Paolo Tassi, freetouring è... democrazia
«Ciao Paolo, grazie che mi hai richiamato. Ti chiedo subito una cosa: ma lì a Cortina quanta ne ha fatta?». Perché, se bisogna iniziare a parlare con Paolo di sci, tanto vale iniziare dalle cose fondamentali. Perché per scivolare ci vuole la neve. Così è iniziata la nostra telefonata durante la big storm di Snowvember, per poi finire a parlare della sua passione per i viaggi sci ai piedi, alla ricerca del cristallo perfetto.
«Da trent’anni a Cortina, orgogliosamente bolognese, Guida alpina, alla domanda Chi è Paolo Tassi? non posso che rispondere che sono io e appartengo alla razza umana! Fuori sta nevicando, è tutto rallentato quando nevica e mi cogli un po’ alla sprovvista. Innanzitutto ci tengo a precisare che la cosa che mi piace di più è sciare nella neve. Cerco proprio il contatto più profondo ed ecco perché spesso scio telemark. E poi, se ci pensate, lo sci è l’unica forma di alpinismo rinnovabile: dopo una nevicata puoi essere di nuovo il primo a lasciare la tua traccia!
È vero: sono un appassionato di neve e di montagna, ma soprattutto della gente che ci vive in mezzo. Ho scoperto i viaggi quando con Mauro Gilardi ho attraversato le Alpi con gli sci, ma forse il primo che ho organizzato davvero è stato quello in Norvegia nel 1997, con Luca Gasparini, Davide Alberti e Luca Manolo: abbiamo affittato una barca per portare gruppi di venticinque persone a sciare tra i fiordi nella zona delle Alpi di Lyngen. Perché la Norvegia? Beh, lì le persone vivono veramente la neve. L’inverno è lunghissimo, tutti si spostano nella neve, usano gli sci e poi le montagne nascono dal mare, senza nessuna transizione. Mi piace organizzare viaggi e non solo per lavoro, perché ho sempre ritenuto che convivialità e possibilità di condividere ciò che offre lo sci siano una parte fondamentale dell’esperienza. Amo definirmi un po’ un antropologo dello sci.
Da lì in poi non ho mai smesso e ti confesso che domani parto per i monti Altai. In questo periodo fa molto freddo e ci sono belle condizioni, ci sono stato diverse volte. Però, se ti dovessi consigliare un posto per un viaggio di sci, ti direi anche il Kashmir indiano, dove nel periodo tra gennaio e febbraio i villaggi vengono letteralmente sommersi dalla neve. È incredibile come vivono le popolazioni di quelle zone.
E vuoi sapere cosa mi piace di più della neve? Il suo colore, il bianco, non è discriminatorio e di questi tempi non è cosa così scontata. La neve mi piace perché è democratica!».
QUESTO RITRATTO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 127
Ski local
«Domodossola è una base di partenza perfetta per interpretare lo scialpinismo a chilometri zero. Dalla stazione internazionale ferroviaria si possono affrontare oltre una decina di itinerari logici, evitando strade trafficate, dove esaltare le potenzialità della bicicletta per riscoprire le stesse montagne da nuovi versanti e linee. Dal Moncucco, il più accessibile a soli sei chilometri in linea d’aria, alla Weissmies, il quattromila ben visibile dalla stazione stessa, ci si può sbizzarrire, mappa alla mano, a inventare destinazioni e accessi nella totale libertà di spostamento e lontano da resse e gite blasonate. Accessi eterni, versanti abbandonati e incontaminati che hanno tenuto per decenni lontana la massa, possono ora essere considerati, riponderati nelle misure e tempi abbattendo distanze e tabù. Garantisco che la solita gita, la solita montagna raggiunta decine, centinaia di volte si trasformerà, con la giusta compagnia, in un’esperienza così nuova, così divertente da farti sembrare di aver praticato uno nuovo sport in una valle diversa da quella che conosci». Scrive così Giovanni Pagnoncelli su Skialper 128 di febbraio-marzo a proposito dell'approccio allo skialp local, con avvicinamento in bici o ebike. Il suo è un percorso che è partito da lontano, da una scelta di vita consapevole, dall'alimentazione allo shopping, passando per gli spostamenti, ma non c'è dubbio che lo scialpinismo, a certe condizioni, sia una scelta più sostenibile di altri sport alpini. E un punto d'arrivo.
Scrive ancora Giovanni su Skialper di febbraio-marzo: «Il mio passaggio in un decennio da persona standard, che vedeva e mirava limitatamente al proprio presente, a persona informata, che ha preso coscienza e si è sentita responsabile del futuro proprio e degli altri in funzione di scelte, gesti e azioni e ha iniziato un percorso per diventare ogni giorno più virtuosa mi è servito per giustificare un approccio moderno all’attività di scialpinismo, parte ricreativa importante degli ultimi trentadue anni. Lo skialp prende sicuramente più like per le sue regole e modalità poco convenzionali e amiche dell’ambiente. Sta di fatto che solo ognuno di noi sa quale contributo reale alla riduzione di impatto ambientale fornisce e, quindi, quanto è coerente con la vera filosofia green. Se un tempo mi sarei fatto trenta trasferte sopra i quattrocento chilometri e oggi rinuncio a tutte queste, sommandole mi potrei permettere di usare l’auto per trecento uscite vicino a casa. Voglio dire che fa di più, concretamente, la rinuncia a una lunga trasferta a vantaggio di una gita locale, anche se raggiunta in auto, rispetto a trenta chilometri percorsi in bicicletta una tantum se poi abusiamo dell’auto. Per cui ognuno decida come interpretare lo sport che più amiamo, come bandiera per i propri like e per mostrare la propria interpretazione radical-chic, come sfida personale o vetrina su Strava, come un diversivo per vestire di nuovo una gita conosciuta, come completamento radicale di una coerenza etica. I più atletici e tecnologici potranno permettersi di inforcare una mountain bike, intraprendendo un’esperienza by fair means non impossibile, ma roba da veri e pochi eroi. Perché la bici a pedalata assistita, pur con un impatto non trascurabile, sia per la batteria e il suo smaltimento che per l’utilizzo di materie prime o per energia elettrica non rinnovabile utilizzata per ricaricala, è innegabile che sia un uovo di colombo che solo chi ha provato può capire». Queste e altre riflessioni nell'articolo Ski Local, nelle prime pagine del numero in edicola di Skialper.
A marzo riparte Va' Sentiero lungo il Sentiero Italia, online la campagna per raccogliere i fondi
Si chiama Va’ Sentiero ed è l’iniziativa di sette ragazzi per rilanciare – percorrendolo tutto – il Sentiero Italia. Partito l’anno scorso a maggio da Muggia e terminato a novembre a Visso, nelle Marche, il primo step è già andato in archivio e a marzo è prevista una nuova avventura. I sette ragazzi di Va’ Sentiero lanciano una campagna di crowdfunding per sostenere la loro spedizione lungo il sentiero che con i suoi 6.880 km lungo le alte via d’Italia vanta il titolo di trekking più lungo del mondo. Il cammino di Va’ Sentiero riprenderà il 29 marzo 2020 da Visso e si concluderà il 15 novembre 2020 in Sardegna a Santa Teresa di Gallura.
Obiettivo della campagna di crowdfunding è finanziare le spese di questa seconda tranche, una marcia di 7 mesi e mezzo che percorrerà 3.500 km distribuiti su 10 regioni e scanditi da 180 tappe. Tra le mete in programma Gran Sasso, Majella, Altopiano delle Murge, Costiera Amalfitana, Pollino, Sila, Aspromonte, Etna, Madonie, Riserva dello Zingaro, Gennargentu e Gallura; luoghi meravigliosi e dall'enorme potenziale, purtroppo ancora poco conosciuti, per i quali Va' Sentiero rappresenta un messaggio di riscatto.
Nel dettaglio le spese che saranno finanziate attraverso il crowdfunding:
- Vitto e alloggio: i primi 15.000 euro copriranno le spese vive della spedizione: 200 pernotti e oltre 600 pasti tra colazioni, pranzi e cena per il team di 7 componenti (guida, fotografa, ufficiale logistico, videomaker, cambusiere, social media manager, driver tuttofare).
- Il furgone: Santos è il furgone della spedizione che segue tappa dopo tappa i camminatori. Classe 1995, il vecchio Mercedes Sprinter è un insostituibile supporto logistico e, all’occorrenza, anche stazione di lavoro on the road. Acciaccato, per tornare a ruggire ha bisogno di un restyling da 5.000 euro.
- Gli eventi: anche in questa seconda tranche della spedizione non mancheranno gli eventi pubblici sul territorio, un ricco calendario di incontri e di confronti sui temi della montagna. Con 10.000 euro, sarà possibile promuovere eventi di qualità e grande varietà.
- L’attrezzatura video-fotografica: per incrementare il lavoro di documentazione dell’esperienza e delle terre alte del centro-sud Italia, sarà necessaria nuova attrezzatura, di qualità professionale. Di preciso, servono due corpi macchina e altrettanti obiettivi, per un totale di circa 5.000 euro.
