un gioco eccitante e voluttuoso che finiva per inebriare». Il gioco continua al Basodino, con un gran finale «tra le ombre allungate del crepuscolo, ... sulla neve scricchiolante e leggera, una fuga indiavolata, stordente...». Anche nella parte finale della discesa dal Grand Combin, mentre «il crepuscolo scendeva lentamente sulla montagna stendendo il suo velo uniforme, chiaroscuro... descrivemmo lunghe curve e questo movimento cadenzato ci inebriò deliziosamente». Il piacere della lentezza si ripete nella bellissima discesa sulla Cabane d'Orny dal Plateau du Trient dove, a differenza di Crettez che va «velocissimo, dritto verso il fondo del pendio», Kurz preferisce «le larghe serpentine così da protrarre il piacere il più lungamente possibile»: si tratta di un'affermazione importante, sulla quale i veloci scialpinisti del giorno d'oggi dovrebbero meditare... Infine c'è la discesa in neve brutta, che Kurz chiama cattiva, sulla quale «tutti i mezzi per discendere diventano buoni», sulla quale è «inutile fare dello stile come quando si vuol far colpo sulla platea di un Kurort». Quando la neve è cattiva meglio mettere «i bastoni tra le gambe» e andar giù diritti con l'intramontabile raspa. Con riferimento alla prima discesa in sci in pessima crosta dal Monte Leone, scrive: «io non dirò che la discesa sia stata deliziosa: sarebbe fare alla neve un complimento che non meritava». Malgrado grandi sforzi, non siamo riusciti a trovare una foto di Marcel Kurz in discesa con gli sci. Gli unici scatti in cui appare con gli sci sono quelli pubblicati in questo articolo: statiche, più o meno nella stessa posizione e con il medesimo abbigliamento, seppur in luoghi diversi.

L'inverno alpino

Secondo Luciano Ratto, curatore dell'ultima edizione di Alpinismo Invernale (Vivalda Editori, 1993), il capitolo più bello, più poetico del libro è il terzo, intitolato L'inverno alpino. Ha perfettamente ragione. In esso si trovano alcune pagine da antologia e alcune verità che tutti coloro che amano o si interessano di sci, compresi gli strateghi e gli operatori del moderno turismo invernale di massa, dovrebbero conoscere. L'inverno alpino, dice Kurz, è molto più lungo di quello del calendario. Esso conta tre fasi principali: una «di innevamento preliminare» spesso insufficiente; una centrale caratterizzata da periodi di «massima secchezza», da neve polverosa che viene lavorata e portata via dal vento; una terza e ultima fase con «un innevamento definitivo» che «precede immediatamente la prima estate alpina». Durante tutto l'inverno di calendario, cioè le prime due fasi, secondo Kurz «le alte Alpi (oltre i 2.500 metri, ndr.) non offrono nulla di molto seducente per lo sciatore propriamente detto, il quale farà meglio a evitare queste alte regioni fino a marzo». È invece la terza fase quella di gran lunga più adatta allo sci ed essa coincide con la primavera. La neve si consolida per effetto dell'azione del sole e del gelo notturno, diventando più facile e sicura, la superficie nevosa diventa un potente riflettore che, anziché assorbire il calore solare, lo respinge nell'aria, rendendo più gradevole la sciata. È quindi la primavera la grande stagione dello sci. Anche Arnold Lunn è d'accordo su questo: «mai le Alpi sono più meravigliose che in maggio, quando la loro bellezza è fatta di contrasti… non vi è vagabondaggio in sci paragonabile a quello di primavera sui ghiacciai». Kurz riporta nel suo volume questi pensieri dell'amico inglese, oltre al suo racconto di una traversata dell'Oberland Bernese, un massiccio che stranamente Kurz non visitò.

Un'eredità importante

Kurz descrive uno scialpinismo ricco di emozioni che sono in gran parte dimenticate ma non per questo superate. La scoperta della lentezza, della bellezza dei «campi di neve che giammai sciatore abbia sognato», le «partenze senza sveglia», l'atmosfera dolce del rifugio, le soste «deliziose» durante le gite, «l'apoteosi dello sci di primavera», il piacere di «crogiolarsi al sole» sulla neve e quello di «potersi attardare sulle vette, osservando le ombre della sera”, le sensazioni di libertà e di nostalgia che irrompono prepotenti quando meno ce l'aspettiamo, i piaceri dello sci di traversata, l'ottimismo dei «cuori gonfi di speranza». L'eredità importante che ci ha lasciato non è però solo questa. Il suo è uno scialpinismo basato su alcuni principi fondamentali anch'essi troppo spesso dimenticati dalla visione moderna che si possono riassumere in tre parole: riconoscenza, elasticità, ricerca.

