Hélias Milleroux: «mi piace stare in montagna»

Le vere avventure dovrebbero avere una parte riservata alle incognite e all’improvvisazione. È quello che cerca Hélias Millerioux, lo si legge nei suoi occhi. Guida, alpinista, sciatore, soli 32 anni e un curriculum top con ottomila, ascensioni di alto livello in giro per il mondo, discese estreme, spedizioni e viaggi nei quattro continenti per esplorare i luoghi più verticali del pianeta. Insieme a Frédéric Degoulet e Benjamin Guigonnet, Hélias Millerioux nel 2018 è stato insignito dl Piolet d'Or in seguito alla loro nuova linea sulla parete Sud del Nuptse: 2.200 metri di ghiaccio e roccia, terreno tecnico a oltre 7.000 metri. Nell’ultimo inverno, dopo avere partecipato l’anno precedente alle riprese del film Zabardast, eccolo sul Mount Logan, nello Yukon. Andrea Bomida l’ha intervistato per noi sulle nevi del Monte Bianco, ecco una piccola anticipazione. L’articolo completo è sul numero 126 di Skialper di ottobre-novembre.

A proposito di sci, il Mount Logan di quest’anno?

«L’idea del Mount Logan, 5.959 metri, in Yukon, mi frullava in testa fin da prima: volevo un’avventura. È la montagna più alta del Canada, la seconda in Nord America dopo il Denali, ed è molto vicina al confine con l’Alaska. Nel corso di un’altra spedizione avevo visto quel fiume di ghiaccio: volevo risalirlo, scalare, sciare. Qualcosa di divertente e allo stesso tempo avventuroso. Per il Logan avevamo una mappa, un punto di inizio e uno di fine: il resto spettava a noi! Alla partenza eravamo io, Thomas Delfino, Alexandre Marchesseau e Grégory Douillard, una guida fluviale, visto che volevano tornare scendendo il fiume sul lato opposto della montagna fino al mare e su una canoa fino ad allora avevo passato solo un pomeriggio in vita mia. Abbiamo deciso di partire dal Malaspina Glacier dopo essere atterrati a Yukutat. Piccolo aneddoto: il secondo giorno uno sciamano locale è venuto per scacciare gli spiriti cattivi che aleggiavano su di noi: pare che il giorno prima ci fosse stata una curiosa coincidenza tra il canto di un uccello e l’abbaiare di un cane, segno di grande sventura, o almeno qualcosa del genere. È un ghiacciaio enorme, guarda questo punto sulla cartina, sembra stretto: beh, saranno dieci chilometri!. Siamo partiti con una slitta e zaini da 35 chili per ciascuno con l’idea di stare fuori più di un mese e mezzo. Avevamo programmato otto giorni fino al campo base, ma ne abbiamo impiegati il doppio. Siamo arrivati in un punto dove il ghiacciaio, largo quasi 15 chilometri, era insuperabile, un dedalo di crepacci che con le nostre slitte trainate a sci ci avrebbe richiesto troppo tempo e altrettanti rischi. Siamo riusciti a superarlo risalendo delle montagne sui suoi fianchi: sulla mappa erano definite hill, colline. Ma ci sono voluti due giorni. Abbiamo deciso di salire e provare a sciare la Cresta Est del Mount Logan: ci abbiamo impiegato dieci giorni ed essere lenti ma continuare a salire anche con tempo non ottimale è stata una delle chiavi del successo. L’altra è stata la decisione di costruire sempre delle grotte nella neve per i bivacchi. In cave fa più caldo, non c’è il pericolo che il vento te la rovini e sei protetto dai pericoli: è stato vincente e, una volta rodati, ci impiegavamo solo un paio d’ore a costruirla con delle buone pale in alluminio! Una volta in cima, siamo scesi per l’itinerario di salita. Una cresta prima immensa e poi un filo che s’insinua in una parete di seracchi. L’ho percorsa tutta in sci a eccezione di due sezioni troppo affilate, per un totale di trecento metri lineari».


La scatola magica

«Fiona, si chiama. Volevamo darle il nome di una donna grande. Fiona è una Ford F250 4x4 del 1996 con in groppa uno slide in camper degli anni Ottanta. Abbiamo percorso più di 20.000 chilometri attraversando la foresta boreale e le montagne di British Columbia, Alberta e Alaska. In inverno. Fiona è stata la nostra casa per otto mesi. Io ed Hector ci eravamo appena innamorati. Non avevamo vissuto da nessun’altra parte insieme, eravamo quasi due sconosciuti. Lui era in Cile e io in Italia. Devo andare in Canada. Vengo con te!. Se dopo otto mesi in un camper saremmo ancora andati d’accordo, ci saremmo pure potuti sposare un giorno». Comincia così il racconto di Elena Adorni degli otto mesi passati tra le Montagne Rocciose. Da Revelstoke e dal mitico Rogers Pass, da Golden fino a Valdez, meta finale di un pellegrinaggio alla scoperta dello sci di montagna. Un viaggio nella natura selvaggia, un viaggio esteriore e interiore nel paradiso del backountry fatto di incontri, powder e panorami unico. Il reportage di 11 pagine è sul numero 126 di Skialper di ottobre-novembre.


Benedikt Böhm: salita e discesa dal Dhaulagiri VII in meno di otto ore

Benedikt Böhm, general manager Dynafit, il 15 ottobre ha raggiunto il Dhaulagiri VII (Nepal) fissando un nuovo record: partito dal campo base (a 4.903 metri) ha raggiunto la cima a 7.246 metri impiegando solo 6 ore e 6 minuti. Una volta raggiunta la vetta, è poi sceso con gli sci ai piedi ed è tornato al campo base dopo un totale di 7 ore e 53 minuti. Padre di tre figli, ha dedicato questa sua salita in stile speed a una buona causa. Prima di volare verso il Nepal ha infatti lanciato l’iniziativa United for Himalayan Kids. Dynafit ha creato una fascia dedicata all’iniziativa, venduta durante la spedizione al prezzo di 10 € nell’online shop. La vendita della fascia ha fruttato finora 7.530 euro.  Il ricavato sarà utilizzato per un progetto scolastico in Nepal in collaborazione con l’associazione Nepal-Medical-Careflight.

