Kilian Jornet Burgada di nuovo re di Zegama. Elisa Desco seconda
Zegama è Zegama. Kilian Jornet Burgada è un affezionato e nel suo palmares inserisce l’ennesima ‘maratoia’. Primo con il tempo di 3h52’47”, con un margine di 2’39” su Bartlomiej Przedwojewski, con Thibaut Baronian a 3’33” a completare il podio; quarto Stian Angermund-Vik, quinto Alejandro Forcades Pujol, con Oriol Cardona Coll, Manuel Merillas, Alexis Sévennec, Andy Wacker, Ander Iñarra Olaziregi a completare la top ten. Nella gara rosa a segno Eli Anne Dvergsdal in 4h36’06” con piazza d’onore per Elisa Desco che vince il testa con Amandine Ferrato, quarta Gisela Carrion Bertran, quinta Oihana Kortazar Aranzeta.
Al via le Golden Trail World Series, guarda il film dell’edizione 2018
Con l’attesissimo appuntamento di Zegama di domenica, inizia l’edizione 2019 delle Golden Trail World Series, il circuito fortemente voluto da Salomon (e che prevede anche dei tornei nazionali) che toccherà anche Chamonix con la Marathon du Mont Blanc del 30 giugno, Canazei con la Dolomyths Run Skyrace del 21 luglio, la Sierre-Zinal l’11 agosto, la Pikes Peak Marathon (Stati Uniti) il 25 agosto, la Ring of Steall Skyrace il 21 settembre e vedrà il gran finale in Nepal con l’Annapurna Trail Marathon il 26 ottobre. Un circuito nato con l’obiettivo di portare il trail e lo skyrunning a un altro livello, sia in termini di atleti e professionalità, sia di controlli anti-doping, sia di mediaticità. Non è un caso che l’edizione 2018 abbia avuto un’audience di oltre 30 milioni e circa 10.000 atleti iscritti a tutte le gare. Cliccando sull’immagine in alto è possibile vedere il simpatico cortometraggio (vediamo se indovinate chi è la voce narrante…) con gli highlight dell’indimenticabile edizione 2018, gara per gara.
LA FORMULA - Per i primi cinque classificati di ogni gara comprese le finali è previsto un premio di 1.000 euro (rilasciato solo dopo esito negativo del controllo doping) e per i primi dieci uomini e donne del ranking generale alla fine del circuito la quota sale a 5.000 euro). Per la classifica finale fanno fede i migliori tre risultati nelle gare più quello della gara all’Annapurna. Gli atleti elite inoltre ricevono un supporto per viaggio, ospitalità e pettorali in base a criteri ben definiti. Ecco perché ci sono tutti gli ingredienti affinché l’edizione 2019 delle Golden Trail World Series sia quella della definitiva consacrazione dopo il successo ottenuto nel 2018.
ZEGAMA - Sarà l’anno del gran ritorno di Kilian Jornet, otto volte vincitore e assente nelle ultime due edizioni. Il catalano dovrà guardarsi le spalle da Rémi Bonnet, Manu Merillas (che rientra nelle gare di alto livello), Aritz Egea, Karl Egloff, Petter Enghdal, Thibaut Baronian, Bhim Gurung, Jan Margarit, Jessed Hernandez. Tra le donne al via Yngvild Kaspersen, Megan Kimmel, Oihana Kortazar, Maite Maoira, Elisa Desco, Uxue Fraile.
Marco Zanchi e il Sentiero delle Orobie
Marco Zanchi nelle Orobie è di casa. Ha vinto due volte l’Orobie Ultra Trail, si allena su quei sentieri tutti i giorni. Così è nato il progetto Orobie d’un Fiato, per rendere omaggio a chi, negli anni Cinquanta, ha ideato e tracciato il Sentiero delle Orobie. «Ventidue anni fa - spiega l’ultrarunner e ambassador Topo Athletic - ho scoperto di essere circondato da fantastiche montagne. Le Orobie sono la mia casa e il desiderio di poterle affrontare di corsa, tutte d’un fiato, è sempre stato vivo in me. L’interesse è nato anche per la storia dei sentieri e dei rifugi presenti, che costituiscono fondamentali punti di riferimento nei miei allenamenti».
L’appuntamento è fissato sabato 6 luglio, nella giornata che precederà Save the Mountains, la festa del CAI Bergamo all’insegna dell’educazione e della sostenibilità ambientale: Marco Zanchi partirà da Cassiglio, alle ore 12, e arriverà fino al Passo della Presolana, entro le ore 12 di domenica 7 luglio, accompagnato da amici che, a staffetta, lo seguiranno di giorno e di notte assistendolo nei tratti più difficili.
Nei 140 km di attraversamento dei monti bergamaschi, con un dislivello positivo di 11.000 metri e negativo di 10.300, l’ultrarunner toccherà i rifugi Cazzaniga, Lecco, Grassi, Benigni, Ca San Marco, Baitone, Longo, Calvi, Biv Frattini, Brunone, Coca, Curò, Albani, Cassinelli. L’avvincente esperienza sarà raccontata in un cortometraggio che, tra passato e presente, riproporrà anche documenti dei primi anni del ‘900. Sarà possibile seguire l’evento live su Setetrack.
Storia (e fascino) dello sci di raid nelle Alpi
1888. Fridtjof Nansen e compagni attraversano la Groenlandia con gli sci. È l’inizio di un’era, quella dello sci di montagna moderno, che trova nei grandi raid più che nella conquista delle cime la forma di espressione più pura e più completa. Si tratta della scoperta dello sci avventura e delle sensazioni profonde del viaggiare con gli sci. In altre parole è la scoperta dello Ski Spirit, ossia di una dimensione dello sci che interessa anche e soprattutto le sfere dello spirito.
1897. Wilhelm Paulcke e compagni, emuli di Nansen, attraversano le Alpi Bernesi. Una traversata in pieno inverno folle per quei tempi ma vissuta con grande gioia e descritta con uno stile ironico e moderno dal grande Paulcke, denominato il Nansen del Centro Europa per la sua devozione al telemark. Da quel momento tutti i grandi sciatori di montagna alpini vedono nelle traversate, ossia nello scoprire cosa c’è dietro un colle, il significato ultimo dello sciare. Ci provano un po’ tutti, fra la conquista di una vetta e l’altra. Da Paul Preuss a Marcel Kurz, da Arnold Lunn a Ottorino Mezzalama. Ma è Léon Zwingelstein, lo sciatore vagabondo per eccellenza degli anni trenta, ad effettuare per primo, da solo e senza alcun aiuto esterno, dal primo febbraio al primo maggio 1933, un favoloso raid da Nizza al Tirolo, con ritorno sempre in sci fino a Briga in Svizzera. Una performance unica, con tutto nello zaino compresa una rudimentale tenda cucita con le sue mani. Una performance mai più ripetuta. E sarebbe andato oltre Briga Léon Zwingelstein, sarebbe ritornato in sci fino alla sua Grenoble, se ci fosse stata ancora neve!
Dopo Zwingelstein, un precursore in grande anticipo sui tempi, bisogna aspettare il primo dopo guerra per annoverare altre grandi traversate sulle Alpi. Nel 1956 due gruppi, il primo capeggiato da Alberto Righini con Bruno e Catullo Detassis e il secondo da Walter Bonatti, partono a quattro giorni di distanza uno dall’altro da Tarvisio, rispettivamente il 10 e il 14 marzo. Entrambi, a differenza di Zwingelstein, sono seguiti da un’automobile di appoggio per i rifornimenti. La meta è il Col di Nava in Piemonte, che raggiungono insieme il 18 maggio, ossia 66 giorni dalla partenza (quattro in più per il gruppo Righini-Detassis). Stranamente nel celebre capitolo del libro Le mie montagne di Bonatti, interamente dedicato a questa grande traversata, non si fa cenno al gruppo di Righini-Detassis, quasi fosse un gruppo di fantasmi, e non si dice che l’ideatore della traversata era stato Alberto Righini, che aveva infatti invitato Bonatti a parteciparvi... Comunque sia, i due gruppi decidono, cammin facendo, con un accordo scritto e firmato da tutti, di effettuare insieme tutta la seconda parte della traversata, dal Colle del Teodulo al Col di Nava. Questo accordo di pace fra i due gruppi è il primo segnale che il tarlo dell’agonismo, ossia di voler primeggiare a tutti i costi sugli altri, è arrivato anche nello sci di raid, guastandone la purezza.
Nove anni dopo Detassis e Bonatti, nel 1965, un’altra grande Guida, lo svizzero Denis Bertholet, fondatore della Ecole du Ski Fantastique di Verbier, ha la brillante idea di unire con gli sci, insieme ad altre tre Guide (un italiano, un francese e uno svizzero) le due città olimpiche di Innsbruck 1964 e di Grenoble 1968. Grande è stato l’effetto mediatico di questa traversata, soprattutto grazie al film girato da Bertholet, non solo Guida e Maestro di sci, ma anche cineasta professionista, vincitore del Premio UIAA al Festival di Trento nel 1969. Denis si è portato sulle spalle per tutto il percorso del raid una pesante cinepresa da 16 mm, cosa impensabile per i moderni atleti dei raid di velocità. Il film di Bertholet, Traversée Innsbruck-Grenoble à ski, è visibile gratuitamente nel sito internet della Médiathèque di Martigny. Pochi anni dopo, nel 1970, assistiamo alla tribolata traversata in solitaria di un altro francese, Jean Marc Bois, che, partito il 30 gennaio da St. Etienne-de-Tinée nelle Alpi Marittime, riesce a raggiungere Bad Gastein, nel Tirolo Orientale, il 25 aprile: una traversata funestata da brutto tempo e valanghe dall’inizio alla fine, che ha reso l’impresa di Bois davvero epica. L’anno successivo, il 1971, un gruppo di cinque austriaci, fra i quali la Guida alpina Klaus Hoi, compiono, con sci da fondo escursionistico e scarponi di cuoio, la traversata più lunga, da Vienna a Nizza, fruendo di un mezzo di appoggio. Durante il percorso di 1.917 km, con un dislivello totale di 85.000 metri, scalano anche cime importanti, impiegando complessivamente 41 giorni: una prestazione sportiva di indubbio valore.
