Davide Magnini abbassa il tempo di De Gasperi sull'Ortles
Buona la seconda. Dopo il tentativo di record, sfumato per pochi secondi sul finale, sulla salita da Bormio al Passo dello Stelvio, Davide Magnini mette la firma su un FKT prestigioso e sul terreno a lui più congeniale, quello off road e dell’alta montagna. Poco più di un’ora fa ha abbassato di circa 18 minuti il record di Marco De Gasperi del 2015 da Solda all’Ortles (3.905 m), andata e ritorno. 2h18’15’’ (2h36’ De Gasperi) il crono del trentino, che in salita ha fermato il tempo a 1h35’18’’ ( 1h45’30’’ De Gasperi). Condizioni perfette per Davide che è partito dalla chiesa di Solda intorno alle sette di questa mattina. «Si può fare, non ci credo neanche io, nuovo record» è stata la sua prima affermazione appena arrivato, tra gli applausi dello staff e degli amici. Il percorso misurato dal suo Suunto (il record di De Gasperi è stato certificato dalla International Skyrunning Federation, quello di Davide sembra essere a tutti gli effetti un fastest known time) è di 17,1 km con dislivello positivo di 2.147 metri. Che dire… si può fare.
Premiata ditta Boffelli-Pintarelli da record sulle 13 cime
L’idea è venuta a Gil Pintarelli, che ha coinvolto William Boffelli: provare a chiudere l’anello delle 13 cime, in Valfurva, battendo il fastest known time di Robert Antonioli e Stefano Confortola del 2018, di 9h52’’. Era da un paio di settimane che i due atleti del team Crazy ci stavano pensando e un primo sopralluogo settimana scorsa li aveva fatti desistere. «Ci abbiamo impiegato 13 ore, si sprofondava nella neve perché non c’era stato rigelo - dice William Boffelli - Così ci eravamo decisi ad aspettare agosto». Poi l’arrivo di aria più fresca e il tentativo nella notte tra martedì e mercoledì, con partenza dalla piazza di Santa Caterina Valfurva all’una e 22 minuti.
Il giro, per un totale di 37,5 km e 4.172 m D+ tocca 13 cime oltre i 3.000 metri del gruppo Ortles-Cevedale, con il gran premio della montagna a quota 3.769 metri del Cevedale. Oltre al Cevedale si passa per Pedranzini, Dosegù, San Matteo, Giumella, Cadini, Rocca Santa Caterina, Pejo, Taviela, Linke, Vioz, Palon de la Mare, Rosole. Pintarelli-Boffelli hanno fermato il cronometro su 7h50’. «Penso che si possa scendere ancora anche perché in discesa dal Cevedale non abbiamo trovato il percorso più diretto e sicuramente l’abbiamo allungata un po’» aggiunge William. Rimane la soddisfazione per aver portato a termine un giro tra i più classici dello skyrunning. «Alla partenza c’erano nebbia e nuvole basse e abbiamo avuto il dubbio di rimandare, poi d’improvviso, poco oltre i duemila metri, abbiamo lasciato sotto di noi un mare di nuvole e il clima si è fatto più fresco, è stato uno spettacolo. Il momento più duro? Direi sul Cevedale, quando a un certo punto la corda era bella tesa, ma in generale siamo stati una coppia ben affiatata». L’assetto di William e Gil era da fast & light puro con scarpe da skyrunning, ramponcini, picca, imbrago, corda, un litro e mezzo di acqua e qualche barretta. Quanto durerà il loro FKT? Già da settimane si sente dire di un tentativo di Antonioli con Andrea Prandi. C’è come la sensazione che sentiremo parlare ancora di 13 cime…
Fabian Buhl, il tuttofare discreto
«La prima volta che ho sentito parlare di Fabian Buhl è stata quando, nel 2016, ha aperto la via Ganesha con uno stile purissimo: dal basso, in solitaria, autoassicurandosi, con appena quattro spit su sette tiri. Per spiegarla meglio, significa porsi prima di partire dei paletti etici molto forti e complicarsi enormemente la vita, sia sul piano mentale che pratico: vuol dire accettare l’idea di poter fare potenzialmente dei voli lunghissimi, o finire in un punto cieco dal quale non sarebbe più stato possibile continuare verso l’alto, magari dopo giorni o settimane di lavoro. E tutto ciò da soli, senza avere qualcuno su cui contare o semplicemente con cui dividersi la fatica». Inizia così l’intervista di Federico Ravassard a Fabian Buhl su Skialper 130 di giugno-luglio.
