Smart, steep & deep

Perché no?

C’è stato un tempo in cui la neve era fondamentale, qui. Era un sogno: se mancava la neve, mancava tutto. Nelle notti di novembre, sempre più lunghe, i bambini stavano raccolti nelle stalle, a godere del calore di animali e di vecchie favole. Ma i loro pensieri, i loro sogni, i loro desideri volavano fuori, lontano, verso quelle nuvole chiare: il primo fiocco era un evento. Poi si trattava solo di aspettare, e nel giro di poco sarebbe arrivata l’ora di sciare.

Sciare, beh, parola grossa. Più che altro si trattava di raccattare un paio di doghe buone da una botte rotta, inchiodargli sopra qualcosa che per quanto improbabile potesse in qualche modo contenere i piedi (delle vecchie pantofole rubate di nascosto a una zia erano perfette, ad esempio), e poi via. Non c’erano impianti di risalita, qui. Non c’erano elicotteri, e nemmeno motoslitte. C’era poco più di nulla. Quello, e queste montagne incredibili.

Si saliva a piedi su uno dei pendii appena sopra al paese. Le montagne erano più che altro una cornice: troppo ripide, troppo pericolose, troppo lontane. Poi si scivolava giù, in qualche modo, i più bravi facendo anche le curve. Giù, poi su di nuovo, col fiato che si congelava sulla sciarpa di lana e i vestiti incrostati di neve, poi ancora giù, fino a che bastava il respiro. A tanti bastava così. Tanti, ma non tutti, perché c’è sempre qualcuno che guarda dove gli altri non vedono. Così qualcuno si è chiesto come sarebbe stato sciarci, su quelle montagne così ripide, in quei canali così stretti. Che follia.

Arnaud, Aaron ed Eric salgono veloci. Il canale si sta aprendo: ancora poco, poi sarà ora di traversare a sinistra, togliendo gli sci e tirando fuori picca e ramponi. Sarà ora di seguire quella cresta sottile fino alla cima, sentendo il vuoto tutto attorno come una presenza assordante.

È mattina presto. Il sole, appena sbucato sopra all’altopiano, sta iniziando a carezzare la testa alle Pale di San Martino. Qualche raggio fende l’aria tersa; i ramponi, montati su scarponi che non arrivano al chilo e mezzo, schizzano l’azzurro con minuscoli frammenti di ghiaccio. Gli sci costruiti a sandwich, leggeri e performanti, svettano alti sopra alle teste dei tre. Le lamine perfettamente tirate catturano la luce pura del mattino, mordendo soltanto l’aria, per ora.

Una volta era diverso. Eh, averli, degli sci veri. Dovevi essere fortunato: se avevi gli amici giusti, quelli che sciavano con gli Alpini, per dire, magari ogni tanto un paio di sci rotti da sistemare saltava fuori. Magari due spaiati, diversi, e magari serviva segarne un pezzo, se erano troppo grandi. Però, eh, rispetto alle doghe delle botti non c’era paragone. Con quegli aggeggi si poteva andare sul serio, filando veloci e precisi come i campioni, come Zeno Colò che andava a centosessanta all’ora giù dal Piccolo Cervino. Bastava mettersi un maglione in più e si poteva iniziare ad andare più in alto, più lontano, in quei posti che prima erano solo una maestosa cornice. Chi lo ha mai detto che in un canale non si può sciare?

Arnaud ha 32 anni e scia da quando è capace di stare in piedi. Si usa così, nella sua famiglia. Prima in Svizzera, sulle montagne di casa. Poi, beh, il mondo è grande. In trent’anni Arnaud ha sciato un po’ dappertutto: dalle Alpi alle Rocky Mountains, dall’Alaska all’Iran. Però non passa anno, da quando ha scoperto le Pale di San Martino, senza che venga ad assaggiarne la neve in compagnia di qualche amico del posto. Non ci sono pendii aperti dove hai la sensazione di poter sciare per sempre, qui: queste sono montagne fatte di dolomia e contrasti. Ma ciononostante, anzi, forse proprio per questo vale la pena farci un giro. Canali come questi, linee così articolate e giocose, beh, non si trovano in giro. Qui bisogna saper sciare sul serio.

Testo di Giovanni Spitale/Storyteller Labs

2.500 x 50 x 89 x 250 x 50

Lo aspettavano a Falcade per una serata con un noto alpinista. Ma a Falcade è arrivato a notte fonda, quando ormai era tutto buio. Cinquanta è il primo numero di questa equazione e sono gli anni del secolo scorso nei quali è ambientata. Novanta sono quelli all’anagrafe di Piero de Lazzer, il protagonista. Duemilacinquecento i metri di dislivello in salita (e 3.000 quelli in discesa) che questo insospettabile freerider d’antan percorreva con pesanti sci di legno quando ha Percorso la prima traversata della Catena Nord delle Pale di San Martino. Qualcosa come San Martino di Castrozza-Cima Vezzana-Val Strut-Cima Bureloni-Paaso delle Farangole Passo Mulaz-Falcade. Solo che a volte non tutto andava per il verso giusto. Appunto, come quel giorno in cui mancò l’appuntamento alla serata di Falcade. A causa della nebbia scesero per oltre 400 metri per la valle delle Galline per poi dover risalire. Fu uno dei primi inoltre, dopo Alfredo Paluselli, a percorrere la traversata delle Dolomiti da San Martino a Cortina. Altri numeri scorrono veloci nella contabilità delle Pale di San Martino. Duecentocinquanta sono i chilometri quadrati di questo gruppo del versante meridionale delle Dolomiti. Cinquanta quelli dell’altipiano che ne occupa la parte centrale. Ecco perché le Pale di San Martino sono rimaste un mondo a parte nel caleidoscopio del turismo di massa dolomitico. Un piccolo Nord dove ancora oggi c’è (un po’) meno gente a tracciare e a disegnare otto nei canali, la specialità locale. «Rispetto a qualche anno fa i couloir più famosi sono sicuramente più battuti, l’anno scorso è venuto anche Jérémie Heitz a provarne un paio, ma ci sono angoli ancora selvaggi e canali con poche ripetizioni, perché l’avvicinamento è più lungo: l’altopiano è ancora uno spazio dove si può fare esplorazione» dice Eric Girardini, Guida alpina e pioniere della seconda generazione di esploratori del ripido sulle Pale.

© Damiano Levati / Soryteller Labs

Primi sci larghi

Un gruppo di amici con tanta passione per la montagna e il ripido, l’esplorazione alpina e lo sci. Il verbo si diffondeva con il passaparola, niente social. E il fuoripista in Dolomiti era perlopiù vietato. Loro seguivano le orme di Diego Dalla Rosa, che negli anni Ottanta aveva iniziato a frequentare i primi canali ripidi del gruppo delle Pale e delle Vette Feltrine, e suonavano la musica della velocità e del vuoto sotto i piedi. Erano, oltre al Colonnello (Diego Dalla Rosa), Hermann Crepaz, Mauro Rubin, Willy Marin, Leopoldo Barbiroli ed Eric Girardini, poi si sono aggiunti tanti altri amici. Sono stati i primi, nell’era moderna, ad avventurarsi lassù con gli sci larghi, nel cuore delle Pale di San Martino, e ad aprire diverse discese nei canali. Erano anni nei quali in quota fuori dai percorsi classici non incontravi nessuno. Le Pale un paradiso per pochi, pochissimi. «Qui la funivia della Rosetta chiude troppo presto, ad aprile, quando in quota inizia il bello, nelle altre stazioni delle Dolomiti i canali sono ancora facilmente raggiungibili con le funivie, sulle Pale devi sempre ripellare - aggiunge Eric». Poi da queste parti sono arrivati anche il fotografo Mattias Fredriksson e Kaj Zackrisson, immortalato in uno dei video dell’Euro Road Trip della Salomon Freerski Tv del 2010 e il contest fotografico-freeride King of Dolomites. Nel 2015 una traversata delle Dolomiti che ha riguardato in buona parte le Pale con Bruno Compagnet, Seth Morrison, Giulia Monego e il fotografo Jeremy Bernard, ma questa è storia moderna.

Bruno e i corvi delle Pale

Sulle dita ha tatuato la scritta True Crows, corvi veri. Come quelli che volteggiano sulle forcelle dolomitiche. Chi non lo conosce Bruno Compagnet, originario dei Pirenei? Ma che cosa c’entra con le Pale di San Martino? «La storia è semplice, mi sono innamorato di una ragazza di questi paesi che faceva la stagione a Chamonix, e abbiamo anche fatto una figlia, così ho iniziato a frequentare San Martino di Castrozza e le Pale». E naturalmente continua a frequentare queste valli. «Mi si è aperto un mondo, in quota non c’era nessuno, era il paradiso, diverso da Chamonix, dove poter tracciare la tua linea solitaria, senza dovere fare la coda per la powder. Le discese nel bosco della Val Cigolera, quando nevicava, erano per pochi intimi». Ora naturalmente non è più così, o meglio, non è solo così. «Le prime guide sul freeride in Dolomiti hanno cambiato il mondo, sono arrivati in tanti» gli fa eco Eric Girardini, uno dei primi compagni di gita di Bruno sulle Pale. «Oggi la Val Cigolera durante una nevicata si riempie velocemente di scie, i canali del Bureloni, del Travignolo, della Pala sono conosciuti, però quello che mi ha sempre affascinato delle Pale è che rispetto alla Marmolada, al Pordoi, a Gressoney, c’è meno gente, sei un po’ più isolato dal mondo». Ai tempi delle prime scorribande c’erano tanti divieti. «Il fuoripista era praticamente vietato, poi è stato concesso a patto di avere l’attrezzatura di autosoccorso: ricordo ancora un paio di volte che sono stato fermato, con un finanziere ho fatto finta di non capire l’italiano e sono scappato, voleva sequestrarmi l’attrezzatura». Ma in definitiva perché venire sulle Pale? «Per l’architettura dei canali, per il paesaggio, per il silenzio, non in assoluto per la neve anche se con un po’ di fortuna può essere molto bella, ma attenzione al vento». Parola di Bruno.

 

© Damiano Levati / Soryteller Labs

 

Piero de Lazzer

Ottantanove anni, nato e vissuto all’ombra delle Pale di San Martino, è stato letteralmente uno dei pionieri dello sci, scoprendo e percorrendo innumerevoli linee sulle Pale e sui Lagorai. Ha iniziato da bambino, quando la neve era un sogno, l’unico vero gioco dell’inverno, e gli sci non erano altro che doghe recuperate da vecchie botti. Non ha ancora smesso di sciare (e non ne ha la minima intenzione); le sue passioni sono due. Una: linee ben disegnate. Due: la velocità che deriva dalla sicurezza sugli sci.

