Le mascherine Crazy

Oltre 10.000 mascherine protettive donate alla Protezione Civile perché vengano distribuite gratuitamente a negozianti e associazioni locali. Sono questi i risultati del lavoro di Crazy, l’azienda valtellinese specializzata nella produzione di abbigliamento per lo skialp e il trail running. Lo scrive Valeria Colturi in un post sull’account social dell’azienda. Si tratta di prodotti lavabili e riutilizzabili, realizzati con i materiali impermeabili e traspiranti utilizzati per i capi d’abbigliamento fast & light. Non sono presidi medici, richiedono comunque il rispetto delle regole prescritte, ma possono però essere utili per persone che sono in contatto con il pubblico, perché proteggono le altre persone da schizzi e secrezioni grossolane. La produzione quotidiana è arrivata a circa 700 pezzi e la confezione viene realizzata a casa da un centinaio di persone, mentre alcune aziende fornitrici hanno regalato parte dei materiali utilizzati. Negozianti e associazioni della provincia di Sondrio possono farne richieste telefonando al numero 0342 212524.


Suffer fest Ice & Palms

Continuiamo a pubblicare i racconti più belli apparsi su Skialper per ricordare quanto è bello viaggiare e usare gli sci come mezzo di trasporto. E per sognare nuove avventure.

*suffer fest: neologismo di origine anglosassone, indica un’attività sportiva di endurance nella quale è previsto che buona parte (se non tutti) dei partecipanti siano costretti a una fatica prolungata con annessa sofferenza fisica e mentale.

Il Baden-Württemberg è uno dei principali land della Germania. La sua capitale è Stoccarda, conosciuta nel resto del mondo come la patria dell’automobile (Mercedes-Benz, Porsche, Bosch hanno sede qui, ad esempio), e l’economia dell’intera regione si basa largamente sull’industria. Confina con la Francia a Est e con la Svizzera a Sud, mentre i principali rilievi sono rappresentati dalla Foresta Nera, la catena dello Giura e le Prealpi del Lago di Costanza. Il Baden-Württemberg sembra un buon posto dove vivere, se non fosse per un piccolo dettaglio: il mare, specialmente quello caldo, è lontano, parecchio lontano. E di conseguenza, se un paio di amici si dovessero inventare di voler andare al mare in bicicletta, le cose si complicherebbero parecchio, specialmente se lungo l’itinerario ci si volesse portare dietro anche degli sci e decidere di utilizzarli nel miglior modo possibile.

I due amici sono Jochen Mesle e Max Kroneck che, oltre alla passione per lo sci scoprono di condividere anche quella per le pedalate, specialmente quelle lunghe e faticose, e per la fotografia, in particolar modo quella che ti impone di utilizzare apparecchi pesanti e scomodi. L’idea che partoriscono insieme ha le caratteristiche comuni di ogni suffer fest* che si rispetti: dev’essere lunga, fisicamente estenuante, particolarmente ricca di incognite e problematiche di varia natura, originare vesciche in vari punti del corpo e apparire insensata agli occhi delle persone normali. Et voilà, ecco il progetto Ice & Palms: Jochen e Max vogliono partire da casa loro a Dürbheim, nel Baden-Württemberg, raggiungere l’Austria e da lì attraverso i principali valichi alpini arrivare fino al lungomare di Nizza, senza mai utilizzare mezzi a motore e sciando il più possibile, filmando allo stesso tempo la loro avventura. Di tanto in tanto, poi, verranno raggiunti da amici che daranno una mano nella ripresa delle immagini.