A sorprendere ancora di più è il background di Fabian, ovvero quello di anni di bouldering, spinto ai massimi livelli e poi messo da parte a causa dei troppi infortuni in seguito ad atterraggi violenti. Certo, passare dallo scalare massi alle aperture su grandi pareti in solitaria per evitare di farsi male può sembrare un filo irrazionale, ma se si va a guardare il suo curriculum non bisogna soffermarsi troppo su questi dettagli, anzi, con una visione macroscopica si capisce bene quale sia l’idea di evoluzione di un personaggio così poliedrico. Fabian fa di tutto, e lo fa bene: dai monotiri trad alle spedizioni extraeuropee, dalle vie lunghe sul calcare compatto del Rätikon come Déjà, fino a imprese come quella, più recente, che l’ha visto decollare dalla cima del Cerro Torre in parapendio, con una manovra che lui stesso ha definito piuttosto fortunata.
«Prima di darmi all’arrampicata ho praticato lo sci alpino a livello agonistico fino a 16 anni, poi ho smesso perché non mi piaceva più la pressione di gare e allenamenti. Il contatto con la roccia è quindi avvenuto su uscite tranquille in falesia o su multipitch, senza passare dalle competizioni indoor, poi mi sono focalizzato maggiormente sul bouldering dove ho alzato il livello fino a quando, dopo diverse fratture alle caviglie, mi è stato consigliato di evitare ulteriori impatti forti come quelli che avvengono quando si scala sui blocchi. Da quel momento ho ricominciato a scalare con la corda, ma interessandomi maggiormente all’arrampicata trad o comunque più alpinistica, fino ad arrivare alle spedizioni extraeuropee. Contemporaneamente mi stimolano anche le multipitch dure come Déja, che sono più semplici logisticamente, ma richiedono il massimo dalla condizione fisica».
Ci sono tutti i presupposti per una lettura interessante… L’articolo completo è su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile anche nel nostro online-shop
Mondiali ad Andorra, lunghe distanze alla Pierra Menta e cinque tappe di Coppa del Mondo: definito il calendario internazionale ISMF 2020/21
Nonostante l’incertezza legata alla pandemia e la crisi economica, la ISMF ha comunicato oggi il calendario internazionale dello scialpinismo per la prossima stagione invernale. Naturalmente è suscettibile di modifiche in funzione della situazione sanitaria, ma è già un bel punto fermo. L’appuntamento con i Mondiali è dal 26 febbraio al 3 marzo a La Massana, Andorra, mentre la Pierra Menta, dal 10 al 13 marzo, ospiterà la novità Mondiali Long Distance, evento in collaborazione con La Grande Course. Tre appuntamenti in Italia per la Coppa del Mondo: opening a Pontedilegno-Tonale il 19 e 20 dicembre con sprint e vertical, poi si replica il 20 e 21 febbraio al Marmotta Trophy, in Val Martello, con sprint e individual e finali a Madonna di Campiglio dal 25 al 28 marzo con tutte le specialità. Il 29, 30 e 31 gennaio la Svizzera Val de Bagnes ospiterà vertical e individual, ma è da confermare la tappa di Courchevel, in Francia, del 3-6 febbraio con vertical, individual e sprint. World Winter Games militari CISM dal 24 al 27 marzo a Berchtesgaden-Ruhpolding, in Germania. Infine i Mondiali Masters saranno a La Grande Trace, a Superdevoluy, in Francia, l’11, 12 e 13 febbraio, con vertical e team race.
Steve House, l’alpinismo come arte e allenamento
«4100 metri di parete. 5 viti da ghiaccio, 9 chiodi, 6 nut, 3 friend, 50 metri di corda dinamica. 6 giorni di salita, 2 di discesa. I numeri sono freddi e sterili, ma se si è in grado di leggerli raccontano tantissimo anche da soli. Quando nel 2005 Steve House e Vince Anderson hanno scalato la parete Rupal sul Nanga Parbat, l’impresa è risuonata come uno sparo nell’ambiente alpinistico a causa della purezza dello stile, oltre che per l'audacia. Aprire una via del genere in stile alpino, scalando veloci e leggeri, richiede tantissima dedizione. Richiede però anche una forma fisica di ottimo livello, per riuscire a scalare tutte quelle ore (scriverei ‘giorni’ ma si perderebbe il senso di continuità dello sforzo) rimando lucidi ed efficienti». Inizia così l’intervista di Alessandro Monaci a Steve House.
L’alpinismo, da fuori ma anche da dentro, è visto come un’avventura, come un'attività che mette in gioco la testa delle persone. Questo è vero, ed è quello che lo differenzia da uno sport agonistico di resistenza, per quanto duro e lungo sia quest’ultimo: durante una salita come quella di House e Anderson non ci si può ritirare all'improvviso (anche scendere vuol dire comunque fare alpinismo ed essere impegnati in modo non dissimile dalla salita) e lo sforzo, più che un esprimere al meglio le potenzialità dei muscoli, diventa un raschiare il fondo del barile del proprio corpo, cercando di sopravvivere. Questo ha fatto troppo spesso mettere in secondo piano le capacità atletiche di alcuni alpinisti. Se un profano guardando un video di Steck che scala una grande parete nord in circa due ore pensa «che folle!», un alpinista osservando lo stesso filmato dovrebbe chiedersi: «Come si è allenato per essere così veloce?».