Aaron Durogati

Trentuno anni, nato a Merano, Alto Adige. Cresce circondato da alcune tra le cime più belle dell’intero arco alpino: dall’Ortles al Gran Zebrù, dalle Alpi Venoste alle Dolomiti. Innamorato del volo in parapendio sin da ragazzino, grazie al padre, è diventato un pilota incredibilmente talentuoso, vincendo decine di gare e partecipando a svariate spedizioni esplorative. Negli anni ha allargato l’orizzonte delle proprie passioni, dedicandosi assiduamente anche allo sci e - di recente - all’arrampicata.

Arnaud Cottet

Trentadue anni, nato in Svizzera e cresciuto sulla neve di tutto il mondo. Ci sono due parole chiave nella vita di Arnaud Cottet: sci e curiosità. Da quando aveva 16 anni viaggia, sia per le gare di sci (è anche giudice olimpico in gare di freestyle) che per esplorare e raccontare luoghi incredibili. Dall’Alaska all’Iran, dall’Afghanistan alla Nuova Zelanda: Arnaud ha sciato davvero dappertutto. Inoltre si diverte a dirigere documentari e programmi radiofonici.

Eric Girardini

Quarantadue anni, nato a Feltre, ai piedi delle Dolomiti. Scia da quando aveva tre anni, prima sulle piste dietro casa, poi sulle cime delle Pale, in cerca di luoghi ripidi, selvaggi e poco battuti. Perché? Naturalmente perché in montagna c’è cresciuto, ma anche e soprattutto perché considera lo sci un modo di esprimere chi si è veramente. Lavora come Guida alpina per due ragioni: per vivere tutti i giorni la propria passione, e per far scoprire ad altre persone la magia delle sue montagne. Eric Girardini è Guida alpina delle Aquile di San Martino - www.aquilesanmartino.com

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Lo sci come scusa

Essendo cresciuta a Salt Lake City, non ho mai avuto bisogno di viaggiare per andare a sciare. Le Wasatch Mountains sono piene di linee incredibili e per la maggior parte della stagione ricoperte dalla migliore neve della terra.  Lo sci è la mia scusa per partire alla scoperta di un mondo diverso. Così, quando scelgo di viaggiare, cerco solitudine e avventura in posti dove non molti altri sono andati. Quando hai tanta bella neve a casa, il viaggio vuol dire esplorare le vette spelacchiate dal vento delle Ande, affrontare i couloir vista oceano dell’Islanda. O sciare uno degli ultimi ghiacciai dell’Africa.

Montagne della Luna - Uganda

«A me sembra molto spaventoso - dice la nostra guida al Rwenzori, Enock, mentre scuote con decisione la testa - Tutti questi crepacci e la pendenza. Molto spaventoso». Faccio click nei miei attacchi sulla parte più alta del Ghiacciaio Margherita. Si tratta di un caos frammentato di ghiaccio soffocato dai detriti che precipita dalla terza cima più alta dell'Africa prima di fondersi in una lussureggiante giungla equatoriale e di fluire a valle per formare il Nilo. Nonostante si sia stia sciogliendo molto velocemente, il Ghiacciaio Margherita è il più grande rimasto in Africa. Il climate change ha ridotto quelli sul Kilimangiaro e sul Monte Kenya a minuscole schegge, semplici ricordi della loro originaria grandezza. Ed è per questo che siamo qui, dopo sei giorni di avvicinamento, a mettere gli sci ai piedi per la prima volta. Siamo arrivati sulle montagne dopo una settimana di marcia lungo un sentiero appena tracciato nella foresta pluviale dell'Uganda, dove le scimmie gridano nel verde intenso e i camaleonti passano pigramente il tempo su foglie più grandi della mia testa. Le foreste di bambù, vere e proprie ripide scale di fango tra mura di fogliame, sembravano essere state create con il preciso scopo di fare ingarbugliare le punte degli sci che sporgevano dai nostri zaini. Poi sono arrivate le famigerate torbiere verticali, vale a dire un bel trekking nelle pozzanghere che ha occupato i giorni rimanenti, mentre noi alternativamente sprofondavamo fino al ginocchio nella melma o saltellavamo tra i ciuffi d'erba che sporgevano dalla palude.

Quando finalmente siamo entrati nella zona più montuosa, il nostro sguardo per un istante ha catturato, in lontananza, delle creste ondulate, quasi dei marosi: le mitiche Montagne della Luna. Punteggiato da maestose cime innevate ma dalla vetta rocciosa, un po’ come i Nunatak, questo massiccio che supera di poco i 5.100 metri ha suscitato l’interesse dei viaggiatori già nel 150 d. C. quando Tolomeo, il geografo greco, lo identificò per la prima volta come la sorgente del Nilo. Nei secoli successivi scrittori, scienziati, alpinisti e alcuni sciatori hanno viaggiato per testimoniare quanto sono anomale queste montagne ghiacciate che si ergono sopra una giungla tropicale soffocante. La nostra salita verso la vetta è iniziata alle tre e trenta del mattino. La luce brillante delle stelle si rifletteva sulla cresta frastagliata mentre salivamo su strisce di roccia lucidate da migliaia di anni di scrub glaciale. Gli sci tintinnavano sulle spalle nel buio della notte. Con me c’erano altri tre sciatori con la vocazione di Tarzan: Brody Leven, Kasha Rigby e Robin Hill. Arrivati a un piccolo ghiacciaio piatto lungo la salita per il Picco Margherita, ecco che ci siamo trovati completamente avvolti nella nebbia e il cielo è diventato scuro. «Nove anni fa ci sarebbero voluti quarantacinque minuti per attraversare le nevi eterne in questo punto» spiega Enock, mentre segue i pali di bambù che segnano il percorso. Il ghiaccio si sta sciogliendo così velocemente che a noi ne bastano quindici. Dopo quello che abbiamo visto negli ultimi giorni, sembra incredibile essere arrivati finalmente su un ghiacciaio. Un bagliore arancione color fuoco filtra attraverso le nuvole mentre ci mettiamo i ramponi e iniziamo a salire verso il punto più alto dell'Uganda.

© Mary McIntyre

Il ghiacciaio conduce a una cresta sommitale insidiosa, dove facciamo scrambling fino a 5.109 metri di quota e al confine tra l'Uganda e la Repubblica Democratica del Congo. Guardando le valli popolate di foreste impenetrabili, i grandi laghi scuri e le file di cime scoscese e rocciose ornate da sbuffi di nebbia si capisce perché i gruppi estremisti abbiano usato questa regione per organizzare attacchi di guerriglia durante l'ultima guerra civile. È un luogo soprannaturale, spettrale e impenetrabile. L'aria umida proveniente dalla giungla viene trasportata in alto in raffiche calde e, mentre respiro il suo odore, il mio sguardo scivola verso il basso. È finalmente ora di sciare. Mentre taglio le prime curve sulla neve resa soffice dal sole, nella parte alta del ghiacciaio, la mia mente viaggia verso le prime parole che abbiamo scambiato in questo viaggio: «Potrebbe non esserci affatto la possibilità di sciare - ha detto ossessivamente Brody, assicurandosi che fossimo preparati per il peggior scenario possibile - Non voglio che nessuno abbia false aspettative su quello che troveremo». Eppure lo sci supera le aspettative e io sfrutto al massimo il dislivello che siamo riusciti a mettere insieme con tanta fatica. Vicino alla fine del ghiacciaio disegniamo curve proprio sotto formazioni di ghiaccio fantasticamente scolpite.

Mi avvicino alla punta del ghiacciaio: un passaggio ripido e ghiacciato che abbiamo salito legandoci. Brody accenna una curva saltata che porta all'amara fine. Le lamine stridono sulla sabbia e sulla roccia incastonate nel ghiaccio antico. Passiamo su lastre di roccia appena rivelate, nascoste sotto una guaina gelata dall'ultima era glaciale e osservando silenziosamente le gocce che si sciolgono formando rigagnoli, quindi ruscelli e laghetti color acquamarina nel loro viaggio a valle. Enock gesticola per mostrarci una scala bianca che ondeggia senza speranza sulle rocce, 15 metri sopra le nostre teste: «Tre anni fa siamo scesi sul ghiaccio, ecco quanto si è sciolto». Guardare questo rudere del recente passato ci lascia attoniti, nella vastità del ghiaccio che è svanita e nel tempo infinitesimale che è bastato per farla scomparire. Tornando al campo base, Enock spiega: «Per noi, è una questione di lavoro e di denaro che entra nella comunità. E ancora più importante, acqua». L’altra guida, Edison, ci dice: «Quando ero un ragazzino c'era sempre neve su queste colline. Se si può fare qualcosa per evitare che i nostri ghiacciai scompaiano completamente, se potessimo prenderci per mano e farlo insieme, sarei molto contento». I nostri sci sono al tempo stesso attrezzi e strumenti per creare una liaison con posti come questo. È un modo per incontrare la gente del posto e ascoltare le loro storie, per testimoniare i cambiamenti che stanno attraversando le comunità. L'Uganda è una scelta bizzarra per lo sci primaverile: si possono disegnare curve decisamente più belle con uno sforzo molto minore in quasi ogni altra parte del mondo. Ma questa esperienza è molto più di una discesa sugli sci e ti sbatte contro un muro profondo di tristezza tinta di stupore.

Dopo due giorni a ritroso sui nostri passi, inondati da incredibili acquazzoni, abbiamo raggiunto piccoli appezzamenti agricoli che punteggiano le ripide colline sopra il villaggio di Kilembe. I bambini urlavano, offrendoci il cinque e facendoci sorridere con il loro Hel-los! Il sentiero da qui in poi serpeggia sotto cespugli di caffè disseminati di bacche color viola e si aggrappa al fianco della collina tra raccolti di mais, zucca e patate. Le foreste impenetrabili, i fiumi impetuosi e la natura selvaggia svaniscono nel ricordo. Enock ed Edison avanzano con orgoglio, un’altra cima nel loro curriculum. Posso solo immaginare gli abitanti del villaggio che discutono sulle strane lance piatte che sporgono dai nostri pacchi ed Enock che risponde loro, forse nel modo in cui ha risposto a noi sulla montagna: «A me sembrava molto spaventoso! Questi muzunghi sono pazzi. Hanno portato quelle cose per otto giorni per rischiare di morire scivolando giù per il ghiaccio solo per qualche minuto!». Dentro di me sorrido e faccio vedere un video di Brody sugli sci per mostrare loro perché siamo venuti qui. Mi guardo indietro verso le montagne e mi rendo conto che questo momento è solo una parte della nostra avventura. Siamo venuti qui per esplorare, per testimoniare, per imparare. Le Montagne della Luna, e le persone che le chiamano casa, si sono dimostrate più che all'altezza dell’alone di leggenda che le circonda.