C’è però anche chi, con tre amici, anziché cercare l’exploit, effettua l’intera traversata da est a ovest, a tappe, in tre anni (1975,1976,1977), privilegiando il piacere di sciare e cogliendo l’occasione di testare nuovi materiali. Ideatore di questa gioiosa traversata a tappe è il vulcanico e geniale Angelo Piana, inventore dei primi scarponi in plastica per scialpinismo, i San Marco Raid, e dei leggendari sci Explorer della Roy. Nel 1977 ha anche luogo una delle più belle, a parere di chi scrive, traversate delle Alpi: è quella di Bernard e Hubert Odier, da Mallnitz in Austria alla spiaggia di Mentone in Costa Azzurra. In tre mesi esatti, dal 18 febbraio al18 maggio, senza utilizzare il cronometro e senza auto di appoggio, lungo un itinerario diretto ed elegante. I fratelli Odier hanno scritto sulla loro traversata un magnifico libro, tradotto in italiano con il titolo Tutte le Alpi in sci. Questo libro è ancora oggi una vera Bibbia per lo sciatore alpino errante, che non cerca l’exploit a tutti i costi ma un rapporto vero con la montagna e i suoi abitanti. Come Zwingelstein, come Bois e forse tanti altri che non hanno fatto sapere nulla sulle loro traversate. Il volume è diviso in 17 capitoli che sono altrettanti inviti a conoscere separatamente i diversi massicci toccati dagli Odier nel loro raid.
Arriviamo quindi alla traversata delle Guide alpine Paolino Tassi e Mauro Girardi del 1996, effettuata con l’attrezzatura da telemark e con la tenda, per evitare di scendere in basso per dormire. L’idea era di seguire l’itinerario dei fratelli Odier ma i due partono con zaini troppo pesanti e cammin facendo decidono di alleggerirsi, dando alla traversata un’impronta più godereccia, privilegiando le belle sciate in diverse stazioni, facendosi un punto di onore di utilizzare gli impianti quando possibile, eliminando alcune tappe poco sciistiche e usufruendo di un pulmino di appoggio. Nulla di male, hanno fatto benissimo, non avevano bisogno di dimostrare la loro bravura a nessuno. La mancanza di neve ha fatto concludere la loro traversata nella valle di Névache in Delfinato, togliendo a Paolino e Mauro il privilegio di percorrere le Alpi Marittime, vero Paradiso dello sci. L’ultima grande traversata delle Alpi, prima del Red Bull Der Lange Weg del 2018, è quella in solitaria del piemontese Paolo Rabbia. Partito da Forcella della Lavina, in Friuli, il 29 dicembre 2008, Rabbia arriva sulle piste di Garessio, in Piemonte, il 28 febbraio 2009. Una performance eccezionale, da solo in 62 giorni, ma soprattutto la prima traversata completa delle Alpi in pieno inverno. Con lo stesso stile veloce Rabbia ha effettuato la traversata integrale dei Pirenei nel 2014, sempre in pieno inverno, dal Mediterraneo all’Atlantico in 29 giorni. Tanto di cappello!
La ricerca dell’exploit a tutti i costi è però sempre più evidente nelle traversate delle Alpi con gli sci. Il tarlo già presente nella traversata di Bonatti ha lavorato parecchio. L’ultima Red Bull, sulle tracce della sopra citata Vienna-Nizza del 1971 ne è l’esempio più eclatante: l’obiettivo principale, raggiunto, è stato quello di diminuire il numero di giorni necessari per effettuare il raid, trasformandolo così di fatto in un rally competitivo. Lo spirito del raid però non è questo. Trasformare un raid in una gara significa non averne capito l’essenza. Come scrisse il grande fotografo e scrittore Jean-Pierre Bonfort (andate a vedere il suo sito web!) in un vecchio articolo su Montagnes Magazine, lo spirito del raid in sci è «passare la giornata camminando, vedere il sole tramontare e preparare il nido... poi, leggeri, senza zaino e senza duvet, salire lassù fino in cima al pendio, fino a quel colle. Flessibilità ci vuole, soprattutto flessibilità. Nei programmi e nella propria testa. Bisogna lasciar decidere alla neve». Ci sono certamente ancora scialpinisti che si mettono sulle tracce degli Zwing, dei Bois, degli Odier, dei Bonfort, magari senza far sapere nulla: ad essi va tutta la nostra stima.
AL DI LÀ DELLE ALPI - Lo sci di raid si è sviluppato moltissimo, complice la facilità dei trasporti, sulle montagne bianche del mondo. Raid è quindi diventato sinonimo di viaggio con gli sci. Il gioco consiste nel mettersi sulle tracce (sia chiaro senza alcuna ambizione di fare meglio!) di un Marc Breuil nei Pirenei, in Terra di Baffin, nelle Alpi di Stauning, in Karakorum. Oppure di un Mario Casella, dopo aver letto il suo prezioso volume Nero-Bianco-Nero sulla traversata del Caucaso, dal Mar Caspio al Mar Nero. Oppure procurarsi (con qualche difficoltà) i due volumi di Michel Parmentier, lo sciatore errante per eccellenza, a cui dobbiamo l’idea di straordinari raid sulle montagne che si affacciano sul Mediterraneo. Oppure ancora mettersi sulle tracce della Guida alpina Pierre Neyret, autore di Hautes Vallées du Pakistan e ripetere, magari insieme a lui, la più ardita traversata in sci del Karakorum. Che è poi quella fatta da Breuil e compagni nel 1990, a sua volta sulle orme di Eric Shipton e di Bill Tilman, che aprirono (a piedi) questo fantastico itinerario nel 1937 e 1939. Il gioco finale è senza dubbio quello di chiudere il cerchio, di ritornare alle origini dello sci di raid, percorrendo la traversata di Nansen in Groenlandia. Pensiamo che uno sci di raid di questo tipo, senza camper ed equipe di appoggio, senza ossessioni cronometriche, senza sponsor da soddisfare, senza programmi troppo definiti, sia ancora possibile e non sia affatto superato dai tempi. Basta leggere e lasciar lavorare, nella giusta direzione, la fantasia.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 118, INFO QUI
Il libro
Giorgio Daidola ha pubblicato per la nostra casa editrice Sciatori di montagna (208 pp, 19 euro). Dodici ritratti di padri dello scialpinismo, da Wilhelm Paulcke, il primo ad attraversare con gli sci l’Oberland Bernese, a Michel Parmentier, l’inventore dei moderni viaggi con gli sci. E poi Lunn e Mezzalama, Castiglione, Gobbi. INFO SU SCIATORI DI MONTAGNA QUI
Le code sull’Everest e la questione ossigeno
La foto di Lydia Bradey, la neozelandese prima donna ad avere scalato l’Everest senza ossigeno, ripostata da Hervé Barmasse, ha fatto il giro del mondo, come la notizia che tra il 22 e il 23 maggio, complice anche una delle poche finestre di meteo favorevole, sulla vetta della montagna più alta della terra sono arrivate, dopo lunghe code alla balconata o all’Hillary Step, da 200 a 300 persone, sommando i diversi versanti. Una situazione, quella degli ottomila himalayani, che registra già quasi 20 vittime, alcune proprio in questi giorni sull’Everest. A fare le spese della situazione anche alcuni alpinisti di livello, come David Göttler, con cinque ottomila in curriculum, che ha cercato di raggiungere la vetta senza ossigeno, ma ha dovuto tornare indietro, rimanendo imbottigliato nelle code delle persone al rientro. «La mia decisione di partire tardi e sfruttare il calore del sole ha funzionato fino ad appena sotto la Vetta Sud quando il freddo è aumentato e sono rimasto intrappolato nelle code della gente che scendeva – scrive sul suo account Instagram – Ho deciso di rientrare da quota 8.650, dopo avere aspettato invano, perché sprecare energia non è un’opzione quando non hai ossigeno supplementare».
«L'anno 2018 aveva registrato il record con più salite in una sola stagione pre monsonica – ha scritto Barmasse sul suo account Instagram -. Più di 800 persone in vetta. Mercoledì scorso invece verrà ricordato come il giorno con più affollamento sulla cima del tetto del mondo. Circa 250 persone. La foto rende più delle mie parole. Per ogni persona si calcola circa 8/10 kg di immondizia per sempre abbandonata sulla montagna. Nonostante gli sforzi per ripulirla, la realtà ci propone una sola verità. L'alpinista insegue il proprio ego ed è disposto a sacrificare la montagna per un fatuo successo».
Il fotografo Dan Patitucci, riprendendo la notizia della rinuncia di Göttler, fa alcune riflessioni sul filo del paradosso sull’account Instagram @alpsinsight. «Non ho esperienza sull’Everest e so che la mia opinione vale poco. Ma mi disturba vedere tutte le persone che arrivano alla cima dell'Everest con l'ossigeno e essere messe nella stessa categoria di quelle che non lo usano. Gran parte dei media non fa più differenzia tra chi lo usa e chi no. Nel frattempo la maggior parte di chi non scala non sa nemmeno quale sia la differenza. Secondo uno studio, chi sale l’Everest con l’ossigeno vive le sensazioni che si provano tra 3.300 metri e 6.000 metri. La vetta dell'Everest è 8.848 metri. Io ho corso senza problemi a 5.300 metri. Pensateci. È come un Tour de France dove tutti pedalano su delle e-bike, tranne il concorrente in ottava posizione. Come si sentirebbe se nessuno menzionasse questo sforzo rispetto agli altri? È lui il vero vincitore? Il vero ciclista? E se gli e-biker non avessero la forza o le capacità per affrontare il percorso senza quel motore, farebbero parte della gara?». Una riflessione che, al netto delle prestazioni ossigeno-senza ossigeno che non sono così facilmente paragonabili con dati e numeri precisi, trova l’approvazione di Kilian Jornet e del trail runner Pascal Egli, che commenta come per salire in vetta sarebbe meglio basarsi sul curriculum alpinistico piuttosto che sui soldi. «Credo che se avessi pagato 70.000 dollari per scalarlo e mi capitasse di dovere aspettare a oltre 8.000 metri come in fila per un pellegrinaggio il mio sogno si trasformerebbe nel più terribile degli incubi» commenta la Guida alpina Alberto De Giuli. Everest, sogno o realtà? O piuttosto incubo? Rimane il fatto che la situazione sta degenerando e sarà sempre peggio.