Chi contribuirà con una donazione avrà dei bellissimi premi: dalle stampe fotografiche alle tazze Va’ Sentiero, dalle nuove T-shirt ai super zaini Ferrino Finisterre Limited Edition Va’ Sentiero.
La campagna di crowdfunding è online fino all’11 marzo sulla piattaforma Ginger.
Arnaud Cottet, lo sci in punta di piedi
Arnaud Cottet è il perfetto underdog, inteso come chi arriva ai Giochi olimpici senza i favori del pronostico e vince per distacco. Che poi, a ben guardare, ai Giochi lui c’è andato, come giudice del freestyle a Pyeongchang. Svizzero, classe 1985, freestyler, freerider, un passato agonistico nello sci alpino e nei park, produttore e regista, oltre che sciatore-attore. E ora anche imprenditore con il suo marchio di occhiali da montagna, Glacier Optics. Arnaud è un’esplosione di idee e di curiosità. Il suo è un approccio in punta di piedi, lontano dagli effetti speciali, ma molto profondo. È partito in auto da casa e stato in giro due mesi per andare a vedere se veramente in Iran si poteva sciare, passando per Bulgaria, dove si è esibito con lo snowboard in uno spettrale palazzetto delle adunate comuniste in cima alla montagna, ora abbandonato e invaso da neve e ghiaccio, e Grecia. Poi ci ha preso gusto e ha fatto migliaia di chilometri, sempre sulle quattro ruote, per andare a sciare il Noshaq (7.492 m) in Afghanistan, passando per Grecia (dove ha sciato l’Olimpo), Turchia (dove ha fatto qualche curva sul Süphan), Iran (dove ha sciato il Damavand), Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan. In Alaska c’è stato, ma a modo suo, facendo campeggio in quota, invece che stando in lodge, e pellando su e giù per canali. Ovunque è passato, ha lasciato la sua traccia con un cortometraggio che, oltre a documentare le evoluzioni nel grande snowpark naturale, curiosa nella cultura locale.
«Da dieci anni giro il mondo sciando e finanzio le mie spedizioni con gli sponsor e producendo video, non solo quelli di sci, ma anche documentari per la televisione. Ho fondato insieme a un amico un marchio di occhiali da montagna, Glacier Optics, che negli ultimi tempi è il mio lavoro principale insieme all’insegnamento dell’economia ai ragazzi da 13 a 16 anni. Però appena ho un po’ di tempo scappo a sciare, anche qui vicino a casa (vive a Losanna, ndr). Amo molto questo contrasto tra la vera vita in città e quella fatta di avventure in montagna. Il giudice olimpico? Non lo faccio più, Pyeongchang è stato l’apice di un percorso».
Abbiamo intervistato Arnaud su Skialper 128 di febbraio-marzo.
New Gore-Tex Pro, 3 in 1
«Non esiste il brutto tempo, piuttosto abbigliamento inappropriato» ha detto Ranulph Fiennes, uno dei più grandi - se non il più grande - esploratori viventi. Non si può non essere d’accordo in un’epoca che ci propone il materiale e lo strato giusto per ogni attività e temperatura. Lo penso mentre, insieme a un selezionato gruppo di giornalisti provenienti da tutto il mondo, sto camminando nella neve profonda, con i ramponi ai piedi, sopra a Lake Louise, Alberta, Canada. Abbiamo addosso una giacca rossa che utilizza il nuovo Gore-Tex Pro, che sarà in vendita dall’autunno-inverno 2020. Il risultato finale, almeno con le condizioni meteo di oggi - nevischio, temperatura intorno agli zero gradi – non fa una grinza. La gestione dell’umidità lungo i 10 chilometri e 550 metri di dislivello ha funzionato, aiutata anche dalle pratiche zip di ventilazione sottomanica. Aprendole nei momenti più intensi della salita e poi richiudendole nelle pause o in discesa l’interno della giacca è asciutto. Fuori le goccioline scivolano via e l’acqua non passa. Ieri, esposti al vento forte della vetta del monte Ha Ling, abbiamo potuto constatare che la giacca è anche perfettamente sigillata e mette una barriera impenetrabile tra il corpo e il vento. Camminando, forzando il passo, ma anche facendo qualche passo di arrampicata, non sembra di avere addosso un guscio hard shell perché la libertà di movimento, soprattutto all’altezza delle spalle, è molto buona. Dopotutto sono le principali caratteristiche del nuovo Gore-Tex Pro, che propone tre diversi laminati: Gore-Tex Pro massima traspirabilità, Gore-Tex Pro stretch e Gore-Tex Pro massima resistenza. In pratica, a differenza del Gore-Tex Pro attualmente in commercio, che prevede un unico laminato, per i produttori sarà possibile combinare i tre prodotti nelle diverse aree delle giacche per ottenere parti più traspiranti, più resistenti all’abrasione o elastiche. «Se l’obiettivo è l’arrampicata, si potrebbero volere proprietà elastiche dietro a spalle e braccia, più robustezza ai gomiti e sopra le spalle, e la massima traspirabilità sul busto – dice Marc McKinnie, product specialist di Gore-Tex Pro. Per lo sci alpino, invece, la massima resistenza del laminato può avere la precedenza su traspirabilità ed elasticità».
A conti fatti una piccola rivoluzione. Il risultato finale, che dipende naturalmente anche dal design dei singoli gusci, da una intelligente scelta degli strati da indossare e che ci riserviamo di mettere alla prova più intensamente durante tutta la stagione, è lì, ma rappresenta il punto di arrivo di un percorso lungo. Davanti a me, in fila indiana, ci sono Tamara Lunger, Stefan Glowacz e Greg Hill. Per i lettori di Skialper non hanno bisogno di presentazioni. Rappresentano una selezione del meglio in termini di avventura ed esplorazione. Scalando, sciando o attraversando le desolate solitudini della Groenlandia e della Penisola di Baffin. Stefan ha provato tra i primi in condizioni estreme il nuovo Gore-Tex Pro proprio a Baffin. Un passato nell’arrampicata sportiva, oggi è la grande avventura la sua passione. Tamara si è spinta nei luoghi più freddi della terra e Greg per raggiungere e sciare le cime del Nord America deve ravanare per ore tra rovi e boschi per poi strisciarsi su rocce dure e appuntite. Ma quando il nuovo Gore-Tex Pro è arrivato a loro erano comunque uno degli ultimi – ma non meno importanti – ingranaggi della catena, anche se proprio dai loro input si è partiti per creare il nuovo laminato perché Gore-Tex Pro è pensato per utilizzatori di alto livello: atleti, professionisti, scialpinisti, alpinisti, su roccia e su ghiaccio.
Scienza del comfort. Si chiama così l’ombelico da cui nasce tutto. Esistono strumenti per misurare ogni aspetto di come un vestito fascia il nostro corpo e lo scalda. Ma la definizione più difficile è proprio quella del comfort stesso. «Il corpo umano percepisce solo la mancanza di comfort ed è da qui che in realtà si parte» dice Ray Davis che nella sede di Landenberg, in Pennsylvania, è il responsabile della divisione che all’interno di Gore-Tex si occupa di comfort science. Sono quattro i fattori che influenzano la mancanza di comfort, quello termico piscologico (la percezione del calore o meno), quello puramente piscologico, quello ergonomico e sensoriale. E per ogni categoria di prodotti e utilizzatori Ray Davis e i suoi uomini stanno cercando di trovare la giusta ricetta, per garantire comfort e prestazioni. Si testa in laboratorio, sulle persone, ma anche sui manichini. I test termici e non termici vengono effettuati in un’area di più di 300 metri quadrati. La rain tower può gestire temperature tra + 5° C e + 25° C con venti da 0,4 a 5 metri/secondo e fino a 150 mm/ora di pioggia. C’è anche un’area di 150 metri quadrati dove la temperatura può essere portata da – 50° C a + 50° C, con umidità relativa tra il 10% e il 95% e radiazioni solari simulate fino a 1.100 Watt/metro quadrato. Con i sensori si arriva a mappare il corpo e le singole parti per creare delle mappe termiche, ma i sensori misurano anche la pressione esercitata: meno ce n’è, più i movimenti sono liberi. La percezione di limitazione dei movimenti con il nuovo Gore-Tex Pro è stata ridotta in maniera significativa, con valori che sono passati da circa il 55% a poco più del 40%. Sulla nostra giacca le parti elastiche si concentrano sul retro, dietro le due spalle. Le parti più resistenti sono proprio sulle spalle e sule maniche. La resistenza del nuovo Gore-Tex Pro è stata testata anche con il temibile 5 finger scratch test che prevede che cinque puntali di metallo scorrano a lungo su e giù per misurare l’abrasione nel tempo.
