Da oggi in edicola la Outdoor Guide 2019
288 pagine con 350 prodotti tutti testati. Sono questi i numeri della Outdoor Guide, un appuntamento fisso nelle edicole italiane per gli appassionati di trail running, escursionismo e alpinismo. L’edizione 2019, dal 15 maggio in tutte le edicole (se volete riceverla a casa si può preordinare solo qui) si presenta con tante novità. A partire dalla veste grafica e dall’organizzazione dei contenuti. Un restyling completo per prendere ancora più per mano il lettore e guidarlo in modo semplice alla scelta del migliore prodotto per le sue esigenze: scarpe, zaini, bastoni, GPS, lampade frontali, tende, materassini, sacchi a pelo, fornelletti.
NUOVE CATEGORIE – Rispetto all’anno scorso abbiamo completamente rivisitato il nostro approccio e la Outdoor Guide non è più divisa in tre mondi separati, ma in categorie che rispondono a precisi identikit di sportivi e appassionati outdoor. E ogni categoria ha una sua introduzione specifica. Trail running, ultra trail, sky & vertical, day hiking, multiday hiking, approach & multifunction e mountain i micro-mondi individuati.
COME PROVARE – All’inizio un ampio servizio sulla metodologia dei nostri test e a seguire un articolo con i consigli per provare i prodotti in negozio prima dell’acquisto. Esistono scarpe, zaini e bastoni di livello superiore, ma è importante scegliere i prodotti più adatti alle nostre esigenze e soprattutto della misura corretta.
AWARDS – Sono stati razionalizzati i riconoscimenti per i prodotti che abbiamo ritenuto i migliori: solo un prodotto dell’anno per ogni categoria (con qualche sotto-categoria) e le editor’s choice, assegnate agli articoli consigliati dalla redazione per il rapporto qualità/prezzo o l’equilibrio generale della proposta. Nell’assegnazione dei premi abbiamo privilegiato scarpe, zaini e bastoni fedeli alla filosofia della categoria e adatti a un ampio spettro di utilizzatori.
TEST TEAM – Più di 30 testatori di altissimo livello. Qualche curiosità? C’erano dieci tra Guide alpine e Aspiranti, ma anche accompagnatori di media montagna e tra i trail runner il palmarès comprendeva ben cinque vittorie al Tor des Géants. Un grazie a Roberto Beretta, Filippo Bianchi, Lisa Borzani, Oliviero Bosatelli, Franco Collé, Michael Dola, Katia Fori, Giorgia Ganis, Nicola Giovanelli, Camilla Magliano, Christian Modena, Melissa Paganelli, Graziana Pè, Giorgio Pulcini, Giuditta Turini, Elisabetta Caserini, Alessio Cerrina, Alberto Ciannamea, Luca Polo, Luca Macchetto, Sergio Pezzoli, Gianni Predan, HannahMacMillan, Alessandro Monaci, Alberto Bolognesi, Francesco Ratti, Carlo Gabasio, Guido Chiarle, Maurizio Pastore e Federico Foglia Parrucin.
TRAIL, ULTRA, SKY & VERTICAL – Scarpe, zaini, bastoni per correre nella natura, dalle porte della città alla montagna vera, da pochi chilometri alle cento miglia e alle gare endurance. E poi i modelli per i terreni più tecnici e per le gare di sola salita. Nella categoria ultra trail abbiamo inserito una sotto-categoria ‘adventure raid’, che racchiude le gare lunghissime o a tappe ma anche le avventure in autosufficienza nella natura.
DAY HIKING, MULTIDAY E CAMMINI STORICI – Per chi ama camminare, abbiamo individuato scarpe e zaini specifici per escursioni giornaliere e di più giorni. Calzature di taglio basso, mid o scarponcini e poi gli immancabili bastoni. Non mancano le scarpe per i cammini storici, un segmento che suscita sempre più interesse e al quale abbiamo dedicato una sezione del capitolo multiday hiking. Un capitolo, quello del multiday hiking, particolarmente ampio, con anche una sezione dedicata ai GPS cartografici e un’ampia rassegna di tende, materassini, sacchi a pelo e fornelletti per il campo base. Prodotti leggeri e performanti per l’escursionista moderno.
APPROACH & MULTIFUNCTION – Il mondo dell’avvicinamento o approach è uno di quelli più in fermento ed esistono sempre più scarpe versatili, valide anche per un avvicinamento non tecnico, ma nella realtà delle multifunzione. Ecco perché abbiamo diviso in due questa categoria inserendo i modelli più tecnici e quelli più poliedrici.
MOUNTAIN – Le scarpe per l’alpinismo, ma anche gli zaini da parete, in versione classic o fast & light. Dalle proposte più tradizionali o integrali da ghiaccio e cascata alle nuove calzature per una versione più veloce e spinta dell’alpinismo.
GPS DA POLSO – Come ogni anno ritorna puntuale anche la rassegna degli ultimi strumenti da polso per tracciare i nostri percorsi, ma soprattutto per monitorare le prestazioni, da Garmin a Suunto passando per Polar.
LAMPADE FRONTALI – Un’altra novità della Outdoor Guide 2019 è il test delle lampade frontali completamente rivisitato. Per mettere alla prova dieci modelli top non siamo andati solo sul campo ma anche in laboratorio in Germania, per rilevare durata e portata effettiva delle lampade. Ne sono usciti risultati molto interessanti…
I CONSIGLI DEGLI ESPERTI E DEGLI ATLETI – Non è una novità che la nostra casa editrice stia per mandare in stampa alcuni libri di atleti o esperti in materia e allora ecco che, di tanto in tanto, la Outdoor Guide propone i consigli di Emelie Forsberg sulla corsa in salita o come affrontare una cento miglia o quelli di Nicola Giovanelli su ultra trail e problemi gastro-intestinali.
Quello che volevamo chiedere a Jérémie Heitz
Nello skibus del comprensorio austriaco di Lech-Zurs l’atmosfera è rilassata. Sono i giorni in cui si tiene l’evento organizzato da Scott per la stampa specializzata. Vengono anticipate le novità che saranno presentate a Ispo 2018, secondo la tendenza dei maggiori brand di settore. Fuori sta nevicando, forte, molto forte… a tal punto che, con un certo rammarico, scopriremo poi che alcuni impianti rimarranno chiusi per ragioni di sicurezza. È inverno dopotutto e forse non ci siamo più davvero abituati, anche se ognuno di noi cerca di trascorrere sulla neve il maggiore tempo possibile. Seduto, in un posto centrale ma un po’ in disparte rispetto al gruppo, che non fa che cercare di capire quali siano i confini ormai indistinguibili della strada che stiamo percorrendo, un giovane. Casco e una maschera con lenti fog, che ottimizzano la visibilità in giorni come questo, ma che lasciano vedere gli occhi. Lo riconosco subito: è Jérémie Heitz. Avevamo parlato con gli organizzatori per capire se si poteva organizzare una chiacchierata con lui: sapevamo che c’era. Dopotutto ci piace parlare con sciatori veri, con gente che ha fatto dello sci la propria vita, così come abbiamo fatto con Pierre Tardivel e Gilles Sierro.
Ho preferito osservare, non dire niente, non presentarmi nemmeno. Un cenno di saluto come si fa normalmente tra gente che sta andando a sciare neve… quando fuori nevica. E questo fa una bella differenza. Jérémie ha riabbassato subito lo sguardo sullo smartphone che teneva tra le mani. Lo confesso, non ho potuto fare a meno di sbirciare il social che stava sfogliando, così come fanno le morose per sgamarvi mentre seguite qualche donzella random. Anche lui stava guardando delle curve: sì! Ma quelle che qualche suo compare aveva appena disegnato su un pendio intonso delle Alpi! È in quel preciso momento che quel ragazzo mi è entrato in simpatia: uno che scia tutti i giorni di tutta la stagione, cosa fa quando ha cinque minuti liberi? Guarda video e foto di sci. Un altro. Uno sciatore. Geremia, uno di noi!
Per lo meno a sud delle Alpi, il suo nome ha iniziato a circolare in concomitanza con i primi piazzamenti nel Freeride World Tour di un promettente sciatore svizzero, intorno al 2013. Passarono tre anni e nel 2016 ci fu un fulmine a ciel sereno! Esce La Liste, uno skimovie fuori dai canoni, dove tutto quello che era rimasto impresso nella nostra mente dopo la prima visione era una saetta che squarciava un muro bianco. Lo faceva a pezzi, letteralmente. Veloce, potente, precisa, fisica e nel contempo armonica. È sempre difficile descrivere una prima impressione, a volte non si riesce, ma ciò che si è provato in quella singola occasione orienta spesso indelebilmente tutto il modo che abbiamo di vedere poi le cose. In meno di cinquanta minuti tutte le certezze su come si sciavano le classiche big face alpine erano state prese a calci. Nessun modo sbruffone o arrogante, ma fatti. Quelle sciate erano su pareti, aperte, con tratti sostenuti a 50°, con esposizione, nessuna ripresa alaskan style ad aumentare pendenze. Tutti le riconoscevano quelle pareti, per alcune io stesso e numerosi conoscenti avevamo perso più di una notte, sognando le lamine su quelle nevi. Geremia ha sciato, come meglio non poteva, creando un riferimento di tecnica e stile, come ha detto qualcuno.
Sono passati più di tre anni, in cui si sono sentite polemiche, elogi numerosissimi, si sono messe in ordine le cose, si è sedimentato quel sentimento di sbigottimento e allucinazione che ha provocato nel 2016 La Liste… e credevamo che fosse giunto il tempo di sentire il diretto interessato!