Camaleonte Markus Eder
Dopo la vittoria al Freeride World Tour è indubbiamente lo sciatore del momento. Skialper ha intervistato Markus Eder sul numero 110 (puoi ordinarlo qui), ecco cosa ci aveva detto.
«Non c’è un granché dietro a quello che facciamo e con queste parole inglesi proviamo un po’ a venderlo». Ha risposto così, come un consumato frequentatore di talk show, a una raffica di «slidare un half-pipe, jibbare, tricks, kickers, twin tip» sparatagli addosso da Gigi Marzullo su invito di Fabio Fazio alla trasmissione Che Fuori Tempo Che fa, su Rai Tre, a dicembre. E pensare che Markus Eder, il futuro del freeride e del freestyle, l’unico italiano nel gotha dei park e delle run nella powder, a dire il vero uno dei pochissimi in assoluto al top in entrambe le discipline (e nei powder movie), davanti a una telecamera e ai giornalisti non si trova tanto a suo agio. «Non ero molto tranquillo, avevo paura di fare qualche errore di italiano» ha confessato a freddo. È sempre lui, il ragazzino terribile che faceva gare di sci alpino e che voleva essere capo di se stesso, senza ricevere ordini da un allenatore, che ha scelto il freestyle a 14 anni perché gli piaceva saltare e aveva iniziato a non vincere più tra i pali. E lo stesso che, quando il manager Franz Perini gli ha proposto i primi contratti con gli sponsor, ha voluto parlare in inglese per capire meglio «cose per me molto importanti». Markus Eder, nato a Brunico, ma residente in Valle Aurina, classe 1990, è uno sciatore completo. Nel 2010 si presenta al Nine Knights, con i più forti freestyler del mondo, e vince Big Air & Best Jibber. L’anno dopo Franz Perini lo iscrive al Red Bull Line Catcher, con il gotha del freeride. Non ci crede, non capisce come possa andare a confrontarsi con i big del freeride, lui che arriva dai park e dalla neve dura. Alla fine arriva secondo. «Se ci penso, dico che rimane ancora la mia gara più grande di sempre». Intanto nel 2013 vince la tappa italiana del Freeride World Tour, a Courmayeur. Markus Eder ha fatto il viaggio di Candide Thovex, dal freestyle al freeride, ma anche quello di Kilian Jornet, dalla natura addomesticata delle gare al grande outdoor, quello per esempio dei film nei quali è protagonista sci ai piedi, come Ruin & Rose di MPS Films. Ha sdoganato parole come big mountain e backflip da Fazio come Kilian ha portato il trail e le imprese di Summits of my Life al grande pubblico. Markus è lo skier globale italiano, adulato da Red Bull, con l’inglese come lingua ufficiale sui suoi canali social e quasi il doppio dei follower di Jérémie Heitz su Instagram. Ed è sempre più interessato allo skialp…
Markus, cominciamo con il capire chi sei: un freestyler o un freerider?
«Un freeskier, il termine giusto per definire chi come me fa tutto: freestyle, freeride, scialpinismo».
Giusto, scialpinismo. Qualche tempo fa dicevi che l’andare piano non faceva per te e che dovere camminare tanto per raggiungere le discese non ti piaceva…
«Quando ero piccolo la fatica non mi piaceva, ora inizio ad apprezzarla sempre di più. Quest’anno ho fatto 5-6 gite con i miei genitori e naturalmente sono più lento di loro, perché ho sci larghi e scarponi da freeride, ma l’apprezzo sempre di più».
Il park e la neve fresca sono due cose diverse, se dovessi scegliere?
«Credo che, con le giuste condizioni, oggi non avrei dubbio: neve fresca».
Hai scelto di competere ad alto livello nel freestyle e nel freeride, non è sicuramente facile, perché?
«È vero, oggi c’è sempre più specializzazione: chi punta alle Olimpiadi lavora solo nei park, altri sulla neve fresca, io faccio tutto perché sono così, mi piace saltare nei park e farmi una bella run in neve fresca, magari anche una gita scialpinistica. E poi, a differenza di chi fa solo powder, sono molto flessibile e posso sempre allenarmi».
Che cosa ha portato il freestyle nel freeride? Si può dire che il livello fuoripista è salito grazie ai trick fatti nei park come è avvenuto nell’arrampicata sportiva con le palestre?
«Sì, mi sembra un paragone giusto, se provi centinaia di volte i salti nei park, quando magari fuori non ci sono le condizioni, metti le basi per salire di livello nel freeride, impari i trick che ti servono nella neve fresca e poi atterrare sul duro aiuta ad avere la giusta sensibilità per atterrare anche sul soffice della neve fresca».
Sembra difficile da dire, perché il livello è altissimo, ma qual è la prossima frontiera del freeride?
«Jérémie Heitz ha sicuramente ridefinito gli standard della velocità e del big mountain, però si pensa sempre che non ci sia più nulla di nuovo da inventare e invece ogni anno si vede qualcosa di importante. Sicuramente il mio stile è diverso da quello di Heitz, io vado più piano e vedo la montagna come un parco giochi».
Non credi che avere sciato tra i pali ti abbia dato la tecnica di base per salire di livello?
«È probabile, ma quando sei al top ogni gradino in più è sempre difficile, come perdere qualche centesimo tra i pali. Come nello sci alpino o nello scialpinismo, all’inizio della stagione ti senti in forma, ma non sai come andrai realmente, o come andranno gli altri».
Nel film, Ruin & Rose, hai sciato anche sulle dune del deserto, vero?
«Sì, in Namibia, ma non è stato affatto facile come pensavo. Abbiamo anche contattato un tedesco che vive là e detiene il record di velocità con gli sci sulla sabbia per avere dei consigli però, quando abbiamo trovato un salto che sulla neve sarebbe stato perfetto, mi sono impiantato proprio sul dente e per riuscire a saltare abbiamo dovuto provare e riprovare».
Sciare in un film e fare una gara è decisamente diverso…
«Sì, io poi sono competitivo e mi piace vincere, ma nei film trovi quel senso di libertà, puoi sciare tutta una montagna e non solo una linea, hai l’elicottero a tua disposizione…».
I film stanno diventando un terzo lavoro…
«Sì, quest’anno infatti farò una sola gara, la Red Bull Cold Rush, dove ci sono salti in neve fresca, freeride e alpinismo. Però mi piacerebbe provare a fare il circuito Freeride World Tour seriamente, non solo un paio di tappe come in passato, è il mio obiettivo per la prossima stagione».
Facebook o Instagram?
«Instagram, mi piace essere up to date e so subito cosa succede dall’altra parte del mondo, per esempio se ha nevicato in Canada».
Il freeride è un’attività con una componente di rischio che non può essere sottovalutata, come ti rapporti con il rischio di valanga?
«Non mi piace rischiare a caso, se faccio un trick o un salto particolare e so che posso cadere, voglio essere sicuro che non ci siano sassi. Quando filmiamo in Alaska cerchiamo di non fermarci nei piani ma di avere sempre vie di fuga per non essere inghiottiti dalle valanghe. Rischio sì, ma con un piano b, senza usare la testa non ha senso. Queste situazioni ti insegnano ad apprezzare la vita e capire cosa ti piace di più».
Come cambia il concetto di sicurezza quando sei da solo e quando giri un film?
«Molto, quando vado con un amico ci muoviamo rischiando il meno possibile, anche perché dobbiamo considerare che se succede qualcosa non è facile venire a recuperarci velocemente, con un team come quello di MPS Films cambia perché ci sono 10-12 persone, Guide alpine, elicottero».
Sei mai rimasto coinvolto in una valanga o hai vissuto un incidente da vicino?
«Fortunatamente no e spero che non mi succeda. Qualche volta, specialmente in Alaska, dove sai che non c’è nessuno sotto, quando le condizioni sono rischiose proviamo a fare partire le cornici, provocando delle piccole valanghe».
Il tuo programma prevede anche un allenamento nelle tecniche di autosoccorso?
«Ne faccio un paio all’anno, di solito uno al Freeride World Tour e quando giriamo i film, ma non sono sicuro che mi verrebbe tanto facile agire in una situazione di pericolo: tra la teoria e la realtà c’è tanto spazio ed emozione e adrenalina giocano brutti scherzi. Per questo dico sempre ai miei amici che si sentono sicuri quando hanno artva, pala e sonda di allenarsi a usarli, tanto. La gente, quando vede i miei film, pensa che sia matto, ma spesso quando si va a fare skialp da noi ci si muove più in pericolo».
Usi sistematicamente un airbag da valanga?
«Sempre quando giro i film, faccio backountry vicino agli impianti o nel Freeride World Tour, per lo scialpinismo ancora no perché è troppo pesante. Per fortuna non ho mai dovuto aprirlo».
Che messaggio lanceresti a chi come te passa dal park alla neve fresca?
«Oltre a quello di portare sempre con sé l’artva e tutta l’attrezzatura tradizionale da autosoccorso in valanga, di tornare indietro se non ci si sente al cento per cento sicuri, non è mai una decisione sbagliata».