È proprio per questo che House ha scritto Allenarsi per un nuovo alpinismo, da poco pubblicato in italiano dalla nostra casa editrice, evidenziando gli errori e le soluzioni nell’allenamento che lo hanno portato a essere uno degli alpinisti di punta degli ultimi anni. Le tecniche e i principi di base non sono nuovi e sono ben spiegati da Johnston, allenatore della nazionale di fondo USA. A Steve è toccato il compito di adattarli all'alpinismo e testarli.
Su Skialper 130 di giugno-luglio Alessandro Monaci ha intervistato l'alpinista statunitense per approfondire la sua idea di allenamento e di alpinismo di alto livello. «Poiché l'alpinismo non è competitivo, la durata della carriera di un alpinista è molto più lunga rispetto, per esempio, al ciclismo - ha detto House - Penso che una carriera atletica di 20 anni di alto livello sia possibile per un arrampicatore, anche se solo 5-10 di questi saranno al culmine assoluto».
Interessanti anche le sue considerazioni su alpinismo e professionismo. «Io non ho deciso di essere un alpinista professionista. Infatti, in senso stretto, lo sono stato solo per i pochi anni in cui non ho realmente lavorato. L’idea di essere un arrampicatore di professione mi ha sempre fatto sentire a disagio. Penso sia necessario creare qualcosa di utile nel mondo e non vedo come un alpinista possa creare niente oltre ai propri risultati. Per questo motivo, io ho sempre lavorato. Prima come guida alpina, poi come autore e adesso come allenatore e imprenditore, aiutando gli atleti di sport di montagna ad allenarsi con le migliori conoscenze e pratiche».
Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola, è prenotabile anche nel nostro online-shop
Scontro per una prima ascensione
«Di rado vie dolomitiche di massima difficoltà si trovano così concentrate su una montagna come sul Civetta. Da decenni la sua bastionata nord-occidentale, lunga sei chilometri e alta fino a 1.200 metri, affascina magicamente l’élite arrampicatoria. Qui già nel 1925 fu scritto un capitolo importante della storia dell’alpinismo, quando con la loro via di VI grado Emil Solleder e Gustav Lettenbauer inaugurarono una nuova epoca dell’arrampicata su roccia. In seguito alpinisti come Philipp, Flamm, Buhl, Aste, Mazeaud, Maestri, Comici, Cassin ed Egger, mediante vie nuove o tempi di percorrenza veloci, hanno letteralmente scritto i propri nomi sulla parete delle pareti. Con le sette vie che portano alla cima principale del Civetta, a metà degli anni Sessanta le possibilità di ascensione non sono però ancora del tutto esaurite. Sembra esserci un problema ancora aperto: una direttissima tra la Philipp-Flamm e la Solleder». Così scrive Markus Larcher nel libro Heini Holzer – La mia traccia la mia vita pubblicato dalla nostra casa editrice nel 2018.
Ed è così che nel luglio del ’67 Heini Holzer con Sepp Mayerl, Reinhold Messner e Renato Reali apre la Via degli Amici in un clima di competizione alpinistica. «Sono un po’ più avanti degli altri, e quando apro la porta del rifugio mi imbatto in Heinz Steinkötter, un alpinista estremo tedesco che ha piantato le tende in Italia. Ci conosciamo. Il mio saluto cordiale incontra una faccia scura, e quando appaiono i miei tre compagni sembra come paralizzato, ammutolisce, è senza parole. Nell’aria dev’esserci qualcosa di scottante» racconta SeppMayerl. Assieme a Steinkötter ci sono altri noti alpinisti: Dietrich Hasse, Jörg Lehne e Hans Heinrich. Hasse e Lehne quasi dieci anni prima avevano compiuto la prima ascensione della diretta sulla parete Nord della Cima Grande e della parete Sud-Ovest della Roda di Vaèl. «Ben presto i nuovi arrivati fiutano l’aria (Mayerl), sebbene Steinkötter mantenga un ostinato silenzio sui possibili obiettivi. L’aria sa di prima ascensione. Senza indugio e in segreto Holzer e compagni cambiano piani. La possibilità, nel frattempo sempre più rara, di una prima ascensione non è cosa che ci si vuole lasciar sfuggire a cuor leggero. Alla fine, con sconcerto degli altri, i quattro annunciano che si cimenteranno con la direttissima.