Alla base del comfort termico ci sono sempre tre elementi: il corpo umano, l’abbigliamento e l’ambiente. Il corpo produce calore e umidità e si raffredda dopo l’esercizio fisico, soprattutto se sudato. Il resto lo fanno l’isolamento termico e la traspirabilità dei vestiti, la temperatura esterna, il sole, l’ombra. Per misurare la traspirabilità, oltre ai test sul campo, si utilizza un macchinario con una piastra calda (35° C) sulla quale viene steso il materiale e sopra c’è un flusso d’aria a 23° C con umidità relativa del 50%. Questo secondo la norma ASTM F1868, mentre per quella ISO 11092 tra la piastra e la membrana c’è un tessuto traspirante inumidito (che determina un’umidità relativa del 100%) e il flusso d’aria è a 35° C con umidità relativa del 40%. In questo secondo test Gore-Tex Pro massima traspirabilità è stato classificato con i migliori valori RET possibili, inferiori a 6 (estremamente traspirante), mentre gli altri due laminati Pro sono nel range appena sotto (tra 6 e 13, molto traspiranti).
Sotto di noi le acque di Lake Louise sembrano quelle di una laguna blu. Il colore è il risultato delle microparticelle di polvere delle rocce del Mount Victoria trasportare dalle acque. Difficile non pensare che ogni nostra azione, oggi, può avere effetti su quelle acque simbolo della natura più pulita, che ogni gocciolina che scivola via dai gusci finirà lì. «I valori del rispetto dell’ambiente e delle condizioni di lavoro fanno parte del DNA di WL Gore & Associates da quando è stata fondata nel 1958 da Bill e Vieve Gore, ma è chiaro che non si può rimanere fermi e da una parte le ricerche scientifiche ci permettono di avere più risposte sull’effetto inquinante di prodotti e cicli, dall’altra il progresso aiuta a produrre materiali meno inquinanti» mi dice Bermard Kiehl, a capo del team che si occupa di sostenibilità in Gore. Tra le certificazioni Gore-Tex ci sono Bluesign (che assicura che i prodotti sono realizzati in modo sostenibile) e Oeko-Tex Standard 100 (che garantisce che i materiali non sono dannosi per la salute) e con la fine dello scorso mese tutti gli stabilimenti sono stati certificati ISO 14.001, ma le sfide per l’immediato futuro sono ambiziose. Molto ambiziose. Gore ha sottoposto i propri prodotti all’analisi del ciclo di vita (LCA – Life Cycle Assessment) per valutare gli effetti dalla culla alla tomba, dalle materie prime utilizzate, alla produzione, fino al fine vita. Nel 2018 sono stati introdotti dei prodotti con un trattamento DWR (durable water repellent, quello che fa scivolare via le goccioline dalla superficie dei gusci) senza PFC (composti perfluorati) di rilevanza ambientale che alcuni studi hanno dimostrato che non si degradano nell’ambiente e si accumulano negli organismi viventi. La sfida riguarda proprio le membrane e le tecnologie di prodotto per utilizzi intensi e professionisti sono ancora escluse perché in Gore non ritengono di avere trovato un’alternativa sufficientemente performante. «Su questo aspetto abbiamo negoziato a lungo i nostri obiettivi con il WWF – World Wildlife Found e ci siamo posti l’obiettivo di eliminare completamente i PFC di rilevanza ambientale entro il 2021-2023» dice Bernard Kiehl. Già con il nuovo Gore-Tex Pro sono stati raggiunti altri risultati dal punto di vista ambientale. La tintura in massa ha permesse di risparmiare l’utilizzo di acqua e ridurre le emissioni nell’ambiente prodotte dall’utilizzo di energia. Per ogni metro di Gore-Tex Pro massima traspirabilità e massima resistenza vengono risparmiati più di dieci litri di acqua per la superficie tessile e quasi tre per il rivestimento interno e rispettivamente di 71,7 e 20,5 chili le emissioni di CO2. «Il materiale alla base del Gore-Tex, ePTFE, invece, non è tossico, è molto stabile, non degrada nell’ambiente per diventare un PFC di rilevanza ambientale» conclude Kiehl. Se finisce nell’ambiente dunque ci rimane, ma non fa danni. Che sia questa la sfida successiva, una membrana non tossica e biodegradabile?
WL. Gore & Associates ha compensato le emissioni di CO 2 prodotte da tutti i voli diretti verso Banff, dove è stata presentato il nuovo Gore-Tex Pro, per un totale di 80.359 chili, con l’acquisto di certificati Atmosfair (atmosfair.de). I progetti sostenuti da Atmosfair con i proventi della compensazione di emissioni comprendono 31 cucine in Nigeria, un anno di fornitura elettrica da fonti rinnovabili per cento abitazioni in India e sei impianti a biogas per abitazioni in Kenia.
Eric delle montagne
All’inizio di marzo del 2001 una marea umana di uomini senza diritti partiti dal Chiapas entra a Citta del Messico dopo avere attraversato 12 stati e percorso oltre 3.000 chilometri. È la grande marcia del subcomandante Marcos. Le centinaia di migliaia di persone avanzano lentamente, al ritmo della musica sparata a palla da un camion. Su quel camion ci sono i 99 Posse, band napoletana, ed Eric Girardini, venticinquenne di Lentiai, in provincia di Belluno. Festeggia gli anni proprio in quei giorni e fa parte delle oltre duecento tute bianche antiglobalizzazione italiane che assicurano il servizio d’ordine. Cosa ci faceva una Guida della Scuola delle Aquile di San Martino nel cuore della marcia zapatista a Città del Messico? La storia è un po’ lunga…
Per raccontarla e per conoscere meglio Eric Girardini, siamo andati a fotografarlo nel cuore delle Pale di San Martino, il suo regno. L’articolo è su Skialper 128 di febbraio-marzo. Con Diego Dalla Rosa, Hermann Crepaz ed altri è stato tra i primi a usare gli sci larghi da quelle parti. Il curriculum di Eric è di tutto rispetto, anche se non è un tipo che ama stare lì a snocciolarti le sue prime, non gli interessa. Forse perché, come Diego Dalla Rosa, lo fa per se stesso. «E poi da noi è difficile nello sci dire se è veramente la prima discesa, anche se sono sicuro che con Hermann e Diego ne abbiamo fatte molte, comunque possiamo dire di avere fatto belle linee con il nuove tra virgolette. Ai Vani Alti c’è forse il canale più estetico, simile all’Holzer, incassato e chiuso, esposto a Nord. Poi ricordo la Cima di Ramezza, sulle Vette Feltrine, la parete Nord del Colbricon italiano. Ah, dimenticavo, la Nord del Piz de Sagron, nelle Vette Feltrine, è stata forse il nostro apice. Probabilmente è una prima, ci sono solo notizie vaghe di una discesa di Mauro Rumez, ma non si sa con precisione se abbia sciato quella parete». Appuntamento su Skialper 128 di febbraio-marzo.
Skialp Gran San Bernardo, dove il sole scia con te
«Il programma è risalire il Vallone del Gran San Bernardo, sempre tenendo gli impianti di Crevacol come punto di partenza e dirigendoci sulla sinistra, per arrivare fino al vecchio bivacco della Tête de Crevacol (2.621 metri) dal quale si apre una panoramica su quasi tutte le cime più alte della valle e gli immensi, bianchi valloni circostanti, compreso quello del passo del Gran San Bernardo con il famoso ospizio. Salendo, lo sguardo si perde sul colle del Malatrà, ultimo mitico passaggio del Tor Des Géants. E, più in lontananza, sulla cima del Monte Bianco. Siamo una bella compagnia oggi, tutti in fila indiana dietro alla Guida che, di tanto in tanto, si ferma per mostrarci le varie cime. Non c’è vento, solo una leggera brezza che va a mitigare il calore del sole. Sole, l’immancabile sole, presente dal mattino fino al tramonto, che accarezza e trasforma la neve. Non siamo gli unici a salire. Sono anche oggi tanti gli scialpinisti che, innamorati di questa vallata magica ed evocativa, lasciano la loro impronta allungata sui vari itinerari. Lontani dalle piste tanto quanto basta per apprezzare il silenzio della montagna, il pensiero corre alla grandissima quantità di linee, salite, discese e paesaggi. Al fatto che una o due giornate non bastano certamente, che bisognerebbe rimanere qui almeno una settimana e ancora potresti non averne abbastanza». Scrive così Tatiana Bertera su Skialper 128 di febbraio-marzo a proposito del nuovo comprensorio a misura di scialpinismo Skialp Gran San Bernardo, in Valle d'Aosta, frutto di un progetto INTERREG con la vicina valle svizzera di Bagnes. Oltre 30 itinerari sono stati censiti, mappati e in alcuni casi anche ripresi con il drone, poi c'è un app specifica, uno servizio skialp-bus, la possibilità di affidarsi a Guide e Maestri di sci e di scegliere la sistemazione migliore e il ristorante giusto dopo le fatiche con sci e pelli. Siamo stati tra i primi a scoprire questa realtà da vicino, mettendoci gli sci ai piedi e ne parliamo in un ampio reportage su Skialper 128 di febbraio-marzo.
Roberto Munarin, il cielo in una stanza
«Lui dice che così si gioca il jolly. Uno a settimana, il sabato. Quel giorno può andare, può fare quel che vuole. Ma la domenica no: quella è tutta per Anna. E a lei non si può negare nulla. Ma a Roberto Munarin un giorno basta e avanza. Per anni e anni, con un jolly ogni sette giorni ha fatto cose che tanti umani neppure in una vita. E comunque, ora che è tempo di abbassare le luci sul lavoro da consulente tessile esperto di stile, chissà che qualche altra matta esca dal mazzo. Che ci sia tempo per fare ancora di più. Chissà». Scrive così Veronica Balocco su Skialper 128 di febbraio-marzo a proposito di Roberto Munarin, 59 anni, gragliese trapiantato a Muzzano, gioiellino dell’alta valle Elvo biellese, all’ombra del Mucrone.