Perdonaci la confidenza, Geremia è più rassicurante, ti rende più… umano! Anche perché oggi, quando ti abbiamo visto sciare finalmente dal vivo, c’era davvero poco di ordinario! La Liste ha fatto molto discutere, se ne sono sentite di tutti i colori, siamo qui per parlarne, per sapere un po’ di retroscena, per conoscere Geremia, quello che La Liste l’ha sciata!
(ride ndr) «Sì, è vero, son sempre stato uno sciatore… gare, poi freeride. Vivo in montagna, a Les Marecottes, posto che adoro e a cui sono molto affezionato. È stato facile per la montagna entrare a far parte di me, e poi mio padre è Guida alpina. Non scalo molto, anzi. Però lo sci è sempre stato di casa, anche e soprattutto quello di randonnée, i viaggi con lo sci, lo scialpinismo che mio padre praticava».
La Liste è stato presentato come un progetto in cui dovevi sciare nell’arco di due anni 15 cime delle Alpi di 4.000 metri, poi ha subito alcune modifiche. Innanzitutto, quali erano quelle del progetto originale?
«Più o meno quelle elencate nel film, non con un ordine preciso: Cervino, Les Droites, Aiguille Verte per il Couturier, il Couloir Gervasutti al Tacul, la nord-est della Lenzspitze, l’Obergabelhorn, il Marinelli, lo Zinalrothorn, Combin di Valsorey, il Lyskamm orientale, il colle tra Dom e Täschhorn nel Mischabel, Weisshorn, Hohberghorn, Stecknadelhorn e l’Aiguille de la Blaitière. Questo, a grandi linee, era il progetto iniziale che poi ha subito delle variazioni, soprattutto per le condizioni. Certe pareti, come il Cervino o il Dom, erano in condizioni due giorni prima e poi completamente vuotate dal vento. E così altre. Ho inserito nuove pareti come il Brunegghorn, che era proprio vicino al Weisshorn. È molto complicato trovare le giuste condizioni in parete e ciò ha influito sul progetto originario».
Nel film, in realtà, poi compaiono anche altre pareti, per esempio la nord-est dell’Aiguille dell’Amône e la Blaitière, dove hai sciato il Couloir Spencer, che non sono cime di 4.000 metri…
«È vero: abbiamo voluto inserire l’Amône per mostrare in modo evidente quale era il pendio-tipo con le condizioni-tipo, su cui volevo esprimere la mia idea di sci in parete. Anche se più in piccolo rispetto a un 4.000, quello è IL pendio su cui sciare in quel modo, con quella fluidità. In realtà l’ho sciata più di una volta in occasioni diverse, ci sono piccoli frammenti delle due volte nel video se ci fate attenzione. Ci sono anche le esigenze delle riprese ovviamente, ma soprattutto lo sci che volevo far vedere.
La Blaitière, invece, ho voluto inserirla perché era stata sciata 50 anni fa da uno dei personaggi che più mi ha ispirato, Sylvain Saudan. Fine anni ‘60, con quei materiali, senza le notizie di adesso sulle condizioni… Un pioniere, che aveva voluto mostrare che anche vie alpinistiche potevano essere sciate. Incredibile!».
Con chi hai deciso la tua lista?
«Molte persone mi hanno accompagnato in questa scelta, consigliandomi i pendii che vedevano più adatti allo sci che volevo esprimere. Da mio padre, che essendo Guida ha potuto darmi delle dritte, a Sam Anthamatten, fino a Luca Rolli. E poi ci ho messo del mio. Volevo trovare belle montagne, dove poter sciare nel modo più fluido possibile, in velocità. Pareti che potessero offrire bella neve. Che si prestassero a questo.
Come avrai capito uno dei miei riferimenti è proprio Sylvain Saudan… siamo perfino nati nello stesso ospedale e mio nonno sciava con lui!»
Quando parli della tua idea di sci che cosa intendi? Qual era il vostro obiettivo?
«Volevamo trovare le linee e le condizioni che ci permettessero di affrontare linee da tutti ritenute di steep skiing, secondo una ricerca di massima fluidità. I materiali evolvono ormai ogni anno e quindi anche gli sci che ti permettono di sciare a grande velocità terreni così ripidi. In questo progetto, in fondo, ho trovato anche un modo di migliorare il mio sci. Di evolvermi, spingendo forse più avanti il modo di sciare questi terreni».
Per affrontare queste pareti con questo tipo di sciata veloce e super fluida, in che modo le studiavi, come controllavi le condizioni?
«Fortunatamente avevamo a disposizione un piccolo aereo ultraleggero. Era fantastico: dopo le nevicate primaverili, nel giro di un paio d’ore riuscivo ad avere una panoramica completa delle condizioni».
E poi il giorno della discesa utilizzavi l’elicottero per raggiungere la cima o salivi by fair means?
«Solitamente io, con il compagno di turno, salivo dal basso. Le pareti le ho risalite quasi tutte per controllare le condizioni, per rendermi conto se c’era ghiaccio o altro. Vedi poi cosa è successo la prima volta al Combin proprio con il ghiaccio… Alcune volte, prima della ripresa, ero già sceso su quelle pareti, come per esempio all’Obergabelhorn, dove avevo provato altre due volte. Una mi sono dovuto fermare a metà parete per il ghiaccio, un’altra avevo sceso il lenzuolo a sinistra (Wellenkuppe), che è forse anche più ripido. Raramente siamo stati depositati in cima dall’elicottero: come per esempio sulla Lenzspitze. Sammy mi ha chiamato e mi ha detto con quelle condizioni dobbiamo andare domani, o forse mai più. Siamo scesi a un compromesso, lo so…».
Che condizioni cercavi?
«Il meglio è la poudre tassè, non troppo fonda ma morbida, regolare, ben attaccata alle pareti di ghiaccio».
Che materiali utilizzavi?
«Gli Scrapper 115 della Scott, un pro model che, rispetto a quello oggi di serie, aveva due fogli di fibra di vetro in più, per poter garantire ancora maggiore rigidezza ad alta velocità. Oggi scio con il nuovo modello di serie. Poi ho usato il sistema Cast, che mi permetteva di fissare attacchi da freeride fissi per la discesa, mentre in salita utilizzavo un puntale da skialp con sistema pin».
Geremia, dopo quasi due anni sei soddisfatto di questo tuo progetto? Ne hai pronti altri?
«Certamente! È stato il mio primo film project. Da quest’anno non parteciperò più alle competizioni di freeride e potrò dedicarmi a un progetto su tre anni con Sam Anthamatten: vogliamo sciare alcune pareti in Perù e su dei seimila himalayani, anche alcune linee nuove se si riuscirà. Sono terreni, quelli, dove ancora oggi possiamo essere pionieri, proprio come aveva fatto Saudan cinquanta anni fa, qui sulle Alpi. Dove c’è incertezza sulle condizioni e piacere della scoperta».
Alcuni, dopo La Liste, sostengono che in realtà non si sia trattato di evoluzione nell’ambito dello sci estremo, perché in fondo sono state sciate, seppur a grande velocità e con uno stile unico, linee classiche, non nuove o particolarmente tecniche. Come rispondi?
«È vero. Sono state sciate linee che, per quanto difficili, sono classiche. Niente di super tecnico, o di nuovo. Non era il nostro intento. Abbiamo scelto di proposito quel tipo di terreno, per fare un film di sci. E quando dico di sci, intendo un film comprensibile a tutti, indistintamente, anche ai non esperti delle linee super tecniche. La Liste vuole essere pure ski, puro sci nello stile più fluido possibile. Punto. Rispecchia la mia idea di questi sport e le pareti sono state scelte proprio per poterla esprimere. Non avrei potuto farlo su terreni ipertecnici o esplorativi».
Mi sembra di capire che non ti piaccia il termine sci estremo?
«Sinceramente non tanto. Che cos’è lo sci estremo, in fondo? Sammy fa sci estremo a modo suo, Vivian Bruchez anche, quelli che scendono a Kitzbühel fanno qualcosa di estremo, se ci pensiamo. Chi esplora nuove linee lo fa o semplicemente chi affronta qualcosa al suo limite sta facendo qualcosa di estremo per lui. Ci sono molti modi di farlo e forse non ha tanto senso definirlo così».
Ritieni però che questo modo di sciare si possa applicare solo su pareti aperte? Tardivel sostiene che secondo lui il vero estremo sta nelle competizioni, perché lì ci si avvicina davvero al limite. Ti senti di condividere questo pensiero?
«Forse ha ragione. Nelle competizioni spingi davvero al limite, cosa che non fai ragionevolmente in montagna su certe discese. Però, se ci pensiamo, una parete come quella del Bec de Rosses del Verbier Extreme non è forse un terreno tecnico dove si scia in velocità? Quindi chissà in futuro: un’evoluzione passerà certamente nello scendere con sempre maggior velocità e fluidità le pareti, comunque con dei limiti dettati da condizioni e terreno».
Geremia, dimmi solo un’ultima cosa: la cima che vorresti ancora aggiungere alla tua lista?
«In realtà c’era già. È il Cervino, il sogno sarebbe di farlo dalla punta. Si passa…forse!
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 116 DI SKIALPER, DISPONIBILE QUI.
BIG uP & Down, siamo tutti figli dello stesso dio
Scordatevi tutina e cronometro, la parola d’ordine è tranquille. «Ci vediamo domani alle 9, anche 9.30, tranquille; vuoi fare un’uscita tranquillefuoripista?». La vera performance è finire tutta la tartiflette che ti hanno messo nel piatto. Benvenuti alla BIG uP & Down. Siamo a Les Arcs, Savoia, patria di un po’ di tutto, dal KL al freeride, al turismo internazionale. Inizio febbraio. Hai un paio di pelli e un attacchino perché un po’ bisogna salire con le tue gambe? Sei dei nostri, ma non importa quanto pesi o quanto sia largo sotto il piede il tuo sci, oppure ancora se la tutina da gara non ce l’hai: tutti insieme appassionatamente. E se pelli e attacchino non ce l’hai, tranquille,te li danno loro. Loro sono il Community Touring Club, la comunità creata da Gino Decisier e Guillaume Desmurs che mette insieme Kilian Jornet e Cédric Pugin, Mathéo Jacquemoud ed Enak Gavaggio, Laetitia Roux e l’ex campionessa di skicross Meryll Boulangeat. Skialper e freerider: alla francese i freerando.