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© Mary McIntyre

Il Grande Circolo

Il Grande Circolo è «un’ode a questa regione». Che si chiama Sud Tirolo, o Alto Adige. Dove il Gruppo Oberalp affonda le proprie radici, dove nascono le idee e le ispirazioni che portano allo sviluppo dei prodotti Salewa. Un tour lungo i confini regionali con l’Austria, sui 150 chilometri da Sesto a Colle Isarco, muovendosi a piedi e in bici. Un’idea realizzata in senso inverso nell’autunno 2018, ma la voglia di attraversare questo magnifico territorio anche nella sua veste invernale ha fatto sì che, verso la fine di febbraio, l’avventura iniziasse esattamente da dove era finita pochi mesi prima, a Sesto. Ed è così che insieme a un agguerrito gruppo di colleghi di diversi magazine europei mi sono ritrovato in questo caratteristico paese: sfondo le Tre Cime di Lavaredo e le guglie disposte come le ore sul quadrante di un orologio delle Dolomiti di Sesto.

Fin da subito è stato chiaro che si sarebbe trattato di un vero e proprio viaggio con gli assi ai piedi. L’auto l’avremmo ripresa dopo sei giorni passati a spostarci sugli sci. L’idea di questo approccio mi è subito piaciuta: nessun mezzo, solo le nostre gambe per scoprire un territorio come il Sud Tirolo che fa della sostenibilità una propria caratteristica. O al massimo delle silenziose e pulite e-bike, bici a pedalata elettrica assistita. È ispirandosi proprio a questa idea che il marchio Salewa vuole testare i capi tecnici che impiegano prodotti del territorio come la lana degli allevatori affiliati alle associazioni di produttori Tiroler Lamm e Villnosser Brillenschaf.

Nel gruppo la sostenibilità è vissuta come parte della cultura di famiglia e impone un ragionamento sul lungo periodo, in termini di generazioni. Quello che in passato era semplicemente parte della cultura manageriale, con la crescente internazionalizzazione è diventato un vero e proprio manifesto fatto di impegno verso le persone che lavorano per il Gruppo Oberalp o i suoi fornitori e sviluppo di prodotti sostenibili a partire dal territorio.

Il programma che Egon e Steffi ci illustrano pare tutt’altro che soft. Skialp cento per cento sviluppo, dislivelli e pochi compromessi. La quantità della neve al suolo non è eccezionale, ma è senza dubbio decisamente più abbondante rispetto alle Alpi dell’Ovest anche se è qualche settimana che non nevica ed ha fatto parecchio vento. Il gruppo è eterogeneo e proprio come nelle barzellette: ci sono un francese, un polacco, un tedesco, due italiani, una cecosl… Ma già dai preparativi in hotel si capisce che sono tutti parecchio agguerriti e preparati.

Vado a preparare lo zaino dove infilo anche qualche foglio e una matita. A volte mi piace appuntare a fine giornata brevi frasi che mi aiutino nei ricordi una volta finito tutto. Come nella più pura tradizione di un viaggio che si rispetti, si deve tenere un diario!

©Luca Truchet

25 febbario: Sesto - Kalkestein (AUT)

TAC, TAC, TAC!

Questa settimana dividerò la camera per lo più con Mathias, un giovane francese di Grenoble. Lo vedo alla sera preparare tutto lo zaino, pella pure, proprio come abitualmente faccio io. Altro che i miei soci che si presentano ai parcheggi in tuta e da enormi borsoni devono ricavare ancora uno zaino. Mi sta simpatico, mi sembra a posto. Impressione che verrà confermata anche nei giorni seguenti. Al mattino raggiungiamo Sesto con un trasferimento in bus che patisco come uno scolaretto in gita. Succo al pompelmo combinato al caffè: devo ricordarmi di evitarlo a colazione, per lo meno in rapida successione. Complice l’inverno avaro di precipitazioni e una rinvigorita passione per le cascate di ghiaccio, non ho sciato molto in questa prima parte di stagione. Aggiungiamo un periodo lavorativo tiratissimo e la prima sensazione mentre calzo gli scarponi è riassumibile con una parola: disagio. Si deve pellare una settimana di fila e noto subito che l’asse più largo che sfoggiano i miei soci è un timido 90 millimetri. Tirando fuori dalla sacca il mio 109 rosa mi sento osservato, poi per fortuna vedo che anche Luca non ha rinunciato ai fat. Dopo la prima discesa su neve varia, mi convinco di avere fatto la scelta giusta. Il peso farà gamba. Pronti via e si inizia pellare in un caldo anomalo. Mentre il gruppo si sgrana un po’, penso che questo itinerario sarebbe proprio piaciuto a mia moglie. Lei odia girare in tondo per arrivare in cima alle montagne e oggi sono solo un paio d’ore che vaghiamo tra vallette e boschi senza aver ancora avvistato la cima. Sono assorto nei miei pensieri quando, dopo un tratto più ripido, si reperisce la dorsale finale e il panorama si apre: le Tre Cime sullo sfondo. Mi ritrovo casualmente in testa al gruppo con un austriaco ben piazzato. Iniziamo a parlare di materiali e mi fa subito notare i suoi nuovi 85 light. Dopo una cinquantina di metri, con l’avvicinarsi della cima, noto che Alex, questo è il suo nome, alza il ritmo. Per dirla tutta, è palese che vuole farmi saltare: non parla più, ogni tanto lancia qualche occhiata laterale per vedere se sono ancora dietro di lui. L’ultima cosa che volevo fare oggi era una volata, però non siamo qua per divertirci e in queste occasioni mi si chiude la vena quasi avessi un tribale sul bicipite o un drago sulla schiena: alzo il ritmo e gli sto sulle code. Mancano 100 metri quando prova ad allungare. Maledetto. Soffro e gli pesto le code con le mie spatole 130 millimetri per fargli sentire la presenza. Rimango a contatto e per fortuna arriva la cima: non ci riusciamo quasi a parlare. Senza fiato mi bisbiglia in un italiano che sa di Sturmtruppen: Tu, TAC, TAC, TAC sui miei sci, io primo però. Sorrido. Non è ancora il momento. Chiusi gli attacchi la gravità diventa a favore e la musica cambia. Si entra in sintonia con tutto. La vallata austriaca nella quale arriviamo è bellissima. Si sta bene. Il Grande Circolo è iniziato: via i primi 1.500 metri per quasi 18 chilometri di sviluppo.

 

26 febbraio: Kalkestein (AUT) -  Anterselva

E abbiamo pure ripellato

Il programma prevede due salite e due discese e relative ripellate, come impone la moda attuale. Il cielo velato al mattino garantisce una prima salita e discesa dal Gailspitze su cemento armato. Canederli e succo di ribes in Val Casies e si riparte per il Passo Stalle. Il paesaggio, gli alpeggi e le malghe con i tetti candidi di neve sono davvero da cartolina. Oggi nessuna gara internazionale ma mi accorgo che, privo di avversari, l’austriaco Alex si sente un po’ smarrito e cerca sfogo tracciando sempre un proprio percorso senza inversioni. Il risultato deturpa un intero vallone vergine dove Steffi stava disegnando dolcemente la salita. Odio l’inutile evidenza di una traccia dritta quando ce n’è già una decisamente più armoniosa. Sono 2.000 metri e 23 chilometri che lo penso. Ma non è ancora il momento.

 

27 febbraio: Anterselva - Riva di Tures

Nieve primavera

Piccola discesa su una delle chilometriche piste da fondo e biathlon di Anterselva e si inizia a pellare nell’enorme vallone che conduce ai 2.814 metri della Forcella d’Anterselva. Per ovvie ragioni logistiche il giro è stato pensato per avere di prima mattina le salite su versanti esposti al sole e le conseguenti discese su esposizioni più fredde. Così ci ritroviamo a salire estasiati su un fantastico firn che i simpatici spagnoli del gruppo non esitano a definire come Nieve primavera! Oggi la tappa è assai articolata e, una volta giunti al colle, svoltando sul versante Nord si impone un cambio di assetto dove calziamo i ramponi per affrontare una spalla ripida prima dei pianori che conducono alla vetta del Monte Magro, a 3.273 metri. In questi casi il gruppo si disgrega un po’ per poi ricompattarsi sulla spalla prima dell’ultimo ghiaccio pianeggiante. Mentre alcuni decidono di rimettere gli sci, opto per proseguire a piedi: i sastrugi sembrano duri e portanti e procedo svelto, quando un rumore insolito per queste quote cattura la mia attenzione. È strano, ricorda quello sbuffare che si avverte per le vie di Pamplona prima che il gruppo di tori giri l’angolo di qualche vicolo. Una specie di locomotiva a vapore. Forza e muscoli in pieno sforzo. Con la coda dell’occhio vedo Alex che pompa a tutta con gli sci nei piedi cercando di raggiungermi. Da dove siamo la direzione della cima non è evidente ma è indubbio che mi stia puntando. Cerca il mio sguardo a distanza, rimanendo più largo sul pendio. Eccolo il momento che aspettavo. Con i ramponi mi muovo verso la parete più ripida che precede la cima, il toro austriaco mi affianca ma presto si rende conto della trappola: è troppo ripido per proseguire con gli sci! Appena sgancia gli attacchi e se li carica sullo zaino gli do via una sfiammata per la quale ho ancora adesso le gambe dure. Non mollo e arrivo in cima semicosciente. Non lo vedo. Servono un paio di minuti per vederlo apparire, non è manco in forcing, testa un po’ bassa che scuote a destra e a sinistra. Sempre con accento Sturmtruppen mi si avvicina: Come Formula 1, pit stop e si perde. Arrivano gli altri, è inconsolabile e sento che sta spiegando a Christian che ha sbaglaito tattica con sci e ramponi. Mi avvicino e battendogli una mano sulla spalla gli ricordo che nelle tappe tecniche da più di 2.000 metri, è li che… sì insomma quando il gioco si fa duro, i duri… Sono un bastardo, lo so. Gongolo pure. Discesa boarder cross passando per il Rifugio Roma. Io e Alex siamo diventati amici!