«Una vita intera a pestare rocce, neve, ghiaccio e terra fra questi stessi punti GPS non è bastata a stancarlo. Né, è sicuro, lo stancherà mai. Da San Carlo al colle Carisey, dal Giassit al Camino, alla Nord del Mars, al Mombarone, fino alla valle Oropa e poi ancora e ancora, se un Pollicino avesse raccolto tutte le briciole lasciate a terra da Munarin in quasi quarant’anni di strada, ne avrebbe fatto una montagna. Una grande montagna ripiena di dieci, cento, millemila avventure. Di scalate, chiodature, salite con gli sci, ravanate, scoperte, linee nuove e discese ripide. Farcita di aperture, sistemazioni, bonifiche, camminate e ciaspolate. E insaporita di piccozzate, vie ferrate, escursioni e sciate in solitaria. Una ricetta che nessun altro da queste parti, sulle Pennine che guardano a Biella, ha mai saputo amalgamare fino a questo punto». Una ricetta tutta da leggere… su Skialper 128.
Effetto Albedo, Il cuore oltre la linea
«Non nascondo di averli guardati all’inizio con un certo scetticismo, sembravano l’ennesimo gruppo di amatori presi bene, tutti powder e GoPro. Poi le cose si sono fatte più chiare: questa è gente che scia un sacco e scia pure bene. Per sciare bene intendo dire la capacità di sapere scegliere le linee, andando a posare i propri sci e le proprie split in montagne poco o per nulla frequentate e su neve spesso più bella di quella che trovano gli altri. Insomma, ho dovuto ammettere a me stesso che la mia disistima altro non era che una malcelata forma di invidia e ammirazione. Probabilmente perché in montagna viene più facile storcere il naso che battere le mani. Nel frattempo loro continuavano a martellare una linea dopo l’altra, spesso su cime dai nomi sconosciuti e tuttavia dietro l’angolo, situate tra l’alto Piemonte e la Val d’Aosta: postacci in cui solo chi aveva voglia di fare fatica andava a infilarsi. E già questo spezzava una lancia a loro favore, perché se nel variopinto mondo dei social network ci sono quelli che parlano e quelli che camminano, con le loro uscite esplorative stavano dimostrando di appartenere alla seconda categoria». Scrive così Federico Ravassard su Skialper 128 di febbraio-marzo a proposito dei ragazzi di Effetto Albedo.
A Flavio, Paolo, Francesco e Stefano basta alzare lo sguardo alla ricerca di una linea inusuale da percorrere con split e sci, magari dietro a casa, dove nessuno - o al massimo pochissimi - sono passati. Perché è sufficiente un po' di fantasia per trovare l'avventura dietro casa. Così tra il fare un'intervista alla scrivania e andare a ravanare su qualche versante poco battuto... Federico si è trovato a partire alle 4.30 di mattina per battagliare con gli aghi di larice e raggiungere il versante Sud del Monte Berrio, in Valpelline, Valle d'Aosta. L'articolo e le foto sono su Skialper 128 di febbraio-marzo.
Ma perché Effetto Albedo poi? L'Albedo è il potere riflettente di una superficie nei confronti della luce. E, guarda caso, nella neve l’albedo massima è quella che caratterizza la polvere, la stessa che tutti gli sciatori - specialmente loro - vanno bramando!
Sono Eyda e non cambio
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124. SE VUOI RICEVERE TUTTI GLI ARTICOLI DI SKIALPER NELLA TUA CASELLA DELLA POSTA, ABBONATI.
Destinazione Gap, a Montmaur, il buen retiro di Matteo Eydallin. Lì, in mezzo al verde, con due cavalli, un mulo, una pecora, due cani. E la fidanzata. Che è veterinaria. La sua vacanza. Per uno che detesta la folla, difficile immaginarlo in spiaggia ad agosto. In fondo c’è tutto quello che serve: strade giuste per pedalare, con la corsia dedicata ai ciclisti, e soprattutto la falesia di Céüse.
Cinque Mezzalama, vuol dire che sei stato al vertice per oltre dieci anni. Qual è il segreto?
«Ho sempre cercato di fare quello che mi piaceva nella fase della preparazione. Non mi sono mai imposto troppe regole: al mattino esco in bici perché mi piace pedalare con gli amici, nel pomeriggio cammino quasi un’ora per arrivare ad arrampicare e lì poi mi concentro sui miei progetti. Non sto troppo a pensare: devo fare tot metri di dislivello, altrimenti rimango indietro, ma li metto insieme come voglio io. Forse è un auto-inganno, per farmi piacere le cose. Forse chissà, allenandomi di più avrei vinto di più, ma sarei rimasto competitivo per meno tempo. Non lo so e non mi interessa: per me ha funzionato così e continuo così, senza tanti sbattimenti. Perché cambiare? Mi alleno ancora volentieri, ma pedalando e scalando. Credo che anche il corpo e la mente ne abbiano un beneficio».
Una sorta di anarchia nell’allenamento?
«Non direi così. Anarchia sarebbe non allenarsi e andare a gareggiare. Mi alleno con il mio metodo. Chiamalo metodo steppen se vuoi. Credo che ogni atleta dovrebbe arrivare a trovare il suo lavoro di preparazione ideale, e lì sta anche la bravura di un allenatore. Le linee guida si sanno, ma ognuno deve applicarle al suo stile di vita. A me non piacciono le ripetute, per esempio, non le faccio, piuttosto vado a una notturna, mi metto il pettorale e pompo a mille. Non so neppure se ho raggiunto la soglia, non ho neanche l’orologio che me lo dice, ma capisco che uno stimolo al mio corpo l’ho dato. Di scientifico non c’è nulla - lo so - diciamo che è tutto gestito in modo naturale, senza stress».
Perché la testa conta come le gambe.
«Più delle gambe. Per questo dico che se butti tante energie mentali per troppe regole in allenamento alla fine ne hai di meno il giorno della gara. Di solito quando punto un evento, mi concentro tutto su quello, ma senza un programma preciso. Per esempio prima delle finali di Campiglio avrei dovuto scaricare, ma la testa era già al Mezzalama. E allora dentro con tanti lunghi, anche spingendo: alla fine a Campiglio sono andato bene e il Mezzalama l’abbiamo vinto. Non mi è pesato mentalmente, anzi. Il giorno della gara sai che devi fare fatica e io il giorno della gara ho voglia di fare fatica. Perché la testa è solo su quello: sono pronto a dare il massimo in quel momento».
Eyda sta armeggiando per regolare l’attacco di un vecchio monosci, c’è un raduno old style sulle nevi della vicina Devoluy e lui vuole partecipare proprio con quello. Una vita legata allo sci la sua, prima con sci club Sauze d’Oulx, poi con il passaggio dall’alpino allo scialpinismo grazie all’amico Federico Acquarone che lo ha coinvolto nella nascente squadra del Comitato Alpi Occidentali. Vedeva gli amici fare la gita con le pelli, ma mai avrebbe pensato a un futuro agonistico. Adesso in pista non ci va più, scia sempre a fianco e, se per forza la incrocia, fa un dritto per arrivare in fondo veloce. Comunque nell’albo dei maestri c’è sempre, agli aggiornamenti ci va e quando gli istruttori lo vedono sanno chi è, ma capiscono subito che non ha più la stessa confidenza con lo sci da pista, almeno nei primi giri. Tutto poi torna come prima. Insomma, questione solo di abitudine.
Come hai visto l’evoluzione dello ski-alp?
«L’involuzione dello scialpinismo (ride). Quando ho iniziato io c’erano un sacco di gare, un vero boom, dalle notturne alla Coppa Italia. Adesso sono rimaste quelle che tirano, le altre fanno fatica o chiudono. Forse qualcosa di più di un naturale assestamento. Manca quell’ambiente più familiare che c’era prima, ora è tutto esasperato, dai regolamenti ai costi, e alla fine ti fai la gita. Se poi ci metti il discorso delle divisioni, che fanno schifo, allora il cerchio si chiude. Le Olimpiadi? Andrebbero bene se ci fosse un sistema organizzato alla base, non penso che tutto si crei solo perché si va ai Giochi. E poi quante nazioni sono pronte? Secondo me il principio è quello di non buttare lì gare tanto per farle. Cosa andiamo a gareggiare in pista, se la maggioranza delle stazioni non vogliono lo skialp? Partiamo presto e i pochissimi che sono attorno a noi non sanno neppure cosa stiamo facendo. Almeno ci fosse un minimo di promozione. Andiamo alle Olimpiadi a far ‘sta roba? Secondo me perdiamo lo spirito dello scialpinismo».
E quella dei materiali?