Su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop il racconto della prima ascensione sulla Via degli Amici al Civetta.
Il libro Heini Holzer – La mia traccia la mia vita è acquistabile qui.
François Cazzanelli, la velocità dietro casa
«Più il terreno diventa tecnico, più essere veloci e leggeri diventa una specialità riservata a un’élite alpinistica. Ti basti pensare alle salite in velocità sul Nose. Fantascienza! Ovvio che su terreno via via più tecnico parte del tempo deve essere impiegato per proteggersi, per assicurarsi, per fare sosta. Anche nell’alpinismo però c’è voglia di confrontarsi con il tempo, ma personalmente non penso che vada cercata la velocità per confrontarsi con un tempo, ma perché invece è in grado di offrirti la possibilità di godere di un maggior numero di prospettive stando in montagna. Spesso si vuole correre senza saper camminare: per muoverti veloce in montagna ritengo che sia fondamentale avere un curriculum alpinistico classico. Ci devi passare, devi essere un alpinista. Succede lo stesso nelle grandi gare di scialpinismo: per vincerle, per andare forte, non bastano i metri di dislivello che puoi macinare a bordo pista. Devi essere uno scialpinista».
Parole e musica di François Cazzanelli, che lo scorso inverno, per non annoiarsi, ha chiuso un progetto già provato due volte. Propio dietro casa sua, in Valtournenche. Perché non sempre bisogna andare lontani per trovare sfida e avventura. «È una cresta enorme, comprende in totale 20 vette: la più alta è quella del Cervino con i suoi 4.478 metri. Per le sue dimensioni, per le altezze e per i passaggi vertiginosi, la cresta è sicuramente una delle più spettacolari delle Alpi: misura circa 51 chilometri ininterrotti con 4.800 metri di dislivello positivo». François parla del primo concatenamento invernale delle Catene Furggen, Cervino, Grandes Murailles e Petites Murailles, portato a termine con Francesco Ratti. Il nostro Andrea Bormida l’ha intervistato su Skialper 130 di giugno-luglio. Però non hanno parlato solo del concatenamento, ma anche di Kilian, di materiali, si alpinismo classico, di Carrel, di Loretan…
Appuntamento su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.
Alla ricerca di Tom Ballard
«Il collegamento si era interrotto all’improvviso, ma Alex Txikon non aveva alcun dubbio: il video che stava guardando mostrava due corpi senza vita; non c’era stato il tempo di scattare una foto, prima che il drone smettesse di trasmettere, ma l’immagine di quei due corpi si era impressa nella sua mente. «Ho riconosciuto i loro zaini, i guanti, i berretti che indossavano e anche la forma dei loro corpi» racconterà dopo. I due corpi, legati alla stessa corda, distanti non più di tre metri l’uno dall’altro, si trovavano a circa 5.800 metri, in un labirinto di rocce e neve. Il primo, ancora appeso alla corda, penzolava all’interno e fuori dall’inquadratura del drone; il secondo, anch’esso attaccato alla corda, giaceva riverso su una roccia, qualche metro al di sotto del suo compagno».
Comincia così l’articolo di Michael Levy, editor di Rock & Ice, su Tom Ballard, pubblicato da Skialper in esclusiva per l’Italia. Più che un articolo un vero e proprio libro sulla vita dell’alpinista scomparso nel 2019 al Nanga Parbat insieme a Daniele Nardi. Un romanzo avvincente di 20 pagine per la passione che Levy ha messo nella prosa, ben tradotta da Simona Righetti con la revisione di Leonardo Bizzaro, ma anche un incredibile lavoro di documentazione, con decine di testimonianze e di citazioni. Ne esce un ritratto di Ballard fin da bambino, del suo rapporto con la madre Alison Hargreaves, definita da Reinhold Messner come la più forte fra le alpiniste donne e morta al K2 nel 1995. Un’ombra, quella della madre, che inseguirà per tutta la breve vita Tom che nella sua carriera alpinistica ripercorrerà spesso le orme di Hargreaves, come sulle grandi pareti Nord delle Alpi, che Tom ha completato in invernale e sulle quali accade anche un curioso episodio molto simile a entrambi. Alla Nord dell’Eiger infatti Alison si era imbattuta in svariati pezzi di equipaggiamento: una vite da ghiaccio, una piccozza, un guanto e altri piccoli frammenti non perfettamente riconoscibili e alla fine dei detriti aveva identificato il corpo senza vita di un alpinista. Si trattava di un alpinista spagnolo che aveva tentato la salita ed era morto cadendo. «Scendendo lentamente e con la massima attenzione dalla vetta dell’Eiger, Tom nota dapprima frammenti di plastica arancione sparpagliati nella neve, poi poco più in là un guanto e più sotto ancora scorge un corpo. Uno sciatore, incontrato poco prima sulla cima, è precipitato battendo la testa su una roccia; il casco arancione si è frantumato nell’urto e il ragazzo è morto. Tom non ha mai visto un cadavere e quella visione gli ricorda quanto pericolosa sia la passione che ha scelto come compagna di vita. La similitudine con quanto accaduto alla madre proprio sull’Eiger, più di vent’anni prima, lo colpisce non poco: Ci è successa quasi la stessa cosa. È molto triste, ma al tempo stesso è come aver vissuto un déjà vu commenterà».