Tre gare che gare vere e proprie non sono, nel senso che l’importante è esserci, non vincere. Ed esserci, però, non vuol dire appartenere a una comunità chiusa, anzi. Lo spirito è completamente diverso, è quello di allargare i numeri dei freerando. Tre giorni dove nel village puoi provare gratuitamente tutto il materiale che vuoi, che tu sia già skialper, freerider e sciatore. Nessuna distinzione. Abbiamo visto ragazzi con la divisa dell’Equipe de France di sci mettere in un angolo un gigante da gara per provare un bel 100 sotto il piede, cercando di capire prima di tutto come funziona il pin dell’attacco; bambini partire in gruppo con una guida per iniziare la discese fuoripista e conoscere come funziona l’ARTVA per la Première Trace. E poi c’erano quelli pronti per una uscita in neve fresca in big mountain, anche una banda tutta al femminile, le Girls Only. Basta andare e divertirsi fuoripista. Nella massima sicurezza, senza la massima prestazione.
Intendiamoci, non immaginatevi chissà quali numeri o un village smisurato. Ma tutto di qualità. Per capirci: nello stand Salomon abbiamo trovato il nuovo attacco Shift che andrà in commercio a settembre 2018. Come rivista siamo riusciti a vederne in anteprima uno solo, a Les Arcs ce n’erano almeno una decina e siamo andati a provarlo più di un’ora in salita, in pista e fuoripista. E ancora: in quello della Black Crows c’erano almeno tre nuovissimi Solis da ripido, in arrivo direttamente dall’ISPO.
I momenti clou sono due: La Belle Montée e Big Nak. Il primo appuntamento non è nulla di più di un raduno, o meglio, di una salita al rifugio alla chiusura degli impianti. Saranno in trecento, salgono tutti senza fretta, anzi. Parata iniziale con i big e su. Ci sono anche io, a mio agio con i miei 108 sotto il piede, uno dei tanti. «C’est joli» mi dice Jean-Pierre che vede laggiù in fondo la sua Bourg-Saint-Maurice tutta illuminata. Perché è qui? Perché è bello, perché anche lui preferisce la discesa alla salita: e allora uno sci più largo, non troppo pesante, per non fare chissà quanti metri di dislivello, ma poi godere dopo. Lo spirito freerando francese è tutto qui. Ci passa Anna, va veloce: avrà di sicuro più gambe, ma anche solo un 90 sotto il piede. E ci supera anche Mathéo Jacquemoud: non fa più le gare, ha deciso di diventare subito allenatore, ma il suo passo è un’altra cosa. Tanto che al collo ha un bel megafono per sostenere chi incontra in salita. Ci chiama, ci dice: «visto il mio nuovo lavoro? Il clown…». Fa freddo, ma la salita scalda. Alla fine proprio banale non è, con quasi 500 metri di dislivello. Dopo il couloiriniziale in pista, si avanza su una bella strada forestale nei pini, poi la rampa finale, ma si vede già il rifugio. Mi prende anche Antoine, un ragazzino di 14 anni accompagnato da papà Gregory. Arriviamo insieme su: finalmente si mangia. Passano anche a chiederti se stai bene mentre ritiri le pelli: sì, sto bene, c’est joli… Per fortuna basta raclette e tartiflette, ma pizza e birra e qualche fetta di jambon de Savoie. «Siamo partiti con qualcosa di nuovo due anni fa - mi racconta Guillaume, che nello staff organizzativo si occupa di comunicazione - che unisse tutti i mondi del salire in montagna, senza distinzioni tra chi fa dislivello per la prestazione, chi per una gita, chi per godersi la discesa. C’è anche una prova vera il venerdì, a cronometro, proprio per coinvolgere tutti. Ogni anno siamo sempre di più, perché alla fine è un modo come un altro per stare insieme. E vedrai domani». Intanto scendo a valle: la pista, ma anche il fuoripista a fianco, è illuminato a giorno da dei palloni giganteschi. Della frontale puoi fare a meno.
La festa continua nella birreria di Arcs 1800, molto local direi. Ma cosa sarà mai ‘sta Big Nak? Se ci mette la mano Rancho… Qualche idea me l’ero fatta: in fondo nulla di più di un vecchio rally, quattro prove cronometrate, due in salita e due in discesa. Niente piste però, o magari porte da gigante. Tutto fuori. Pettorali di carta che svolazzano oppure sono nascosti dagli zaini: e va bene. Ma la partenza proprio no, non me l’aspettavo così: tutti schierati in linea, alle 10 il via, anzi no, alle 10.15 perché devono arrivare ancora un po’ di rider. Tre, due, uno, go. Nessuno dice nulla ai turisti in pista, neanche a quelli che stanno prendendo gli impianti. Così per arrivare alla partenza della prima prova speciale, quelli della Big Nak prendono d’assalto la seggiovia. Di corsa, una mandriaimbizzarrita… in una domenica di febbraio. «Solo qui possono fare una cosa del genere» mi viene da dire. La gara continua, finisce nel primo pomeriggio: chi vince si porta a casa una testa di cinghiale. Finta, state tranquilli.
Community Touring Club, c’est quoi?
Nella pagina della Community Touring Club (www.communitytouringclub.com) troverete la foto di Kilian Jornet con gli sci da gara insieme ad Enak Gavaggio con quelli da freeride. Una associazione, o meglio una comunità, che vuole mettere insieme tutti i modi dello ski de randonnée. E unire appassionati, aziende, stazioni… Con la BIG uP & Down tra gli eventi top che organizzano.
Questo articolo è stato pubblicato su Skialper 117, clicca qui per ordinarlo.
Cala Cimenti vuole sciare il Nanga Parbat
Carlalberto ‘Cala’ Cimenti partirà il 2 giugno per il Pakistan. Obiettivo: salire il Nanga Parbat e sciarlo da una via nuova. Saranno con lui in questa spedizione i russi Vitali Lazo e Anton Pugovkin, il cui progetto Death Zone Freeride prevede la salita di cinque ottomila senza ossigeno con discesa sugli sci. Il Nanga Parbat rientra fra gli obiettivi e per questo hanno chiesto a Cala di unirsi a loro in questa avventura. La Nanga Parbat Ski Expedition 2019, in preparazione sin dall’agosto dello scorso anno, ha come obiettivo quello di scalare la montagna in stile alpino, senza portatori di alta quota e senza l’ausilio dell’ossigeno, dalla parete Diamir (Nord-Ovest) seguendo la via che si presenterà più praticabile, per poi scendere con gli sci dalla vetta, se le condizioni di neve lo consentiranno, lungo una via mai scesa fino ad ora con gli sci. Se il meteo sarà favorevole, Cala Cimenti prevede un primo periodo di acclimatamento in giugno, per poi chiudere la spedizione entro la prima settimana di luglio.
«La sfida è certamente impegnativa, ma allo stesso tempo estremamente affascinante - commenta Cala Cimenti - È ormai quasi un anno che Vitali, Anton e io studiamo ogni angolo della montagna per poterla affrontare con la maggior consapevolezza possibile. Molto dipenderà anche dalle condizioni della neve e dal meteo. Per quanto ci riguarda, ci stiamo allenando al meglio per poter arrivare preparati a questo importante appuntamento. Certamente affrontando oggi il Nanga Parbat il pensiero non può non andare alle tristi vicende degli ultimi mesi, ma queste devono servire per prendere ancora più seriamente il progetto che abbiamo in mente e a non sottovalutare in alcun modo la montagna».
Alpinista sciatore quarantaquattrenne piemontese, dopo alcune esperienze d’alta quota in Tibet, Nepal, Ojos del Salado, Kilimanjaro, nel 2005 è arrivato in vetta al Cho-Oyu (8.201 m) e successivamente ha scalato in solitaria in una no-stop dal campo base alla vetta in 26 ore l’Ama Dablam (6.812 m) in Nepal. Nel 2011 è sceso con gli sci dal Manaslu (8.156 m) e da allora ha sempre cercato di sciare in discesa le vette raggiunte. Nel 2015 è stato il primo italiano della storia a ricevere l’onorificenza Snowleopard, riconoscimento che la Federazione alpinistica russa concede esclusivamente a chi scala tutte e cinque le cime oltre i 7.000 metri sul territorio dell’ex Unione Sovietica. Nel 2017 ha raggiunto gli oltre 8.167 metri di quota del Dhaulagiri ed è sceso con gli sci ai piedi. Nel 2018 è sceso con gli sci dalla vetta del Laila Peak (6.096 m), prima ripetizione assoluta della via. Cala, che sarà supportato da Garmin, Masters, Elan, Mammut e Cèbè nell’impresa, è da poco diventato ambassador degli attacchi ATK Race. «Ho sempre guardato ad ATK come un’azienda seria che dedica un’attenzione particolare ai propri prodotti» dice Cala - Già solo da un esame visivo si notano la scelta di materiali di alta qualità e la lavorazione eccellente che si abbina ad una particolare cura del dettaglio e alla ricerca del miglior compromesso tra leggerezza ed affidabilità. Sono entusiasta di iniziare questa nuova collaborazione e spero di apportare un valido contributo già a partire dalla mia prossima spedizione».