«Credo che sia stata fondamentale. Nel mondo race c’è stata un’evoluzione incredibile, soprattutto in termini di leggerezza. Il nostro sci può essere estremo, ma adesso puoi trovare aste più larghe, attacchi che tengono benissimo, scarponi performanti che derivano da quello progettato sui nostri: un sistema che ti permette di non ammazzarti di fatica in salita e divertirti al massimo in discesa».
E nella tua sciata?
«Lavoro sulla tecnica che ti porta a sciare veloce in gara o comunque a risparmiare energie per affrontare la salita successiva senza avere le gambe fuse anche dalla discesa. Vado in tutte le condizioni, nebbia, crosta, polvere, marmo, sempre con gli sci da gara: solo così trovi le sensazioni e gli equilibri giusti. Credo che lo skialp non sia metri di dislivello in pista e cardio, ma sensibilità e lettura delle linee in discesa: per questo secondo me le gare in pista non sono vere gare. Quando mi allenavo da ragazzo il gigante iniziava a metà pista rispetto all’arrivo della seggiovia, e noi nel mezzo andavamo fuori pista a fare i deficienti, a saltare con gli sci da gara. Il fatto di essere stato sempre sulla neve mi ha aiutato a capire tante cose più rapidamente quando devi scegliere la traccia giusta in discesa. E magari trovare una linea di polvere dove puoi andare dritto, invece di rimanere dove devi fare lo slalom in mezzo alle bandierine. Una sorta di conoscenza acquisita, comunque affinata negli anni. Se poi qualcuno ti passa in discesa non importa, anzi. Le differenze sono minime e se lo vedi cadere passi da un’altra parte. E di solito comunque non mi staccano in discesa…».
Quanto vai ancora a sciare per divertimento?
«Una volta ero più malato. Ho fatto diverse uscite sul Bianco, Diable, Tour Ronde, altre sul Rosa, adesso sono preso dall’arrampicata, è un periodo così. Di canali ne faccio ancora in primavera, ma solo qui vicino, negli Écrins e nel Devoluy, senza sbattimenti per cercare le condizioni. Se ci sono vado, altrimenti preferisco arrampicare. Poi non fanno per me le alpinistate: camminare, alzarsi presto, prendere freddo, la quota, lo zaino pesante. Torno al discorso di prima: lo farei solo se avessi il trip di scendere un certo canale perché mi son messo in testa di sciarlo. Adesso ho in testa l’arrampicata e voglio migliorarmi in quello: l’anno scorso un 8b, quest’anno sono partito con diversi 8a, vorrei chiuderne un altro di 8b in estate. Sempre qui a Céüse. Mi piace fare sport, ma lo sport che mi diverte e ho voglia di praticare».
Oggi nel pomeriggio non va ad arrampicare. C’è il figlio di un amico che punta a entrare in una scuola sportiva, ci sono dei test da superare, gli ha chiesto consigli e l’allenamento di Eyda per un giorno è questo. Un po’ di esperienza sul campo sul come affrontare e gestire un certo tipo di sforzo. Al futuro non ci pensa, vive molto di presente, non si immagina cosa farà da grande. Finché avrà voglia di gareggiare continuerà, poi si vedrà.
Ti immagini allenatore?
«Di pali non credo proprio! Vedo tanti più giovani alle gare di skialp, ma a quattordici anni non ti inventi di diventare un garista. C’è la necessità che ci sia qualcuno che li porti prima di tutto in allenamento e poi alle gare. Tutto deve partire dagli sci club, bisogna iniziare a inserire anche lo scialpinismo nei loro programmi. Un giorno vai con le pelli, un altro fai freeride, un altro ancora gigante e così ti diverti pure a quell’età. E magari anche quelli presi meno dai pali continueranno e faranno anche le gare».
Eppure di esperienze da raccontare, da come si gestisce una crisi a come si organizza una gara a squadre, ne hai.
«Sì, ma sono esperienze personali, bisogna sempre saper bene con chi ti confronti. Io non ho una pompata esplosiva, ma so bene che quando parto devo dare tutto, anche se non vado a regime subito. A volte quel giorno cerchi solo di portare il culo a casa, oppure, se le gambe ci sono, sai che comunque la luce non si spegne, basterà anche solo bere per riprendersi. Per questo amo le gare lunghe. Le gare lunghe e in squadra. Ho sempre avuto compagni fortissimi e tra di noi non c’è mai stato spirito di competizione, la voglia di far vedere chi è più forte. Se capisci che il socio ne ha di più, perché non farti aiutare? Io mi sono fatto tirare anche la prima salita del primo giorno di una gara a tappe, spesso anche quando non era necessario, eppure… Partire in modo non arrembante, saper capire prima che serve un aiuto del compagno e farsi subito aiutare sono le chiavi giuste. Se poi la squadra è la stessa per tanti anni, diventano quasi automatiche».
Testatore?
«Ognuno è vittima delle proprie incoerenze. Su quest’aspetto sono pignolo e preciso: credo che Italo di Scarpa tutte le volte che mi vede diventi matto per quanto lo stresso sull’inclinazione, la ghetta, la chiusura. Lo stesso vale per lo sci, su certi aspetti non transigo: voglio l’attacco quasi due centimetri avanti, perché con lo sci corto preferisco più coda. Ma sono input che do per me, per il mio tipo di sciata in gara. Non mi ritengo in grado di decidere per gli altri: non pretendo di dire a Dynastar di spostare la linea guida del centro o le piastre di rinforzi per tutti gli sci che vanno sul mercato solo perché vanno bene per me».
Per capire meglio Eyda bisogna conoscerlo bene. Parlargli. Una carriera da diplomatico non la potrebbe mai fare. Lui è fatto così, prendere o lasciare. Oppure dare un’occhiata al suo Fiorino dove il navigatore sono vecchi atlanti stradali, Spotify i cd, lo smartphone un vecchio Nokia. Ma non perché voglia essere l’alternativo di turno, semplicemente perché è così. Ma la bici te la sei fatta dare?. Risposta: No, comprata. Altrimenti troppi sbattimenti per fare vedere che la stai usando. Io vado in bici per il piacere di pedalare, mica penso a fare i selfie. E poi non sarei neppure in grado di farli, i selfie.
Con tutto quello che hai vinto non pensi che avresti potuto essere ancora più personaggio?
«Sicuro. La mia immagine non l’ho mai venduta. A dire la verità, le mie performance non le ho mai vendute. So che in questi anni non mi sono fatto amici, non mi sono mai morso la lingua nelle mie dichiarazioni, mi sono sempre preso la libertà di dire quello che pensavo. Sono un esempio di alta performance, vendita zero. Non dico che sia giusto così, sono io che non voglio dare un’immagine diversa da quello che sono veramente per guadagnare di più. Non che i soldi mi facciano schifo, intendiamoci. Sono così, preferisco farmi i fatti miei. Se non mi conosci, dall’esterno potrei sembrare una testa di c..zo e la mia immagine non è così buona: è bravo a fare quello che fa, ma non è quello che noi sponsor vogliano vedere. Se non fosse per mio fratello Stefano sui social il mio account sarebbe inesistente. C’è chi mi stima, sono pochi ma sinceri. Magari altri, conoscendomi meglio, potrebbero farsi un’idea diversa di me. Ma non posso obbligarli. E forse proprio per il fatto che sono sempre rimasto me stesso ho tenuto botta in tutti questi anni».
Ah, siamo tornati a casa con due birre in più nella pancia. Perché una birretta con Eyda è quasi d’obbligo.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124. SE VUOI RICEVERE TUTTI GLI ARTICOLI DI SKIALPER NELLA TUA CASELLA DELLA POSTA, ABBONATI.
Mongolia Split Experience
Gli ultimi raggi del sole illuminano i pochi yak e cavalli che pascolano pacifici nelle distese verdi a perdita d'occhio. I minuti scorrono senza alcun significato. La gente di queste terre non ha l’orologio e vive guardando il sole. Siamo seduti sulla ghiaia vicino ai furgoni, stiamo perdendo tempo. La gomma bucata non è una sorpresa se realizzi che quelle che qui chiamano strade per noi sarebbero sterrate e anche la rottura di un misterioso pezzo della trasmissione non sembra essere del tutto inaspettata. Si sa che le auto possono avere problemi nelle lande desertiche della regione dell’Altai che si trova tremendamente lontana da tutto ciò che si può chiamare civiltà secondo gli standard occidentali. Alcuni uomini a cavallo sono andati a controllare le greggi che pascolano liberamente in centinaia di chilometri quadrati e si fermano al nostro improvvisato posto di blocco. Occhi curiosi ci scrutano da sotto quei cappelli di cuoio che proteggono i pastori da sole e vento, quegli occhi luminosi che sono l’unico modo di comunicare quando hai bisogno di aiuto. «Sain uu!» dice Woogie mentre si toglie gli occhiali da sole con lenti polarizzate. Il riflesso dell’uomo a cavallo scompare per lasciare posto a uno sguardo amico. Senza gli occhiali, anche se con il tradizionale deel, passa velocemente dallo stile di città a quello di cacciatore. Vederlo parlare con l’uomo a cavallo ti fa quasi dimenticare che Woogie, al secolo Battulga Gantulga, è il fondatore della Mongolian Professional Snowboard Federation e anche la ragione del nostro viaggio sulle montagne più alte del Paese, nel Tavan Bogd National Park. La notte arriva veloce e decidiamo di allestire un campo nel nulla di questa steppa, sotto milioni di stelle. Niente farebbe presagire che siamo in un luogo adatto a snowboard e splitboard se non fosse per le nostre sacche ricoperte di polvere che contengono le tavole.