Riconoscenza

Scrive nel capitolo Prime esperienze: «Io, allora, avevo diciannove anni. Mio padre mi aveva iniziato ai segreti della montagna e, a poco a poco, la passione ingigantiva dentro di me». Tre anni dopo, un Kurz in piena forma durante la traversata del Bernina, aggiunge: «Quanta riconoscenza noi dobbiamo a coloro che ci hanno fatto conoscere le montagne e le loro meraviglie». Il valore dimenticato della riconoscenza permea tutta la sua vita e dà spessore al suo scialpinismo.

Elasticità

Un altro messaggio importante che un Kurz maturo ci propone, prendendo lo spunto dalla salita non programmata alla Dent d'Hérens insieme a Crettez a fine gennaio 1920, è quello relativo all'elasticità dei programmi. Ecco cosa scrive: «Nella notte avevo cambiato i miei piani. Più corro attraverso le montagne, più constato che bisogna sapere adattarli alle circostanze del momento... una volta sul posto, bisogna essere molto elastici e non attaccarsi ciecamente alla prima idea». Se ne deduce che la vera avventura non è quella minuziosamente programmata, frutto di prenotazioni di mezzi di trasporto, rifugi e servizi vari, ma quella che, secondo esploratori del calibro di Eric Shipton e Bill Tillman, si può sintetizzare sul retro di un qualsiasi pezzo di carta».

Ricerca

Kurz ci invita a non ripeterci, a ricercare sempre nuove mete. «Lo confesso - scrive parlando delle gite effettuate fra il Sempione e il Gottardo nel gennaio 1911 - i miei sci hanno una tendenza spiccata a lasciare le tracce note; essi paiono calamitati: l'ignoto li attira ed essi si volgono volentieri verso luoghi nuovi». Per questo considera importante «estendere l'esplorazione invernale delle Alpi fino alla loro estremità... tracciare una haute route invernale, che si sviluppi lungo la cresta più alta delle Alpi, da Grenoble a Innsbruck, e verrà il giorno senza dubbio in cui qualche entusiasta percorrerà le Alpi from end to end, come ha fatto Sir Martin Conway». Ci penserà, non molti anni dopo, nel 1933, uno solitario sciatore vagabondo chiamato Leon Zwingelstein...

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 112 DI SKIALPER, INFO QUI

Marcel Kurz

Storia (e fascino) dello sci di raid nelle Alpi

1888. Fridtjof Nansen e compagni attraversano la Groenlandia con gli sci. È l’inizio di un’era, quella dello sci di montagna moderno, che trova nei grandi raid più che nella conquista delle cime la forma di espressione più pura e più completa. Si tratta della scoperta dello sci avventura e delle sensazioni profonde del viaggiare con gli sci. In altre parole è la scoperta dello Ski Spirit, ossia di una dimensione dello sci che interessa anche e soprattutto le sfere dello spirito.

1897. Wilhelm Paulcke e compagni, emuli di Nansen, attraversano le Alpi Bernesi. Una traversata in pieno inverno folle per quei tempi ma vissuta con grande gioia e descritta con uno stile ironico e moderno dal grande Paulcke, denominato il Nansen del Centro Europa per la sua devozione al telemark. Da quel momento tutti i grandi sciatori di montagna alpini vedono nelle traversate, ossia nello scoprire cosa c’è dietro un colle, il significato ultimo dello sciare. Ci provano un po’ tutti, fra la conquista di una vetta e l’altra. Da Paul Preuss a Marcel Kurz, da Arnold Lunn a Ottorino Mezzalama. Ma è Léon Zwingelstein, lo sciatore vagabondo per eccellenza degli anni trenta, ad effettuare per primo, da solo e senza alcun aiuto esterno, dal primo febbraio al primo maggio 1933, un favoloso raid da Nizza al Tirolo, con ritorno sempre in sci fino a Briga in Svizzera. Una performance unica, con tutto nello zaino compresa una rudimentale tenda cucita con le sue mani. Una performance mai più ripetuta. E sarebbe andato oltre Briga Léon Zwingelstein, sarebbe ritornato in sci fino alla sua Grenoble, se ci fosse stata ancora neve!