 

28 febbraio: Riva di Tures - Riobianco

Quel giorno

In tutti i viaggi che si rispettano arriva quel giorno, quello della fatica. Caldo, corte salite in sequenza e un’infinità di ripelli a mezzacosta. Gambe legnose uniformemente distribuite nel gruppo. Nessuno che osi fare il galletto. Paradossalmente, pur avendo oggi le discese più corte e meno continue, sono state quelle con la neve più bella. La giornata passa su questo balcone sulla valle di Riva di Tures, osservando le centinai di possibilità di canali, pareti e vie di misto sul lato opposto. Arrivati al passo Acereto, sotto alla panchina del punto panoramico, scopriamo che è usanza lasciare una bottiglia ad alta gradazione alcolica per i viandanti. Rinvigoriti affrontiamo la seguente discesa e i 10 chilometri rimanenti fino a Riobianco. Attraversando la provinciale di fondovalle sci sulle spalle, in fondo capiamo che muoversi così è una figata. Bello! La sauna dopo forse fin di più.

© Luca Truchet

1 marzo: Riobianco - San Giacomo di Vizze

Cuanto falta Dani?

Oggi è il giorno. Il passo obbligato per arrivare alla fine. Il tempo è piuttosto brutto e ventoso. La prima salita al Rifugio Porro (2.419 m) ci immette in un bel vallone tutto da slaminare: la neve fino ai 1.850 metri del lago di Neves è acciaio. Assordanti rumori di sterzate coprono il vento che sta rinforzando. Ripelliamo, la valle è severa e forse è meglio che non ci sia troppa polvere sui pendii laterali visto quanto è incassata fino al Rifugio Ponte di Ghiaccio. Sotto una bella nevicata calziamo i ramponi per superare un tratto piuttosto ripido. Quindi nuovamente pelli. Il passo guida scandito da Egon è perfetto: il gruppo rimane compatto e giungiamo tutti ai 3.183 metri del Passo Punta Bianca proprio nei pressi del più famoso Gran Pilastro. Il grosso è alle spalle e salta fuori pure una bottiglia di birra per brindare, nonostante il vento impetuoso. Finalmente sul ghiacciaio godiamo di un po’ di polvere mentre il tempo si apre: cinque centimetri, ma sufficienti per divertirsi. Lungi dall’essere arrivati, ci attendono ancora una risalita in un ripido canale contornato da cascate di ghiaccio e diverse a scaletta in boschi ripidissimi, per non perdere quota. Per l’occasione con Dani, uno dei ragazzi spagnoli, si riesuma un vecchio tormentone di un viaggio in Bolivia, quando alla domanda di quanto mancasse a destinazione, Cuanto falta?, l’autista rispondeva sempre imperterrito urlando Una hora! E fu così che con il sopraggiungere del buio la valle iniziò a riecheggiare di improbabili esclamazioni in spagnolo pronunciate con accenti tedeschi, italiani e polacchi. 2.600 metri di dislivello per 33 chilometri: Cuanto falta Daniiiiiiii? Una hora!!!!

 

2 marzo: San Giacomo di Vizze - Colle Isarco

Easy Rider

Meno male che oggi iniziamo e finiamo pedalando con delle e-bike, vista la giornata di ieri e qualche birra che abbiamo dovuto assumere per reintegrare. Un branco di camosci ci sfreccia davanti poco prima di giungere in cima all’ultima salita con gli sci, presso Passo Chiave. Da qui in poi è tutta discesa fino alla statale del Brennero e quindi a Colle Isarco. Come bambini in sella con gli sci sulle spalle. È bello finire in discesa!

10.200 metri di dislivello e 140 chilometri di sviluppo, un’infinità di montagne da osservare e scrutare. Contento di aver vissuto questa esperienza, la parte invernale del Grande Circolo è stato un vero viaggio by fair meansalla scoperta di un territorio, lambendone cime, valli e confini. Un severo e realistico test per nuovi materiali e un’avventura dove il modo in cui ci si è mossi in montagna ha fatto passare in secondo piano la neve di alcune discese. Dopotutto il bello dei viaggi è prendere quello che si trova, adattarsi e proseguire verso la tappa successiva, scoprendo una volta di più quel fantastico mezzo di trasporto che sono sempre stati gli sci sulla neve!

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©Luca Truchet

Fischer Transalp a quota dieci

Dieci anni. Dieci anni attraverso le Alpi. Nel 2020 si festeggiano i due lustri della Fischer Transalp, organizzata dal marchio austriaco per permettere a un manipolo di fortunati scialpinisti di passare una settimana con sci e pelli e attraversare la catena montuosa. L’itinerario cambia di anno in anno. Nel 2019, per esempio, la partenza era da Livigno e l’arrivo a Innsbruck, nel 2020 invece si partirà dalla Slovenia e le date sono state anticipate rispetto alla tradizione: il kick-off è infatti previsto per il 2 marzo e l’arrivo a destinazione l’8. La partecipazione è completamente gratuita e l’azienda austriaca fornisce anche un set completo da scialpinismo oltre a pernottamenti e Guide alpine, ma i posti sono limitati e bisogna dimostrare di avere la giusta esperienza e soprattutto preparazione fisica per affrontare una settimana con migliaia di metri di dislivello e con le più varie condizioni meteo. Le richieste di partecipazione possono essere inoltrate fino al 12 gennaio tramite la pagina Internet https://www.formlets.com/forms/rdFPO1pKlHFJpNGm/


5 Summits 1 Record

L’idea era semplice: salire cinque cime nel minor tempo possibile affrontando ogni giorno una montagna diversa con l’obiettivo di chiudere i 25 chilometri di vertical e i 7.000 metri di dislivello in meno di cinque ore. Considerando che una persona normale ne impiega quasi 25. Le cinque cime sono il Monte Seguret, lo Chaberton, il Genevris, il Niblé e la Rognosa del Sestriere, quelli che Simone Eydallin ha sempre visto dalla finestra di casa sua. «5 summits 1 record nasce dalla voglia di scoprire i miei limiti e di sfidare le montagne preferite attraverso il cronometro. Sono sempre stato affascinato dai record e in particolar modo dallo scalare le montagne nel minor tempo possibile, così ha preso forma questa mia idea un po’ pazza di salire le più alte vette dell’alta Val di Susa considerando solo il tempo di ascesa. Ho scelto le mie montagne, quelle vette che fin da bambino ho sempre ammirato, quelle vette che vedo ogni giorno dalle finestre di casa» dice Simone.

© Damiano Benedetto

E la sua idea ha preso corpo dal 19 luglio al 2 agosto scorsi. 4h58’43” il tempo totale impiegato, 60 chilometri la distanza comprese le discese. Detto così sembra tutto facile, ma non è andata sempre liscia, soprattutto all’inizio. «Dopo un anno di progetti, tentativi, allenamenti, sconfitte e gare finalmente arriva quel lunedì 29 luglio tanto aspettato - scrive Simone - Si parte da Oulx per arrivare in punta al Seguret, tappa lunga e difficile da gestire. Passano pochi minuti e capisco subito che sarà una giornata difficile, il fiato corto, pulsazioni alle stelle, le gambe un po’ dure per essere solo all’inizio. Cerco di non pensarci, ma la fatica è davvero tanta come la voglia di fermarsi. Arrivo con tre minuti in più di quanto mi ero prefissato, sembreranno pochi ma sulla carta sono tanti». Sul  numero 126 di Skialper di ottobre-novembre un grande reportage su 5 Summits 1 record con il diario di quei giorni, i dietro le quinte, tutte le informazioni sulla preparazione, il recupero e l’alimentazione di Simone Eydallin.

© Damiano Benedetto

Nuova discesa sul Monte Cook per Hewitt e Serle

Nuova e probabile prima discesa di ripido per Ross Hewitt e Dave Serle sulla Caroline Face al Monte Cook, in Nuova Zelanda, nei giorni scorsi. La linea, che scende sul fianco destro dell’estetica Face, era stata adocchiata da Hewitt durante una precedente esplorazione, mentre la fall line classica è stata sciata da Enrico Mosetti, Tom Grant e Ben Briggs nell’autunno del 2017 (avrebbe dovuto esserci anche Hewitt, ma un’ernia lo aveva fermato). I due, come scrivono in alcuni post sui loro account social, sono saliti dal versante opposto e hanno trovato buone condizioni, con neve polverosa e vento molto forte. Il meteo molto variabile ha messo in forse fino all'ultimo la linea, che potete vedere nella foto qui sotto.

© Instagram Ross Hewitt

Val Masino Triple Crown

Continuiamo la pubblicazione delle storie in sintonia con il tema di copertina di Skialper 126, #TornoSubito. Ecco il racconto del concatenamento con un giro ad anello delle tre vie simbolo dell'alta difficoltà in Val Masimo. Un progetto di Paolo Marazzi e Luca Schiera.

Credo di aver fatto qualcosa di difficile, quantomeno per me, nella mia vita. Ma forse quest'avventura è quella nella quale ho dovuto metterci più impegno, sia a livello fisico che mentale. Non è stata una spedizione o un viaggio, non è durata così tanto. Poche ore, poco più di un giorno, ma intenso, molto intenso. L'idea è arrivata da Luchino aka Luca Schiera, un paio di anni fa, o meglio allora l'ha sputata fuori pubblicamente. Come sempre se la teneva per sé da molto di più, nove anni per l'esattezza. Era semplice: un giro ad anello che collegasse le tre vie simbolo dell'alta difficoltà della Val Masino, una linea logica tra una montagna e l'altra, rimanendo in quota.

Le tre vie furono aperte a fine anni Ottanta, dando una svolta all'arrampicata di quell'epoca, sempre su difficoltà molto alte, con passi in aderenza obbligati, dove spesso c'è il rischio di infortunio. Tre capolavori di eleganza aperti da T. Fazzini, L. Gianola, S. Gianola, N. Riva: Elettroshock al Picco Luigi Amedeo, La Spada nella roccia in Qualido e Delta Minox allo Scingino. Sarebbe stato un giro fighissimo, una cavalcata lungo tutta la Val di Mello, da un lato all'altro. Bisognava allenarsi, guardare le vie e trovare i passaggi dal Qualido in poi, dove non esiste sentiero. Abbiamo iniziato lo scorso anno, ma tra brutto tempo e impegni vari abbiamo provato Elettro, la Spada e speso due giornate a cercare un passaggio lungo il Cavalcorto. Quella era la vera incognita. Nulla di più logico che una vecchia via che passa nel canale/camino sul lato destro della parete ci è sembrato possibile. Abbiamo lasciato una fissa negli ultimi 50 metri, il resto abbiamo deciso di farlo slegati il giorno del giro.