Il 2020 di Oberalp all’insegna di sostenibilità e novità
Contribute. Contribuire è la parola che simboleggia la filosofia aziendale del gruppo Oberalp in termini di responsabilità sociale e ambientale. E proprio l’ambiente e la sostenibilità sono stati al centro della Convention odierna per presentare le novità dell’estate 2020 dei marchi controllati dall’azienda bolzanina. Un appuntamento ormai tradizionale, ospitato ancora una volta dalla località di Alpbach, in Tirolo, in un centro congressi ricavato sotto il profilo della montagna e a impatto zero. Una giornata intera con 450 ospiti in arrivo da tutto il mondo (record di presenze) per parlare di tendenze del retail con MIchaela Merk, professoressa universitaria e consulente di marketing e per toccare con mano le novità di Dynafit, Salewa, Pomoca e Wild Country. Quattro marchi ognuno con il proprio posizionamento, ma partendo dal comune denominatore della montagna che rimane al centro della filosofia aziendale di tutti i brand del gruppo Oberalp. «Ispiriamo e incoraggiamo le persone grazie alla montagna, le ispiriamo e incoraggiamo ad andare in montagna e sarà sempre il nostro valore aggiunto» ha detto il ceo Christoph Engl sottolineando il claim aziendale. «Come azienda familiare, non ragioniamo in termini di trimestri, ma sul lungo periodo ed è proprio questa la chiave della nostra idea di sostenibilità» ha detto Ruth Oberrauch che è la responsabile CRS di Oberalp.
Dynafit, speed
Il marchio del leopardo delle nevi è quello che si identifica con la performance e più precisamente con la parola speed, velocità, con l’obiettivo di creare il sistema abbigliamento/attrezzatura per gli atleti mountain-endurance. E la velocità pervade tutta la collezione, che nel 2020 punta a rendere ancora più completa la gamma di scarpe per il trail running, con l’arrivo di Ultra 100, calzatura massimalista e ultra-cushioned per le lunghe e lunghissime distanze, che va ad affiancarsi e posizionarsi sopra ad Ultra Pro. In arrivo anche la nuova Feline SL, che rivisita la prima scarpa da trail del marchio di Leopardo in chiave moderna e va a posizionarsi tra la Feline Up Pro e la Alpine Pro. Proprio la Feline Up Pro e la gemella Feline Up sono i modelli da cui si è partiti per sviluppare la Sky Pro, scarpa con ghetta integrale in membrana impermeabile pensata per avventure fast & light su terreni di alta montagna e skyrunning alla vecchia maniera, sul Monte Bianco o il Monte Rosa. Un gioiellino da meno di 300 grammi. Nell’abbigliamento, da segnalare una capsule collection per la mountain bike e una giacca ultra-light che combina Gore-Tex Shakedry e Active nello stesso capo.
Salewa, pure
Il marchio dell’aquila è quello che trasmette l’eredità dei valori della montagna nella loro purezza. Anche in questo caso non sono poche le novità nell’ambito del footwear con la v2 della storica MTN Trainer che si rinnova – pur mantenendo un look simile alla vecchia versione – puntando su maggiore leggerezza e minore rigidità della struttura. MTN Trainer conserva però suola e mescola Vibram e la versione alta non ha subito modifiche, inoltre è stata creata anche una versione Light con suola Pomoca e finalità di utilizzo meno tecniche. L’highlight più interessante è Dropline GTX, scarpa da speed hiking oversize che ‘inventa’ un segmento massimalista nella camminata veloce. A giudicare dal successo delle scarpe da mountain training c’è da giurare che anche questo segmento avrà un seguito. Rivisitate inoltre le collezioni Apex Climb (disponibile nei litraggi 18 e 25, il primo indicato per speed mountaineering, il secondo per ice climbing e dry tooling) e Alptrek negli zaini.
Sempre più tecnologia Pomoca
In tutti i processi di sviluppo del footwear gioca un ruolo importante il marchio svizzero Pomoca che da un paio di anni è ritornato a produrre suole e mescole (ritornato perché il brand delle pelli alle origini commercializzava proprio suole) e che equipaggia buona parte dei nuovi prodotti del gruppo e che in futuro potrebbe essere utilizzato anche su brand esterni a Oberalp. La ‘formula’ Pomoca si basa sull’utilizzo di mescole butiliche e un design che evidenzia la linea di pressione del piede.
Topturfestivalen, rotta per il nulla
Le stagioni invernali non si sa mai quando farle finire. Se uno ha passione vera per lo sci, uno strascico di inverno da qualche parte lo trova sempre. Uno, se vuole, può andare avanti tranquillamente a sciare fino a metà dell’estate, fino a giugno o a luglio, ma è chiaro che quello che sta facendo, da un certo momento in poi, è tirare avanti. Trascinarsi, e le passioni non bisogna mai trascinarle. A giugno si è in quella terra di mezzo che è il passaggio di stagione, periodo bellissimo, per carità, si può sciare ma si può anche correre e pedalare, arrampicare, camminare, fare un sacco di altre cose divertenti e anche niente, si può mettersi in spiaggia con una bella rivista di sci sotto l’ombrellone e godersi l’estate aspettando un altro inverno ancora. È per queste ragioni, per il bisogno di farla finita, che quando sai di dover andare a sciare alle Svalbard a giugno capisci che quella che sta per succederti è una cosa diversa. È un bypass delle stagioni, una circonvallazione del tempo. Tra l’inverno (anzi, la primavera inoltrata) e l’estate si inserirà un altro inverno ancora, uno vero, una stagione breve laterale ortogonale al trascorrere ordinario dei mesi. Cielo blu o nebbia che non si vede un tubo, neve, pelli di foca umide, scarponi bagnaticci e puzzolenti, il clack degli attacchi che si chiudono, gambe sudate, orecchie gelate, firn o polvere, diagonali e dietro-front, quel sapore amarognolo della borraccia, aria fredda della cima, sudore ghiacciato giù per la schiena, il caldo confortante dei guanti asciutti prima di scendere, insomma inverno. Vero. Scialpinismo vero. Le Svalbard - tu lo sai, ci sei già stato due volte - sono un mondo a parte. Una deviazione magica della linea spazio-temporale.
L’occasione per andare a giugno alle Svalbard è un festival. Esatto, un festival, proprio come la Skieda o la Scufoneda, quegli eventi insomma dove ci si incontra e ci si ritrova tra amanti dello scialpinismo e del telemark e si sta insieme, si fanno delle belle gite e si scia, ciascuno al proprio ritmo. E si fa anche un po’ di festa, certo, quella senza distinzione di livello tecnico e di capacità, a fare festa siamo tutti bravi uguali, non serve neanche impegnarsi. Basta avere voglia di stare insieme. La caratteristica del Topturfestivalen (così si chiama l’evento, l’organizzazione è norvegese) è che questo festival è itinerante e mi spiego: nel caso non lo sapeste le Svalbard sono isole relativamente vicine al Polo Nord e a primavera il ghiaccio che le ricopre e che riempie i fiordi si scioglie. Questo significa che si può navigare intorno alla terraferma e al pack. Vi serve una barca, se fate un grosso festival vi serve una grossa barca, cioè una nave. I ragazzi che hanno ideato il Topturfestivalen, che si svolge in questa modalità dal 2016, ne hanno trovata una che si chiama Nordstjernen e che è una nave da crociera artica costruita nel 1956 e recentemente restaurata e hanno deciso di farla diventare il campo base itinerante del festival. Avete capito bene: il campo base del festival è la nave. E la nave, naviga. Per capirci: è come se andaste alla Skieda a Livigno e invece che dormire in albergo (ammesso che andiate mai a dormire, alla Skieda) dormite in una cabina. Invece che guardare fuori dalla finestra della camera da letto, guardate fuori da un oblò. Invece che vedere Livigno fuori dall’oblò e il Mottolino, vedete delle montagne senza nome e in buona parte dei casi mai salite o mai sciate prima. Magari vi capita di vedere anche delle balene di Baluga o delle orche.
Non è fantastico? Longyearbyen è lontana. È proprio su, su, a guardare la carta geografica la trovate molto oltre la Scandinavia. In volo da Tromsø servono altre due ore e mezza ma è tempo speso bene, fidatevi. Quando ci arrivate, a Longyearbyen, nel vostro orologio biologico sembra esserci qualcosa che non funziona, il sole a giugno è sempre molto alto nel cielo ed è sempre giorno. Pieno giorno. La luce non è tenue e slavata come ve la aspettavate, è forte e abbagliante, cristallina, riflessa ancora con forza dalla neve e dal ghiaccio che hanno appena iniziato a sciogliersi. La cittadina in effetti è polverosa e sporca, un po’ come una stazione di sci a chiusura impianti, ma in fondo a voi cosa ve ne importa, voi nel tempo di qualche ora sarete a bordo della nave. Andrete via. Alle Svalbard latente nei vostri sensi ci sarà sempre, almeno nei primi giorni, quella sensazione bizzarra di svarionamento che la mancanza di buio notturno e la carenza di melatonina insinuano nel sistema nervoso. È un po’ come se foste in bilico tra un paio di birre di troppo, l’iperattività promossa da svariate Red Bull bevute una dietro l’altra come un adolescente eccitato e quei colpi di sonno che vi colgono nei dopo pranzo a casa di parenti che visitate di rado mentre vi mostrano le diapositive dell’ultima vacanza al mare. Il tempo di uno spuntino in uno dei locali del paese (andateci piano con gli spuntini, la luce continua vi fa venire una fame atavica e continua) e poi via, verso il porto e verso la vostra barca. Chiamarla barca è profondamente inesatto. Riduttivo. Quella su cui state per salire è una nave, piccola, ma nave. La differenza tra una barca e una nave, anche se non siete dei marinai, dovrebbe esservi chiara. La lunghezza complessiva della nave è di 88 metri. La Nordstjernen è una barca da crociera artica ed è attrezzata per rompere il ghiaccio se necessario fino a uno spessore di trenta centimetri; per resistere all’eventuale impatto con pezzi di ghiaccio vagante ha uno spessore dell’acciaio a prua di circa quarantacinque centimetri, perlomeno questo è quello che mi hanno raccontato. E io ci credo. Quarantacinque centimetri sono uno spessore rassicurante, per me che non ho un grande rapporto con le navi, lo ammetto. Soffro il mal di mare anche sul traghetto Piombino-Portoferraio per via del mio sistema propriocettivo che (così mi hanno detto) è così sensibile che alla minima variazione di stabilità sotto i piedi, vado in sofferenza. E sto male. Non so se è vera la storiella della sensibilità che mi hanno raccontato, però io mi ci consolo. Comunque il Mar Glaciale Artico, guardandolo dalla banchina del porto, non mi sembra agitato.