 

Leon Zwingelstein

Dopo Zwingelstein, un precursore in grande anticipo sui tempi, bisogna aspettare il primo dopo guerra per annoverare altre grandi traversate sulle Alpi. Nel 1956 due gruppi, il primo capeggiato da Alberto Righini con Bruno e Catullo Detassis e il secondo da Walter Bonatti, partono a quattro giorni di distanza uno dall’altro da Tarvisio, rispettivamente il 10 e il 14 marzo. Entrambi, a differenza di Zwingelstein, sono seguiti da un’automobile di appoggio per i rifornimenti. La meta è il Col di Nava in Piemonte, che raggiungono insieme il 18 maggio, ossia 66 giorni dalla partenza (quattro in più per il gruppo Righini-Detassis). Stranamente nel celebre capitolo del libro Le mie montagne di Bonatti, interamente dedicato a questa grande traversata, non si fa cenno al gruppo di Righini-Detassis, quasi fosse un gruppo di fantasmi, e non si dice che l’ideatore della traversata era stato Alberto Righini, che aveva infatti invitato Bonatti a parteciparvi... Comunque sia, i due gruppi decidono, cammin facendo, con un accordo scritto e firmato da tutti, di effettuare insieme tutta la seconda parte della traversata, dal Colle del Teodulo al Col di Nava. Questo accordo di pace fra i due gruppi è il primo segnale che il tarlo dell’agonismo, ossia di voler primeggiare a tutti i costi sugli altri, è arrivato anche nello sci di raid, guastandone la purezza.

Nove anni dopo Detassis e Bonatti, nel 1965, un’altra grande Guida, lo svizzero Denis Bertholet, fondatore della Ecole du Ski Fantastique di Verbier, ha la brillante idea di unire con gli sci, insieme ad altre tre Guide (un italiano, un francese e uno svizzero) le due città olimpiche di Innsbruck 1964 e di Grenoble 1968. Grande è stato l’effetto mediatico di questa traversata, soprattutto grazie al film girato da Bertholet, non solo Guida e Maestro di sci, ma anche cineasta professionista, vincitore del Premio UIAA al Festival di Trento nel 1969. Denis si è portato sulle spalle per tutto il percorso del raid una pesante cinepresa da 16 mm, cosa impensabile per i moderni atleti dei raid di velocità. Il film di Bertholet, Traversée Innsbruck-Grenoble à ski, è visibile gratuitamente nel sito internet della Médiathèque di Martigny. Pochi anni dopo, nel 1970, assistiamo alla tribolata traversata in solitaria di un altro francese, Jean  Marc Bois, che, partito il 30 gennaio da St. Etienne-de-Tinée nelle Alpi Marittime, riesce a raggiungere Bad Gastein, nel Tirolo Orientale, il 25 aprile: una traversata funestata da brutto tempo e valanghe dall’inizio alla fine, che ha reso l’impresa di Bois davvero epica. L’anno successivo, il 1971, un gruppo di cinque austriaci, fra i quali la Guida alpina Klaus Hoi, compiono, con sci da fondo escursionistico e scarponi di cuoio, la traversata più lunga, da Vienna a Nizza, fruendo di un mezzo di appoggio. Durante il percorso di 1.917 km, con un dislivello totale di 85.000 metri, scalano anche cime importanti, impiegando complessivamente 41 giorni: una prestazione sportiva di indubbio valore.

Denis Bertholet

C’è però anche chi, con tre amici, anziché cercare l’exploit, effettua l’intera traversata da est a ovest, a tappe, in tre anni (1975,1976,1977), privilegiando il piacere di sciare e cogliendo l’occasione di testare nuovi materiali. Ideatore di questa gioiosa traversata a tappe è il vulcanico e geniale Angelo Piana, inventore dei primi scarponi in plastica per scialpinismo, i San Marco Raid, e dei leggendari sci Explorer della Roy. Nel 1977 ha anche  luogo una delle più belle, a parere di chi scrive, traversate delle Alpi: è quella di Bernard e Hubert Odier, da Mallnitz in Austria alla spiaggia di Mentone in Costa Azzurra. In tre mesi esatti, dal 18 febbraio al18 maggio, senza utilizzare il cronometro e senza auto di appoggio, lungo un itinerario diretto ed elegante. I fratelli Odier hanno scritto sulla loro traversata un magnifico libro, tradotto in italiano con il titolo Tutte le Alpi in sci. Questo libro è ancora oggi una vera Bibbia per lo sciatore alpino errante, che non cerca l’exploit a tutti i costi ma un rapporto vero con la montagna e i suoi abitanti. Come Zwingelstein, come Bois e forse tanti altri che non hanno fatto sapere nulla sulle loro traversate. Il volume è diviso in 17 capitoli che sono altrettanti inviti a conoscere separatamente i diversi massicci toccati dagli Odier nel loro raid. 