Siamo partiti il tre settembre, vista la stagione abbiamo deciso di fermarci qualche ora sotto il Qualido, affrontando la parete prima dell'alba; allo Scingino siamo arrivati attorno alle tre, abbiamo iniziato a scalare, ma dopo quattro tiri ho iniziato a stare male. Allucinazioni, è una sensazione orrenda, non connetto più, sbaglio qualsiasi cosa comprese le manovre più semplici. Abbiamo passato davvero poco a riflettere, bisognava scendere. Non si poteva continuare la via così, troppo pericoloso. Ero sconvolto. Non ho mai fatto nulla di cosi impegnativo e concludere il giro sarebbe stato troppo per me. Forse non era un progetto alla mia portata. Non ne abbiamo parlato più, abbiamo scalato ancora insieme, siamo andati in Patagonia, ma senza farne cenno. A inizio stagione guardo Luchino e gli dico: Allora? Ci alleniamo? Quando ci riproviamo?

Lui pensava che avessi mollato, aveva già chiamato un altro ragazzo per riprovare il giro. Però forse con me si diverte di più, forse la quantità di stronzate che dico lo fa ridere o forse si fida; e così decidiamo di riprovarci insieme. Ci alleniamo: andiamo a correre, in bici, scaliamo in simul-climbing lungo altre vie più semplici per cercare di trovare quel feeling perfetto che ti permette di fidarti pienamente della persona che è con te. Quei momenti in cui non serve mezza parola per capirsi. Ogni gesto, movimento o altro non ha bisogno di essere commentato. Io mi fido di lui, lui di me. In un giro come questo bisogna conoscere se stessi, ma anche il proprio compagno, capire ogni cosa di lui. Saliamo Delta a inizio stagione, poco dopo andiamo a fare La Spada, usciamo in cima e riproviamo il traverso della Val del Ferro. Non vogliamo più risalire la via slegati. La mia testa ne risente troppo, le mie ginocchia anche, e di conseguenza tutto il mio fisico. Proviamo a percorrere la cengia mediana che traversa il Cavalcorto a metà, pochi ciuffi d'erba che tagliano la parete. Sotto di noi 200 metri, sopra il doppio. Siamo slegati, ci sembra una situazione piuttosto sicura, poi arriviamo quasi alla fine del traverso, una placca di circa 40 metri separa la cengia d'erba dal canale. In quel momento il morale si abbassa di colpo. Cosa possiamo fare? È una placca liscia che non sembra proteggibile. Il giorno del giro la si farà di notte e senza scarpette. Rifare la via slegati non ci va per nulla, scendere in paese e risalire non ci piace, rovinerebbe quell'anello metaforico che da tempo avevamo in mente, quel concatenamento perfetto. Sto quasi tornando indietro, ho lo sguardo rivolto dall'altro lato, quando improvvisamente sento Luchino che dice: io vado. Mi giro di colpo e vedo che cerca di pulirsi le scarpe sui pantaloni, pronto a partire. Se lui va devo farlo pure io. Alla fine non è così estremo come sembrava, due friend riesci a metterli. L'anello esiste, ora bisogna solo percorrerlo.

Il 16 luglio partiamo, arriviamo alla base di Elettro piuttosto velocemente, iniziamo a scalare in simul-climbing e in due tiri arriviamo quasi in cima, scendiamo e iniziamo a camminare veloci. Vogliamo arrivare il prima possibile sotto il Qualido per scalarlo con la luce. Qualche ora prima che faccia buio attacchiamo. Siamo piuttosto veloci, in due ore arriviamo a due tiri dalla fine della via. Però da lì in poi serve la frontale. Parto per il tiro dei fughi, tutto va come deve andare, a parte l'arrivo in sosta: sbaglio a fare il ribaltamento e mi trovo alla stessa altezza della sosta, a più di un metro, lateralmente, di distanza. Non ci sono appigli e gli appoggi sono in aderenza. Lo spit è a circa cinque metri da me, non mi va per nulla di cadere. Non so come fare il passo. Luchino fa il tiro successivo e da lì parte il lungo traverso che porta in cima. È buio, forse sono le undici di sera quando siamo in Val Livincina. Iniziamo a camminare fuori dal sentiero per attraversare quella valle e tutta la Val del Ferro, salire il passo che porta al Cavalcorto, tagliarlo di netto dalla famosa cengia e scendere all'attacco di Delta Minox.

Inizia una notte assurda, la luna è a metà, poco dopo piena. Mi sono tornate le allucinazioni? No, è l'eclisse. Attorno all'una decidiamo di dormire, 40 minuti saranno sufficienti per riposare. Questo è quello che speriamo, ma la temperatura non è cosi alta e per risparmiare peso abbiamo preso non abbiamo preso nulla per coprirci; fa troppo freddo, raramente ho provato sensazioni così. Allora ripartiamo, poco dopo ci risediamo in un punto riparato dal vento e chiudiamo gli occhi venti minuti. Ricominciamo a camminare, non ci fermiamo più. Il Cavalcorto al buio fa molta meno paura, la mia frontale mi ovatta in un micromondo che finisce dove la luce si interrompe. Sto molto meglio ora che quel giorno a metà pomeriggio. Alle sei del mattino circa siamo sotto Delta Minox. Decidiamo di chiudere gli occhi ancora un quarto d'ora prima di ripartire. Inizio io, poi Luchino parte per la sezione centrale e a me tocca il finale. Odio gli ultimi tiri di placca. Li soffro, mi fanno paura, ho davvero la sensazione di schiantarmi da un momento all'altro. Quasi non voglio partire. Il runout del 7b mi dà davvero fastidio, chi ti fa sicura non ti vede, sei lontanissimo dallo spit, ti schianti sicuro; però devo andare, tocca me, lo avevamo già deciso. Parto, scalo e, non so come, ma arrivo in sosta. Non riesco ad urlare a Luchino perché sto piangendo.Cerco di sfogarmi finché non arriva. Non posso farmi vedere così. Il tutto però dura poco. Ripartiamo, dobbiamo salire gli ultimi due tiri. Dopo circa mezz'ora siamo in cima. Io sono euforico, Luchino non lo da a vedere. Abbiamo fatto l'esperienza sicuramente più impegnativa della nostra vita. Il trittico è nostro, l'anello è fatto. Più di 3.500 metri di dislivello positivo, 1.200 metri di scalata, 38 tiri quasi sempre impegnativi con un obbligato spesso pericoloso. Dodici ore a piedi di cui sette fuori dai sentieri.

Questa è la nostra esperienza, il nostro progetto, il nostro sogno realizzato. ElettroshockLa Spada nella RocciaDelta Minox. Scalare è tutto per me, è la mia vita, avere un progetto, trovare un'idea, metterci tutto me stesso per realizzarla è ciò che più mi piace. La nostra idea era di chiudere il giro in questo modo, in un unico colpo. Non l'abbiamo fatto per un tempo o per la gloria, semplicemente per noi stessi, perché ci piace stare in giro così e piangere per queste cose.

Su Skialper 126 di ottobre-novembre potete leggere tante altre storie sul tema #TornoSubito.


Skirghizistan

Continuiamo la pubblicazione delle storie dei lettori in sintonia con il tema di copertina di Skialper 126, #TornoSubito. Ecco il bel racconto di Andrea Interbartolo

Marzo 2019. Ci eravamo lasciati tre anni fa con un ritorno con le pive nel sacco dalla spedizione al Muztagh Ata (che poi dalla montagna non si torna mai a mani vuote!), ed ora eccoci qua con una nuova scampagnata e nuovi amichetti con cui condividerla. Il titolo dovrebbe darvi l’idea del fatto che ho preso l’abitudine di andare in giro con dei fanciulli (nella fattispecie Andrea AndyInterbartolo e Alessandro Pupi Trampus) che menano botte da orbi sia in salita che in discesa. Ah sì, che mona, se magari vi dico dove siamo andati e come l’abbiamo fatto la lettura risulta più interessante. Dunque, tre anni fa appunto, mentre io e Andy stavamo attraversando il Kirghizistan a bordo di una Audi 100 con qualcosa come 700.000 km sul groppone, diretti a prendere il nostro volo di rientro a Bishkek, rimanemmo affascinati dalla quantità di montagne che scorrevano davanti ai nostri occhi. Orpo! Ma allora che non sia il caso di andare a farci un giretto con gli sci?

2019. È l’anno dei miei 50 (intesi come anni) e allora come si dice in goriziano, go de festegiar. E mi festegio sui monti dove me sento vivo. Ritorniamo all’italiano. Il neurone che mi è rimasto nel cervello comincia a mettersi in moto, contatto Andrea e lo metto al corrente dell’idea. Non me lo sarei mai aspettato: accetta al volo la proposta, contatta l’agenzia kirghiza che ci aveva assistito nei trasferimenti da e per la Cina nel 2016, che ci propone un programma che si sviluppa in due vallate della catena montuosa dello Tien Shan, distanti otto ore di auto una dall’altra. Si dormirà in campi allestiti con le jurte o in case private. Il programma ci piace e diamo la conferma. Il passo successivo è la ricerca del volo e quello dell’Aeroflot risulta il più conveniente. Deciso, si va, marzo è il periodo scelto. Si va, in tre questa volta. I preparativi sono meno complessi delle volte scorse, ma da buon paraculo che rimanda tutto all’ultimo secondo mi ritrovo a dover preparare zaino e borsone con l’acqua alla gola. Odio fare i bagagli. Partiamo da Venezia, di sera, e veniamo imbarcati all’ultimo perché al check-in l’addetto ci fa questioni sulle modalità di trasporto della bombola che alimenta l’airbag dello zaino di Andrea. Viene mobilitato tutto l’aeroporto e finalmente riusciamo a salire sul volo per Mosca. Da Mosca ci troviamo catapultati a Bishkek, dove atterriamo di giorno. Ad attenderci il titolare dell’agenzia, che si prenderà cura di noi per tutta la permanenza. E lo farà nel migliore dei modi, non facendoci mancare mai nulla e dimostrandosi un ottimo consigliere sulle modifiche che apporteremo al viaggio di giorno in giorno. Una breve sosta nella capitale per cambiare un po’ di euro in valuta locale e comprare gli asciugamani che io e Andrea ci eravamo dimenticati di portare.