Salgo a bordo con la mia sacca, i miei scarponi e i miei sci da telemark che deposito sul ponte della nave. Il personale di bordo è molto gentile e simpatico, sono quasi tutti ragazzi e ragazze filippine, tra loro c’è solo qualche lupo di mare vichingo. Gli altri partecipanti alla crociera, a parte il mio amico Keith che è inglese, sono tutti norvegesi. Un norvegese si riconosce da tre cose: perché è grande e grosso come e più di un olandese (sono molto più grandi di un italiano medio); perché è molto gentile e quasi sempre porta la barba (a parte le ragazze, parlo della barba); e poi perché parla norvegese. Quella cosa che nei Paesi scandinavi parlano tutti tranquillamente inglese, credetemi, non è mica vera. I norvegesi parlano norvegese ed eventualmente, se proprio devono e sono costretti, anche inglese. I briefing informativi sono in norvegese, le istruzioni di cabina e i menù sono in norvegese, le conversazioni al bar in norvegese. Voi dovete accontentarvi di cercare di capire cosa fanno gli altri e intercettare le espressioni del volto o i gesti. Nel caso non abbiate capito, siccome i norvegesi sono gentili, vi spiegano meglio in un inglese ben scandito e comprensibile. Una volta a bordo la vita è semplice: mangiare, bere, dormire, mangiare, farsi trasportare con il gommone sulla terra ferma, pellare, pellare, pellare, sciare, pellare, sciare, pellare, sciare, eccetera, tornare a bordo in gommone, bere, godere del panorama a poppa, fare la doccia (a bordo, in piccolo, ci sono tutti i comfort) mangiare, chiacchierare con gli altri croceristi, bere, bere, dormire. E ricominciare da capo. Il trasferimento sulla terra ferma per sciare è abbastanza semplice, una volta a terra la vostra gita di scialpinismo comincia, c’è quasi sempre un breve avvicinamento pianeggiante da fare, ottimo per il warm-up, e poi si sale. Si trova di tutto, dai pendii ampi e morbidi ai pendii più ripidi e impegnativi, mai estremi a meno che uno li vada intenzionalmente a cercare.
I dislivelli sono di 800 metri a risalita, se ne fanno quanti se ne vuole. Abbiamo navigato a sud delle isole, in una zona chiamata Hornsund Fijiord. È il classico paradiso per lo scialpinismo classico (scusate il gioco di parole) e le montagne sono bellissime. In salita ogni tanto vale la pena di fare una pausa e sollevare lo sguardo all’orizzonte, il paesaggio è surreale. Ci sono montagne dalle forme alpine, fatte di rocce, pendii ripidi, ghiacciai e perfino delle meringhe di ghiaccio lavorato dal vento e giù, in basso, c’è il blu del mare. Ci sono i fiordi ancora ingombri di ghiaccio, in lontananza. Il cielo è azzurro se siete fortunati (noi lo siamo stati, per tutto il viaggio non abbiamo visto una nuvola) ed è evidente che vi trovate in un luogo ai confini del mondo. Non c’è niente e nessuno per chilometri e chilometri. Beh, a parte gli orsi polari, certo. È per quello che uno di voi, quando andate a sciare, si porta appresso un fucile. La faccenda di andare a sciare con il fucile è un po’ destabilizzante all’inizio. Uno può reagire in due modi: o è veramente preoccupato e ossessionato dalla paura di venire attaccato e sbranato da un orso polare; oppure vede quella dell’incontro come una remota possibilitàdi cui non preoccuparsi minimamente, come se fosse qualcosa che fa parte del pacchetto vacanza. In realtà l’atteggiamento corretto sta a metà strada tra queste due posizioni. Il pericolo di incontrare un orso è concreto e reale, poi gli orsi sono interessati più alle foche di cui si cibano che agli esseri umani ma sono predatori e per questa ragione non bisogna mai sottovalutare i rischi di un incontro faccia a faccia. Il pericolo è più consistente in prossimità del mare, in quota ci si può davvero rilassare e godere dello spazio immenso, della solitudine e dei pendii.
La qualità dello sci è fantastica, a nord si può trovare neve polverosa (il nord, alle Svalbard, è comunque un’esposizione che subisce la trasformazione per via del sole di mezzanotte, il metamorfismo della neve è soltanto un po’ più lento) a sud, est e ovest si scia su ottimo firn e corn snow, che è quella condizione della neve ancora ricca d’aria ma in avanzato stato di trasformazione che è difficile trovare da noi sulle Alpi. Quando sei in cima a una montagna e cominci a scendere il panorama davanti a te è strepitoso. Capisci che stai per affrontare davvero una di quelle discese epiche che ricorderai per tutta la vita. Ecco perché a fine giornata, quando, dopo l’ultima discesa, arrivi in spiaggia e ti ritrovi una grigliata di carne, la musica, una tenda-sauna, birra che scorre a fiumi e gente che balla come all’après-ski del Tonale, capisci che lì, quella sera, si sta per consumare una festa indimenticabile. D'altronde poi per tornare a dormire non devi nemmeno guidare, non devi far altro che un cenno a uno dei gentilissimi conducenti di gommone di riportarti a bordo e poi, una volta in cabina, schiantare dal sonno al piano superiore del tuo letto a castello. È difficile spiegare a parole le ragioni valide per andare alle Svalbard a sciare, io ne ho messe a fuoco tre principali: uno, ogni volta che hai la possibilità di andare a sciare in un luogo della terra dove non c’è nessuno intorno per decine o centinaia di chilometri, bisogna sempre trovare il modo di farlo. L’esplorazione, l’andare a sciare in luoghi in cui non lo ha ancora mai fatto nessuno è una esperienza umana che vale sempre la pena. Due, mare e montagna, sci e navigazione, neve e acqua sono i due estremi che si toccano, non bisogna mai rinunciare alle esperienze estreme, quando per farle non c’è bisogno di mettersi in ginocchio. Tre, dieci curvoni a manetta sulla parete ovest dell’Hornsundtinden che finiscono in spiaggia e nel mare più blu che voi abbiate mai visto, valgono una stagione intera. O forse anche due o tre. O dieci.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 113 di Skialper, acquistabile qui
Clare Gallagher, dal corallo alla CCC
Se sei sulla strada giusta, le porte si aprono; se sei su quella sbagliata, puoi aspettare, ma non si apriranno. Parola di Clare Gallagher, Boulder, Colorado. Probabilmente non erano tutte sbagliate le strade che ha percorso per buona parte dei primi 26 anni della sua vita. E sono tante. A 18 anni si è trasferita a Est, all’università di Princeton, dove ha iniziato a occuparsi di difesa dei coralli e ha seguito un corso di etica ambientale con Peter Singer, australiano, uno dei filosofi più influenti del mondo. Poi ha vissuto un paio di anni in Thailandia, prima insegnando l’inglese nei villaggi più poveri, poi impiegata in un programma di sensibilizzazione sulla difesa della vita marina. Ed ecco la prima strada sbarrata: le mancano gli amici, il Colorado, le montagne. Non è necessario essere una martire ai tropici per fare qualcosa per l’ambiente. Le porte si chiudono, mentre si aprono quelle della corsa.
«Ho sempre corso a scuola, ma facevo atletica o strada e, mentre alla high school ero bravina, all’università non andavo» dice Clare. Poi corre per caso un trail di 50 chilometri nel nord della Thailandia ed è subito amore. «Eravamo nella foresta e c’erano serpenti ovunque, era così selvaggio, mi è piaciuto subito». Torna a casa, nel 2015 fa un paio di gare e l’anno dopo vince subito la Leadville Trail 100 Mile, da quasi sconosciuta. Roba che ci sono atlete che ci tentano una vita senza successo. Le porte si aprono. La ragazza corre, forte. Però vuole provare a fare il medico e continua gli studi. Bastano poche settimane per capire che non è la sua strada. Le porte si richiudono. Lascia tutto per vivere di corsa. I risultati non mancano, la CCC del 2017 vinta con il record della gara dice qualcosa? E la Endurance Challenge - California Trail 50 Miles al secondo posto nel 2017? Le porte si riaprono, compresequelle del team La Sportiva, dove Clare è arrivata proprio quest’anno. «Avevo già usato le Helios, erano le mieLaSpo preferite, valide anche per correre su terreni duri, poi quest’anno ho provato di tutto, soprattutto le Mutant e ora ho trovato le mie nuove LaSpo preferite, le Bushido II, simili alle uno, protettive, ma morbide». Le porte del professionismo si aprono. «Sì, vivo della corsa, più o meno, diciamo che la mia unica preoccupazione è mangiare» scherza.