Il Dhaulagiri VII, chiamato anche Putha Hiunchuli, è la cima ovest della catena Dhaulagiri Himal, situata nel nord-ovest del Nepal. Partendo da Dunai, ultimo luogo di civilizzazione, Böhm e la sua squadra si sono messi in marcia per una camminata di cinque giorni verso il campo base. Trascorsa una notte nel ‘campo base tedesco’ (a 4.500 metri) il gruppo ha raggiunto, dopo nove giorni in tutto, quello posto a 4.903 metri. Dopo qualche giorno di acclimatamento, alle 4.17 della mattina del 15 ottobre Benedikt Böhm ha iniziato la salita con gli sci verso la vetta, dal lato nord. Partito dal campo base, a 4.903 metri, dopo 6 ore e 6 minuti ha raggiunto la sua destinazione a 7.246 metri, per poi tornare nuovamente con gli sci al campo base. Il quarantaduenne ha percorso 20,06 chilometri (con un dislivello di 2.469 metri) in 7 ore e 53 minuti, mantenendosi al di sotto dell’obiettivo prefissato di otto ore.

«Il Dhaulagiri VII, con il suo immenso versante innevato, è una montagna fantastica per lo scialpinismo - racconta Böhm -. Le condizioni della neve hanno però rappresentato una sfida: da quella crostosa a quella, in alcuni passaggi, ghiacciata.  Le temperature erano freddissime e ciò ha contribuito, insieme all’altitudine, a farci trascorrere notti inquiete prima della partenza per la vetta. Sono molto felice di avercela fatta in meno di otto ore, ma questa salita in stile speed mi ha portato ai miei limiti fisici. La testa è sempre ciò che di più conta, e la consapevolezza di portare avanti una spedizione per una buona causa dà sempre un’ulteriore motivazione. Un sentito ringraziamento a chi ha sostenuto l’iniziativa United for Himalayan Kids, dando quindi l’accesso ai bambini a un’istruzione valida». Tramite la vendita della fascia in edizione limitata sono stati finora raccolti 7.530 euro e l’iniziativa proseguirà fino al 21 ottobre. Il ricavato della vendita sarà devoluto al 100% a un progetto scolastico di iniziativa privata in Dandaphaya (in Humla), una delle regioni più povere del Nepal. Qui l’associazione Nepal-Medical-Careflight, con sede a Pfronten im Allgäu (Germania), ha costruito una scuola e la gestisce con grande impegno e passione. La scuola elementare e media è frequentata oggi da oltre 200 bambini, e il centro annesso con infermeria per mamme e bambini offre alle famiglie bisognose l’accesso alle cure più urgenti. Un’altra scuola è in costruzione e sarà presto pronta. Il 24 ottobre, ad Allgäu, Benedikt Böhm consegnerà personalmente l’assegno con la donazione all’associazione.

Maggiori informazioni su questa iniziativa benefica sul sito: https://www.dynafit.com/expedition-dhaulagiri-7


Avventure kirghize

«Mi capita spesso di sorvolare il planisfero con l’occhio satellitare di Google. Durante queste perlustrazioni mi spingo avanti il più possibile, ma l‘immagine zoomata dall’occhio virtuale presto diventa sfocata. Oltre può proseguire solo l’immaginazione, addentrandosi tra le pieghe della terra, fantasticando su posti remoti e misteriosi. Lascio alla fantasia il compito di appagare la curiosità e ricercare tutti gli stimoli che la tecnologia non può raggiungere, stimoli che solo viaggiando fisicamente si possono percepire e che danno la possibilità di arricchirsi di sensazioni ed emozioni nuove. Il viaggio per me è ispirazione e libertà totale di muoversi, lasciando che sia la natura con cui si entra in armonia a determinare la rotta da seguire». Inizia così l'articolo di Pietro Mercuriali sul numero 126 di Skialper di ottobre-novembre. E quella natura con cui si entra in armonia ha determinato che la rotta doveva essere diretta verso il Kirghizistan, più precisamente valle del fiume Burkhan, nel Tien Shan. Così, insieme al padre che non aveva mai messo piede fuori dall'Europa ed era poco avvezzo alle notti in tenda, Pietro ha salito e sciato vette di quattromila metri inviolate, dormito in centri termali abbandonati e condiviso il silenzio e la solitudine con i pastori kirghizi e gli yak. Tra le vette raggiunte l'Angera Too, il Choku Giorgio, il Choku Bona, il Choku Max e il Lambda Peak, tutti oltre i 4.000 metri. Un'avventura da non perdere, proprio bello spirito... torno subito.


Desert love affair

«Quando chiudo gli occhi e lascio divagare la mente, mi ritrovo sulla vetta di una montagna innevata e illuminata dai raggi del sole, con il riverbero del sole e una leggera brezza che penetra nel casco e fa vibrare ogni capello. Essere su una vetta mi trasmette una sensazione di familiarità, ma anche di passione e avventura. Ma ora, con gli occhi chiusi e il vento che fa svolazzare i capelli, sento come un prurito sulla pelle. Attraversa la faccia e arriva ai denti. Sabbia. Sabbia negli scarponi, sotto gli sci e nella pelle. Questa volta, sulla vetta di una grande duna del Sahara, con una linea vergine da sciare sotto di me, mi ritrovo immerso in un corteggiamento con il deserto».  A scrivere è Donny O’Neill che sul numero 126 di Skialper di ottobre-novembre racconta dell’avventura vissuta insieme a Tof Henry e Chad Sayers sulle dune di Merzouga, in Marocco. Si tratta di pinnacoli che raggiungono i 350 metri, con pendenze anche sostenute, solo cinque chilometri di larghezza, ma ben 50 da Nord a Sud. Un’escursione diversa, con i cammelli al posto delle seggiovie e le pelli lasciate nello zaino perché la sabbia è molto abrasiva e garantisce il giusto grip in salita. Il problema, semmai, è trovare il ritmo in discesa, cercando uno strato di sabbia che non si rompa. Ma, a giudicare dalle foto di Daniel Rönnbäck, Tof e Chad devono esserci riusciti…