Via, si parte verso la località di Suusamyr dove passeremo la prima notte, circa 160 km su strade tutto sommato decenti. Appena finito di dire, cala il buio e ci troviamo a viaggiare direttamente sulla neve compatta, in una valle stretta. Intorno a noi il nulla. Arriviamo davanti a una casetta che ci ospiterà per la notte. L’interno è spartano ma pulito, ci viene subito servita la cena che divoriamo affamati. Poi a dormire perché la giornata è stata pesante. La mattina si riparte e percorriamo a ritroso parte della strada fatta la notte precedente. Il paesaggio è stupendo: monti, neve e cavalli che pascolano allo stato brado. Il tragitto porta via tutta la mattinata, a un certo punto su un lungo rettilineo, persi nel nulla, Mirza si ferma: c’è un piccolo ponte e una scritta sulla neve con una freccia che indica Kagan. C’è una traccia, scarichiamo tutto l’armamentario, indossiamo gli scarponi, mettiamo le pelli e seguiamo quella linea senza sapere dove ci porterà Sorpresa! Sono solo pochi minuti di salita, davanti a noi appaiono due jurte, le tende circolari costituite da un telaio di stecche di legno rivestite di tappeti di feltro di lana di pecora. Sono le abitazioni delle popolazioni nomadi di buona parte dell’Asia centrale. Una per dormire e una dove mangeremo e verranno cucinati i pasti. Mirza ci lascia e restiamo d’accordo che tra tre giorni tornerà a recuperarci. Scopriamo di non essere gli unici scialpinisti, ci sono quattro ragazzi olandesi con la loro Guida. I due giovani che mi accompagnano stanno scalpitando e così, dopo aver preparato i nostri giacigli, ci mettiamo gli zaini in spalla e via. Giriamo la testa e a 360° abbiamo solo l’imbarazzo della scelta. Cime, cime, cime, cime, cime, neve, neve, neve, neve, neve… ehi qualcuno ci svegli, deve essere un sogno, siamo nel paradiso dello skialp. Seguiamo una traccia, c’è un po’ di nuvolo, scende qualche fiocco. Bianco ovunque. Con il fiato corto (io), raggiungiamo la nostra prima cima kirghiza, senza nome, come lo sono praticamente tutte. Via le pelli e ci buttiamo a fare le prime curve. La neve è un po’ pesante, facciamo i primi voli, siamo felici. Ma non può finire così, adocchiamo una seconda traccia e via, si risale e questa volta la discesa sarà da urlo. Raggiungiamo le jurte, facciamo conoscenza con gli olandesi, giovani e allegri. Con il calare del sole la temperatura precipita e stare all’aperto è impossibile. Marito e moglie kirghizi che gestiscono il campo aiutati dal factotum Bodr ci chiamano a cena. Ci sediamo a terra su dei tappeti e si comincia uno dei tanti pasti eccezionali che faremo in una settimana. Poi si va a nanna, a malapena si riesce a fare le 21, anche perché non c’è niente da fare e anche perché nella tenda cucina non è che faccia così caldo. La mattina ci svegliamo con due colori tutto intorno: l’azzurro del cielo e il bianco della neve. E allora cosa aspettiamo? Scarponi, zaini, pelli e via, scegliendo la meta quasi a caso. Decidiamo di seguire la tarccia degli olandesi anche perché le condizioni della neve non sono sicure. Ce n’è talmente tanta e fa così freddo che i vari strati non sono coesi, meglio non rischiare. Come ci ha ricordato il titolare dell’agenzia qui non c’è nessuno da chiamare per il soccorso in caso di incidente. La gita è stupenda, risaliamo una valle in cui si aprono davanti ai nostri occhi scenari stupendi. Fa caldo sotto il sole, raggiungiamo la terza cima senza nome. Ci guardiamo, ridiamo: berg heil ragazzi, ora e per altre mille vette. Cosa devo dirvi? Ci buttiamo sul pendio come aquile in picchiata, uno alla volta per evitare di sovraccaricare i pendii. Dentro di me urlo, urlo di gioia.

Ci riuniamo, ci giriamo e, come sempre si fa, guardiamo il pendio, guardiamo quelle serpentine che presto svaniranno e ridiamo. Arrivati alle jurte, senza nemmeno toglierci gli scarponi prendiamo una bottiglia di birra da 1 litro e mezzo e si brinda a un’altra giornata da incorniciare. Si comincia a pensare che forse ci converrebbe cambiare zona perché qui con queste condizioni di neve non ha senso andare a cercare disgrazie. Contattiamo Mirza che ci suggerisce di spostarci a Est, verso il lago di Issyk Kul, nella valle di Jyrgalan. Accettiamo la proposta, il viaggio è un po’ lungo e così lo spezziamo in due dormendo una notte a Kochkor dove veniamo accolti in una casa privata e trattati come sempre da principi. La mattina si riparte e per buona parte del viaggio avremo alla nostra sinistra il lago salato di Issyk Kul: è lungo 168 km. Ci fermiamo per una merenda a Karakol, cittadina abbastanza grande e turistica. In questa zona infatti ci sono alcune stazioni sciistiche. Si fa scorta di birra perché di bere solo tè siamo stufi. Mirza ci propone di fermarci in una piccola stazione termale con delle sorgenti di acqua calda. Detto fatto, accettiamo con entusiasmo e così ci ritroviamo a galleggiare in mutande nelle vasche d’acqua bollente all’aperto, avvolti dal vapore. E intorno a noi la neve. Tutto questo per 1,50 € a testa. Il paradiso, almeno quello degli scialpinisti, esiste, ne abbiamo l’ennesima conferma. Rimontiamo sul mezzo e affrontiamo l’ultima parte del viaggio rigenerati dal bagnetto. Ci avviciniamo a Jyrgalan e ci inoltriamo nell’omonima vallata. La strada è accidentata e il paese che ci accoglie non è il massimo, sembra di essere arrivati in uno di quei villaggi del vecchio West. Fango e neve. In passato è stata una città mineraria ma oramai le miniere hanno chiuso e la maggior parte della popolazione se ne è andata. Negli ultimi anni si sta cercando di riconvertirla in meta turistica e le potenzialità sono enormi, anche d’estate deve essere un posto stupendo: bici, trekking, alpinismo e gite a cavallo, insomma un po’ di tutto. Veniamo accolti dalla famiglia che ci ospiterà e che ci farà sentire a nostro agio senza farci mancare nulla. E la mattina dopo? Gita ovviamente. Senza troppa fretta ci prepariamo a partire. Aperta la porta di casa ci si infila gli sci nel cortile e si parte. Ma quando mai ci succederà di nuovo?

Anche qui si va a vista, le montagne sono più simili alle nostre Alpi, pendii più decisi, boschi e un po’ meno neve. La primavera è stata più calda del solito e di neve ne ha mangiata parecchia. Arriviamo su un’altra cima innominata. La temperatura è perfetta, anche qui intorno a noi cime a perdita d’occhio. ‘Guarda quel canale!’ ‘E quel pendio!’. Insomma, sarebbe da restare qui per sempre. Salendo dalla cresta avevamo adocchiato il pendio dal quale saremmo potuti scendere. Le condizioni della neve sono buone, il manto è assestato, il pendio ha una bella pendenza. Ma allora cosa aspettiamo? Giù a disegnare curve. Uau! Uau! Uauuuuu! La neve comincia a diventare pesante quando ormai siamo quasi a valle, per il resto un’altra giornata da incorniciare. E adesso? Mirza (l’uomo dalle mille risorse) ci propone per il giorno dopo di farci venire a prendere dalle motoslitte e trasportarci a un campo jurte posizionato a 3.000 metri. Ci guardiamo tutti e tre: ovvio che si va! La mattina sentiamo il rumore dei motori e troviamo le due motoslitte che ci aspettano. Su una caricheremo i bagagli e il cibo, sull’altra il principino Andrea ci filmerà mentre a 50 km/h io e Pupi verremo trascinati, tenendoci a una corda, con gli sci. Saranno circa 30 minuti di panico, con un russo pazzo alla guida che andrà a manetta fino a portarci in quello che ci apparirà come l’ennesimo paradiso. Due jurte riscaldate, due bagni e una tenda per la sauna. Siamo soli: Andre, Pupi, io e una coppia di russi che ci vizierà rimpinzandoci con dei pasti da leccarsi i baffi. Non serve che lo scriva, ma cosa facciamo appena arrivati? Indovinato: gita. Il tempo è favoloso, l’ambiente infinito e maestoso, la temperatura ideale. La neve? Bè quella non manca. Quindi? Al solito, guardiamo in una direzione e partiamo.  Puntiamo una cima e si sale. Notiamo subito che la neve è cucinata dal sole, si sprofonda anche salendo. Prevediamo che la discesa non sarà il massimo. Va bè, non si può avere tutto ed essere troppo esigenti. Cima! Sorrisi, merenda, sguardi persi sulle mille montagne intorno a noi, valli che sembrano non finire mai e, da ognuna di queste, infinite possibilità di gite. Ok, scendiamo. Ecco la crosta, si sprofonda, si cade, si fatica e si ride, quello sempre.

Arriviamo alle nostre jurte a cinque stelle e ci propongono di fare una sauna. Cavolo e chi rifiuta! A 3.000 metri, vestiti solo con un asciugamano a rotolarsi nella neve dopo essersi lessati nella sauna: non ha prezzo. E poi? Cena, all’ingrasso per l’ennesima volta, e poi a nanna. Un’altra gita, purtroppo l’ultima, ci aspetta l’indomani. Il tempo è ancora una volta disgustoso da quanto è bello. Abbiamo avuto fortuna, solo sole e tanta neve. Concateniamo due cime e indovinate un po’? Non sapremo mai il loro nome. È un altro berg heil, l’ultimo di una serie memorabile. Non abbiamo fretta di scendere, in cima si sta benissimo. Però c’è la gola della discesa e allora ognuno per la sua traiettoria, lo spazio non manca. La neve però man mano che scendiamo di quota cambia e allora si vola, con il muso sprofondato nella pappa. Bè, può bastare. Raggiungiamo le jurte, ci stringiamo la mano, stappiamo tre birre (o forse di più) e facciamo un brindisi a noi.