Il Sentiero delle Orobie di Mario Poletti
«Non scrivere se pensi di conoscere già il senso della storia prima di raccontare - in quel caso diventa insegnante. Non metterti in testa che salverai il mondo, non tentare di cambiare il mondo. È meglio se, mentre racconti la storia di cui ti stai occupando, cambia te. Vai alla scoperta di te stesso e del mondo, tutte e due le cose insieme, mentre racconti»
10 Rules of Documentary Filmmaking, Victor Kossakowsky
Ci sono storie che quando cominci a occupartene, mentre ti stai documentando e informando dalla viva voce dei protagonisti per poterle raccontare, capisci che sono molto di più di quello che immaginavi. Hai la sensazione di conoscerla bene la vicenda, i protagonisti e i luoghi, e quindi sei quasi certo di sapere tutto quanto è necessario per scriverne e per raccontare. Poi succede che, mentre stai intervistando i protagonisti, mentre cerchi di mettere la storia in prospettiva e di ricostruire i fatti sentendo gli stessi episodi raccontati tante e tante volte da persone diverse, ti accorgi che quello che sai tu di quella storia, quello che hai sentito dire o che hai letto, non è che un pezzettino minuscolo. È la classica punta dell’iceberg. Tutto il resto, tutto quello di cui varrebbe la pena raccontare, rimane seminascosto sotto il pelo dell’acqua. La storia di Mario Poletti e del suo record di percorrenza del Sentiero delle Orobie, è una di quelle storie. Una di quelle che ti fanno venire voglia di occupartene ancora e di lavorarci sopra, perché hanno qualcosa da dirci che non è ancora venuto fuori.
‘IL’ MARIO (come si dice a Bergamo)
Il Mario Poletti di cui racconteremo adesso, per cominciare, non è il Mario che tutti conosciamo, il product manager e l’anima di Scott Running Italia: preciso, caparbio, entusiasta, quel Mario per un attimo lo mettiamo da parte. Il Mario di cui ci vogliamo occupare ora è un ragazzino di Clusone, in Valle Seriana. Siamo negli anni ’80. È un fondista promettente, magrissimo, tra i sei e i diciotto anni lo sci di fondo è il suo mondo e il suo sogno sportivo. Nelle categorie giovanili è quasi sempre tra i migliori, è determinato e motivato, entusiasta. Forte. Poi arriva il salto alla categoria Juniores. Il passaggio è difficile. Per allenarsi sulla neve Mario deve fare avanti e indietro da Clusone fino a Schilpario dopo la scuola, è impegnativo, i suoi coetanei nei gruppi sportivi invece possono finalmente allenarsi a tempo pieno, come veri professionisti. Mario è costretto a fare i conti con la realtà: ha finito la scuola e ha cominciato a lavorare, conciliare lavoro e sci di fondo ad alto livello è difficile. Diventare un vincente è impossibile. È in questo momento che la corsa a piedi in montagna, da fase di preparazione estiva per lo sci di fondo si trasforma in qualcosa sempre più grande nella sua vita. «Io sono sempre stato un competitivo, sin da piccolo. Gare, gare, gare, per me gareggiare era tutto. Mi sono sempre allenato regolarmente anche nella corsa in montagna, non avevo l’esperienza e la brillantezza che ti regala la pista, ma in quell’epoca, in allenamento, ho fatto alcuni record personali che poi non sono più riuscito a battere, nemmeno nel momento di massima forma nel 2005. Tipo Rovetta-Blom in 25’03, avevo quindici anni». Mario è una persona molto concreta, quando dice 25’03” o quando ti dice il tempo sulla maratona non sta dicendo soltanto un numero, non butta lì delle cifre a caso: sta fondando un mondo. Sta stabilendo un ordine di grandezza preciso e comprensibile, fornisce un dato fondamentale per mettere in prospettiva le sue qualità di un corridore e in definitiva anche di un uomo. Mario bada ai numeri, prima di tutto. Il dato cronometrico che ci riporta è piazzato dentro alla frase al posto degli aggettivi, è chiaro che per lui i tempi e i record sono i pilastri portanti del suo universo di corridore, il resto è conversazione. Forse è per questo che la corsa su strada occupa una parentesi importante nella sua carriera di corridore, tra il ’95 e il ’99 corre diciassette maratone fino ad arrivare a un personal best di 2h19’. Poi lo skyrunning torna a fare capolino nei suoi pensieri.
CORRERE FINO A CHE IL SENTIERO FINISCE
Non si può dire che Mario ‘torna’ alla corsa in montagna. Forse, più correttamente, si può dire che, dopo essersi accertato delle sue possibilità su strada ed essersi confrontato con i migliori e soprattutto con se stesso e con il cronometro, senza compromessi, intravede la possibilità di esportare le sue qualità di velocità e di potenza anche in montagna. Non è un cambiamento quello di Mario in effetti, piuttosto un ritorno. «Da piccolo con il CAI mi portavano in campeggio in montagna per una settimana e sui sentieri c’erano tutti quelle targhette segnavia bianche e rosse con dei tempi indicati, io mi chiedevo dove fossero quei posti che mi sembravano lontanissimi, irraggiungibili e se veramente i tempi necessari per raggiungerli fossero quelli indicati sui cartelli. Chissà se io, magari, potevo correre più veloce? Leggevo sulle targhette quattro ore o sette ore e immaginavo che quei luoghi fossero chissà dove, lontani e appartenessero a un mondo diverso, all’altro capo delle Orobie. All’inizio non immaginavo di poter andare fin là di corsa. Fino al momento in cui mi sono reso conto che erano luoghi fin dove avrei potuto correre e che i tempi indicati su quelle targhette non erano che un invito ad andare più veloce. Al record delle Orobie, in fondo, ci ho sempre pensato. Sin da piccolo».
SCOMMESSA AL BAR
Sono gli anni dei record di salita, delle skyrace e della seconda generazione di atleti che si affacciano alla corsa in montagna di lunga distanza. Le gare di trail running sono ancora lontane dal diventare il fenomeno di massa che sono oggi ma lo skyrunning sta evolvendo in qualcosa di diverso, di più vicino al praticante comune e alla combinazione di alpinismo e velocità. L’universo road running si sta avvicinando all’universo montagna, le maratone e le lunghe distanze non fanno più la stessa paura ai corridori comuni. I quarantadue chilometri non sono un tabù, anche nell’immaginario collettivo. Il 1995, per dare una collocazione temporale al momento storico, è l’anno del capolavoro di Fabio Meraldi al Monte Bianco, con lo stratosferico tempo di 6h45’ per superare i 49,6 km e 3.600 m D+ della via Ratti dal Rifugio Gonella fino alla cima e ritorno in paese a Courmayeur. Mario Poletti nello skyrunning nei primi anni del 2000 vince tutto quello che c’è da vincere. Primo al Giir di Mont nel ’99; primo al Trofeo Kima, ancora al Giir di Mont, alla Monza-Resegone e al Sentiero di Ferro nel 2000; campione italiano di Skyrunning al Sentiero 4 luglio nel 2003, fino alla magica stagione 2004 dove, oltre al resto, fa sua la leggendaria Zegama-Aitzkorri Marathon con il record del percorso di 4h06’00”. Mario è al culmine della sua carriera sportiva e sta per diventare papà, qualcosa nella sua vita è sul punto di cambiare. «Avevo pensato che era il momento giusto per tentare il record, poi forse non ci sarei più riuscito e così avevo proposto ai miei amici della bergamasca, ognuno sul tratto di sentiero che rappresentava il proprio terreno di allenamento, di accompagnarmi». Il piano è semplice ma efficace: correre tutto il Sentiero delle Orobie e abbattere il record di Pasini che risale al 1982. Si mette a provare le varie sezioni del sentiero e raccoglie tutte le informazioni necessarie. Lavora al suo progetto (oltre a lavorare anche normalmente, come tutti, almeno otto ore al giorno) provando pezzo per pezzo il sentiero, si rende subito conto che scendere sotto le 9h25’ del precedente record non è cosa facile. Forse il progetto sarebbe rimasto in stand-by per un po’, la nascita del figlio era imminente. Succede un giorno che Mario incontra in un bar di Clusone Giovanni Bettineschi, patron di Promoeventi, l’organizzatore locale della tappa del Giro d’Italia in Valle Seriana. «Giovanni mi chiese che progetti o che gare avevo in ballo e io dissi che, oltre a diventare papà, mi stavo preparando per tentare di stabilire il record del Sentiero delle Orobie. Lui si entusiasmò subito e mi disse che mi avrebbe messo a disposizione un elicottero per filmare il mio tentativo e la sua struttura organizzativa per raccontarlo. Fui preso un po’ in contropiede, rimasi sorpreso ed entusiasta». Il progetto in grande stile nacque così, su due piedi, al bar. Carlo Brena, giornalista e collaboratore di Promoeventi, fu coinvolto e gli fu affidato il compito di raccontare il tentativo attraverso il suo ufficio stampa, fu prodotto anche un video che oggi si può vedere integralmente in rete. «Il mio tentativo di record passò da esperimento personale a evento, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso. Sentivo di non potere più tirarmi indietro o fallire, a quel punto. La comunicazione attorno all’evento era una responsabilità supplementare».
IL SENTIERO DELLE OROBIE
Il Sentiero delle Orobie nasce da una intuizione del CAI e in particolare del suo presidente Carlo Ghezzi già negli anni ’50 e si concretizza poi grazie soprattutto al lavoro di Gianbattista Cortinovis alla metà degli anni ’70. È un percorso escursionistico che unisce tra loro, in un circuito di 84 chilometri con un dislivello di oltre 5.000 m D+, Valcanale con il Passo della Presolana. Il percorso collega tra loro sette rifugi del CAI di Bergamo e idealmente, in un abbraccio semicircolare, tutte le Orobie. I bergamaschi conoscono bene le loro montagne, il sentiero e in parte anche la storia del record, che è avvolta però in un alone di leggenda. Mario si trova alle prese con gli ultimi preparativi della sua sfida proprio nei giorni in cui vene al mondo il suo primogenito. Deve ancora provare alcuni tratti di percorso e tra le varie difficoltà che deve affrontare e il lavoro, c’è anche quella di reperire informazioni certe rispetto ai tempi di passaggio, non sempre parziali cronometrici e realtà corrispondono. «Avevo i tempi dei passaggi di Renato Pasini ma a volte mi sembravano molto tirati e altre abbastanza lenti. Certo era che per mettere insieme tutti i pezzi del puzzle e correre in meno di 9h30’ bisognava andare davvero forte e non lasciare niente al caso, non sbagliare nulla. Inoltre pochi giorni prima del mio tentativo, dopo che su L’Eco di Bergamo era stato annunciato grazie al lavoro di Promoeventi il mio tentativo di record, ricevo una telefonata da parte di un altro runner bergmasco, Battista Marchesi, che mi fa notare che il record del Sentiero delle Orobie non è di Pasini ma suo, con 9h06’. Resto di stucco».