© Daniel Rönnbäck
© Daniel Rönnbäck

Problem yok, alla scoperta delle valli della Turchia

Problem yok, non c’è problema. È stata questa la frase più ricorrente durante il lento viaggio di Elena Gogna e Achille Mauri nelle selvagge valli della Turchia. Un viaggio che in realtà era iniziato proprio con un problema, quello della quinta marcia del loro vecchio Westfalia rotta e la velocità massima raggiungibile di 80 chilometri/ora. Un problema che si è trasformato in opportunità, quella di perdersi senza fretta in un mondo fatto di incredibili bellezze naturali e altrettanto incredibile ospitalità. Tra una pellata e l’altra, hanno sfruttato molto poco la possibilità di dormire nel van perché a turno Ahmed o Emre li hanno accolti nello loro case insieme alle numerose famiglie. Sono stati a Petran, la patria dello snowboard turco, ma anche ai piedi del Kirklar Daği, 3.550 m, e del Kaçkar Daği, 3.937 m, nel minuscolo villaggio di Yaylalar. Ah, dimenticavamo, l’idea era di partire da Istanbul e andare a sciare in Georgia, ma in Georgia, a Tblisi, sono arrivati giusto in tempo per salire sull’aereo che li avrebbe riportati a casa. Se volete leggere questo avvincente reportage di viaggio così vicino geograficamente a noi, ma così lontano per tutto il resto, non vi resta che leggere (e guardare le meravigliose foto) che pubblichiamo sul numero 126 di Skialper di ottobre-novembre.

© Achille Mauri
© Achille Mauri
© Achille Mauri

Kilian rinuncia all’Everest

Dopo un lungo silenzio, Kilian Jornet annuncia l’abbandono del tentativo di salita in velocità all’Everest. Il catalano era l’unico ad essere passato oltre la Icefall, minacciata da un grande seracco, mentre il polacco Bargiel e le altre spedizioni presenti nell’area avevano rinunciato, ritenendo troppo rischioso il passaggio. Probabilmente nella scelta di Kilian ha giocato anche lo stile veloce rispetto a quello delle altre spedizioni. Kilian è arrivato a quota 8.300 metri lungo una variante della Via dei Polacchi del 1980. Il suo campo base, come ha fatto quando è salito in vetta dal versante cinese, era situato in un villaggio, a Gorak Shep, e ha potuto organizzare una spedizione molto leggera. Rimane ancora la discrezione su quelli che erano i reali obiettivi di Kilian che, secondo alcuni organi d’informazione, aveva il permesso per salire sia Everest che Lhotse. «Il meteo è stato molto bizzarro, con tanta neve e precipitazioni. Avevo alcuni progetti alpinistici, in funzione delle condizioni e della velocità, ma nessuno è stato possibile per diversi motivi, però ho apprezzato molto queste montagne (…). Anche se non c’è stata la vetta, l’esperienza di una spedizione molto leggera, di essere solo sulle montagne e provare alcune possibilità intriganti è stata molto interessante e carica di energie» ha detto il catalano che è stato seguito in Himalaya dalla compagna Emelie Forsberg e dalla figlioletta Maj, sette mesi.


In arrivo Skialper 126 di ottobre-novembre

Torno subito. Che equivale a dire (anche se non è più politically correct) esco a prendere le sigarette. E torno chissà quando. È questo il tema del numero 126 di Skialper di ottobre-novembre, in distribuzione nelle edicole a partire dall’8 ottobre. Viaggi, esplorazioni, concatenamenti, spostamenti in velocità dal mare alla montagna e ritorno, ma sempre con quel briciolo di creatività (e non necessariamente con l’assillo del record) da renderli unici. Un numero nel quale il concetto di tempo gioca un ruolo importane. Come scrive Davide Marta nel contro-edito a proposito di un curioso negozio di La Grave, in Francia: «Desolé, trop de neige. Ouvert vers 16h00. Merci. Troppa neve, apro verso le quattro. Verso le quattro, un’approssimazione che dà il senso al tempo e alla vita. È un po’ come dire, non state lì a tamburellare sulla porta alle quattro in punto, più o meno a quell’ora arrivo, magari anche un po’ prima, ma senza impegno. Ecco, in questo numero che raccoglie storie di viaggi programmati e improvvisati, di avventure sognate una vita e poi portate a compimento, credo che il primo messaggio sia quello di prendersi cura del proprio tempo, delle proprie passioni, delle persone a cui si vuole bene. Ci sono oggetti che ci servono, che vogliamo, che riteniamo indispensabili, tra questi un paio di sci, degli attacchi, una giacca, ognuno ha i suoi. Ma c’è anche una corsa al troppo, al sempre di più, che probabilmente ci ha portati fuori strada, ad avere le notifiche sul telefono che scandiscono inevitabilmente il nostro calendario. Che ci impediscono di dire, come fa Bruno, arriverò verso le quattro». Prendetevi il giusto tempo e leggete con attenzione Skialper 126!

DESERT LOVE AFFAIR - Due pro skier e un fotografo alla ricerca di discese nella polvere. Ma è una polvere diversa, appiccicosa e abrasiva, le pelli sono sostituite dai cammelli e le tracce svaniscono dopo pochi secondi, cancellate dal vento del Sud. Tof Henry e Chad Sayers sono stati tra le alte dune di Merzouga, nel deserto del Sahara, in Marocco, per disegnare la loro traccia anche sulla sabbia. Un reportage dai colori caldi, con le foto di Daniel Rönnbäck.