C’è una cosa che accomuna Clare e La Sportiva, entrambe hanno costruito i loro successi a partire dagli insuccessi. La casa di Ziano di Fiemmesu questa dinamica ha impostato la sua festa per i 90anni. Una scelta coraggiosa, come quella di Clare di abbandonare gli studi: «Quel fallimento mi ha dato tanta benzina per correre forte.» Corre forte, eppure Clairenon si definisce proprio una runner, piuttosto un’attivistaambientale e una runner. «Metto davanti la parola attivista, penso che viviamo sulla terra e dobbiamo fare di tutto per lasciarla migliore di come l’abbiamo trovata, dobbiamo restituire quello che ci ha dato e ancora di più come americani». Basta seguire i suoi accountsocial per capire che Clare ha fatto delle scelte radicalie la difesa dell’ambiente è al primo posto nella sua vita. Non mangia carne «perché è la prima e più facile sceltase sei ambientalista convinta e vuoi minimizzare la tua impronta ambientale, però poi mi sono accorta chesto anche meglio e corro più veloce». A proposito d’impronta, Clare compensa anche le emissioni prodotte dai suoi spostamenti in aereo. È stata anche a San Francisco dove con POW (Protect our Winters, un’associazioneche cerca di sensibilizzare sul climate change e gli effetti sull’inverno e la neve) ha partecipato a una grande marcia per invitare gli americani a votare per candidati che s’impegnano a difendere l’ambiente alle elezioni del mid term. «Il principale problema delle nostre società è proprio questo, che la gente non vota più perché pensa che sia inutile, invece bisogna votare per le persone giuste». Votare per le persone giuste e parlare con chi ci sta vicino, sensibilizzarlo dopo avere spiegato i problemi.
Il sogno però è riuscire a creare un movimento ambientalista anche tra i runner. «Io, Luke top, top3Nelson, Anton Krupicka, Joe Grant, Stephanie Violett, Dakota Jones siamo tra i più attivi e stiamo cercando di avvicinare quanti più runner a POW, vediamo cosa succederà nei prossimi anni, se funzionerà, per ora non ha senso creare un’altra associazione e disperdere gli sforzi». Protect our winters… dunque in inverno scii? «È il primo sport che ho praticato, poi tre anni fa ho iniziato a fare gare di scialpinismo, giusto per allenarmi, ho partecipato anche alla Grand Traverse, ma fa freddo, molto freddo e io sono freddolosa, anche quando corro». Però è meglio proteggere i nostri inverni, vero Clare?
Questo articolo è uscito sul numero 120 di Skialper, se vuoi acquistarlo vai qui
Trail, mountain bike e boulder all'Outdoor Challenge di Donnas
A volte abbiamo dei tesori dietro casa e non ce ne rendiamo conto. Prendi Donnas, piccolo borgo all’inizio della Valle d’Aosta: è una vera e propria outdoor destination dal clima mite quasi tutto l’anno (coltivano anche gli ulivi…) dove praticare trail running, mountain bike o arrampicare su una delle tante falesie. È proprio così e possiamo metterci la mano sul fuoco perché qui abbiamo provato le scarpe da trail e da hiking per la nostra Outdoor Guide 2019. Se anche voi volete scoprire questo piccolo paradiso degli sport outdoor, l’occasione migliore è quella di venire al Donnas Outdoor Challenge, il prossimo 11 e 12 maggio. Saranno due giorni all’insegna dell’outdoor con il vecchio borgo trasformato in un centro test di scarpe, mountain bike e attrezzatura e le cantine trasformate in vere e proprie officine. Ma Donnas Outdoor Challenge è molto di più. L’11 e il 12 maggio ci sarà il Donnas Outdoor Boulder, contest che si svolgerà anche sull’arco romano che dà accesso al centro storico. Per chi preferisce gli sport di fatica, sabato 11 appuntamento con il Donnas Duathlon, abbinata trail (9 km) e mountain bike (13 km) riservata anche alle coppie, nella versione non competitiva. E poi tante attività per la famiglia, dal rally nature con i guardaparco del Parco Naturale del Mont Avic, alla slackline, passando per rafting, family trekking, corsi di yoga e clinic di mountain bike per i bambini. E dopo lo sport, una buona cena perché qui ci sono ristoranti gourmet in location di charme come quello dell’albergo Le Coeur du Pont e si coltivano vigneti che producono vini rossi interessanti. E anche per dormire c’è l’imbarazzo della scelta, dagli alberghi tradizionali ai graziosi bed&breakfast come Lou Rosè. Donnas è facilmente raggiungibile in autostrada, uscendo al casello di Pont-Saint-Martin della Torino-Aosta. Cosa aspetti a segnare la data in agenda? Ci saremo anche noi di Skialper, vi aspettiamo!
Bar Valeruz
Per quelli come me nati all’inizio degli anni Ottanta, il suo nome è sempre stato associato in maniera quasi naturale allo sci estremo. A dire il vero non riesco nemmeno a ricordare quando l’ho sentito per la prima volta, forse mai, quasi fosse stato inserito direttamente in quel particolare software che ci viene installato alla nascita. Tone Valeruz, naturale. Lo sciatore estremo. Valeruz, per tutti Tone. Il suo modo di sciare ha da sempre trasceso la ristretta cerchia dei praticanti di scialpinismo e del mondo dello sci libero. Tone è diventato, grazie alle sue imprese, alla spettacolarizzazione di alcune di esse, un personaggio trasversale. Conosciuto sia dalla massaia di Torino, che apostrofava le sue imprese urlate da qualche notiziario con un secco Oh basta là!!! È propi fol col li, sia dal mazinga pistaiolo tutto Moncler che,quando vedeva dalla seggiovia un versante particolarmente scosceso,lo mostrava al figliolo infagottato infarcendolo con un Da lì ero sceso una volta con Tone Valeruz, però oggi prendiamo la pista che ho vogliadi sciare più veloce…Per la massa, in Italia, lo sci estremo è sempre stato molto più associato a Tone rispetto ad altri nomi che come lui potevano vantare un curriculum confrontabile.
Contattare Tone sapevo che non sarebbe stato facile, nonostante i canali social oggi facciano sembrare questo aspetto immediato. Siamo dovuti passare attraverso telefonate, conoscenze comuni, ambasciatori, proprio come si faceva per le interviste fino a qualche anno fa. E sinceramente nonci è dispiaciuto, anzi, la cosa mi ha parecchio intrigato perché iniziava atrasparire il personaggio.Ma nessuna mancanza di disponibilità, ci mancherebbe! Tone è uno veroche preferisce le parole faccia a faccia. Genuino nel suo modo di sciare cosìcome nel modo di vivere. Padrone al cento per cento della sua vita.Dopo una telefonata, ci si è dati appuntamento davanti alla scuola sci diCanazei. Arriva anche Alice per le foto. È pomeriggio e il cielo sta diventandoscuro, fa freddo, ma Tone oggi teneva lezioni di sci. Il periodo dellevacanze è assai frenetico per chi lavora con i turisti in Dolomiti. Stiamofantasticando su come sarebbe averlo come maestro, poi vediamo un’ombrache ci si avvicina.Ci tende la mano, ci fissa con due occhi azzurrissimi: «Ciao! Sono Tone,leviamoci da qui, vi porto in un posto… nella mia tana! È anche l’ora dell’aperitivo,no?».
Ci siamo, si parte! Lo seguiamo in macchina scendendo la valle per alcuni chilometri, passiamo Campitello e poi parcheggiamo su uno spiazzo in curva vicino a un bar tutto rivestito in legno all’esterno. La finitura delle pareti all’interno non cambia. Il vociare che si leva dagli avventori (a una prima occhiata tutti professionisti del gioco delle carte) all’ingresso di Tone ci fa capire che siamo arrivati. La sua crew, la sua tana. Alcune foto sulle pareti, con gli amici di una vita e con il corpulento proprietario che prima si esserci seduti ci porta un paio di spritz e dello speck locale. Due parole per fiutarsi, un sorso, un clima sincero, cento per cento Tone!
Più che un’intervista ci piacerebbe fare una chiacchierata, libera, magari partendo da chi è Tone oggi, cosa fai?
«Tone oggi è pensionato, pertanto ci terrei a specificare che Tone non fa assolutamente niente!».
Ah! Decisamente categorico, però sei Maestro di sci e Guida alpina?
«Sì è vero, per lo sci ho sempre avuto una predisposizione. Oggi lavoro ogni tanto come Maestro. È sempre stata la mia unica occupazione. In realtà non ho mai aspirato a fare la Guida alpina. Se fai la Guida non è solo accompagnare qualcuno, un estraneo, ma porti il tuo cliente a vivere un’esperienza. È qualcosa di molto profondo, specie per lui. Poi ti devi far pagare e il denaro, a mio avviso, cambia totalmente il rapporto che si potrebbe instaurare. Il far parte di un’esperienza così particolare come l’andare in montagna può portare a un’amicizia, con i soldi di mezzo… non lo so».
So che hai anche altre passioni in montagna, una che mi incuriosisce molto è quella per i cristalli.
«È vero, è la mia passione più grande! Forse perché mi permette di avere un rapporto tutto particolare con la montagna. Mi offre l’occasione di viverla a 360 gradi. Ho iniziato ad avvicinarmi e appassionarmi alla geologia completamente da autodidatta. Ho incominciato a conoscere le rocce che possono contenere i cristalli. È una passione e come tale non ci vedo nulla di venale. Non mi è mai riuscito di guadagnarci qualcosa. Anche se dietro al mondo dei cercatori di cristalli e dei minerali si nasconde un giro d’affari difficile da immaginare. Pazzesco».
Tornando alla tua specialità più nota a tutti, ci piacerebbe capire se ti ritrovi ancora nel mondo dello sci di oggi dove - ormai è evidente - si tendono a far passare come eroiche anche prestazioni che non hanno certo titolo di esserlo.