Levy, attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuto meglio, dalla fidanzata ai compagni di spedizione, ripercorre l’infanzia di Ballard e la carriera alpinistica alla ricerca del perché sia andato al Nanga Parbat in inverno senza avere mai avuto esperienze, neppure estive, su un ottomila.
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Alex Txikon, l'alpinismo è immediatezza
«La vita media oscilla intorno ai 33.000 giorni, se dipendesse da me passerei la maggior parte del tempo di questo viaggio tra le montagne. Se ci fermiamo un attimo a pensare, ci sono molte cose importanti. Però solo due sono essenziali: la vita e il tempo. Ed è proprio in questi momenti che guardo indietro e vedo un bambino che gioca e sale sulla bici e, sorpreso e inquieto, mi domando: come è passato tutto così velocemente, vero?».
Alex Txikon ha preso sul serio questa sua affermazione, anche nei mesi scorsi quando si è allenato in Antartide prima di partire per l'Himalaya. Risultato? Road to Himalayas: partenza dal Cile a bordo di una barca a vela il 14 dicembre per andare a scalare ed esplorare nelle isole Shetland Meridionali, attraversando il burrascoso Canale di Drake. Poi, all’inizio di gennaio, con solo due giorni di riposo, subito in Nepal per scalare l’Ama Dablam e tentare l’Everest.
L’alpinista basco non è uno che ama rimanere fermo e il suo curriculum alla soglia dei 40 anno lo dimostra. E va in Himalaya quasi tuti gli inverni: «gli Ottomila invernali continuano a essere un luogo nel quale mi trovo a mio agio, mi piace lottare con le condizioni meteorologiche, mi piace soprattutto la montagna, perché è completamente diversa e non c’è l’affollamento degli altri mesi dell’anno». Su Skialper 130 di giugno-luglio Alex ci ha raccontato l’ultima spedizione, i suoi progetti, i suoi ricordi più belli, ha parlato di droni e di igloo, di bici, di moto, di rischio: «I limiti, la paura, il rischio li stabilisci tu stesso. La paura, il limite e il rischio sono i compagni della prudenza: più paura, più prudenza. Al contrario di quanto si pensi».
Appuntamento su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.
Dani Arnold, la paura per amica
«L’obiettivo di questa spedizione era l'inverno freddo, quello giusto per tentare l'arrampicata su ghiaccio. Il riscaldamento globale sta rendendo le cose sempre più difficili alle nostre latitudini, quindi volevamo esplorare un nuovo posto, dove nessuno avesse mai scalato il ghiaccio». Un obiettivo raggiunto sul lago Bajkal, nella Siberia meridionale, dove di rado se si cerca il freddo ci si imbatte in qualcos’altro. «Abbiamo trovato esattamente quello che cercavamo, un freddo ben più intenso di quello che avevo provato sugli Ottomila: è stato fantastico. Ma anche la curiosità per il Paese, le persone e la cultura è stata un elemento importante di questo viaggio. L’ha arricchito molto».
Dani Arnold ha raccontato a Skialper la sua ultima spedizione in Siberia, della quale pubblichiamo anche le belle foto scattate da Thomas Monsorno. Ma a Veronica Balocco l’alpinista svizzero ha raccontato molto di più: della perdita di compagni d’avventura come Lama, Auer e Steck, della paura e del rischio, di quando va ad arrampicare con la moglie, dei free solo. E dell’Himalaya: «Quella in Himalaya è stata una bella esperienza per me, ma non ne sono uscito soddisfatto. Tecnicamente non è assolutamente nulla di impegnativo. Ogni persona con un Ottomila nel cassetto è celebrata come un eroe, ma ci sono molte montagne di duemila metri che richiedono molta più preparazione di una via normale laggiù».
Ne parliamo su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.