© Daniel Rönnbäck
© Daniel Rönnbäck

LETTERE DAI QUATTROMILA - L’obiettivo era fare gli 82 quattromila delle Alpi in un mesetto, qualche giorno in più compresi gli spostamenti. Un vagabondaggio a bordo di un vecchio furgone Volkswagen che si è trasformato in un’esperienza di vita e di amicizia. Protagonisti Silvestro Franchini e Gabriele Carrara, coordinati dalla base da Francesco Carrara. Un diario di viaggio e di formazione.

LA SCATOLA MAGICA - Sei mesi e 20.000 chilometri su un vecchio pickup camperizzato a girovagare tra British Columbia, Alberta e Alaska. Per ri-scoprire lo sci e l’euforia della velocità sulla neve. Elena Adorni si è innamorata di Fiona, un vecchio pickup con cellula camper che giaceva nel cortile di un capannone di Vancouver, lo ha rimesso a posto ed è partita, trovando la scusa per rimettere gli sci e provare anche le linee di Valdez. «Stavo vivendo nello stesso posto da due mesi, e quando mi abituo ad avere l’acqua corrente e a fare una doccia al giorno, significa che è tempo di tornare sulla strada e ripartire».

© Elena Adorni

AVVENTURE KIRGHIZE - Uno sguardo su Google, tanta immaginazione e la voglia si esplorare. È nata così la vacanza di Pietro che la scorsa Pasqua è volato in Kirghizistan con il padre, che non aveva mai messo piede fuori dall’Europa. Non una vacanza qualunque, ma un viaggio con fuoristrada, sci e pelli alla scoperta di sei cime inviolate del selvaggio Tien Shan, in Kirghizistan. Dormendo in un vecchio centro termale abbandonato e condividendo la natura selvaggia con i pastori locali e gli yak.

© Pietro Mercuriali

PELLEGRINAGGIO DI UN DANZATORE DELLA NEVE - La prima discesa con gli sci di una montagna in una remota zona della Colombia, popolata da una delle ultime tribù del mondo antico rimasta ancora intatta. L’autore, Ptor Spricenieks, è una delle poche persone a essere stata autorizzata a esplorare le terre abitate da questa tribù a patto di non parlarne sul web. E per questo non possiamo dirvi di più… vi toccherà leggere l’avvincente articolo su Skialper.

PROBLEM YOK - Un vecchio furgone Volkswagen, l’idea di partire da Istanbul e andare a sciare in Georgia ma… con la quinta marcia rotta non si può andare a più di 80 all’ora. E così Elena e Achille vengono calamitati nelle valli rurali della Turchia, tra i selvaggi monti del Ponto. «Tempo perso o speso meglio?» si chiede Elena Gogna. Quindici pagine di reportage alla scoperta della powder a due passi dal Mar Nero, ma anche dell’ospitalità di Ahmed, Emre, Fatma, persone diverse ma che sono tutte pronte ad aprirti la porta di casa.

© Achille Mauri
© Achille Mauri

RITORNERÒ PRESTO A CASA - Hans Gmoser è emigrato a 19 anni dall’Austria in Canada alla ricerca di fortuna. Ed è finito per inventare l’heliski. Ma la sua idea originaria era di utilizzare l’elicottero per portare gli sciatori in zone remote a fare scialpinismo, come sta tornando di moda. La penna di Emilio Previtali racconta la storia di questo incredibile personaggio e delle sue idee visionarie.

HÉLIAS MILLEROUX - Le vere avventure dovrebbero avere una parte riservata alle incognite e all’improvvisazione. È quello che cerca Hélias Millerioux, lo si legge nei suoi occhi. Piolet d’Or 2018, Guida, alpinista, sciatore, soli 32 anni e un curriculum top con ottomila, ascensioni di alto livello in giro per il mondo, discese estreme, spedizioni e viaggi nei quattro continenti per esplorare i luoghi più verticali del pianeta. Andrea Bormida e il fotografo Federico Ravassard hanno incontrato Hélias sul Monte Bianco. Ne è nata una piacevole conversazione sull’impresa al Nuptse e sull’ultimo viaggio al selvaggio Monte Logan, nello Yukon.

© Hélias Milleroux

5 SUMMITS, 1 RECORD - Cinque vette, le cinque vette che vede dalla finestra di casa, a Sauze d’Oulx. L’idea di salirle in velocità, con le scarpe da trail, in cinque giorni consecutivi, battendo i record di ascesa e stando sotto le cinque ore totali. Per ricordare il suocero, recentemente scomparso e che quelle montagne le amava. Ecco l’ultima invenzione di Simone Eydallin.

© Damiano Benedetto

MARE AMARO - Prima alle montagne voltava le spalle, guardano verso il mare. Poi il gruppo della Majella è diventato il giardino delle avventure di Alex Tucci e così si è inventato di andare e tornare in giornata, correndo, dal mare dell’Abruzzo, dalla splendida Costa dei Trabocchi, alla vetta del Monte Amaro, a oltre 2.700 metri.

© Mirko Picco

IL CAMMINO SOSTENIBILE - Si può pensare di fare un trekking lasciando meno tracce possibili del nostro passaggio? Ci ha provato Carlotta Montanera che la scorsa estate ha percorso l’Altavia 4 delle Dolomiticercando di ridurre il più possibile i rifiuti prodotti, ma anche di utilizzare abbigliamento a bassa dispersione di microfibre e di mangiare a km 0. Scoprendo che…

© Giuseppe Ghedina

MUST HAVE - I furgoni d’epoca Volkswagen sono un leit-motiv di molte delle avventure raccontate da Skialper 126 e allora abbiamo pensato di usarne uno come set per la nuova sezione Must Have, che tornerà su tutti i numeri: 18 pagine di oggetti dei desideri fotografati ogni volta in un contesto diverso e particolare. Dimenticate la cara di credito…

© Daniele Molineris

E ANCORA… - Il primo contatto con la Scott Supertrac 2.0, scarpa da trail presentata lo scorso agosto, le nuove calzature con Gore-Tex Invisible Fit e i guanti stretch e antivento, dieci pagine di portfolio fotografico con scatti selezionati da Federico Ravassard: si spazia dai grandi parchi americani, alla Groenlandia, alla Mongolia e all’Antartide.