«Guarda, per quanto mi riguarda tutti possono fare ciò che vogliono e possono vendere come estreme prestazioni che certo non lo sono. Sono fermamente convinto che poi la cosa importante per dare il giusto valore al tutto sia il livello culturale di chi giudica. Cioè da chi viene il giudizio. Il problema, se di problema vogliamo parlare, è che spesso oggi chi giudica una prestazione, il pubblico, spesso non è in grado di comprendere il vero valore di una discesa. Il problema non sta in chi vende una discesa che di epico non ha niente, ma sta nel livello di preparazione di chi osserva. Un occhio esperto sa sempre dare il vero valore alle cose».
A questo proposito, un po’ di tempo fa mi ricordo di una tua reazione ironica al video di una discesa ripida classica nelle Alpi Centrali sul Monte Pasquale che girava in rete come se fosse una discesa pazzesca. Entrambi sappiamo che si trattava di una prestazione sì ripida, ma assolutamente classica e percorsa con regolarità ogni anno, specie in primavera.
«Sì, esatto. Lì era proprio successo quello di cui parlavamo sopra. C’è stato un problema di giudizio. Uno che pratica quel tipo di sci ben sa che non era niente di particolare. L’errore stava in chi la giudicava una cosa estrema. È per questo che, se devo essere sincero, a me non me ne frega niente dei giudizi». Ride.
Domanda quasi classica che ci piace rivolgere a chi pratica o ha praticato: esiste ancora per te lo sci estremo?
«Secondo me oggi no, o per lo meno, in pochissimi sono in grado ancora di fare qualcosa che valga la pena considerare estremo. Scendere dalla cima del Cervino sarà ancora estremo. Come è stato estremo scendere il Lyskamm in meno di tre minuti negli anni in cui lo avevo fatto».
Oggi si può continuare a praticarlo, magari qui in Dolomiti?
«Penso che siano in pochi a poterlo veramente fare. E qui in Dolomiti rimangono un sacco di cose da fare».
Chi sono quelli che l’hanno praticato davvero? Vivevi una sorta di competizione nei loro confronti?
«Certamente Tardivel, Boivin, Vallençant, De Benedetti, Saudan, Holzer. Su nomi più recenti non mi sento di esprimermi. Competizione per quanto mi riguarda non ce n’era, nonostante si ragionasse come in ambito alpinistico».
L’aumento dei praticanti su terreni ripidi è certamente dovuto ai materiali. Adesso è più facile?
«Certo che è più facile! Però bisogna vedere dove ci sono sempre più praticanti. Se parliamo per esempio del canale Holzer qui sul Pordoi, sono d’accordo. Però sono tutti lì. Conta sempre l’atteggiamento di chi si avvicina a questo tipo di sci».
Occorre comunque allenarsi?
«Quando praticavo sci estremo mi allenavo facendo di tutto. Niente di specifico, ma ero in continuo movimento. Mi allenavo muovendomi! Passavo dalle salite solitarie di arrampicata come lo Spigolo Giallo, alle salite sull’Ortles e poi in Marmolada fatte di fila! Ero anche alpinista, anche se mi ritengo più uno sciatore». Caspita! A proposito di aneddoti, ci piacerebbe che ce ne raccontassi uno sullo sci. Alcune tue imprese hanno spesso suscitato scalpore. A volte anche polemiche per l’uso dell’elicottero. «È vero, a volte ho usato l’elicottero. L’ho sempre detto e mai nascosto. Non vedo il perché dovrei. Come quella volta sulla parete nord della Presanella. L’ho fatta quattro volte in un giorno la discesa: sono stato portato in cima e l’ho scesa per capire le condizioni e se c’era ghiaccio. Poi di nuovo in cima e me la sono scesa con un fascio di pali sulle spalle, piantando le porte per tutto il tracciato. Poi ho fatto il gigante. Quindi di nuovo in cima con l’eli per smontarmi da solo tutte le porte. Sì, ok l’eli, ma mi sono fatto un mazzo tanto!».
Le discese a cui tieni di più?
«Mah, ci devo pensare un attimo. Forse la parete Nord-Est del Civetta. Sciata tutta con sole due doppie in basso. E forse anche la Nord-Est del Sassolungo».
Invece qualche linea che ti senti di consigliare?
«Qui in valle, nei dintorni di Canazei, senza dubbio la Nord della Marmolada è sempre una bella sciata. Così come i canali del Pordoi. Altrimenti più lontano i versanti Nord-Ovest o Sud dell’Ortles».
Il tuo è spesso stato un approccio di rottura per certi versi. Pensiamo alla discesa del Cervino in frack o alla parete Nord-Est del Lyskamm in meno di tre minuti. Voleva esserci un messaggio dietro a tutto questo?
«Posso essere sincero? Perché volevo solo dimostrare che ho due palle così quando ho gli sci nei piedi! Dico la verità, scrivilo! (ride e cifissa con quegli occhi azzurri che non lasciano spazio a dubbi). Tutto quello che ho fatto l’ho fatto perché mi andava di farlo».
Dunque qual è la cosa più bella per te nella vita?
«Guarda, da tutto ciò che ho fatto ho guadagnato solo un’assoluta libertà personale. Non ho mai preso in seria considerazione il discorso sponsor proprio per questo. Avere degli sponsor significa prendersi degli impegni e personalmente lo ritengo folle in un’attività come questa. Ognuno deve solo saper valutare un paio di cose: come è stata fatta una discesa, lo stile. E poi la ragione per cui si è ingaggiato per farla: se per il puro gusto o per riceverne una notorietà. Dalla mia vita ho solo ricevuto la libertà di fare ciò che voglio, sempre. Per farvi capire: sono un tipo che già solo quando vado a cena spera di mangiare subito, così poi posso decidere io quando andare via. Ad esempio, ora è meglio andare, non ho più voglia di parlare!».
Tone, senza compromessi. Sempre!
Tone Valeruz, è nato ad Alba, frazione di Canazei, nel gennaio del 1951. Maestro di sci, Guida alpina, ha sempre mantenuto un posto speciale nell’olimpo dello sci ripido grazie alle sue discese e a un carattere vulcanico. Vivendo in Val di Fassa ha presto iniziato a sognare di scendere con gli sci tutte le pareti che gli stavano intorno, frantumando il vecchio preconcetto che le Dolomiti fossero poco adatte allo sci. A 19 anni inizia con la parete Nord della Marmolada. Diversi i suoi itinerari sulla Nord del Gran Vernel, sulla parete Nord-Est del Sassolungo, sulla Nord-Est del Civetta, per rimanere in Dolomiti. Tra gli anni Settanta e Ottanta porta a termine discese di assoluto pregio in tutto l’arco alpino, dalla Est del Cervino (spalla a 4.200 m sulla cresta Hörnli), al Gran Couloir della Brenva nel centro alla parete Est del Monte Bianco (tra le vie Mayor e Sentinella Rossa), dalla via Lauper sulla Nord-Est dell’Eiger, alla Nord-Ovest dell’Ortles, solo per citarne alcune. La sua attività negli anni Ottanta conta anche diverse discese in Sud America tra le quali la prima dell’Alpamayo (5.947 m) e la parete Sud del Cerro Don Bosco in Patagonia. Nell’ambito di una spedizione himalayana è riuscito anche a posare gli assi sul Makalu da quota 8.100 metri. Vive ancora in Val di Fassa, continua a fare il Maestro e a coltivare le suepassioni: ricerca di cristalli e, ovviamente… lo sci!
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 117 DI SKIALPER, SE SEI INTERESSATO AD ACQUISTARLO LO TROVI QUI
Courtney Dauwalter, la trail runner con il vizietto di battere gli uomini
She did it. Courtney Dauwalter, statunitense del Team Salomon, nel 2018 prima donna alla Western States, ha vinto lo scorso fine settimana la classifica femminile alla MIUT-Madeira Island Ultra Trail (115 km, 7.200 m D+) del circuito Ultra-Trail World Tour, piazzandosi al decimo posto assoluto. Per 17 minuti e 5 secondi (15h17’05’’ il suo tempo) non ha battuto il record di gara di Caroline Chaverot (anche se le due prestazioni non sono confrontabili in quanto il percorso 2019 era leggermente più lungo e con circa 300 metri di dislivello in più), ma si tratta di un’altra prestazione nella top ten assoluta per la trentaquattrenne che in ben undici gare della sua carriera è arrivata prima assoluta, davanti agli uomini. Veronica Balocco l’ha intervistata per noi. Un'intervista inedita, realizzata qualche mese fa, che pubblichiamo a seguire.
Quando la filosofia incontra gambe e muscoli, grandi cose possono succedere. In una donna, poi, ancora di più. Le scarpe che per cento miglia pestano veloci la terra, poi rallentano all’improvviso. Quando il traguardo è tagliato e la vittoria decisa. Le ore di gara che scorrono con un senso, ben oltre la banale e semplice voglia di arrivare prima. Courtney Dauwalter lo sa, che lei è così. Incapace di correre solo per competizione, assetata di profondità anche quando fa ciò che di più fisico esista al mondo. E poi brava. Dannatamente brava. Talmente oltre da stupire tutti: prima lo scorso giugno alla storica Western States 100 californiana, la gara mito dell’endurance, chiusa con le sue 100 miglia in 17 ore e 27 minuti, secondo tempo femminile di sempre, oltre un’ora prima della seconda classificata e solo venti secondi dietro all’undicesimo uomo. E poi, alla Run Rabbit Run 100 e alla Moab 240. Nella seconda delle due, una molotov lanciata oltre dieci ore prima del maschio più veloce.
Gare mitiche e massacranti, leggende del mondo della corsa di lunga distanza, andate ad arricchire l’infinito curriculum della figlia del Minnesota che, a 33 anni, è ormai considerata una delle top ultrarunner mondiali: oro in 28 classifiche femminili su 53 dal 2011, con il piacere di guardare dall’alto di un tempo migliore il vincitore maschile in ben 10 di queste gare.