Raccogliamo i bagagli che la motoslitta riporterà a valle. Noi pian piano cominciamo a scendere verso casa. Ecco, non ci resta che rientrare verso Bishkek, questa volta seguiremo la sponda Nord del lago, quella più turistica. Passiamo l’ultima notte ospiti di una nuova famiglia, che tanto per cambiare ci vizia. Quello kirghizo è un popolo meraviglioso nella sua umiltà e ospitalità. Si riparte per l’ultimo tratto di strada, la qualità dell’asfalto migliora sempre più, il traffico aumenta man mano che ci spostiamo verso la capitale. Mirza ci propone di fermarci a fare un giro in un mercato di bestiame lungo la strada. Un’esperienza unica: camminiamo in mezzo alla popolazione locale indaffarati a comprare e vendere ogni genere di animale (vivo): cavalli, asini, bovini, ovini e cani. Siamo gli unici occidentali, è tutto così genuino e semplice. Grazie Mirza. Via, davanti a noi c’è Bishkek, abbiamo ancora un po’ di tempo prima del volo e allora Mirza (sempre lui) ci porta a mangiare kirghizo per l’ultima volta: tutto delizioso. Il conto? Una miseria.  Siamo davanti all’aeroporto, scarichiamo zaini, sacche degli sci, borsoni. È l’ora dei saluti e dei ringraziamenti. Ehi, un attimo! Portiamo Mirza con noi al check-in. E per fortuna, perché la bombola dell’airbag di Andrea è di nuovo fonte di guai, questa volta già all’ingresso dell’aeroporto, dove lo scanner individua questo oggetto sospetto. Mirza e Andrea vengono presi in carico da un addetto al quale dovranno spiegare che non è una bomba quella che trasportiamo. Vittoria! Andrea torna da noi con la sua bomboletta e possiamo imbarcarci. Il resto? Volo. Breve sosta a Mosca. Volo. Venezia. Casa.

In questi giorni, mentre Marko mi scriveva per chiedermi quando sarei riuscito a spedirgli queste righe (scusime Marko, te devo una birra!), mi sono guardato alcune volte il video che Andrea ha già montato. Cosa ho notato? Ridevo. Là, in quei momenti, ridevo e per chi mi conosce sa che non è cosa facile vedere un sorriso sul mio volto. Ero felice. Ero nel nulla. Ero con due amici. Ero vivo. Grazie Andy. Grazie Pupi. Alle prossime gite.

Su Skialper 126 di ottobre-novembre potete leggere tante altre storie sul tema #TornoSubito.


Scia e pedala

Continuiamo la pubblicazione delle storie dei lettori in sintonia con il tema di copertina di Skialper 126, #TornoSubito. Ecco il bel racconto di Giovanni Bianchin e Matteo Rolando

«Ciao Mamma esco!»
«E dove vai con tutta quella roba?»
«A fare un giro in bici, torno tra qualche giorno».

In realtà la mamma non è stato affatto semplice tranquillizzarla e spiegarle che sarebbe andato tutto bene, ma più meno tutto è partito così; una mattina di fine aprile esco di casa con un outfit difficile da inquadrare e, dopo aver caricato tutto sulla bici, comincio a pedalare verso Porta Nuova, sviando qua e là la tra tubi di scappamento euro zero e respirando un’aria che di sano ha ben poco. Tra una pedalata e l’altra osservo i passanti che mi squadrano con facce incredule: loro stanno trasportando una valigetta 24 ore, io una bici pesante 3 o 4 volte più del solito, sulla quale in qualche modo vi sono legati sopra sci, scarponi, vestiti, sacco a pelo, una tenda, e cibo, tanto cibo.

Alla stazione di Porta Nuova incontro Giovanni, compagno di avventura, insieme al quale nei giorni (settimane) precedenti ho passato pomeriggi a organizzare e sognare come sarebbe stato. Poche ciance, si parte. Destinazione? Dietro casa: Oulx. Il treno è una buona soluzione per avvicinarsi alle montagne; il prezzo del nostro ski-trip? 7,50 €, può andare. Pedalare con 40 kg sul portapacchi, sarà per la bici elettrica (ovviamente sto scherzando, rigorosamente human powered adventure), è meno faticoso di quanto ci aspettassimo e in mezza giornata arriviamo nella splendida e remota valle di Cervières, fin quando la strada asfaltata non lascia spazio alle pelli dei nostri sci, finalmente. La combo pedal and ski si fa subito sentire, forse non siamo così allenati come speravamo, ma dopo qualche centinaio di metri le gambe cominciano a fare il loro dovere e arrivati in cima alla Clot de la Cime possiamo aprire finalmente il gas!

La prima sera, poco lontano dal paese di Les Fonts, dove la connessione cellulare è un optional che non  è previsto nella nostra suite-tenda, ci addormentiamo sotto una leggera nevicata, stanchi ma allo stesso tempo eccitati dall’idea di passare i successivi quattro giorni con una simile routine. Di routine, come potrete immaginare, ne abbiamo avuta ben poca. Di gioia ed emozione, a palate. Sveglia 6.30, colazione con latte condensato diluito nell’acqua e cereali, nascondiamo bici e borse tra qualche arbusto; sci ai piedi, saliamo in cima; togliamo le pelli, curvoni in discesa, ritorno alla tenda, pranzo alla veloce, si rimonta tutto sulle bici e si parte verso la destinazione seguente; si rimonta la tenda e prepara la cena, si ripete il tutto e si ricomincia. Sì, se volete chiamatela pure routine.

Gli imprevisti in un viaggio del genere possono essere molteplici, per questo diventa essenziale avere tutto il necessario per rimediare a eventuali incidenti di percorso, dal kit del pronto soccorso a quello di riparazione delle bici. Per quanto riguarda il cibo unico consiglio che ci sentiamo di darvi è di non bere brodo Star per dissetarvi in assenza di acqua: ve ne pentirete. Si dice che la fortuna aiuti gli audaci e non possiamo lamentarci per la qualità della neve trovata in buona parte delle gite. Epica la discesa della Grand Aréa nella valle di Nevache in 30 cm di fresca, come quella dal Thabor in Valle Stretta.

Siamo tornati a Porta Nuova una calda serata di oramai inizio maggio e, dopo un abbraccio di quelli speciali e carichi di emozioni, ci siamo avviati ciascuno verso la propria casa. Le ultime pedalate che ci riportavano alla quotidianità sono state associate nelle nostre teste a un pensiero fisso: è stato pazzesco. Ed è stato il viaggio in sé a essere pazzesco, più ancora delle discese che avevamo sognato, più ancora della parte prettamente sciistica che ci aveva spinto a partire. Ripensando a questi cinque giorni non ci ricorderemo soltanto delle curve e della qualità della neve, ma piuttosto dello svegliarsi alle 6 e cercare di vestirsi da sci evitando di gelare di freddo; del terminare una gita e, invece di trovare una macchina ad aspettarci, avere due bici e una tenda; dello spostarsi da una valle all’altra macinando chilometri e chilometri, con la sola forza delle proprie gambe; dello scrutare montagne maestose in lontananza e 24 ore dopo poterci arrivare in cima con un paio di sci, per poi dalla stessa vetta puntare con il bastoncino quella su cui eravamo il giorno prima, laggiù, lontano lontano. E di aver fatto tutto ciò con una persona che posso chiamare amico. Questo è stato Scia e pedala!

Su Skialper 126 di ottobre-novembre potete leggere tante altre storie sul tema #TornoSubito.


Il Triglav alla Tom Sawyer

A volte il destino ci mette lo zampino. L'articolo che segue avrebbe dovuto essere pubblicato sul numero in edicola di Skialper ma, arrivando dalla Svizzera, le fotografie, che avrebbero dovuto essere scansionate (capirete il perché leggendolo, no spoiler), sono rimaste bloccate in dogana. Lo pubblichiamo sul nostro sito come prima di una serie di storie legate al tema di copertina, torno subito. Stay tuned!

 

Sono maestro alle scuole elementari di un piccolo paese di montagna. Ci sono arrivato dopo aver fatto il capannaro, il bagnino, il maestro di sci, dopo aver lavorato in ufficio e bruciato calorie in diversi tipi di competizioni. Grazie a una pausa sportiva, ho iniziato a leggere per far passare il tempo e da allora coltivo il sogno di creare la mia piccola biblioteca. Al ritorno da una pascolata sulle montagne dietro casa mi piace riposare leggendo e un giorno, mentre indugiavo nella sconclusionata avventura di Tom Sawyer, che aiuta il servo dell’amico a fuggire da un capanno, sono incappato in un testo di Walter Bonatti. Il grande alpinista mette in discussione il concetto di avventura e dà una sua ricetta per ritrovarla. Una citazione ancora attuale in un’epoca come questa, nella quale con un dito e qualche tocco su uno schermo si può vedere il mondo intero da sopra, dal fianco e addirittura da dentro. Le letture di avventura mi piacciono, ma penso che viverle, le avventure, sia ancora meglio. Però la mia sensibilità ambientale mi ha fatto rinunciare ad andare in luoghi lontani e questa decisione mi ha lasciato un retrogusto amaro: quello di non poter più vivere esperienze fuori dalla comfort zone. Ma Bonatti, in poche righe, mi ha dato la soluzione.

 «Ma se davvero si vuole che l'alpinismo rimanga avventura, occorrerebbe rinunciare a quei mezzi tecnici e a quell'organizzazione capillare che prevaricano l'uomo e la sua spontanea determinazione. L'avventura non può più manifestarsi là dove nell'uomo scadono l'ingegno, l'immaginazione, la responsabilità; là dove si demoliscono, o almeno si banalizzano, fattori naturali come l'ignoto e la sorpresa. E ancora non può sussistere l'avventura là dove vengono alterate, persino distrutte peculiarità come l'incertezza, la precarietà, il coraggio, l'esaltazione, la solitudine, l'isolamento, il senso della ricerca e della scoperta, la sensazione dell'impossibile, il gusto dell'improvvisazione, del mettersi alla prova con i propri mezzi, e non ultimo, senza più inventiva. Tutte cose che oggi sono ormai represse o addirittura cancellate nel quotidiano».

Non rimaneva allora che togliere, rinunciare, mettere delle regole a una gita e così è nata la mia avventura. Scelto il compagno, mio fratello, dovevo ora definire la meta e i punti fermi. Per quanto riguarda la meta, la decisione non è stata facilissima. Ho la fortuna di parlare cinque lingue e questo in un primo momento mi ha creato delle difficoltà: per la vera incertezza doveva essere un Paese che non avevo mai visitato, di cui non parlavo la lingua e di cui non conoscevo la cultura. Mi è venuto in aiuto proprio Skialper che in un libretto di itinerari pubblicato l’anno scorso parlava della Slovenia e della montagna che tutti gli sloveni devono scalare per essere considerati dei veri sloveni. Le mie cognizioni di geografia mi permettevano di immaginare che era lontana, ma non troppo, e verso Est. La mia ignoranza in questo campo si è rivelata proficua, ora mancavano solo alcune altre regole per rendere perfetto il viaggio alla Bonatti (o alla Sawyer). Primissima regola: non cercare niente su internet. Per onorarla io e mio fratello abbiamo scelto un periodo storico nel quale ambientare la nostra avventura e la scelta è caduta sugli anni Settanta. Sono gli anni in cui i nostri genitori si sono conosciuti e hanno iniziato a viaggiare. In auto si usavano le cartine e non il signor TomTom; ve le ricordate? Da una parte c’era una linguetta da tirare che mostrava le distanze tra le varie città. Come, quindi, raccogliere informazioni per il nostro viaggio?