© Marco Buttu

 

 

 

 

 

 

 


Il Manaslu andata e ritorno in 17 ore e 43 minuti per Cazzanelli

Dopo il record sulla Cresta Cassin al Denali e la salita in velocità dell’integrale di Peuterey, ecco un altro primato per François Cazzanelli nel 2019. Il valdostano ha raggiunto nei giorni scorsi la vetta del Manaslu (8.162 m) ed è ritornato al campo base in 17 ore e 43 minuti. In totale sono 44 km e 3.280 metri di dislivello in salita e discesa. L’arrivo in vetta dopo 13 ore. Cazzanelli si trova in Himalaya in compagnia di Marco Camandona, dello svizzero Andreas Steindl, suo compagno di avventura altre volte, tra le quali il record alle creste del Cervino, Francesco Ratti ed Emrik Favre. Tutti hanno raggiunto la vetta e per Francesco ed Emrik era il primo ottomila, mentre Camandona ha messo la nona bandierina sulle vette più alte della terra. Steindl ha coperto salita e discesa in 21 ore e 30 minuti. Quello di Cazzanelli è il primato di salita e discesa, mentre il precedente record era del polacco Andrzej Bargiel, in 21 ore e 14 minuti, ma la discesa era stata effettuata con gli sci. Ora la spedizione di Cazzanelli & co si sposta al Pangpoche (6.620 metri).

Abbiamo intervistato François Cazzanelli su Skialper 126 di agosto-settembre, info qui


Bargiel rinuncia all’Everest

«Siamo qui da tanto tempo e non ci sono stati progressi e la possibilità di fare acclimatamento oltre il campo base (…) però dobbiamo finire la nostra spedizione, è la decisione più ragionevole. A volte bisogna fare così, stimare il rischio e se è troppo alto dire ‘stop’». Con queste parole il polacco Andrzej Bargiel, dopo avere sciato l’anno scorso il K2, ha annunciato nelle scorse ore la fine, senza successo, dell’Everest Ski Challenge. Bargiel e compagni hanno passato tre settimane al campo base ma questa estate ci sono state tante precipitazioni alte e lo zero termico è alto, così la Icefall è in cattive condizioni, con tanti crepacci. Il problema più grande è un immenso seracco alto 50 metri e largo 30, 800 metri sopra la Icefall. Camminare lì sotto è pericoloso: «Non lo farò, non posso accettare questo rischio, può rompersi in ogni momento e questo ci fa desistere dai nostri tentativi» ha concluso Bargiel.


Glacier Haute Route Fast & light

Dan mi dice: «Se inizia a scivolare, salta in quel crepaccio». Il contrappeso potrebbe essere il modo migliore per impedirci di finire nella prossima crepa tra le nevi eterne, laggiù. Guardo giù in un buco senza fondo, blu e terrificante. Per un secondo, o forse anche due, immagino di bere un caffè, di avere un gatto sulle mie ginocchia e delle scarpe da running che mi aspettano sul tappetino della porta. Darei qualsiasi cosa per essere lì. Per essere in un altro luogo piuttosto che legato a due ragazzi su un ghiacciaio in scioglimento. Non ci sono crepacci nella cucina del mio appartamento, in un normale martedì mattina. Voglio venir fuori da questo ghiacciaio che fa saltare i nervi, ma l'unica via d'uscita è continuare a muoversi, prima che si sciolga. Avanzando attraverso il labirinto apparentemente infinito davanti a noi, affrontando il minor rischio, facendo marcia indietro. Schiaccio più forte i miei ramponi nel ghiaccio, pronta ad aggrapparmi alla piccozza o addirittura a saltare in quell'abisso mentre Pascal avanza di qualche centimetro, sondando il ponte innevato davanti a lui.

«Questo non è un bene» lo sento borbottare tra sé e sé mentre osserva attentamente i crepacci per ricostruire il percorso sull'ultimo tratto di ghiacciaio che si frappone tra noi e la nostra destinazione: Zermatt. Non è proprio il tipico percorso di un trail. Solo poche settimane prima, in un'altra escursione di corsa con Dan, avevamo dato uno sguardo al ghiacciaio di Arolla, mentre lui indicava una linea attraverso il ghiaccio, riportando alla memoria i ricordi di svariate settimane ed escursioni sulla famosa Haute Route da Chamonix a Zermatt. Dan, in preda all’eccitazione, aveva interrotto il suo stesso racconto con questa domanda: «E se la facessimo di corsa?».

Sapevo prima che finisse la frase che lo avremmo fatto. Tante avventure iniziano in questo modo: un perché non diventa un progetto accattivante e in breve ti trovi legato a due amici su un ghiacciaio nelle Alpi. Ma anziché la classica versione estiva dell’Haute Route, che può richiedere fino a due settimane di trekking, stiamo percorrendo la Glacier Haute Route, una linea più diretta che attraversa le Alpi francesi e svizzere. Si rimane più in alto, senza grandi saliscendi nelle valli, seguendo gran parte dell'itinerario sciistico della Haute Route. Più conosciuta come la High Level Route estiva, questa alta via di 90 chilometri può essere percorsa in sei giorni. Ci si muove spesso sui ghiacciai (dal 30 al 40 percento dell’itinerario), attraversando molti valichi in quota e dormendo nei rifugi di montagna. Come per la Haute Route sciistica, è necessario avere esperienza su come muoversi in ambiente alpinistico in quota e sui ghiacciai. A causa dei crepacci è un percorso impegnativo con il bel tempo, potenzialmente molto pericoloso con cattivo tempo. Un itinerario pieno di se…