IL TENTATIVO
«L’idea di avere un cronometrista federale a ufficializzare la prova - a parlare è Carlo Brena, addetto stampa dell’evento - era stata mia. Serviva avere un riferimento ufficiale e così ci organizzammo con la federazione nazionale per averne uno». Il racconto del tentativo da parte di Carlo offre un’idea della tensione e delle grandi aspettative che c’erano attorno all’evento. È il 7 agosto del 2005, il classico mese di ferie degli italiani è appena incominciato e quindi sparsa sul percorso, nei rifugi e in partenza, nei punti più panoramici dei sentieri, c’è un sacco di gente in attesa del passaggio di Mario. Escursionisti, uomini, donne, bambini, rifugisti, persone che sono partite il giorno prima o nella notte per testimoniare il passaggio e l’impresa. Per battere le mani per qualche minuto e per poter dire: io c’ero. «Alla partenza a Valcanale erano quasi le sei del mattino - continua Carlo Brena - si era radunata una piccola folla e io e Giovanni Bettineschi volevamo realizzare un’intervista filmata prima della partenza, quando il cronometrista ufficiale annunciò a noi e a Mario che alle 6:00 in punto avrebbe fatto scattare il cronometro, come gli avevano detto di fare dalla Federazione. Tentammo inutilmente di spiegargli che era un tentativo di record e non una gara e che quindi in fondo si poteva partire quando volevamo noi, ma il giudice fu irremovibile. A noi ‘girarono’ abbastanza e a Mario toccò partire in fretta e furia, niente interviste, niente video, poche foto. Non ci restò che seguirlo per tutto il giorno con l’elicottero facendoci trasportare da un rifugio all’altro. Mario ci aveva dato una tabella di marcia con i passaggi che rispettava al minuto».
CORRERE, INSIEME
Uno dei fattori più straordinari della cavalcata di Mario Poletti sul sentiero delle Orobie, forse uno dei più sottovalutati, fu il concetto di correre ‘insieme’. Insieme a quelli che erano i suoi compagni di allenamento e in definitiva anche i suoi avversari nel corso di tante gare per tutta la carriera in giro sulle Alpi e per il mondo, tanto per cominciare. Insieme agli escursionisti e ai camminatori più lenti sul percorso che lo aspettavano, lo seguivano con lo sguardo e lo applaudivano. Insieme a tutti quelli che fino a pochi giorni prima non sapevano nemmeno dell’esistenza del Sentiero delle Orobie ma che sapevano del tentativo di record perché l’avevano letto sul giornale. Tutti, nessuno escluso, correvano idealmente con Mario. Curioso no? Gli avversari che diventano supporter, Il CAI e i suoi rifugisti che diventano partner di un atleta alle prese con il superamento dei propri limiti contro il tempo. Questo sentirsi uniti da parte di tutti gli appassionati della montagna ci offre un’idea di quanto il record di Mario sia diventato in realtà un urlo di gioia collettiva di tutti gli appassionati di running e di montagna bergamaschi. «L’organizzazione delle staffette era stata abbastanza semplice - dice Mario -: avevo chiesto ai miei amici con qualche telefonata di assistermi lungo il percorso. Il compito era quello di aiutarmi con le traiettorie soprattutto in discesa, passarmi da bere e qualcosa da mangiare ogni tanto, dato che io correvo da un rifugio all’altro in scarpe da running, calzoncini e maglietta, leggero e senza zaino. E poi soprattutto nell’ultimo tratto, quello della Ferrata della Porta alla Presolana che è tecnicamente il più impegnativo, dovevano tenermi d’occhio e ripigliarmi per le orecchie in caso di errore o di svarione, dato che procedevo slegato. Per fortuna tutto andò bene». Quello che forse ha segnato il passaggio tra l’epoca delle skyrace e dei trail è stato proprio questo concetto: l’idea di passare dall’indipendenza all’autonomia. Correre indipendenti sulle montagne implica il concetto di usufruire della assistenza in gara offerta dagli organizzatori, si è indipendenti tra un punto di controllo o di ristoro e un altro e tra corridori ma questo è più simile a quello che avviene alle gare su strada che non in montagna. Nel trail running invece spetta al concorrente fare fronte alla complessità del percorso e alle variazioni meteo e gestirsi, in autosufficienza. Serve essere solidali con gli altri. Nel tentativo di Mario si può dire che abbia corso in una specie di condizione speciale e bellissima intermedia tra le due possibilità, dove ad amplificare le sue qualità sportive e la sua tenacia si sono alternati gli amici e gli appassionati in attesa sul percorso. In questo senso il suo record è molto vicino al concetto atletico e sportivo della skyrace, ma anche alla solidarietà tra concorrenti tipica del trail e in ultima analisi anche dell’alpinismo. In questo senso Mario e il suo record, insieme agli organizzatori e al CAI, hanno precorso ampiamente i tempi, indicando una direzione da seguire.
TRIONFO AL PASSO DELLA PRESOLANA
Superata la crisi dopo il Rifugio Curò, tra il Valico della Manina e il Rifugio Albani e dopo il Sentiero della Porta, dopo 8h23’ di corsa ininterrotta Mario Poletti è in Cima al Visolo. Da quel punto è tutta discesa e in una picchiata velocissima, scortato tra gli altri da un giovanissimo Marco Zanchi, arriva al Passo della Presolana in 8h52’31’’, abbattendo nettamente il muro delle nove ore che si era idealmente e segretamente prefissato. Al Passo, dove è stato preparato un arrivo degno del Giro d’Italia, ad aspettarlo ci sono centinaia di persone che lo acclamano e lo applaudono, tra questi anche Renato Pasini, l’ex-detentore del record. I due si stringono la mano e si abbracciano, avviene il virtuale passaggio di consegne. Il cronometrista ufficiale certifica il tempo e una pietra angolare del trail running e dello skyrunning Italiano viene fissata. Il record è lì da battere, a tutt’oggi, per chi ci vuole provare. Non è facile. ma in fondo i record sono fatti apposta per essere battuti, prima o poi succederà.
DAL RECORD ALL’OROBIE ULTRA TRAIL
Dopo il record di Mario Poletti il Sentiero delle Orobie ha conosciuto alcuni anni di gloria, sul percorso sono stati organizzati nel 2007 i Campionati Mondiali di Skyrunning, ai quali ha preso parte anche un certo Kilian Jornet. Su un percorso a staffetta suddiviso in tre tronconi è stato possibile verificare l’assoluto valore della sua performance solitaria, paragonabile a quella degli atleti partecipanti in staffetta. Poi dopo, nonostante gli sforzi organizzativi e promozionali, anche per via della virata del gradimento dei runner e degli organizzatori verso le gare trail, la skyrace sul Sentiero delle Orobie e andata a sparire. Il Sentiero delle Orobie è ora tornato a essere terreno propizio per l’escursionismo e per la corsa in autonomia e l’Orobie Ultra Trail è diventata la gara di riferimento della bergamasca e non solo, si tratta in effetti di una vera e propria kermesse internazionale. «Abbiamo deciso di scegliere un percorso diverso da quello del Sentiero delle Orobie, coprendone solo alcuni tratti - a parlare è Paolo Cattaneo, responsabile tecnico della gara, organizzata da Spiagames Outdoor Agency - per dare un’interpretazione diversa del territorio. Il percorso è tecnico e impegnativo, si toccano Clusone e Carona, due località in cima alla Valle Seriana e Brembana ed entrambi i tracciati arrivano a Bergamo Alta. È una gara che coinvolge tutta la provincia e che porta idealmente le Orobie nel cuore della città. C’è una forte connessione del territorio con la gara, che si è radicata con forza. Abbiamo molti partecipanti che non hanno mai corso nemmeno una maratona, non sono runner o trail-runner ma appassionati delle Orobie che hanno voglia di mettersi alla prova e che vogliono condividere con un gruppo di amici il piacere della corsa e di tutta la preparazione necessaria».
Forse il più bel frutto dell’impresa sportiva di Mario Poletti è proprio questo: l’essere riuscito con il suo entusiasmo e la sua passione per la montagna oltre che per la corsa a fare amare le Orobie e i suoi sentieri ai bergamaschi. Nella scia del suo record ci sono centinaia di corridori amatoriali, alcuni grandi del trail running internazionale come Oliviero Bosatelli e Marco Zanchi e tanti gruppi di appassionati volontari che, coordinati da Spiagames Outdoor Agency, ogni anno si mettono con entusiasmo al lavoro per fare da supporto ai concorrenti della Orobie Ultra Trail. Radicare una gara vuole dire in definitiva farla crescere a partire da un seme. Quel seme lì, sulle Orobie, si chiama senza dubbio Mario Poletti. Qualcuno forse negli anni a venire - non senza fatica - potrà portargli via il record del Sentiero delle Orobie, ma nessuno mai potrà portargli via il merito di essere genitore di un movimento così grande. E per questo noi, a Mario, non diremo mai abbastanza volte grazie.
I PASSAGGI
Partenza, Valcanale, ore 6:00 del 7 agosto 2005
Rifugio Laghi Gemelli, ore 6:59
Rifugio F.lli Calvi, ore 8:01 [
Rifugio Brunone, ore 9:28
Rifugio Coca, ore 10:32
Passo Manina, ore 12.18
Pizzo di Petto, ore 12:59
Rifugio Albani, 13:36
Cima Visolo, 14:23
Passo Presolana 14:52
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Come funziona l'anti-doping nello ski-alp?