Io e Ueli
«Era tanto un maniaco della precisione quanto, talvolta, completamente fuori dagli standard e anche un po’ impacciato in quelle che sono le cose quotidiane, a noi più normali» scrive Simone Favero nell’articolo su Ueli Steck (Io e Ueli) che apre Skialper 130 di giugno-luglio. Ueli Steck è il mantra che ricorre in tutte le pagine di Skialper perché è l’ispiratore di tutti gli alpinisti che abbiamo intervistato nel numero dedicato all’alpinismo e a The Swiss Machine abbiamo dedicato anche la copertina, una bella foto di Jonathan Griffith scattata su Supercouloir. Però di Steck è stato scritto già tanto e volevamo un ritratto diverso, più intimo. Dell’uomo prima ancora che del recordman alpino. Così Simone Favero, che ha lavorato gomito a gomito con Ueli nel reparto marketing di Scarpa, ha scritto parole che lo rendono (un po’) più umano.
«Dormivamo spesso nello stesso appartamento, tre stanze messe a disposizione da Scarpa quando facevo tardi in ufficio (sempre, in pratica) che condividevo con gli ospiti che venivano in azienda. Con alcuni era divertente, con Ueli era uno spasso e accadeva sempre qualcosa di assurdo: uno dei must era l’allarme che partiva la mattina a causa delle sue uscite a orari impossibili per andare a fare allenamento: anche venti chilometri di corsa attorno ad Asolo prima dell’alba. Poi una doccia, dieci ore con il team prodotto, e quasi sempre guidava la sera stessa fino a casa, per non perdere l’alba della mattina dopo e andare a provare i prototipi che aveva appena sviluppato. Ricordo che tutti i discorsi erano incentrati sui materiali, ogni dettaglio doveva essere più leggero; un’ossessione quella verso la leggerezza che non era mai fine a sé stessa, ma racchiudeva anzi una necessità ed era un primigenio stimolo a migliorarsi, darsi obiettivi in cui l’asticella doveva sempre alzarsi di almeno due tacche». Questo è solo uno degli episodi che troverete in Io e Ueli, su Skialper 130, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.
Cosa resterà di quei formidabili anni ‘90
È di questi giorni la notizia del record di Franco Collé sul Monte Rosa. Il suo non sarà probabilmente l'unico record di skyrunning di un anno senza gare e si inserisce in una storia gloriosa che nasce proprio con il record del 1988 di Valerio Bertoglio sullo stesso itinerario. Su Skialper 129 abbiamo ripercorso l'epopea dello skyrunning in quei favolosi anni '90 e per celebrare l'impresa di Franco ve la riproponiamo.
Nel 1988 Valerio Bertoglio è salito e sceso da Staffal, nella valle di Gressoney, alla vetta del Monte Rosa, in 5h29’33’’. L’anno dopo Marino Giacometti ha coperto il percorso Alagna-Punta Gnifetti andata e ritorno in 6h07’07’’. Valerio, Marino e i primi mountain runner, inconsapevolmente, hanno acceso la scintilla che avrebbe infuocato tutti gli anni ’90 e l’inizio del secolo, ma soprattutto hanno dato vita allo sport di velocità in montagna e, indirettamente, al mondo meno estremo del trail running, che li avrebbe poi fagocitati. Scrive il professor Giulio Sergio Roi, nel 1995 tra i fondatori della FSA (Federation for Sports at Altitude) nell’interessante libro Skyrunning, l’abc di chi corre in quota pubblicato da Correre: «La parola skyrunner è stata introdotta da Marino Giacometti all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, proprio per indicare quello che allora era chiamato mountain runner, che partendo da un paese del fondovalle tentava di raggiungere la vetta di una qualsiasi montagna, situata a una quota maggiore di 2.000 metri, lungo il percorso più breve e nel minor tempo possibile. La quota di 2.000 metri, che indica il limite inferiore della media quota, è stata arbitrariamente scelta come la quota al di sopra della quale gli effetti dell’altitudine cominciano a diventare importanti, poiché comincia a essere evidente la riduzione della massima potenza aerobica che penalizza le prestazioni di lunga durata e può già comparire il mal di montagna».
Tutte le intuizioni hanno bisogno di sognatori e visionari e anche lo skyrunning ha avuto i suoi, a partire da Marino Giacometti, dallo stesso Giulio Sergio Roi e da Enrico Frachey. Il primo è stato atleta e inventore di uno sport al quale ha dato regole e organizzazione attraverso la FSA e poi l’International Skyrunning Federation, il secondo, medico dello sport, ha posto le basi per studi sulle prestazioni in alta quota che ancora oggi fanno discutere. Frachey, amministratore delegato di Fila e grande appassionato di montagna, agli inizi degli anni ’90 aveva capito la potenza comunicativa dello sport di velocità in quota e incoraggiato Giacometti a organizzare la prima gara in altitudine. Perché le due parole chiave di un’epoca forse irripetibile sono proprio quota e velocità e sono alla base di tutta la filosofia fast & light che permea la nostra passione per la montagna. «Lo skyrunner è un atleta che fa della velocità un fattore di sicurezza» dice Giulio Sergio Roi. E lo fa in alto. Tutto il movimento dello skyrunning è un ingranaggio perfetto per lo spettacolo e per studiare la prestazione sportiva in altitudine. Per arrivare a intuirne i limiti estremi.