© PatitucciPhoto

Come trail runner, voglio andare più in alto, affrontare un terreno più tecnico, persino sconfinare in spazi riservati agli alpinisti. Loro stessi sempre più spesso si muovono veloci e con scarpe imparentate con quelle da trail. La differenze in quota si assottigliano e siamo sempre di più a muoverci fast & light, anche se con diverse culture di partenza. I miei compagni di avventura hanno più esperienza in alta montagna e mi affido alle loro conoscenze per imparare la tecnica necessaria per un trail in alta quota come questo. Entrambi conoscono il percorso, hanno fatto escursioni in estate e sciato in inverno da queste parti. Pascal Egli è uno dei migliori skyrunner della Svizzera, scialpinista e dottorando in glaciologia. Dan Patitucci ha decenni di esperienza alpinistica e in falesia, scia e corre. Entrambi sanno come leggere il terreno, valutare i rischi e prendere decisioni sicure. Sono le persone giuste annodate alle due estremità della mia corda.

Agosto 2017. Stiamo sfruttando una finestra di bel tempo. Sappiamo che i ghiacciai saranno in cattive condizioni dopo un inverno secco e un'estate calda, ma se vogliamo fare questo tour, è il momento di andare. Lasciando Le Tour, in fondo alla valle di Chamonix, sento il peso del mio zaino mentre, con le lampade frontali in testa, iniziamo a percorrere i ripidi tornanti nel bosco verso il rifugio Albert Premier. Portiamo con solo ciò di cui abbiamo bisogno: vestiti caldi e attrezzature per la sicurezza sul ghiacciaio, ramponi, piccozza e un Petzl RAD (sistema di soccorso da crepaccio ultraleggero). Non è molto, ma è un peso maggiore di quello che ci si porta dietro quando si va a correre in giornata. Con queste premesse, il ritmo di partenza mi sembra veloce. Dan e Pascal corrono davanti a me. Inizio a credere che mi trascinerò dietro di loro tutto il tempo, ma almeno sui ghiacciai saremo legati insieme.

Poco dopo il rifugio, il sentiero scompare e ci leghiamo per risalire il Glacier du Tour. È la prima volta che cammino sul ghiacciaio. Nel bene o nel male siamo legati alla distanza di cinque metri l'uno dall'altro mentre scavalchiamo grandi buche sulla strada per il Col du Tour. Ben presto incontriamo la prima vera sfida che la ritirata dei ghiacciai ci pone: il colle che avevamo pianificato di scalare è completamente asciutto, disseminato di massi franati dall’alto. Siamo costretti a rivedere la rotta e salire su un altro colle, dove troviamo una corda fissa per calarci in doppia fino al Plateau du Trient. Non è troppo frequente quando si va a correre che capiti di doversi calare… Una volta liberati dalla corda e di nuovo sul ghiacciaio, alcuni sassi scivolano accanto a noi. Non perdiamo tempo e ci trasciniamo giù, allontanandoci rapidamente dalla frana E verso il mare di ghiaccio grigio diviso da crepacci neri belli aperti. Dan e Pascal riconoscono quanto è sceso il ghiacciaio. «Sono scioccato, l'altopiano è solitamente coperto di neve sufficiente per poterlo attraversare» dice Dan. Oggi dobbiamo zigzagare sulla superficie crepata.

Finalmente fuori dai ghiacciai, corriamo giù per un sentiero fino a Champex. Abbiamo programmato di raggiungere il rifugio Chanrion per trascorrere la nostra prima notte, ma le condizioni sono state peggiori del previsto e il tempo sta cambiando. Ci chiediamo se dovremmo continuare o meno. I crepacci sono già una sfida sufficiente e non è certo necessario aggiungere la pioggia e una scarsa visibilità. Ci sediamo nei pressi di Champex Lac, controlliamo le previsioni del tempo, chiamiamo amici e Guide che potrebbero avere informazioni sulle condizioni dei ghiacciai che ci attendono. Dicono tutti la stessa cosa. «I ghiacciai sono in cattive condizioni» e «Non è una bella situazione, ma alcune persone stanno andando». Stiamo per rinunciare, ma alla fine si decide che vale la pena DI dare un'occhiata. Quando raggiungiamo il rifugio Chanrion, dopo una facile corsa in salita, il custode non usa mezzi termini: «I ghiacciai sono una merda».

Il prossimo giorno sarà impegnativo: da Chanrion, passando per il ghiacciaio d'Otemma, il Glacier d’Arolla, l'Haut Glacier d'Arolla e infine una ripida salita fino alla Cabane de Bertol. Nell'ombra del mattino attraversiamo il ghiacciaio d’Otemma, prima che il sole sia abbastanza alto per raggiungerci. Ci fermiamo a visitare la stazione di monitoraggio che Pascal ha contribuito a installare. Questo enorme ghiacciaio, lungo quasi otto chilometri e con uno spessore massimo di 260 metri, si sta sciogliendo a una velocità allarmante di dieci centimetri al giorno, in estate. In media i ghiacciai nelle Alpi stanno perdendo quattro metri all'anno. Entro il 2050 la maggior parte dei piccoli nevai sparirà e i restanti ghiacciai saranno insignificanti. Entro il 2100 anche i più grandi come l'Aletsch, il più lungo delle Alpi, che raggiunge i 23 chilometri, non esisteranno quasi più, resteranno solo le parti alte. La ritirata delle nevi eterne comporta più rischi naturali, più frane. «Penso che deciderò di andare sui ghiacciai solo in inverno, stanno diventando pericolosi e brutti» dice senza usare mezzi termini Pascal. Prima di continuare la rampa di ghiaccio coperta di sabbia, ci fermiamo brevemente a guardare verso il fondo di un mulino con una tonalità blu mai vista e bellissima.