VIAGGIO VERSO L’IGNOTO - La stressante routine della città ha lasciato spazio a uno stile di vita che segue i ritmi del sole. Il rumore dei cavalli selvaggi che frugano con il muso nella ghiaia vicino alla tenda è il suono più forte, l'unico che può farti svegliare. Certo, se non sei stato destato prima dal profumo del tsuivan, una colazione che sembra più una cena ed è molto apprezzata da chi brucerà calorie facendo sport per il resto della giornata. Mangiamo piano, alle sette e mezza della mattina non siamo sicuri che il nostro stomaco gradirà il mix di carne con carote, cipolle, patate e noodle. Anche per i nostri quattro amici mongoli il viaggio nella natura selvaggia è soprattutto un viaggio verso l’ignoto. Soprattutto perché qui le temperature in inverno sono così estreme che l’ultima cosa che ti verrebbe in mente è di scivolare sulla neve con una tavola. Però ci sono altri appassionati come loro che sono una garanzia per il futuro dello snowboard nella piccola stazione sciistica di Sky Resort, vicino a Ulaanbataar, la capitale della Mongolia. Probabilmente gli sport invernali non diventeranno mai popolari come le corse di cavalli, ma la passione di scivolare sulla neve di traverso sopra a una tavola ha valicato i confini della Russia e della Cina e conquistato appassionati. Nel 2009 Woogie ha fondato la Mongolian Professional Snowboard Federation e iniziato a collaborare con Mustafa, abbreviazione di Munkhsaikhan Gundsambuu, che non è solo uno dei rider del nostro team, ma anche un ottimo traduttore. Oggi i soci sono una sessantina e così si può dire che a Ulaanbataar c’è una importante community di snowboarder perché le persone che sanno usare una tavola, oltre ai soci, sono circa 300. Woogie e Mustafa stanno cercando di avvicinare altre persone allo snow in collaborazione con la piccola località sciistica Sky Resort e hanno aperto un noleggio di attrezzatura per chi non ha potuto fare arrivare le proprie tavole dal Giappone o dagli Stati Uniti. Sembra incredibile, ma è più conveniente importarle da questi Paesi che dalla Cina… «Ci sono anche due maestri ed è l’unico posto del Paese dove si può imparare ad andare in snow: nessun mongolo sale le montagne con gli sci o la split sulle spalle. L’unico motivo per il quale lo farebbe è per andare a cercare i propri cavalli» spiega Woogie. «Questo viaggio sarà una grande fonte di ispirazione per tutti i nostri snowboarder e spero che anche noi possiamo esserlo per voi» aggiunge con un lieve sorriso tra le labbra. Woogie ha girato il mondo per diventare un insegnante di snow e diffondere l’amore per lo sport bianco in patria. Con il suo certificato austriaco è l’unico maestro patentato della Mongolia e non ho dubbi che creerà una grande scuola. Dopo quattro giorni di viaggio eccoci arrivati alla porta del Tavan Bogd National Park. A guardare l’erba verdissima che ci circonda si stenta a credere che qui solo poche settimane fa c’era la neve e non avremmo potuto raggiungere il campo base a piedi. Però, visto che la cognizione di tempo da queste parti è ben diversa dalla nostra, ecco che ci tocca aspettare ancora un giorno prima di iniziare il trekking di cinque ore in compagnia dei cammelli fino al campo base, che sorgerà nel punto d’incontro tra i ghiacciai Alexander e Potanin. Il ritardo ha qualcosa a che fare proprio con i cammelli, che sono scappati verso la natura selvaggia, e le guardie di frontiera, che hanno voluto controllare più volte i nostri permessi. Ma ora eccoci finalmente arrivati ed è tempo di partire alla scoperta dell’ignoto.
BASE CAMP - Tavan Bogd è la catena montuosa più alta della Mongolia, il cui nome significa cinque Santi, vale a dire le cinque vette più elevate. Dal campo base le vediamo tutte queste montagne e davanti ai versanti ripidi carichi di neve primaverile e ghiaccio blu eterno siamo un po’ intimoriti e iniziamo a capire che sarà una bella sfida raggiungere al punto di partenza di una delle tante linee di discesa che abbiamo sognato. Dopo un giorno sul ghiacciaio abbiamo definitivamente capito che niente qui è come sembra. Abbiamo sottovalutato i tempi di avvicinamento. Per arrivare in vetta devi prima scendere la morena per due ore, poi attraversare il ghiaccio rugoso e in parte sciolto del ghiacciaio per tre ore prima di potere iniziare la salita vera e propria. Dopo questa sfacchinata capisci che le tue curve non sono mai state così senza senso: un giorno in quota significa dodici ore a camminare e arrampicare. Scendere con la split dura 20 secondi. Punto. Ma quando ti trovi negli Altai, un posto che non ha mai visto una tavola da split nella sua storia, è anche vero che ogni curva diventa d’oro. Dopo una settimana ci siamo abituati ai ritmi della vita da campo e a questi lunghi e intensi giorni, a lavarci nei torrenti gelidi, a mangiare khusuur e tsuivan per colazione, pranzo e cena. Le aquile che guardavamo estasiati i primi giorni ormai ci sembrano animali domestici, come le piccole marmotte che fanno capolino tra gli scarponi fuori dalle tende. La nostra tenda-cucina è diventata un melting pot di genti, non solo le otto persone della nostra spedizione. Per esempio Agvaan Danzan, una Guida alpina in attesa di clienti, o le guardie di frontiera, molto curiose nei nostri confronti. Una sera Woogie ha dovuto ammettere che i nostri permessi per il parco nazionale erano stati rifiutati. «I militari hanno capito che siamo venuti fin qui solo per fare snowboad e… guarda cosa mi hanno dato». Woogie ci mostra una ricevuta da 10.000 Tugrik. «Invece di pagare, il responsabile del posto di frontiera ci ha fatto entrare gratuitamente: c’è scritto buona fortuna a nome del colonnello». Il silenzio che ne è seguito non era per nulla legato all’attesa della traduzione, ma allo stupore.
IL GIORNO PRIMA DEL GRANDE GIORNO - Con una grande tazza di suutei tsai tra le mani, niente altro che tè con il latte, guardiamo il grande ghiacciaio di fronte a noi. Finora abbiamo disegnato con le nostre split linee su due dei cinque Santi. La luce della mattina sottolinea la bellezza di queste montagne e stiamo preparandoci per un’inattesa escursione di due giorni. Nessuno di noi, onestamente, aveva pensato di salire sul re dei Tavan Bogd, il Khuïten Peak che, con i suoi 4.374 metri, è il più alto della Mongolia. Sembra tremendamente estremo, ma quando rimuovi quell’ingresso con una corda che penzola sul ghiaccio blu, il resto diventa una sfida che alcuni di noi pensano di potere affrontare. Le previsioni meteo lasciano presagire una finestra utile per raggiungere quel fianco della montagna che ci guarda negli occhi fin da quando abbiamo allestito il campo base. Però le mappe che abbiamo con noi, stampate a casa e scovate nel web più profondo, probabilmente dell’esercito russo, possono solo indicarci la direzione. Per quanto riguarda le condizioni di sicurezza, il tempo richiesto e il tipo di terreno dobbiamo fidarci dei nostri occhi e del nostro intuito. Quando partiamo con in spalla gli zaini più pesanti che abbiamo mai sollevato in questi giorni, noi quattro salutiamo il team Mongolia e ci avviciniamo, passo dopo passo, alla spalla che abbiamo individuato per bivaccare. Sembra vicina, ma ci vorranno alcune ore e presto le nubi ci avvolgeranno, rendendo difficile l’orientamento. Rens e Stephan, due esperti ‘segugi da ghiacciaio’, si danno il turno alla guida del gruppo per monitorare con attenzione la minaccia dei crepacci. Non puoi essere stanco in momenti come questi, non puoi distrarti quando cammini in un campo minato. Finalmente, dopo sei ore posiamo i nostri stanchi piedi dove abbiamo deciso di bivaccare. Le nuvole coprono tutta la valle ma il sole ci illumina ed è la prima volta che possiamo vedere così da vicino il versante est. Non rimane che una cosa da dire: «Dopo il viaggio della sopravvivenza di oggi, domani sarà il giorno della grande discesa». Le parole di Stephan sono forti e chiare.