Arriviamo quindi alla traversata delle Guide alpine Paolino Tassi e Mauro Girardi del 1996, effettuata con l’attrezzatura da telemark e con la tenda, per evitare di scendere in basso per dormire. L’idea era di seguire l’itinerario dei fratelli Odier ma i due partono con zaini troppo pesanti e cammin facendo decidono di alleggerirsi, dando alla traversata un’impronta più godereccia, privilegiando le belle sciate in diverse stazioni, facendosi un punto di onore di utilizzare gli impianti quando possibile, eliminando alcune tappe poco sciistiche e usufruendo di un pulmino di appoggio. Nulla di male, hanno fatto benissimo, non avevano bisogno di dimostrare la loro bravura a nessuno. La mancanza di neve ha fatto concludere la loro traversata nella valle di Névache in Delfinato, togliendo a Paolino e Mauro il privilegio di  percorrere le Alpi Marittime, vero Paradiso dello sci. L’ultima grande traversata delle Alpi, prima del Red Bull Der Lange Weg del 2018, è  quella in solitaria del piemontese Paolo Rabbia. Partito da Forcella della Lavina, in Friuli, il 29 dicembre 2008, Rabbia arriva sulle piste di Garessio, in Piemonte, il 28 febbraio 2009. Una performance eccezionale, da solo in 62 giorni, ma soprattutto la prima traversata completa delle Alpi in pieno inverno. Con lo stesso stile veloce Rabbia ha effettuato la traversata integrale dei Pirenei nel 2014, sempre in pieno inverno, dal Mediterraneo all’Atlantico in 29 giorni. Tanto di cappello!

La ricerca dell’exploit a tutti i costi è però sempre più evidente nelle traversate delle Alpi con gli sci. Il tarlo già presente nella traversata di Bonatti ha lavorato parecchio. L’ultima Red Bull, sulle tracce della sopra citata Vienna-Nizza del 1971 ne è l’esempio più eclatante: l’obiettivo principale, raggiunto, è stato quello di diminuire il numero di giorni necessari per effettuare il raid, trasformandolo così di fatto in un rally competitivo. Lo spirito del raid però non è questo. Trasformare un raid in una gara significa non averne capito l’essenza. Come scrisse il grande fotografo e scrittore Jean-Pierre Bonfort (andate a vedere il suo sito web!) in un vecchio articolo su Montagnes Magazine, lo spirito del raid in sci è «passare la giornata camminando, vedere il sole tramontare e preparare il nido... poi, leggeri, senza zaino e senza duvet, salire lassù fino in cima al pendio, fino a quel colle. Flessibilità ci vuole, soprattutto flessibilità. Nei programmi e nella propria testa. Bisogna lasciar decidere alla neve». Ci sono certamente ancora scialpinisti che si mettono sulle tracce degli Zwing, dei Bois, degli Odier, dei Bonfort, magari senza far sapere nulla: ad essi va tutta la nostra stima. 

AL DI LÀ DELLE ALPI - Lo sci di raid si è sviluppato moltissimo, complice la facilità dei trasporti, sulle montagne bianche del mondo. Raid è quindi diventato sinonimo di viaggio con gli sci. Il gioco consiste nel mettersi sulle tracce (sia chiaro senza alcuna ambizione di fare meglio!) di un Marc Breuil nei Pirenei, in Terra di Baffin, nelle Alpi di Stauning, in Karakorum. Oppure di un Mario Casella, dopo aver letto il suo prezioso volume Nero-Bianco-Nero sulla traversata del Caucaso, dal Mar Caspio al Mar Nero. Oppure procurarsi (con qualche difficoltà) i due volumi di Michel Parmentier, lo sciatore errante per eccellenza, a cui dobbiamo l’idea di straordinari raid sulle montagne che si affacciano sul Mediterraneo. Oppure ancora mettersi sulle tracce della Guida alpina Pierre Neyret, autore di Hautes Vallées du Pakistan e ripetere, magari insieme a lui, la più ardita traversata in sci del Karakorum. Che è poi quella fatta da Breuil e compagni nel 1990, a sua volta sulle orme di Eric Shipton e di Bill Tilman, che aprirono (a piedi) questo fantastico itinerario nel 1937 e 1939. Il gioco finale è senza dubbio quello di chiudere il cerchio, di ritornare alle origini dello sci di raid, percorrendo la traversata di Nansen in Groenlandia. Pensiamo che uno sci di raid di questo tipo, senza camper ed equipe di appoggio, senza ossessioni cronometriche, senza sponsor da soddisfare, senza programmi troppo definiti, sia ancora possibile e non sia affatto superato dai tempi. Basta leggere e lasciar lavorare, nella giusta direzione, la fantasia.

Michel Parmentier

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 118, INFO QUI

Il libro

Giorgio Daidola ha pubblicato per la nostra casa editrice Sciatori di montagna (208 pp, 19 euro). Dodici ritratti di padri dello scialpinismo, da Wilhelm Paulcke, il primo ad attraversare con gli sci l’Oberland Bernese, a Michel Parmentier, l’inventore dei moderni viaggi con gli sci. E poi Lunn e Mezzalama, Castiglione, Gobbi. INFO SU SCIATORI DI MONTAGNA QUI