Ci muoviamo in modo efficiente sui ghiacciai, ma è correre sulle morene sassose e passare da un nevaio all’altro che porta via la maggior parte del tempo. Gli escursionisti ci guardano sorpresi, se non preoccupati, per i nostri piccoli zaini e per la mancanza di supporto alla caviglia mentre saltelliamo sui sentieri rocciosi. «Belle scarpe» dice una Guida dietro di noi con un certo tono di disapprovazione. Sorpassiamo il suo e altri gruppi prima di raggiungere il rifugio successivo. La nostra velocità non ci dà falsa fiducia o sicurezza, ma ci consente di allontanarci dal pericolo e di trascorrere meno tempo in condizioni pericolose. Siamo una squadra forte, in forma, con esperienza, poliedrica e cauta; noi ci conosciamo e ci fidiamo l'uno dell'altro. Non siamo un gruppo di estranei, legati dietro una singola Guida, un gruppo che dipende completamente da una sola persona, e siamo consapevoli della responsabilità di ognuno; conosciamo le nostre capacità e i nostri limiti e prendiamo decisioni ragionevoli per minimizzare i rischi.

Mentre discutiamo il nostro piano per l'ultimo giorno, da Bertol a Zermatt, delle comitive di escursionisti arrivano al rifugio e i pesanti scarponi da montagna riempiono gli scaffali attorno delle nostre scarpe da trail. Al mattino presto scendiamo le scale delle nostre cuccette e poi quelle che dal rifugio Bertol portano sul ghiacciaio. Iniziamo a correre tra la minaccia di un cielo nero e il terreno bianco, entrambi pieni di buchi. Le stelle illuminano le sagome delle montagne, le frontali degli alpinisti rischiarano la strada fino al Dent Blanche e un bagliore crescente riempie il cielo. Saliamo alla Tête Blanche percorrendo il ghiacciaio del Mont Miné giusto in tempo per vedere l'alba sul Cervino. È la prima volta che vedo questa cima così simbolica. Svetta dal ghiacciaio sottostante verso il cielo pallido, è una delle prime a essere raggiunta dai raggi del sole. Il panorama ci blocca per un momento, ma dobbiamo proseguire verso Zermatt. Fa già caldo mentre ci dirigiamo verso lo Stockjigletscher, l’ultima ghiacciaio che dobbiamo attraversare. «Potrebbe essere l’ultimo giorno per percorrere questo tratto» ci aveva ammonito al rifugio una Guida che arrivava dalla direzione opposta alla nostra la sera prima. E in effetti anche le sue orme si sono già cancellate nel disgelo. Ci muoviamo con molta attenzione, saltando oltre piccoli crepacci e procedendo a zigzag in questo grande puzzle che riempie i nostri pensieri di tanti se. Abbandoniamo il ghiacciaio con grande sollievo, ci togliamo i ramponi e le imbragature e arrotoliamo la corda. Gli ultimi 20 chilometri sulla morena rocciosa e lungo un sentiero bellissimo ci portano a Zermatt. Il calore e la polvere salgono dalla terra, una sensazione così diversa da quella che abbiamo provato muovendoci su ghiaccio e roccia. Acceleriamo come quando finisci una qualsiasi corsa, un qualsiasi gara, ma questa volta è diverso: un misto di sollievo, gratitudine e orgoglio riempie i nostri animi. Ci siamo mossi veloci in un ambiente naturale che definirei enorme, potente e terribile allo stesso tempo. È stata una vera avventura e mi rimane tra le labbra una domanda: «Dove altro potrebbero portarmi le scarpe da trail?».

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La Glacier Haute Route in versione trail

Dan, Kim e Pascal hanno percorso la Glacier Haute Route in quattro tappe giornaliere.

Partenza: Chamonix (Le Tour) 

Arrivo: Zermatt

Distanza: 88 km      

Dislivello positivo: 6.000 metri

Chamonix - Champex: 23 km / 2.127 m+ 2.156 m-

Mauvoisin - Chanrion: 13 km / 872 m+ 255 m-                                                      

Chanrion - Bertol: 26 km / 1.955 m+ 1.127 m-

Bertol - Zermatt : 26 km / 1.033 m+ 2.645 m-

Da Champex a Mauvoisin hanno preso un’auto, come fanno gli scialpinisti in inverno.

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Serpentina for a livin'

Quando penso alla serpentina, la prima immagine che mi viene in mente è quella della lavatrice nella pubblicità della Calfort degli anni '80, una serie sinuosa di curve strette unite da un elegante diagonale; la stessa diagonale che permetteva a sciatori leggendari come Doug Coombs, Dean Cummings o Jean-Marc Boivin di ricalibrare i movimenti tra una curva e l’altra durante una ripida discesa. La serpentina è sempre stata una curva chiave nella tecnica dello sci, a prescindere dal materiale usato dagli anni ‘70 a oggi. Certo, con l’evoluzione degli sci anch’essa ha subito una costante mutazione diventando sempre più condotta e scorrevole, adottando diverse sfumature in base appunto alla tipologia di sci usato e ovviamente ai tipi di neve e alla pendenza.

Prima della rivoluzione dei fat ski e dei carving, lo sci era tutta un’altra storia, le aste che andavano dai due metri fino ai due e dieci non permettevano fluide planate in neve profonda, e nemmeno una gestione slideata della curva verso la massima pendenza, per perdere quota in neve crostosa o difficile. I casi erano due: o si eseguiva una curva saltata (sci ripido e neve dura) o una serpentina. Questo tipo di curva permetteva il massimo della fluidità possibile per scendere un pendio controllando la velocità in nevi la cui profondità non consentiva agli sci senza sciancratura di curvare rapidamente e tornare sotto il baricentro dello sciatore semplicemente ruotando i piedi. Per dare un’idea io prenderei: Doug Coombs in Alaska, dove effettuava serpentine dalla lunghezza eterna; Jean-Marc Boivin in una qualsiasi discesa di ripido e il grande Steve McKinney, che faceva dei veri propri drittoni giù per le Palisades a Squaw Valley con ai piedi gli sci da chilometro lanciato! Per vedere curve lunghe più fluide avremmo dovuto aspettare gli anni ‘90, con Kent Kreitler e Shane McConckey, rivoluzionati poi dallo snowboard e dalla leggendaria discesa in tre curve di Jeremy Nobis.