SACCHI A PELO - Ancora avvolta nel mio sacco a pelo, cammino in direzione della cresta e vedo tre puntini che salgono sempre di più. Sono le quattro e trenta della mattina e puoi già sentire il calore del sole che sta per sorgere mentre la luce rosa rende tutto più piacevole, tanto che i puntini sembrano danzare sulla neve. Presto spariranno sull’altro versante della montagna, dove c’è il confine con la Cina e perderò ogni contatto con loro: non possiamo usare i walkie talkie in questa area di confine, le previsioni meteo sul satellitare sembrano approssimative e non ci sono mappe dettagliate. Aggiungo che siamo tanto lontani dai luoghi civilizzati che ci vorrebbero almeno due giorni per fare arrivare una squadra di soccorso. Ma non è tempo di farsi prendere dal nervosismo. Non ancora. Impiegano quattro ore ad arrivare all’inizio della discesa e subito dopo il primo puntino è attaccato alla corda all’inizio del pendio: è Stephan. La corda è stata una scelta obbligata perché i primi cinquanta metri a sessanta gradi sono una lastra di ghiaccio unica e scivolare qui significherebbe morte certa. Anche con il teleobiettivo è molto difficile intuire cosa stia succedendo, ma sembra che Stephan abbia perso la corda: spero di sbagliarmi perché iniziare la linea in quel punto sarebbe molto pericoloso. La fune dà solo trenta metri di sicurezza perché poi diventa solo una combinazione di abilità fisica e fortuna del rider di turno. Armato di piccozza, Stephan scivola con attenzione lungo un traverso che gli permette di evitare la grande seraccata, che richiederebbe come minimo cinque secondi di air time per essere superata. La sua prima curva non è certo una di quelle da ricordare, ma è forte e arriva alla base della parete senza nessun tentennamento. Mi ritrovo a sorridere e sono sicura che anche lui, mentre percorrere gli ultimi metri quasi piani, stia ridendo.
TICK TACK - Splitboard rotti, piccozze perse, zaini ridotti come immondizia. Poi abbiamo smarrito uno smartphone, ci siamo sbarazzati di un paio di bastoni e alcuni scarponi sono finiti nella pattumiera. La Mongolia è un Paese tosto e la natura non fa sconti. Dopo che Stephan ha trovato la sua linea di discesa, il tempo ha iniziato a correre e tutti abbiamo percepito il ticchettio dei minuti che scorrevano. Sébastien ha avuto la sua chance e dopo mezz’ora la sua battaglia con la Khuïten era terminata: due su tre avevano battuto il versante est della montagna, una vittoria inaspettata. Ma sapevamo che la linea di arrivo era lontana e ogni passo doveva essere affrontato con cura. Lasciare il bivacco nel tardo pomeriggio significa affrontare il ghiacciaio con i crepacci belli aperti e pieni di acqua di scioglimento. L’energia per i nostri stanchi corpi è stata appena necessaria per qualche curva e per risalire la morena che separava la fine del ghiacciaio dal campo base. Quattordici ore dopo esserci alzati ci siamo trascinati fino alle tende completamente a pezzi, con cinque minuti di anticipo sulla perturbazione. Per una volta il tempo è tornato ad avere un significato. Il sole è sorto e tramontato diverse volte nel nostro viaggio di ritorno verso la civilizzazione. Ora Seku mi passa il mio bagaglio, che si lascia dietro un discreto olezzo di cammello. Lo metto accanto a me e mi ci sdraio sopra. Ormai non sapere cosa succederà nelle prossime ore è diventato familiare e mi trasmette un senso di pace, come tutto quello che succede in questo Paese. Chiamiamo civilizzazione il mondo reale, ma una volta che hai visto la Mongolia capisci che cosa è veramente reale. E ti senti pronto per il grande viaggio.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 114. SE VUOI RICEVERE TUTTI GLI ARTICOLI DI SKIALPER NELLA TUA CASELLA DELLA POSTA, ABBONATI.
Fantasmi e vecchi skilift
La strada che da Viù sale a Tornetti è ripida e stretta, i tornanti si susseguono uno dopo l’altro tra le piccole frazioni dove le persiane aperte delle case si contano sulle dita di una mano. Ha dato una spolverata di neve da poco da queste parti e il paesaggio è di un bianco candido, quasi irreale. In giro nessuno, d’altronde di residenti in questo angolo delle Valli di Lanzo ne sono rimasti otto. Qui le montagne formano un anfiteatro naturale, di una bellezza suggestiva. Dovrebbe essere famosa per questo Tornetti, ma così non è. Da anni ormai questa zona è conosciuta per ben altro, purtroppo. È qui tra i pascoli che affacciano sulla bassa valle che si trova l’ecomostro dell’Alpe Bianca. Un edificio imponente che sarebbe dovuto diventare un albergo, il sogno di alcuni avventati imprenditori che qui a cavallo tra anni ’70 e anni ’80 avrebbero voluto realizzare una stazione sciistica per attirare famiglie e sciatori torinesi, vista la relativa vicinanza al capoluogo piemontese. Gli impianti girarono fino al 1995, poi il calo di sciatori, i costi di gestione e la scarsità di neve ne decretarono la chiusura. L’albergo, un transatlantico di sei piani, non venne mai finito, e ora rimangono uno scheletro di mattoni pericolante, i pali degli skilift, la casetta della biglietteria, a ricordare come in fondo sia facile deturpare per sempre la montagna.
L’Alpe Bianca non è un caso isolato, le nostre montagne sono puntellate di impianti di risalita abbandonati e alberghi in rovina. Relitti di un turismo che ha prima sedotto e poi abbandonato le Alpi, lasciando in eredità cemento, cavi d’acciaio, parcheggi asfaltati e versanti disboscati. Dal Piemonte alla Carnia sono centinaia le stazioni sciistiche abbandonate; l’ultimo censimento, risalente a qualche anno fa, realizzato dal CIPRA (Commissione Internazionale Protezione delle Alpi), Mountain Wilderness e dall’associazione Dislivelli, ne contava 186. Molto probabilmente, a parte qualche sporadico caso di tentativo di rianimazione di impianti fermi da anni, i numeri ora sono addirittura cresciuti.
Basti pensare al comprensorio di San Simone, in alta Val Brembana. Seggiovie e skilift praticamente nuovi, condomini in perfetto stato, negozi, ristoranti, un hotel, tutto utilizzabile, tutto abbandonato, da quando, tre anni fa, è iniziata la saga di Brembo Super Ski. Una saga terminata con un fallimento, l’arresto ai domiciliari per i sindaci di Foppolo e Valleve e la vendita degli impianti. Ora Foppolo gira, grazie anche all’impegno dei commercianti locali, ma a San Simone è tutto fermo. Un paese fantasma, con le vetrine dei negozi ancora allestite e gli appartamenti chiusi. Anche a San Simone quest’anno la neve è arrivata tardi, ma a fine gennaio il parcheggio e le piste sono imbiancate. Non si muove una foglia, non si sente un rumore. Si vede solamente del fumo uscire da un comignolo di un piccolo chalet in legno. È il noleggio sci. Dentro una stufa accesa, sci e snowboard impilati, scarponi di tutte le taglie, un tavolo di legno e una bottiglia di prosecco. E Mauro Berera. L’unico residente rimasto a San Simone. «Avevamo tutto qui, belle piste, bei panorami, case nuove, impianti funzionanti, la gente veniva con piacere. Ma hanno deciso di far morire San Simone - racconta Berera - e ci sono riusciti. Io però non me ne vado, sto qui e provo a sopravvivere». Sci e snowboard non li affitta più a nessuno, ma nei weekend qualche ciaspola e le slitte sì. Poi ci sono gli scialpinisti, che qui, come a Recoaro Mille, nelle montagne vicentine, hanno sostituito gli sciatori da pista. Moreno Visonà è un’habitué delle vecchie piste di Recoaro Mille. Viene quasi tutte le settimane a macinare dislivello: «impianti come quelli di Recoaro non hanno futuro, ed è per questo che sono fermi. Bisogna trovare dei modelli alternativi al turismo dello sci alpino, soprattutto a queste quote».
Investimenti sbagliati, costi di gestione troppo alti, stagioni sempre più corte e inverni sempre più caldi, questo il mix che sta contribuendo alla lenta agonia delle piccole e medie stazioni sciistiche delle Alpi. Non è un segreto che gli ultimi quattro anni siano stati i più caldi mai registrati sul pianeta terra, e non è neanche più un segreto il fatto che il cambiamento climatico risulti più rapido nelle zone montuose rispetto a quelle pianeggianti: ogni grado centigrado in più registrato in pianura infatti corrisponde a un +2° C sulle Alpi. Il Politecnico di Zurigo ipotizza per la Svizzera un aumento da 2,5° C a 4,5° C entro la metà del secolo, e tutto lascia pensare che lo stesso possa accadere nel resto dell’arco alpino. Inutile dire che con queste previsioni, e con i modelli climatici che mostrano uno spostamento sempre più in avanti dell’arrivo della prima neve stagionale, il futuro delle stazioni di bassa e media quota, così come di quelle senza impianti di innevamento programmato, è sempre più a rischio.