Lotta al doping nello ski-alp, come funziona? L’ISMF, come altre federazioni internazionali come quella del biathlon, o organizzatori, per esempio Losanna 2020, ha firmato una partnership con l’ITA, l’International Testing Agency, organizzazione che fa base a Losanna ed è ovviamente riconosciuta dal CIO e dalla WADA. Un accordo raggiunto prima del via della nuova stagione (l’ITA è nata infatti solo ad inizio 2018), prima, dal 2011, si affidava a SportAccord: è una no-profit, ma i soldi servono per fare i controlli. L’ISMF ha messo sul piatto un budget che è circa il 20% del bilancio: con quelle risorse l’ITA si organizza per una serie di controlli che devono attenersi allo standard, anche come numero di controlli, fissato dall’articolo 5 del codice anti-doping della Wada, che è stato aggiornato nel 2018. «Certo con più risorse si potrebbe fare molto di più - ci ha detto Roberto Cavallo, ISMF general manager che segue con il ‘discorso’ anti-doping con Regula Meier, ISMF anti-doping coordinator - ma siamo già soddisfatti di essere tra le federazioni internazionali più ‘piccole’ a realizzare un programma antidoping adeguato a quanto richiesto dalla WADA». I numeri di quanti controlli, di chi sia stato controllato, ancora non si sanno: l’ITA fissa il minimo richiesto dalla WADA e poi si muove di conseguenza in modo autonomo; alla fine presenta alla federazione internazionale un report di quello che è stato realizzato. Report che nel caso della ISMF sarà presentato a fine settembre ad Antalya, in Turchia, nel corso dell’assemblea generale, la stessa che in quei giorni eleggerà il nuovo presidente del dopo-Mariotta.
DUE LIVELLI - L’ITA, come tutte le altre organizzazioni anti-doping, lavora su due livelli. Quello classico del controllo a fine manifestazione: vengono scelti alcuni atleti a campione (di solito i vincitori o i piazzati nelle prime posizioni) e controllati. L’altro sistema è quello del cosiddetto ‘passaporto biologico’: in questo caso gli atleti vengono controllati anche lontano dalle gare, a casa o comunque nel luogo in cui si trovano che devono segnalare all’ITA. I campioni di sangue e urine vengono poi analizzati da laboratori approvati dalla WADA. Funziona così per tutti gli atleti, anche per gli ski-alper.
Ripido, dalle nuove linee sul Brenta ai progetti extra-europei
Questa primavera che sembra più un inverno pieno, lascia qualche traccia sulle pareti ripide delle Alpi e le prime spedizioni stanno partendo anche per Himalaya e Canada. Che cosa è successo recentemente nel mondo del ripido e che cosa bolle in pentola? In Valle d’Aosta diverse discese di rito ma senza alcuna particolare novità, la più significativa sembra essere la prima ripetizione della parete Nord della Becca di Nona, proprio a picco su Aosta: itinerario aperto da Davide Capozzi e Pica Herry nel 2013 e ripetuto da Sandro Letey, Edo Camardella, Pierre Lucianaz e Yari Pellissier. Passando al Piemonte da segnalare che In Valle Orco Giorgio Bavastrello con la tavola ai piedi è sceso da una nuova linea sulla bastionata Sud-Est della Punta Galisia. Stagione senza dubbio migliore verso le Dolomiti in particolare in zona Brenta e Adamello-Presanella dove i fratelli Luca e Roberto Dallavalle stanno realizzando una prima dietro l'altra. Tra quelle più significative Cima Scarpacò parete Nord-Ovest, Cima di Bon parete Nord-Est, Cima del Vallon parete Nord-Ovest, Cima Tosa parete Est e Crozzon di Val d'Agola parete Nord-Est.Sempre in Adamello Claudio Lanzafame, Alessandro Beber e Marco Maganzini hanno sciato il Canale della Punta dell'Orco. Oltre confine, Tom Gaisbacher ha sciato alcune belle linee in Austria nella zona di Lienz (Hoher Tenn parete Est e la parete Sud-Est del Grosses Wiesbachhorn) e una classica alpinistica, la parete Nord del Gran Pilastro o Hochfeiler in Val di Vizze, Alto Adige. In Svizzera infine Seb de Sainte Marie ha continuato a inanellare alcune belle discese, come alcuni couloir al Gross Schiben, la Nord dell Vorab Glarner e del Piz Dolf e la Nord-Ovest del Piz Sordona. Mathéo Jacquemoud ha annunciato sul suo account Instagram di avere sciato una linea dalla Capanna Solvay, sul versante Est del Cervino, insieme a Vivian Bruchez, primo passo di un progetto tra Zermatt e Chamonix sul filo delle frontiere. Tutto questo mentre Enrico Mosetti, Tom Grant, Ben Briggs e Jesper Petersson sono in Alaska, sembra diretti al Mount Hunter. Poi a giugno il Nanga Parbat potrebbe vedere sia il tentativo di Cala Cimenti che del team francese che l’anno scorso ha sciato il Laila Peak: Chambaret, Duperier e Langenstein.
Pierre Tardivel, l'evoluzione di un mito
L'appuntamento è fissato per il primo pomeriggio, il viaggio scorre rapido attraverso la Valle d'Aosta, il tunnel del Monte Bianco e poi tra gli autovelox e i limiti delle autostrade francesi verso Annecy. Abbiamo anche il tempo di constatare che negli autogrill francesi panini e gelati vengono conservati alla stessa temperatura.
Con Federico in auto, dopo aver parlato delle ultime arrampicate, il discorso vira - per ovvie questioni di politica aziendale - rapidamente sullo sci. Anzi sugli sci del mito che stiamo per incontrare. «Ha usato per anni quel modello lì, poi ha cambiato, è passato a modelli rockerati. Sì, però per le robe serie tornava sempre a quelli, poi adesso snow, comunque gli chiediamo tutto».
E fu così...
L'indirizzo è quello giusto, il navigatore non mente, le colline morbide di Annecy circondano una zona residenziale con casette unifamiliari basse, ciascuna con il suo giardino. Ci avviciniamo al cancello che riporta il numero civico indicato: un uomo sta sistemando dei rami in fondo al giardino. Ci vede, ci fa un cenno. Entriamo.
Stringiamo la mano a Pierre Tardivel.
Non nascondiamo un po' di emozione che svanisce quando, oltrepassando la soglia casa, ci si trova di fronte a un arredamento decisamente informale: libri e scaffali occupano le pareti, due divani dai cuscini multicolore abbracciano un tavolino con diversi oggetti sopra. Qualche armadio che porta con sé qualcosa di orientale, una sala luminosa che dà direttamente sul giardino. Sul tavolo da pranzo circolare una gabbia con uno dei membri della famiglia: un coniglio. Anche un cane e un gatto decisamente in carne ci fanno capire che la passione per gli animali è di casa dai Tardivel, per lo meno al pari dello sci!
Quella che avevamo immaginato come un'intervista con una traccia ben definita, si trasforma fin dalle prime battute in un'allegra chiacchierata con il Piero! Spero che Pierre non si offenda se mi prendo questa licenza. Chiamarlo Piero trovo che renda la cosa molto confidenziale.
«Hai visto cosa ha di nuovo sceso il Piero?».
«Grande il Piero, sempre avanti!».
E se ci pensate, quante volte tra gli appassionati di sci ripido, guardando una foto o una parete orlata di seracchi, magari appartenente al massiccio del Bianco, alla domanda da chi fosse stata scesaavete sentito rispondere Il Piero!. Proprio lui. Sempre lui. Come un amico più grande di cui hai sempre sentito parlare! Dunque che il Piero non sia un tipo convenzionale lo capiamo nei primi trenta secondi: quando scopre che uno di noi due è il fotografo, gli si illuminano gli occhi di quella curiosità genuina tipica delle persone eclettiche e inizia a tempestarci di domande tecniche sugli obiettivi, sui corpi macchina. E non certo per capire quali siano gli strumenti migliori da utilizzare durante le discese o per immortalare momenti di sci appesi a qualche pendio a 50°. Il Piero infatti ha una grande passione che coltiva parallelamente allo sci: l'avifauna alpina e la fotografia faunistica! Un po' stupiti, lo incalziamo.
Ci incuriosisce molto scoprire che sei un grande appassionato di animali nel loro ambiente naturale! Da dove arriva questa passione?
«Sono 30 anni che faccio foto, soprattutto alle varie specie della fauna alpina nel loro ambiente. Adoro prendere immagini degli animali di grossa taglia e di uccelli. Basta appena uscire da Annecy, diverse volte mi è persino capitato di fare foto a cerbiatti direttamente dalla finestra del salotto. Sono bellissimi. E poi gli uccelli, solo nel mio giardino ne ho potuti individuare una cinquantina di varietà. Sono un appassionato della natura e fotografare gli animali è stimolante. Incontrarli per caso e cogliere l'attimo giusto… (mima un gesto quasi da vera e propria caccia fotografica, ndr). Il problema sono le dimensioni dell'attrezzatura, di solito metto la mia macchina con un buon obiettivo in una sacca che tengo davanti sul petto e mi permette di muovermi sia in salita sia in discesa anche quando scio. Sì, perché lo scialpinismo è un'attività ideale per fare fotografie. In salita uno tiene il giusto ritmo e si ha tempo per guardarsi intorno e scattare. Poi invece in discesa si scia». (ride)
E foto di sci?
«Anche sciando faccio un sacco di foto ai miei compagni, ne ho pochissime invece dove ci sono io perché gli altri ne scattano meno. Mi piace tanto fotografare, ma nelle discese ripide spesso utilizzo una compatta che è più comoda: la tengo sullo spallaccio fissata con un laccetto al collo e... zan, quando passa il compagno, scatto veloce! Mi sono accorto che utilizzando un obiettivo grandangolare da 24 mm e fotografando in un canale a 50° si riesce a inquadrare l'orizzonte. È più bello!».