Il 28 luglio 1991 quattro atleti – Adriano Greco, Marino Giacometti, Angelo Todisco e Sergio Rozzi – partecipano alla prima edizione della salita al Monte Bianco da Courmayeur con ben 52 chilometri di sviluppo, vinta da Adriano Greco in 8h48’25’’. Al Monte Bianco si disputarono tre edizioni consecutive, fino al 1993, e la gara faceva parte del Fila Skyrunner Trophy. Il tempo migliore è quello del 1993 di Adriano Greco (7h06’31’’), poi nel 1994 il maltempo costrinse ad annullare la prova e non se ne fece più niente. Ma era scattata la scintilla. Dal 1992 al 1998 si organizza il Fila Skyrunning Trophy, poi diventato Skymarathon Trophy, Skymarathon Circuit e Skyrunning Circuit. È un’epopea fantastica con regole semplicissime: si parte dal fondovalle e si raggiungono le cime più famose delle Alpi, tutte sopra i 3.000 e molto spesso i 4.000 metri, rientrando a valle nel minor tempo possibile. Nel 1992 si sale sull’Adamello, sul Monte Rosa e sul Monte Bianco e sono 51 in totale gli atleti-alpinisti iscritti. Il Monte Rosa è la gara più longeva, disputata nel 1992 (anche se su percorso modificato causa maltempo), 1993, 1994 e 1996, poi dal 2002 al 2011 rinasce come Monte Rosa Sky Marathon, ma su un percorso diverso. Nel 1995 si inizia a correre anche sul Bretithorn occidentale e nel 1998 Cervinia ospita il primo Campionato Mondiale di Skyrunning che vede al via 46 atleti di 18 Paesi. La Skymarathon, vinta da Bruno Brunod, arriva proprio fin sul Breithorn Occidentale, a 4.165 metri.
L’idea di correre in alta quota esce dai confini alpini e si iniziano a disputare gare in Messico, in Kenya e in Tibet. In America si corre sull’Iztaccihuatl, fino a 5.286 metri. Nel 1996 la prima edizione è stata vinta da Ricardo Meija. Nel 1995 sul Mount Kenia (5.199 metri) si assiste all’avvincente duello tra quelli che saranno due degli indiscussi protagonisti di quegli anni: Fabio Meraldi e Matt Carpenter. La spunta il valtellinese in 5h03’22’’. Meraldi era stato anche protagonista di un episodio che ha dell’incredibile proprio in Messico. La gara del 1996 avrebbe infatti dovuto disputarsi sul vulcano Popocatépetl (5.465 m) ma il percorso fino alla vetta non era accessibile per motivi di sicurezza perché il vulcano era attivo. Fabio e Pep Ollé vollero comunque fare un giro esplorativo in vetta e furono arrestati al rientro perché le guardie del parco avevano visto le loro tracce sulla neve. Il viaggio dello skyrunning oltre i confini dell’Europa ha un significato ben preciso: sempre più in alto. Così si arriva al punto massimo dello studio della prestazione in quota, la Everest Skymarathon, corsa nel 1992, 1993, 1994, 1995, 1996 e 1998. La prima edizione della Everest Skymarathon raggiunge quota 5.050 metri, mentre le altre si svolgono su anelli con dislivelli inferiori ai 200 metri. La distanza è quella della tradizionale maratona, anche se solo quella del 1998 è stata certificata dall’Association of International Marathons and Distances Races. Quattro gare vengono disputate a quota 4.300 metri, una a 5.200 metri. A parte la prima, con 1.470 metri di dislivello positivo, vinta da Greco e Meraldi, le altre sono state vinte tutte da Matt Carpenter. «Carpenter è stato l’atleta, dal puro punto di vista della corsa, più forte che ho potuto studiare, mentre quando iniziavano le difficoltà, non essendo un vero skyrunner, emergevano altri» dice Sergio Giulio Roi. La miglior prestazione ufficiale su maratona a 4.300 metri è proprio quella di Matt Carpenter nel 1998 con 2h52’57’’, mentre, seppur non certificata, quella a 5.200 metri è sempre dell’americano in 3h22’25’’. Le maratone in quota hanno permesso la realizzazione del Peak Performance Project, un progetto di ricerca scientifica promosso dalla FSA. L’obiettivo era rispondere ad alcune domande: è pericoloso correre in quota? Danneggia cuore e cervello? Qual è il limite della prestazione in alta quota? «Il Peak Performance Project ha portato a numerose pubblicazioni scientifiche e si è scoperto che è possibile correre ininterrottamente per 42 chilometri sopra ai 5.000 metri e in un percorso pianeggiante non innevato è teoricamente possibile utilizzare la corsa come forma di locomozione fino a un’altitudine di 7.000 metri» dice Sergio Giulio Roi. Altre scoperte? Si può correre a 4’/km sopra i 4.000 metri, lo skyrunner sale a circa 1.200/1.500 metri di dislivello ora, anche di più nelle gare corte e scende fino a 3.000 metri/ora, non sono emerse patologie significative legate alla prestazione in quota e negli atleti che hanno corso fino a 5.000 metri non si sono mai riscontrati casi di mal di montagna.