Purtroppo la nostra bibliotechina di paese aveva libri che parlavano di un sacco di posti del mondo, meno che della Slovenia. Abbiamo così dovuto accontentarci dell’atlante di nostra mamma, un pezzo perfetto per un museo di quegli anni, così aggiornato che la Jugoslavia era ancora unita. Come i veri avventurieri, avevamo un quadernetto con i nostri appunti e lì abbiamo annotato tutte le informazioni che ci sembravano importanti. Sul quadernetto ho scritto i nomi dei paesi da raggiungere, ma se volete fare un’esperienza simile, disegnatevi una mappa, è sicuramente più utile che una sequenza di nomi che non indicano nemmeno dove sono rispetto a dove si vuole andare. L’aggiornatissimo atlante non ci dava indicazioni sulle montagne slovene e quindi la preparazione degli zaini è stata piuttosto facile: abbiamo preso tanto materiale.

Spento e lasciato a casa il cellulare, siamo partiti in auto, senza GPS, Google Maps o cartine, solo con il nostro preziosissimo quadernetto e il materiale d’alpinismo. Il viaggio è stato di una noia mortale: visto che abbiamo scelto gli anni Settanta, non potevamo usare i CD o gli MP3 e le musicassette in auto non ci sono da tempo. Per di più mio fratello e io ci conosciamo talmente bene da aver difficoltà a trovare argomenti di discussione. Le varie emittenti locali non ci esaltavano, quindi abbiamo iniziato a discorrere del Triglav (non conoscendolo, ovviamente) fantasticando che ogni vetta che vedevamo fosse la nostra montagna. Malgrado le scarse conoscenze geografiche della zona e gli appunti discutibili, siamo arrivati nelle vicinanze della meta: ce ne siamo accorti perché c’erano cartelli ovunque con il nome Triglav. Da buoni turisti siamo entrati in un negozietto di souvenir e la proprietaria - vedendo la nostra aria confusa - ci è venuta incontro. Abbiamo iniziato a parlare tedesco e italiano, pensando che essendo vicini a queste due frontiere sarebbero state le lingue migliori, ma alla fine ci siamo ritrovati a parlare in inglese. Le abbiamo descritto brevemente la nostra situazione e, vedendo il ritaglio di Skialper, ci ha dato una cartina geografica, indicandoci tutti i dettagli con consigli per salita e discesa. Queste informazioni ci hanno permesso di raggiungere la partenza del sentiero della giusta montagna. Abituati alle vette ticinesi, siamo rimasti piuttosto colpiti dalla verticalità della zona e, osservate le due creste consigliate dalla signora dei souvenir, siamo andati al supermercato per integrare le nostre informazioni sulla salita. Ci mancavano le previsioni meteo, ma i giornali locali non ci hanno riservato buone notizie: cielo sereno la mattina e temporali al pomeriggio, pioggia per il resto della settimana. La nostra finestra di bel tempo era piuttosto piccola, abbiamo allora deciso di comprare solo merendine e fare una salita mordi e fuggi, sperando di riuscire ad affrontare i 2.000 metri di dislivello in tempo. Finita la spesa, ci siamo resi conto che non avevamo un posto per dormire. In un primo momento abbiamo iniziato a preoccuparci un po’, abituati alle vacanze iper organizzate prenotate in anticipo e in cui hai già visto tutto in realtà virtuale prima di partire da casa. Però un giretto in auto ci ha portati dritti dritti a un ostello proprio ai piedi del nostro obiettivo. Così ci siamo ritrovati a dormire nel solaio, negli ultimi posti disponibili, e a mangiare in un ottimo ristorante consigliatoci dalla gestrice.

Ancora adesso non riesco a capire come mai, viaggiando così alla carlona, sia andato tutto alla perfezione. Questo mood è continuato, infatti, anche il giorno dopo e per tutta l’escursione, perché non abbiamo mai sbagliato sentiero. Come due orologi svizzeri, siamo saliti e scesi puntualissimi, prima del temporale. Ad essere pignoli, c’erano gli zaini pesantissimi, ma non conoscendo le condizioni abbiamo preso di tutto, pronti anche a esposti tiri di arrampicata non attrezzati. Sulla cresta abbiamo trovato una via ferrata, ma non ci ha dato un’idea di grande sicurezza. I punti di ancoraggio staccati dalla parete e penzolanti sulla corda fissa hanno confermato la sensazione, ma in confronto ai racconti di Rébuffat la nostra è stata una vacanza al Club Med.

Non possiamo dire che sia stata una lotta con la montagna a colpi di machismo e coraggio, ma questa esperienza ci ha permesso di riscoprire il piacere dell’imprevisto e della sorpresa, oltre a farci riflettere sull’attenzione nell’osservazione di quello che ci circonda. Non avevamo informazioni e quindi abbiamo dovuto raccoglierle durante la nostra piccola impresa. Abbiamo guardato i cartelli, osservato la montagna, letto i giornali locali e scrutato la cartina, ma soprattutto abbiamo parlato con la gente del luogo e questo ci ha permesso di avvicinarci di più alla cultura del posto. Internet facilita molto il compito, ma più partiamo informati, più ci avviciniamo alla sicurezza delle nostre abitudini, più una montagna, per lontana che sia, assomiglierà a quelle di casa. Ho scoperto che l’avventura la si può ancora trovare, anche se sarà sicuramente più facile di quella vissuta dai primi esploratori. Un viaggio fatto senza ricerche è più ricco e rimane impresso nella memoria. Lo stesso ragionamento vale per la tecnologia: con noi avevamo macchine fotografiche senza milioni di pixel e gigabyte di memoria, ma con foto istantanee. I risultati non sono impressionanti, a volte le foto sono sfocate, oppure mal esposte, ma sono mie, sono un ricordo indelebile e ogni volta che apro il diario del Triglav e guardo le immagini, la memoria si attiva per recuperare tutto ciò che non si vede. Come per le immagini, ci sono anche degli attrezzi alpinistici che ci permettono di affrontare pareti sempre più ripide, ma è veramente ciò che si cerca? Oppure è il confronto con i nostri dubbi e paure? Per concludere, devo però essere sincero: questo viaggio mi ha dato qualcosa di nuovo, ma il conforto di una recensione, di una googlelata, non l’ho dimenticato del tutto. Le regole inventate per l’avventura al Triglav rimangono un’eccezione, se diventassero la norma perderebbero un po’ il loro fascino. L’esperienza in montagna ha bisogno di informazioni, di scambi, di certezze e di tecnologia, soprattutto nei momenti di allenamento che permettono di vivere in sicurezza tutto ciò che si vuole fare. Però grazie Skialper, Twain e Bonatti. Grazie fantasia, per le infinite possibilità che puoi darci ogni giorno.

Su Skialper 126 di ottobre-novembre potete leggere tante altre storie sul tema torno subito.

 


Lettere dai quattromila

«Mentre scrivo queste riflessioni sono a Courmayeur, è il 26 di giugno e sono trascorsi 45 giorni da quando sono partito con il mio compagno Gabriele Carrara e abbiamo salito la Barre des Écrins. Lo scopo del nostro viaggio era traversare tutti gli 82 quattromila delle Alpi e per farlo avevo calcolato di impiegarci circa 40 giorni. Volevo sapere se in 33 giorni effettivi, con condizioni e meteo favorevole, fosse possibile salire tutte le vette più alte delle Alpi». Scrive così Silvestro Franchini nell’ampio articolo Lettere dai quattromila sul numero 126 di Skialper di ottobre-novembre. Silvestro, Guida alpina, insieme a Gabriele Carrara si è spostato da un capo all’altro delle Alpi riuscendo a salire e a volte anche a sciare 69 vette di quattromila metri. Più che un’impresa, una vacanza diversa, a bordo di un vecchio furgone Volkswagen. Una vacanza non certo aiutata dal meteo: «le condizioni meteo di questa primavera sono state pessime, tanto da costringerci a fermarci per ben 18 giorni. Però, essendo riusciti a fare quello che abbiamo fatto con questo meteo, credo di potere affermare che non mi sbagliavo: in 40 giorni alpinisti con il nostro allenamento avrebbero davvero potuto completare senza eccessive difficoltà la salita degli 82 quattromila delle Alpi» aggiunge Franchini. Un viaggio nella natura alpina, ma anche un viaggio interiore. «Sembrerà strano ma ho imparato di più dalle 13 cime che abbiamo saltato piuttosto che dalle 69 che abbiamo raggiunto e che si sono concesse. Porterò sempre con me l’insegnamento di saper rinunciare umilmente di fronte alla forza della natura, consapevoli che è la montagna che si concede» scrive Gabriele Carrara, Aspirante Guida alpina che nel ventaglio di cime è riuscito a inserire anche una integrale di Peuterey.


Dal mare dell'Abruzzo alla Majella in meno di 14 ore

«Sono cresciuto con la scuola, il calcio e il mare, volgendo lo sguardo all’orizzonte, verso Est, verso il mare. Alla montagna ho sempre dato le spalle e per me non era nient’altro che parte del landmark del mio territorio. Quando avevo 12 anni, dopo una settimana verde a San Martino di Castrozza, la mia vita è cambiata. Rientrati a casa, io e mio padre abbiamo iniziato a raccogliere informazioni sulla nostra montagna, abbiamo scoperto che sulla Majella ci sono oltre 700 chilometri di sentieri e iniziato a frequentarla. Sì, nostra. Da quel momento l’abbiamo chiamata così, con gelosia e orgoglio, quando ne parlavamo con i forestieri. Il mio sguardo non era più rivolto a Est, ma a Ovest, verso la mia montagna». E così Alex Tucci proprio su quella montagna ha pensato di inventarsi un exploit, partire dal mare dell’Abruzzo per raggiungerla e poi tornare al mare. Per dimostrare che si può fare mare e montagna nello stesso giorno. La partenza all’alba, con le scarpe da running, da Fossacesia Marina, lo scorso 4 agosto. Poi a un certo punto ha calzato le scarpe da trail ed è salito fino agli oltre 2.700 metri del Monte Amaro, per fare ritorno a Fossacesia Marina dopo 13 ore e 55 minuti, cioè prima del tramonto. Centoventi chilometri con 3.000 metri di dislivello positivo. Missione riuscita e sul numero 126 di Skialper di ottobre-novembre documentiamo Mare Amaro con un ampio reportage tutto da leggere e da guardare.

© Daniele Forcucci
© Mirko Picco
© Mirko Picco

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