«Quest'anno fino a gennaio la maggior parte delle località sciistiche, in particolar modo nel Nord-Est, ha lavorato quasi esclusivamente grazie all'innevamento programmato - spiega Francesco Pastorelli di CIPRA (Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi) - con ovvie conseguenze sull’ambiente e sulla sostenibilità economica dei comprensori». Lingue bianche in mezzo a prati gialli sono ormai una costante dei nostri inverni, la neve programmata fa parte del panorama alpino, così come le code ai tornelli per sciare su un manto nevoso sempre più spesso ghiacciato o marcio. Ma sono in pochi gli sciatori che hanno un’idea del reale costo della neve programmata. Cinque euro al metro cubo, al netto delle variabili tra le varie località alpine. Tenendo presente che le pista di sci italiane sommano all’incirca quattromila chilometri, il costo totale balla intorno al mezzo miliardo di euro. E a tenere in vita gli impianti di innevamento, e di conseguenza i comprensori, sono i soldi pubblici. In provincia di Trento e Bolzano c’è un sostengo pubblico dell’80 per cento, sostiene CIPRA, ma secondo Giorgio Daidola, docente di analisi economico finanziaria per le imprese turistiche presso l'Università di Trento, «gli investimenti del pubblico per gli impianti di neve programmata e bacini idrici variano molto da regione a regione. Avvengono spesso attraverso finanziarie a capitale totalmente pubblico. Operano nei diversi settori economici, non solo nel turismo, e quindi è impossibile sapere leggendo i loro bilanci quanto investono per questa voce. Si può dire che i costosi bacini di raccolta acqua sono finanziati e autorizzati quasi interamente dagli enti pubblici, che li giustificano per altri fini. La Regione Piemonte ha varato un piano da 25 milioni per nuovi impianti di innevamento, il consorzio Dolomiti Superski da 90 milioni. I costi di gestione per l’innevamento del comprensorio della Vialattea, per esempio, sarebbero di circa 5,5 milioni di euro a stagione, di cui il 60 per cento a carico di regione e comuni».
Ed ecco allora la rincorsa a nuovi progetti, a risorse pubbliche, per provare a rianimare stazioni sciistiche agonizzanti o in lento declino. A Caspoggio, a mille metri di altitudine in Valmalenco, provincia di Sondrio, dove gli impianti sono fermi da alcuni anni, sono stati stanziati 620.000 euro per rifare la pista Uai che arriva dritta in paese, con un sistema di innevamento programmato e un impianto di illuminazione nuovo di zecca. «Una decisione miope, uno spreco di risorse che potevano essere utilizzate per rilanciare Caspoggio con progetti e attività che guardano al futuro - sostiene senza mezzi termini Michele Comi, Guida alpina locale - Va ripensato il modello di business, i tempi sono cambiati, la gente scia sempre meno e sciare costa sempre di più. Inoltre le persone sono interessate anche ad altre attività, e una località come Caspoggio deve investire su questo, su di un’alternativa, che sia possibilmente sostenibile. Nuove piste, con sistemi di innevamento da centinaia di migliaia di euro non sono la soluzione per ridare speranza a una valle come la Valmalenco e a un paese come Caspoggio».
Il futuro preoccupa, anche al Frais, in Val di Susa. Qui gli impianti quest’anno non hanno aperto. A fine gennaio le piste erano gialle, non un dito di neve sopra i ciuffi d’erba. Se a questo si aggiungono poi le liti tra gestori degli impianti e le istituzioni locali si capisce la preoccupazione di Renzo Pinard, ex sindaco di Chiomonte e titolare dell’albergo Belvedere, l’unica attività commerciale aperta in un giorno di fine gennaio in una località di seconde case che conta undici residenti fissi. «C’è poco da fare, qui è diventata una questione di sopravvivenza ormai - dice Pinard - Bisogna farsi un esame di coscienza e capire se quello che vogliamo è continuare a essere ancora dipendenti dalle piste da sci, o se invece non sia il caso di trovare altre opzioni. Penso allo scialpinismo, alle ciaspole, alle mountain bike d’estate, tutte attività che hanno i praticanti in crescita, che non richiedono investimenti eccessivi e che diversificherebbero l’offerta di Pian del Frais. Perché altrimenti temo che l’alternativa sia chiudere una volta per tutte i battenti». E magari fare la fine di Pian Gelassa, a qualche chilometro dal Frais. Un comprensorio abbandonato, tra pinete e pascoli, spazzato via prima dai fallimenti degli impresari e poi dalle valanghe che ne hanno martoriato gli impianti. Ora è un villaggio spettrale, un set post apocalittico dove i ruderi dei condomini in costruzione sono avvolti dalla vegetazione che lentamente si sta riprendendo lo spazio che le era stato tolto.
Alpe Colombino, Colle del Lys, Albosaggia, Alpe Paglio, Paularo, Ligosullo, Sella Chianzutan, dalla provincia di Torino a quella di Udine, sono solo alcuni dei nomi di stazioni sciistiche che nel corso degli anni, chi prima chi dopo, chi nella sua totalità, chi solo in parte, hanno chiuso, lasciandosi dietro i resti di un modello di sviluppo e di turismo che va, quantomeno, ripensato. Perché si può essere scettici quanto si vuole in merito al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici, ma non si può far finta di non vedere i risultati di ricerche come quella realizzata dal Cryos Laboratory dell’Ecole Polytechnique Federale di Losanna, secondo il quale ai ritmi attuali di riscaldamento globale sulle Alpi la neve sotto i 1.500 metri sarà un ricordo lontano o un fatto puramente sporadico, ma anche gli impianti a quota maggiore subiranno notevoli conseguenze. Se l’incremento medio della temperatura supererà la fatidica quota di 2 gradi centigradi, lo spessore della neve potrebbe diminuire del 40 per cento anche nelle zone oltre i 3.000 metri.
Lo sanno bene Roberto Treppo e Gioiella Rosset, i gestori dell’unico ristorante di Sella Chianzutan, sopra Verzegnis, in Friuli. Qui quando ancora le nevicate erano abbondanti, o quantomeno regolari, si sciava, e anche tanto. Poi sono arrivati gli impianti dello Zoncolan e quelli di Piancavallo. La gente ha iniziato a frequentare altre località, la neve a cadere con meno regolarità e gli impianti sono passati di mano, dai privati al comune di Verzegnis. Ma tre bandi per aggiudicarne la gestione sono andati deserti e ora i tralicci, il gatto delle nevi acquistato e mai utilizzato, così come i due cannoni per la neve, rimangono lì a ricordare i vecchi fasti andati. «D’altronde non si può pensare di sciare a 890 metri ormai - chiosa Roberto Treppo - però si può provare a rilanciare questa zona, dove ormai abitiamo solo più noi e pochi altri, in altri modi. Le istituzioni devono aiutare chi decide di non lasciare la montagna, nonostante le difficoltà. Perché se non si dà una mano a chi resiste tra pochi anni non ci saranno solo più stazioni sciistiche abbandonate, ma anche interi paesi e intere vallate».
Ma non sono solo le piccole e medie stazioni sciistiche a soffrire, anche le grandi non se la passano troppo bene. L’indotto creato però fa sì che debbano, per forza di cose, stare in piedi. «La verità è che i grandi comprensori non sono riconvertibili - continua Daidola - meglio quindi circoscriverli e non lasciarli sviluppare ulteriormente. Devono essere considerati dei territori sacrificali, dei luna park in quota, delle zone inquinate da contenere e basta». Sono proprio le piccole e medie stazioni, paradossalmente, quelle che, sempre secondo Daidola, potrebbero reinventarsi facendo leva sulle proprie caratteristiche peculiari. Basti pensare a chi ha puntato sul freeride come La Grave in Francia o, più in piccolo, Prali in Val Germanasca. Stazioni che hanno ritrovato una loro identità, grazie anche a un management preparato, sensibile e aperto al rinnovamento. Cosa che purtroppo, in Italia, sembra una rarità.
«È una questione culturale, di mentalità - spiega Maurizio Dematteis, dell’associazione Dislivelli, composta da ricercatori universitari e giornalisti specializzati, che si occupa di studiare il territorio alpino e chi lo abita - Gli impianti di risalita non sono il male, anzi hanno rappresentato, e ancora rappresentano in certi casi, un volano per il territorio alpino. Ma i tempi sono cambiati e il rischio è di vedere allungarsi di molto l’elenco delle stazioni ferme ed abbandonate. I gestori degli impianti, le istituzioni, devono trovare delle soluzioni che possano essere sostenibili sia dal lato ambientale che da quello economico, non pensando di poter vivere solamente con la neve programmata perché sarebbe un errore imperdonabile».
I cavi d’acciaio penzolanti, i blocchi di cemento dei piloni, i piattelli stoccati in locali fatiscenti, i seggiolini delle seggiovie ammassati come da uno sfascia carrozze, i condomini spettrali, le piste di erba, gli alberghi deserti, sono quello che rimane di investimenti sbagliati, di scommesse imprenditoriali fatte sulla pelle dell’ambiente montano e di chi lo vive. Scommesse spesso finanziate da soldi pubblici e da istituzioni che non hanno mai avuto, in questo Paese, quella sensibilità necessaria per rapportarsi con un ecosistema fragile, oggi più che mai. Luoghi come Pian Gelassa rimangono lì come un monito, a ricordarci che le nostre montagne sono già state predate a sufficienza.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 123. SE VUOI RICEVERE TUTTI GLI ARTICOLI DI SKIALPER NELLA TUA CASELLA DELLA POSTA, ABBONATI.