«I dati raccolti sugli skyrunner che hanno partecipato a maratone disputare a livello del mare e in alta quota in Tibet, a 4.300 e 5.200 metri, indicano che in termini di prestazione gli atleti meno veloci sono più penalizzati in quota rispetto ai più veloci. Ad esempio il vincitore della maratona evidenzia a 4.300 metri di quota un peggioramento di velocità del 21 per cento rispetto al record personale a livello del mare, mentre l’ultimo classificato evidenzia un peggioramento di velocità circa doppio, del 42 per cento; queste caratteristiche sono dovute alla diversa capacità di sfruttare un’elevata percentuale della massima potenza aerobica, al diverso costo del lavoro dei muscoli respiratori in quota e solo in parte alle diverse caratteristiche dei terreni» dice Sergio Giulio Roi. Gli anni ’90 volgono al termine, ma non la voglia di exploit in alta quota, che tocca anche altri sport. Nel 1998 nasce lo SkySki du Mont Blanc, che si corre fino al 2002. È un raid di skyrunning, scialpinismo e alpinismo inventato da Romano Cugnetto per promuovere la preparazione sportiva e la velocità in montagna come concetti di sicurezza. Si corre da La Villette, vicino a Courmayeur, fino al Rifugio Torino, poi si mettono gli sci per toccare Col du Rochefort, Flambeau, d’Entrèves, Base de la Vierge, Col du Rognon e si raggiunge l’Aiguille du Midi con tecnica alpinistica. È una gara a squadre e la prima edizione la vincono Ettore Champretavy e Leonardo Follis che coprono i 30 chilometri e 3.500 metri di dislivello in 3h48’30’’. Già nel 1992 si era corsa la Skyraid Adamello che prevedeva bici, skyrunning e alpinismo, ma la massima espressione di questi raid multisport è stata nel 2002, in occasione dell’anno internazionale delle montagne, con l’Alpine Skyraid da Courmayeur a Cortina d’Ampezzo. Le squadre di tre-quattro atleti dovevano percorrere 500 chilometri e 23.000 metri di dislivello (in otto tappe) utilizzando la bici o mountain bike fino a 2.000 metri di quota, fino ai 3.000 in assetto skyrunning e oltre con tecnica alpinistica o scialpinistica. Per la cronaca la vittoria andò al Team Vibram di Stephane Brosse, Bruno e Dennis Brunod, Jean Pellissier in 27h00’40’’ e al Team Fila di Gisella Bendotti, Arianna Follis, Gloriana Pellissier e Alexia Zuberer. La combinata tra skyrunning, sci e bici era diventata di moda già prima e nel 2000 è stata organiz- zata la prima Olimpiade d’alta quota, gli Skygames, sulla scia delle imprese skybike di Giacometti del 1993 al Monte Rosa e del 1997 al Monte Bianco, raggiunto in 23 ore da Genova unendo bici e skyrunning.
Poi piano piano si è scesi di quota, lo skyrunning ha dato origine ad attività meno tecniche e meno d’élite, si è diffuso il trail running e la corsa del cielo è rimasta un sogno per pochi eletti. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile grazie ai favolosi anni ’90. Sabato 23 giugno 2018 Franco Collé e William Boffelli hanno chiuso la salita e discesa da Alagna alla Capanna Margherita in 4h39’59’’ in quella che è stata la prima edizione moderna della gloriosa gara del Monte Rosa, rinata a coppie sulla distanza di 35 chilometri e 7.000 metri di dislivello totale. La Monterosa Skymarathon si è disputata anche nel 2019 e, al momento di andare in stampa, è ancora in calendario, ma rinviata a luglio e in data da destinarsi. Il Monterosa segna il ritorno dello skyrunning alle sue origini: sport d’elite, per pochi, oltre i 2.000 metri, che richiede progressione anche con i bastoncini, con tratti attrezzati o l’uso delle mani. E dei gran polmoni. Come quelli che servono alla Dolomyths, al Kima, alla Pikes Peak, al Sentiero 4 Luglio o al Uyn Vertical Courmayeur Mont Blanc. Perché lo skyrunning è sempre stato vivo. E il futuro ha un cuore antico.
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