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WE TEST ON HUMANS

Dopo avere pensato a tutti gli scenari passati è venuto il momento di tirare le somme; perché fare un articolo sulla serpentina nell’epoca dei drittoni e di film come La Liste, dove ognuno cerca la planata e la velocità più alta? Perché da sempre questa accomuna gli sciatori di ogni tipo. A seconda delle situazioni è la curva che viene eseguita sia dai freerider più veloci, sia dagli scialpinisti classici. Quindi che fare? Ci siamo armati di sci di 207 centimetri di lunghezza, oltre ai materiali soliti, e abbiamo sciato in condizioni variabili, cercando similitudini tra passato e presente e soprattutto di evidenziare le differenze nell’utilizzo di aste diverse. Tecnicamente lo sciatore ha a disposizione quattro movimenti fondamentali: alto-basso, inclinazione, antero-posteriore e rotazione. Questi movimenti si sono adattati nel tempo ai materiali, più sciancrati, più larghi e pre-deformati (rocker), riducendo via via l’alto basso, o meglio utilizzandolo come regolatore per ricercare il contatto col terreno; e rendendo le inclinazioni sempre più preponderanti ed accentuate, grazie al vincolo molto solido creato dai nuovi sci. Ma cosa accade quando sotto ai piedi mettiamo qualcosa di lungo, stretto e totalmente dritto, sci che solo dall’aspetto ti fanno capire che forse non è il caso di maledire gli snowboarder, ma che forse è meglio offrirgli da bere?

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ANCHE A MONTE, BUSTO A VALLE

Appena saliti in funivia mi accorgo degli sguardi della gente, il mio abbigliamento all’avanguardia dello stile e della tecnica stona totalmente rispetto agli sci che mi porto dietro: sono quasi mezzo metro più alti di tutto e continuo a sbatterli contro gli stipiti delle porte, ma il bello deve ancora venire… Calzo gli sci e l’effetto visivo è perfino più incredibile, sono la metà della pianta degli scarponi! Faccio le prime curve in pista, su neve dura coperta da dieci centimetri di polvere. Fino a qui tutto bene. Prime curve strette: accentuo leggermente i movimenti verticali e mi ricordo di non inclinarmi troppo, giro i piedi e gradualizzo il movimento, una meraviglia! Gli sci girano e sono veramente agili, tant’è che la mia arroganza mi spinge a prendere velocità per allungare le curve; inizio a inclinarmi e gli stecchini vanno per la tangente, quasi cado e metto la mano in terra, benissimo. Ritorno a curvare stretto e riprendo gradualmente ad aumentare la velocità, cerco la fluidità, anche a monte fino all’ultimo e con il busto bene verso valle. Eccola la serpentina! È veramente una soddisfazione e la sensazione non è niente male, sento la stabilità e chiudo bene le curve. Quindi qualche adattamento e in pista ci siamo, le curve lunghe le faremo un'altra volta, ora è il momento di uscire dal seminato… L’inverno per ora non ci ha dato granché, ma in alto qualche nevicata l’ha fatta e quindi usciamo fuoripista e vediamo com’è la situazione. Il manto è un mix di cartone, crosta e fondo inconsistente, insomma una meraviglia. Nelle prime curve è duro, azzardo due curve saltate su discreta pendenza e, a parte la lunghezza, gli sci sono solidissimi e mi danno sicurezza; due curve dopo la neve sfonda e fare girare le aste diventa un altro paio di maniche, devo quasi fermarmi tra una curva e l’altra per fare ritornare l’esterno sotto di me. I movimenti verticali diventano basilari per creare l’alleggerimento necessario a impostare la virata: niente slashate, niente scrub, qui il capitano va giù con la nave. Come primo giorno poteva anche andare, ma avevo bisogno di sciare ancora un po’ per trarre delle conclusioni, magari con condizioni più morbide e divertenti. Però nulla sarebbe cambiato in termini di neve nelle settimane successive, quindi sotto a chi tocca e via con la seconda parte dell’esperimento. Dopo avere scelto un bel pendio con fondo incerto, coperto da venti centimetri di neve nuova ventata, decidiamo per un approccio scientifico: prima una serie di curve con un 177 centimetri, 96 millimetri sotto il piede e poi con il famigerato 207. Non sapendo a cosa andare incontro parto cauto: curve profonde controllando la velocità per minimizzare i danni in caso di squali, cercando la leggerezza e la perdita di quota, dosando la pressione e la presa di spigolo. Questi sci li conosco bene, galleggiano e girano molto facilmente, non devo preoccuparmi di nulla se non rimanere centrale e inclinarmi il giusto. La neve non è male, portante il fondo, polveroso lo strato superiore; è il momento dei 207. Anche se so cosa mi aspetta in termini di neve, non mi fido e mi muovo con cautela: accentuo i movimenti verticali per impostare la curva e mi abbasso molto in piegamento per assorbire il carico che imprimo allo sci nella seconda parte. Fluidità e morbidezza, non ho un grande feeling, ma neppure pessimo, senza dubbio non sono a mio agio. Quando riguardiamo le sequenze l’effetto è sorprendente: due serpentine quasi uguali! Incredibile come sensazioni cosi contrastanti abbiano però prodotto lo stesso risultato.

TAKE HOME MESSAGE

Evidentemente quando non è possibile cavarsela mollando a tutta verso valle ed è quindi necessario controllare la velocità, la serpentina è davvero l’unica via. Gli sci nuovi ci fanno risparmiare molte energie rispetto agli sciatori del passato, ci fanno andare veloci: però quando è crosta o è ventata, quando non vediamo dove andare e sciamo sulle uova, o semplicemente quando vogliamo far durare più tempo la discesa dopo una salita dura, senza nemmeno accorgercene, sapete che curva faremo? Serpentina for a livin’!

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