Mi sembra che ti piaccia molto vivere ad Annecy , perché non Chamonix, più vicino al Bianco?
«No, non mi piacerebbe vivere a Chamonix, è più caotica e molto più cara rispetto a qui. E poi Annecy ha molti più servizi ed è meglio collegata. Ci sono più scuole e università per le mie figlie».
Riesci a lavorare come Guida alpina anche qui?
«In realtà come Guida lavoro poco. Lavoro piuttosto come intermediario nell'editoria di montagna. Per esercitare come Guida dovresti fare eliski, spedizioni, oppure due o tre Vallée Blanche alla settimana. Sinceramente non mi piace. È bello anche arrampicare, ma non come sciare».
Quindi preferisci sciare, ma sei nato alpinista o sciatore?
«Essendo Guida ho scalato e scalo e non mi dispiace. Ma scalare è fatica, dolore a volte, devi sempre forzare per ottenere risultati e andare forte. Lo sci è diverso, è più fluido, meno forzato, un'attività più dolce. Sciare mi è sempre piaciuto. La mia famiglia in montagna faceva al massimo delle escursioni. A sciare mi ci portava la scuola. Ma già a 10-11 anni mi piaceva più andare in fuoripista che su percorsi battuti. E poi non serve forza, si fa tutto plus en douceur, l'ho sempre preferito. Con i materiali di oggi è facile diventare un buono sciatore, è molto più difficile essere un buono scalatore».
Negli ultimi anni il livello si è molto alzato, complici materiali sempre migliori e più facili da utilizzare. Però forse troppo spesso ottimi sciatori si cimentano in discese anche molto impegnative, trascurando forse un po' troppo la componente alpinistica che lo sci di pente raide richiede. Quanto è importante?
«È indubbiamente importante, specie per gestire situazioni come creare delle soste, fare delle calate e altre manovre di corda in sicurezza. E poi se sei solo uno sciatore e non provi piacere anche durante le risalite delle pareti... insomma magari sali una parete per quattro ore, se non ti piace questa parte la giornata diventa lunga (ride!). Discorso diverso per le valanghe, anche con 40 anni di esperienza il rischio non è mai completamente eliminabile purtroppo. Bisogna fare attenzione a scegliere le giuste condizioni, sapere aspettare. Con la neve dura il rischio valanghe è minore ma, appunto, la neve è dura».
Lo sci ripido è diventato una moda negli ultimi anni. Come in arrampicata e alpinismo esistono vie di salita e percorsi più o meno difficili: è giusto pensare che sia così anche nello skialp?
«Sì, esistono pendii e montagne più o meno difficili, certo. Per esempio la scala Volopress mette tutto insieme sotto un'unica valutazione di difficoltà che mi vede d'accordo. In effetti il ripido è un'attività che è diventata di moda, ma a volte chi la pratica non è pronto come si è potuto vedere dal gran numero di incidenti di questo tipo della scorsa stagione. Anche la PGHM (il Soccorso Alpino francese, ndr) non è contenta di ciò. Non vorrei che poi alla fine come soluzione si arrivasse a vietare delle discese come la nord-est delle Courtes».
Lo sci estremo, per quanto ti riguarda, è qualcosa di diverso?
«Se ci riflettiamo, l'estremo lo si ha quando si cerca e si raggiunge il limite. E il limite lo cerchi per esempio nelle gare di freeride, ti confronti con un cronometro e cerchi il limite. Infatti a volte cadono: arrivare al limite cercando la velocità. Nello sci di pente raide che ho fatto e faccio, non si cerca il limite. La caduta è da evitare assolutamente. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato di muovermi con un margine di sicurezza, magari facendo una curva in meno se non me la sentivo. Non ho mai voluto raggiungere il limite ma il maggior piacere che mi poteva offrire una discesa ripida. È un'attività molto psicologica, è tutto nella testa, come diceva Stefano De Benedetti».
È la possibilità che dà lo sci di pente raide di ampliare esponenzialmente il proprio terreno di gioco che ti affascina di questa disciplina?
«No, è proprio la ricerca della pendenza che mi piace. È cercare di prendere confidenza con le proprie paure e gestire l'incertezza che restituisce il ripido».
Allora come vedi la tendenza degli ultimi anni di scendere certe pareti in modo superfluido e a grande velocità? (Gli si illuminano letteralmente gli occhi, ndr)
«Ah, poter sciare come Jérémie Heitz e al tempo stesso mantenere un margine di sicurezza, sarebbe un sogno! Anche con curve meno filanti, andando leggermente più piano, ma con quella fluidità. Per me lo sci è diventato cercare la perfezione del gesto su pendii adatti allo sci. Non mi interessano più quelle discese molto tecniche dove fai una curva, derapi metri perché non c'è spazio, fai un'altra curva e poi una doppia. Lo sci è saper attendere il bon jour per avere le condizioni per poter scendere nel modo più fluido possibile un bel pendio. Se le condizioni non ci sono, aspetterò, magari degli anni. Certe discese fatte trovando tratti ghiacciati che obbligano magari a doppie o a non sciare integralmente diventano un esercizio d'alpinismo. Cosa che non rappresenta la mia idea di sciare. Per me è più importante la natura, cercare di capirla e prendere del piacere giocando con essa, come per la fotografia degli animali selvatici».
Lo sci per te è ricerca di fluidità, abbiamo capito bene?
«Sì, è la ricerca di quella sensazione di fluidità che ha sempre influenzato il mio modo di andare sulla neve, specie con i materiali di adesso. Il freeride ha portato molto allo sci in questo senso».
Questa tua ricerca della fluidità passa senza dubbio anche per l'evoluzione dei materiali. A fine anni ottanta e novanta si usavano sci molto stretti, poi verso i primi anni duemila utilizzavi i mitici Dynastar 8800 e le successive evoluzioni che erano 89 mm al centro. Parliamo del tuo sci preferito?
«In quegli anni gli sci erano molto stretti, fare le curve era più forzato, più brusco. Con i nuovi materiali è diventato tutto più armonioso, più morbido. Ho usato molto gli 8800, è vero, ma quelli con cui mi sono trovato meglio sono stati i Dynastar Cham 97. Non troppo lunghi, avevano una maneggevolezza incredibile e poi col rocker erano facilissimi da sciare, non restituivano sorprese e avevano una buona rigidezza torsionale che per tenere sul duro è la cosa più importante. Intorno ai 95-97 mm secondo me c’è il compromesso ideale».
Ti confesso che ci hai spiazzato… come sei arrivato allo snowboard?
«È stato naturale cercando un modo per ottenere maggiore fluidità. Lo snowboard per uno sciatore come me non è stato immediato. Ho iniziato nel 2014, in principio lo trovavo contraddittorio, devi sempre accompagnare il movimento, molto più che con gli sci. Ma una volta che uno impara è assai meno faticoso. E poi adesso ci sono le splitboard. Ho deciso di fare il salto verso lo snowboard quando si è perfezionato questo tipo di materiale».
Un punto di vista molto surf questa ricerca del gesto fluido e più armonioso possibile. Che materiale usi adesso?
«Sì, mi piace e pratico quando posso anche il surf da onda infatti. Sulla neve utilizzo una splitboard Plume. Ma il vero problema è cercare la combinazione perfetta attacchi-scarponi. Uso uno scarpone SB di Pierre Gignoux e trovo che sia il compromesso perfetto che mi garantisce un'ottima risposta nelle sezioni in backside, anche su nevi difficili. Ovvio, lo snowboard patisce un po' le nevi dure, infatti ci sono pochi video di ripido su nevi dure. Però hai anche due picche e in front su tratti ghiacciati è meglio. Le cose cambiano se ci sono tratti di dry…».
Come sono stati gli inizi? Erano davvero così mitici quegli anni da un punto di vista delle precipitazioni nevose?
«Una volta gli inverni erano davvero diversi, nevicava sul serio. Si poteva sciare nove mesi l'anno, da novembre a luglio. Tra il 1978 e il 1980 ho iniziato a fare ski de randonnée. Fino al 1988 sono stato a tutti gli effetti un amatore. Poi fino al 1995 sono stato sostenuto dagli sponsor. Era mia moglie Kathy a organizzare tutto e a gestire i rapporti con le aziende. All'inizio essere pagato per compiere delle prime discese sempre più difficili è stata una motivazione, ho smesso di lavorare in banca e mi ci sono dedicato a tempo pieno. La ricerca della prima era sia un discorso di ego che di soldi. Poi mi sono accorto che questa impostazione stava influenzando anche le mie scelte e ho continuato la mia attività solo per piacere».
Scorrendo la lista delle tue discese, mi piacerebbe saperne di più su alcune, per esempio spesso mi capita di sciare nel Massif des Écrins dove nel 1997 hai ripetuto il Couloir Gravelotte sulla parete nord-est della Meije.
«Sì la Meije, purtroppo l'unico che è riuscito a sciarlo tutto quel canale, a proposito di cambiamenti delle condizioni nevose negli anni, è stato Patrick Vallençant alla fine degli anni '70, in occasione della prima discesa. Quando sono andato io in basso c'era già un tratto di 50 metri insuperabile con gli sci, così per evitare di fare doppie sono risalito e ho sceso il Corridor».
Un'altra discesa che mi ha molto colpito è quella del '95 sul versante Italiano del Triolet. Che caratteristiche aveva?
«Il problema di questa discesa è che ci vuole un grande innevamento per poter collegare tutte le parti, poi certo, è ripida!».
Una data mitica: 10 luglio 1988? Ne parliamo? Il Grand Pilier d'Angle: un posto surreale e pericoloso.