Insomma, un fenomeno. Che oggi vince e stravince senza fare della fisicità e del fanatismo la sua religione. E affascinando il mondo intero con un approccio all’endurance tutto personale. Intimo. Estremamente femminile. Assetato di ricerca e risposte, ad esempio sui limiti del corpo umano. Sulle possibilità estreme dell’agonismo spinto ai più alti livelli. E soprattutto, sui riscontri mentali di uno sport capace di sollecitare le fibre oltre ogni capacità. Sui dubbi più umani e normali. Fino a che punto è consentito spingersi? Esiste un confine?
Courtney, è per dare risposta a queste domande che corri? Oppure per cosa?
Sono molto curiosa di capire ciò che il nostro corpo può fare. Ma ancora di più, cerco di comprendere ciò che possiamo mentalmente raggiungere. Quanto lontano possiamo correre? Quanto veloce possiamo andare? Quali barriere possiamo sconfiggere o attraversare? Non credo che abbiamo ancora scoperto tutto ciò di cui gli uomini sono capaci, e io ho intenzione di continuare ad investigatore sulla parte “corsa” di tutto questo. Continuerò a correre per trovare questi limiti del corpo e della mente umana.
Dove nasce il tuo amore per lo sport?
Sono stata competitiva tutta la vita. Quando ero piccola facevo un sacco di sport. Ho due fratelli e spesso mi ritrovavo a fare le loro stesse attività. Il calcio, ad esempio. Dopo il liceo mi sono trasferita in Colorado per frequentare l’Università di Denver, dove studiavo biologia e facevo parte della squadra di sci nordico. Ho iniziato a correre sin da giovane per tenermi in forma per il calcio, ma col tempo ho capito che gli allenamenti e le gare del cross-country e dello sci nordico avevano un fascino incredibile su di me.
E il salto all’ultratrail? Com’è successo?
Dopo il college è stato naturale cercare un modo per continuare ad allenarmi e gareggiare. Ho tentato un paio di maratone su strada e mi sono piaciute. Ma con mio stupore ho scoperto che c’erano gare ancora più lunghe: nel 2011 ho provato un trail da 50 chilometri e da allora il mondo ultrarunning mi ha rapita.
Ma da lì a capire che eri una vincente?
Nel 2016 ho corso la Run Rabbit Run 100 a Steamboat Spring, in Colorado. C’erano molte donne forti e nessuno si aspettava vincessi. Nemmeno io. Ma ho vinto. Quella gara mi ha aiutata a capire che potevo competere nell’ultratrail, se ci avessi lavorato su.
Un processo difficile?
È stato molto lungo arrivare a farmi un’idea precisa di questa disciplina. Ci ho messo del tempo per smettere di pensare ai chilometri e fare mie le gare più lunghe. È stato difficile catturare davvero questo sport. E non ho ancora finito di imparare.
Come ti alleni?
Il cuore del mio allenamento sono la coerenza e l’autodisciplina. Esco ogni giorno a correre. Questo mi aiuta a rafforzarmi fisicamente ma anche mentalmente. Una volta fuori, non so quale allenamento seguirò: lascio che il mio corpo mi guidi. Quarantacinque minuti o 4 ore... dipende da come mi sento là fuori.
Che rapporto hai con il cibo?
Non seguo diete specifiche. Mangio quel che mi va e lascio che il mio corpo mi dica ciò di cui ha bisogno. Può andare da insalata e hamburger a valanghe di nachos e caramelle. Non faccio molta attenzione al concetto di ‘junky food’: a volte mi strafogherei di carne e uova, a volte non posso smettere di pensare al gelato. Qualunque cosa sia, penso che in quel momento il mio corpo ne abbia bisogno. E seguo i miei desideri.
In molte gare hai superato gli uomini più forti. È solo una leggenda che le donne siano il sesso debole?
Più le gare diventano lunghe, più uomini e donne si trovano a competere su un terreno paritario. Conosco donne molto forti che danno filo da torcere a tanti uomini nelle gare più lunghe. Io competo con chiunque allo stesso modo: credo che per le donne sia concretamente possibile reggere il confronto.
Eppure le differenze fra i due sessi sono innegabili. L’approccio alle gare è diverso, da un punto di vista mentale?
Penso di sì. Ci sono studi specifici su questo e trovo sia un campo molto affascinante. Dal mio punto di vista, il lato mentale dell’ultrarunning è un fattore determinante per essere vincenti.
Come ti confronti con la fatica?
Cerco di ignorarla. È fondamentale assumere questo atteggiamento.
Dunque a cosa pensi mentre corri?
A tante cose. La mia famiglia, i miei amici. Le grandi domande della vita. Penso a quanto sia fortunata ad essere lì a correre un trail, in un posto bellissimo, facendo ciò che amo. Penso alla birra che berrò al traguardo. O a volte non penso affatto. E lascio che tutto sia silenzioso.
Il momento cruciale in una gara?
Ognuna ha il suo. Alla Western State, ad esempio, il momento nevralgico è stato il miglio 25. Non mi sentivo così forte e il mio corpo non rispondeva al meglio. Il segreto è stato restare positiva: ho pensato che la gara era ancora lunga e potevano cambiare ancora molte cose. E in effetti così è stato.
Resta il fatto che affrontare certe distanze è una sfida continua, dall’inizio alla fine.
Bisogna affrontare un momento per volta. Non guardo mai il quadro completo, ma lo suddivido sempre in pezzi più piccoli.
Il tuo futuro sportivo. Come lo vedi?
Spero di continuare a far parte di questo mondo ancora per lungo tempo. Continuerò a spingere oltre i miei limiti e a giocare duro finché posso. E quando tutto questo finirà, troverò un modo diverso per farmi coinvolgere. Amo la comunità dell’ultratrail e non voglio abbandonare questa grande famiglia. Per ora, comunque, continuo ad affrontare nuove sfide, sperando di migliorare sempre più le mie capacità. Poi si vedrà.
Un Mezzalama senza 4000, ma con 4000 metri di dislivello nelle gambe
Un Mezzalama senza 4000, ma un Mezzalama tosto, difficile, impegnativo, con 4000 metri di dislivello. Adriano Favre ha fatto scattare il piano C, viste le condizioni meteo - freddo, nebbia, nevischio, ma soprattutto tanto vento - così, dopo il Castore salta anche il Naso del Lyskamm (e la Roccia della Scoperta): dal Quintino Sella non si sale, ma si scende sino alla sorgenti del Lys, una bella discesa in canale, ma dopo bisogna risalire sino al Colle della Salsa e i metri di dislivello sono comunque quasi 800. Insomma più sciabile, ma con tanta salite nelle gambe. Per fortuna arriva il sole sul traguardo di Gressoney.
GARA MASCHILE - I favoriti erano loro, la squadra del CS Esercito: hanno vinto ma è stata bagarre vera. Le prime tre squadre in 3’51”. Michele Boscacci, Robert Antonioli e Matteo Eydallin hanno dovuto dare il massimo, hanno forzato sull'ultima salita, per battere Werner Marti, Martin Anthamatten e un William Boffelli in gran palla. Nella discesa gli alpini sono rimasti in cordata, gli altri hanno avuto la possibilità di farlo in ‘libertà’. Ma aldilà di qualche ‘incomprensione’ (aggiungiamo legittima visto difficoltà vere per gli organizzatori) gli ‘alpini’ ne avevano di più. Quinto Mezzalama per Eyda, ciliegina sulla torta per la stagione perfetta di Robert dopo Mondiali e Coppa del Mondo, ennesima conferma della classe di Miky.
E alle spalle delle prime due squadre sempre in agguato Kilian Jornet che va forte anche da papà, questa volta con gli austriaci Jakob Herrmann e Armin Hoefl.
I quarti, Xavier Gachet, Samuel Equy e William Bon Mardion, sono arrivati a quasi 23’, poi quinti Henri Aymonod, Alex Oberbacher e Pietro Lanfranchi, sesti Alex Salvadori, François Cazzanelli e Stefano Stradelli, settimi Filippo Beccari con i norvegesi Lars Erik Skjervheim, Hans-inge Klette, ottavi Mirco Pervangher, Cristian Minoggio e Luca Morelli, noni Bastien Fleury, Julien Michelon e Florian Sautel, decimi Henri Grosjacques, Stefano Castagneri e Nadir Giovanetto.
GARA FEMMINILE - E undicesime assolute Alba De Silvestro con le francesi Axelle Mollaret e Lorna Bonnel. Piazza d’onore per Giulia Murada, Ilaria Veronese e Mara Martini che hanno vinto la sfida con Elena Nicolini, Bianca Balzarini e Corinna Ghirardi.
Cambia il Mezzalama: non si sale al Castore
Hanno fatto i salti mortali, ma alla fine gli organizzatori del Trofeo Mezzalama hanno dovuto fare i conti con condizioni climatiche a dir poco difficili. «E domenica il meteo dice sicuramente freddo, vestitevi». Adriano Favre parla alle trecento squadre del Mezzalama. Tutti in silenzio ad ascoltare qual è il piano B: non c’è il Castore, troppo pericoloso salire lassù dopo il vento che ha soffiato in questi giorni. Così non si sale, ma si scende, tanto. Dal Colle di Verra sino al Rifugio Mezzalama e poi ancora più giù ai Piani di Verra. Da 3800 metri di quota a 2400, in discesa. Ma poi si sale e sono 1200 metri di dislivello sino al Quintino Sella. Insomma, togliendo i 400 metri di salita al Castore, sono 800 metri in più nelle gambe. Prima e dopo percorso confermato: partenza a piedi da Cervinia alle 5.30, Colle del Teodulo, Breithorn dove c'è il primo cancello orario delle tre ore. Nel finale Naso del Lyskamm e al momento confermato anche il passaggio al ‘nuovo’ 4000, quello della Roccia della Scoperta, prima della discesa su Gressoney.