«Nello stesso giorno, con l'elicottero però, ho concatenato la parete sud-est del Col de la Brenva e la parete nord del Grand Pilier d'Angle. Era dopo una perturbazione di una settimana, forse il secondo giorno di bello. Sul versante italiano del Monte Bianco c'era un innevamento incredibile, tutto bianco. Tutto. La Brenva l'ho scesa presto e la neve, essendo luglio, si era già trasformata: l’ho trovata quasi dura, specie in alto. Poi sono stato depositato nuovamente sulla cima del Bianco, ho sceso la cresta di Peuterey per fare infine una parte di cresta del Grand Pilier d'Angle a piedi e scendere la parete nord. Qui ho trovato soprattutto ‘poudre tassée’, tranne nell'attraversamento sopra al seracco. La neve, decisamente dura, era un po' verglassata, poi una parte in doppia sul salto centrale e i pendii del tratto basso. Dall'elicottero avevamo monitorato i seracchi della Poire, non erano particolarmente brutti o fratturati, però lì sotto ho allungato le curve... È un versante bellissimo, sul quale mi piacerebbe sciare ancora, fortunati quelli che possono averlo sotto gli occhi tutti i giorni».
Hai mai avuto paura di una discesa, magari una parete che hai deciso di non scendere perché ti incuteva timore?
«Certo! Il Nant Blanc sulla Verte».
Però lo hai sceso e ci sei andato ben due volte!
«Sì, ma mi ci sono voluti ben venti anni per andare a provare! Non mi sentivo pronto, lo reputavo troppo difficile per me. Poi l’ho sciato: il Nant Blanc racchiude una serie di problemi tecnici e di pendenza notevoli. Non abbiamo fatto le doppie della parte centrale, ma abbiamo cercato, con una traversata, di collegare i due nevai. Nell'arco delle due volte ho sciato tutte le varie sezioni dalla cima, ma non concatenandole in un'unica discesa. E poi oggi il problema potrebbe diventare il risalto alla base. Invece ci sono delle discese che, paradossalmente, miglioreranno con lo scioglimento dei ghiacciai, speriamo!».
Ultima domanda, soli o in compagnia?
«In compagnia c'è condivisione. È più bello!»
Grazie Piero, un mito.
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Salewa Alpine Movie Night, il cinema di montagna nel cuore di Milano
Il cinema di montagna nel cuore delle movida milanese. È questo lo spirito di Salewa Alpine Movie Night che il prossimo 23 maggio porterà nel capoluogo lombardo una selezione di film dal Trento Film Festival. A partire dalle 18:30 l’area antistante il Salewa Store di Milano di Corso Garibaldi 59 verrà trasformata in un cinema all’aperto. Playing with the invisible, con Aaron Durogati, Carega Punk, con Andrea Simonini, No turning back, su Hansörg Auer, e Lantang i film in programma. Il campo base di Milano accoglierà gli spettatori con comode balle di fieno su cui sedere per godersi lo spettacolo, birra, speck, formaggi e prodotti tipici per trascorrere insieme una serata di ospitalità altoatesina. La partecipazione alla serata è gratuita. Basta recarsi a partire dal 21 maggio presso il Salewa Store di Corso Garibaldi, registrarsi e ritirare il proprio pass per la serata. L’orario limite per ottenere il pass in negozio il 23 maggio alle 17.
I FILM - «È nella solitudine luminosa dell'autunno nelle Dolomiti che Aaron Durogati, formidabile pilota e autentico esteta del volo, affronta il suo personale viaggio per imparare a rialzarsi. Una storia intima e potente sulla fragilità e la resilienza umana, per riscoprire il volo come gesto puro e autentica espressione di sé». Così viene presentato Playing with the invisible, di Matteo Vettorel e Damiano Levati, cortometraggio di 30 minuti. Andrea Simonini, regista di Carega Punk e scalatore Salewa, sarà presente alla serata. Carega Punk è una via di arrampicata aperta sull’omonima montagna. Langtang, di Seb Montaz, è uno dei film della serie Summits of my life con Kilian Jornet ed è ambientato in Nepal dopo il terribile terremoto del 2015. No Turning Back, di Damiano Levati, è un omaggio ad Hansörg Auer, scomparso il 16 aprile scorso in Canada insieme a David Lama e Jess Roskelley.
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Il Tor va in Tour
Il Tor des Géants, dopo dieci anni non ha bisogno di presentazioni, allora si racconta. Racconta le storie dietro le quinte, racconta le allucinazioni degli atleti, racconta le curiosità dei volontari, racconta il lavoro degli organizzatori. Storie che inevitabilmente si intrecciano tra loro. Questo un po’ lo spirito di Tor in Tour che martedì scorso ha fatto tappa a Torino, nella Sala degli Stemmi del Museo Montagna di Torino. Un appuntamento voluto da Ferrino, che sin dalla prima edizione ha creduto nell’evento ed è rimasto sempre sponsor della manifestazione. Dalla fornitura tecnica, sino alla presenza in gara, con un team tutto al femminile. Non a caso nella serata a Torino, con Anna Ferrino, Ceo di Ferrino, c’erano due atlete del Ferrino Women Team, Scilla Tonetti e Alice Modignani Fasoli. E c’era anche Erika Noro, responsabile del progetto VolonTOR e coordinatrice dei 2.500 volontari del Tor des Géants. Ma c’erano anche tanti appassionati di Tor: c’era chi l’ha fatto e chi magari un pensierino a farlo in futuro lo sta facendo. Una gara che nelle storie di chi l’ha fatta diventa più un viaggio dentro se stessi. Cosa si mangia, quanto si dorme, quali sono i tratti più difficili, il Malatrà come momento più emozionante e non solo perché si ‘vede’ il traguardo di Courmayeur: il Tor è una gara diversa da tutte le altre. Lo sapevamo, ma adesso ci crediamo sempre di più.
NUOVI REGOLAMENTI ALL’INSEGNA DELLA CONSAPEVOLEZZA DELLE DIFFICOLTÀ DI UNA CORSA IN MONTAGNA - In un’ottica di autoconsapevolezza sono cambiati i regolamenti delle gare per il Tor X, con modifiche sostanziali per quanto riguarda il materiale obbligatorio e quello consigliato per affrontare in sicurezza la gara. Il concorrente dovrà decidere se portare nello zaino o lasciare nella sacca Tor, in conseguenza di valutazioni proprie o di obblighi da parte della direzione di gara, l’attrezzatura sufficiente per affrontare in tranquillità e sicurezza il tratto di percorso che lo attende. Nonostante ciò, in particolari condizioni (meteo avversa, difficoltà tecniche del percorso…) i commissari di gara potranno controllare l’equipaggiamento del corridore e, in accordo con la direzione di gara, obbligare il corridore ad equipaggiarsi con il materiale richiesto o, in caso estremo, fermarlo.
Il concorrente, valutate le condizioni meteorologiche e il tratto di percorso da affrontare, alle basi vita (ogni 50 km circa), dove trova la sacca Tor, deve preparare la propria attrezzatura. In casi estremi, ai punti di controllo o di ristoro (dove è tollerata l’assistenza personale) il corridore può, grazie ai propri assistenti, avere ulteriori indumenti e scarpe di ricambio, alimenti e/o integratori.
Discorso a parte merita il Tor des Glaciers che, proprio per la sua natura di gara estrema in quasi totale autonomia, richiede che o corridori siano dotati di navigatore GPS, mappe del percorso, altimetro e bussola per seguire il percorso di gara. Una gara che ha riscosso immediato riscontro con pettorali sold out in pochissimi minuti.
Alla base di queste modifiche c’è il concetto di semi-autosufficienza che, da sempre, contraddistingue le gare di Vda Trailers: l’organizzazione fornisce una rete di sicurezza all’interno della quale l’atleta deve essere in grado di muoversi risolvendo e gestendo in autonomia situazioni difficili che possono presentarsi, legate alle condizioni psico-fisiche del corridore ed ai mutamenti meteorologici. Il ruolo dell’organizzazione non è di aiutare un atleta a gestire i normali problemi che possono insorgere: per una corsa in montagna di tanti chilometri la sicurezza dipende in primis dalla propria capacità di autogestione, anche in situazioni estreme, di giorno e di notte.
ESERCITO - Un endurance trail di 330 km con 24.000 metri di dislivello, corso per un tempo che va dalle 67 alle 150 ore in condizioni difficili e con poche ore di sonno, non è solo una prova estrema dal punto di vista fisico, ma anche mentale. Lo sa bene l’Esercito Italiano che, grazie ad una partnership stretta con Vda Trailers, utilizzerà il percorso di preparazione al Tor des Géants e la gara stessa come un addestramento alle missioni.
Ventuno militari, suddivisi in due plotoni da dieci ai quali si aggiunge un capitano, parteciperanno al Tor in partenza l’8 settembre, con le wild card messe a disposizione dall’organizzazione, per allenare e mettere alla prova diversi aspetti della vita sotto le armi quali la capacità di elaborare informazioni in condizioni di difficoltà, la gestione del sonno, la sopportazione del dolore: un addestramento mentale e fisico che nasce dal progetto ‘Over the Top – Cognitive Training’.
Nel 2018, il tenente colonnello Vincenzo Zampella ed il tenente colonnello Giulio Monti parteciparono all’endurance trail valdostano, portandolo a termine. Un ruolo fondamentale, in quell’impresa, è stato rivestito dal cognitive training affrontato dai due ufficiali in preparazione. Monti, nel 2017, si ritirò a pochi chilometri dal traguardo, e da lì è ripartito per raggiungere l’obiettivo.
In preparazione al Tor, i ventuno militari parteciperanno anche al Gran Trail Courmayeur 105 km, che partirà il 13 luglio. La collaborazione tra Vda Trailers e l’Esercito Italiano, presente sul territorio con il Centro Addestramento Alpino di Aosta, è di lunga data, e nasce con la prima edizione del Tor des Géants. Dal 2010 a oggi, infatti, le brandine messe a disposizione dai militari offrono il meritato riposo agli atleti nelle basi vita dislocate sul percorso: una fornitura indispensabile per una delle competizioni più dure e impegnative del mondo. Con la nuova partnership siglata, il corpo militare fornirà un supporto logistico fondamentale, anche in termini di sicurezza, per la realizzazione della gara, grazie all’impiego di mezzi (per esempio elicotteri abilitali al volo notturno) e personale, durante tutta la durata del Tor.