© Max Kroneck, Jochen Mesle, Julian Rohn

I loro destrieri saranno due bici gravel, equipaggiate con portapacchi anteriori e posteriori sui quali sistemare l’attrezzatura. Sci e scarponi dietro, insieme a uno zaino con il materiale per la notte. Sacca anteriore sinistra per il pentolame e macchine foto. Sacca anteriore destra: accessori e abbigliamento da pioggia, pronti per essere tirati fuori in poco tempo. Peso totale, cinquanta chili, grossomodo: vista l’agilità, più che destrieri li si potrebbe definire dei ronzini un po’ sovrappeso. Quello della partenza, nella primavera del 2018, è un momento strano, Jochen e Max sembrano fuori posto: un po’ come quei modelli da catalogo, ritratti in ambiente ma con abbigliamento e attrezzatura perfettamente in ordine e puliti. Ci vorranno un paio di giorni per cominciare a stropicciarsi il giusto e toccare la neve dopo più di 100 chilometri di distanza percorsa. Non è poi così male, tutto sommato, poter acclimatarsi in modo soft prima di arrivare sulle montagne vere. Viaggiare con bicicletta e sci al seguito significa perdere continuamente tempo a fare e disfare i bagagli, che richiedono un ordine maniacale, in perfetta antitesi con la natura degli sciatori. Ogni pezzo dev’essere nel posto giusto per essere trovato nel momento giusto: Mark Twight diceva che in montagna ci vuole un accendino in ogni tasca, per non impazzire quando si tratta di accedere il fornello in bivacco, e in bike packing non cambia più di tanto.
Al quarto giorno sono nell’Arlberg, da lì si dirigono verso la Svizzera. Di neve qui non sembra essercene molta, ma bisognava pur trovare un compromesso per poter beneficiare dell’apertura di quasi (tutti) i valichi. Sono le classiche condizioni in cui, una volta - come dicono i vecchi -  cominciava la stagione dello scialpinismo. A St. Anton un avventore in un bar chiede loro cosa faranno quando, una volta arrivati a Nizza, non troveranno più neve da sciare. «Ci siamo portati dietro anche il costume da bagno» la risposta perentoria.

Dopo nove giorni e 500 chilometri si comincia a fare sul serio. La coppia di ciclo-sciatori si avvicina al massiccio del Bernina e dalle sacche sulle ruote spuntano fuori piccozze e corde, ingredienti necessari per il menù dei giorni a seguire: Piz Bernina e Cima di Rosso, itinerari grandiosi che strizzano l’occhiolino alle pendenze sopra i 45°. Si muovono bene, dopo le prime tappe in cui hanno patito entrambi le conseguenze di infortuni occorsi durante la stagione invernale. Strano ma vero, le centinaia di chilometri in bicicletta hanno fatto da terapia e ora si avvicinano alla metà della distanza che separa la Germania dal Mediterraneo. Dopo due settimane di viaggio arrivano al Furkapass, che collega le Alpi Lepontine a quelle Bernesi. Su questi tornanti, negli anni ’60, Sean Connery sfrecciava sulla sua Aston Martin durante le riprese di Agente 007 - Missione Goldfinger, ma quando Jochen e Max arrivano alla sbarra del fondovalle capiscono in poco tempo che per loro il valico sarà tutt’altro che velocità e adrenalina: la parte alta non è ancora stata ripulita dalla neve ed è, in poche parole, chiusa al traffico. Non rimane altra scelta che accettare la sfida e caricarsi le biciclette letteralmente sugli zaini, tirare fuori le pelli e proseguire carichi come sherpa lungo i pendii innevati, sotto una leggera nevicata che non fa altro che rincarare la dose di sofferenza. I due viandanti procedono barcollanti sotto i loro carichi monumentali e, un passo alla volta, cominciano a salire verso i 2.436 metri del passo. La discesa è una scena surreale, fatta di curve molto controllate e allo stesso tempo storte come un quadro cubista, fino a quando, esausti, possono finalmente rimettere le ruote sull’asfalto, mentre il nevischio ora tramutato in pioggia fa apprezzare ancora di più la mutevolezza del meteo primaverile.

© Max Kroneck, Jochen Mesle, Julian Rohn

Sono passati ventun giorni dalla loro partenza e con 960 chilometri nelle gambe il Vallese si apre davanti a loro. Mentre a pochi chilometri i turisti gozzovigliano nei ristoranti di Zermatt, i nostri due eroi puntano gli sci verso mete sicuramente più di nicchia. «È bello ritrovarsi completamente soli in montagna e sapere di avercela fatta con le proprie forze» commentano, salendo verso il rifugio da cui partiranno il giorno successivo. Il Bishorn lo sciano nella nebbia, non senza qualche spavento. Le valanghe si fanno sentire ma non si fanno vedere, mentre a quattromila metri, immersi nel white-out, aspettano una finestra di cielo pulito per scendere il più velocemente possibile. Sul Brunegghorn, due giorni più tardi, vengono premiati dagli dei della montagna con una discesa memorabile, in una di quelle giornate in cui lo scialpinismo primaverile si manifesta in tutta la sua bellezza. Cielo azzurro, polvere fredda e, duemila metri più sotto, il verde dei pascoli a fare da quinta. La parete Nord è una pratica che viene liquidata in una decina di curve che giustificano pienamente lo sforzo supplementare di utilizzare assi da freeride al posto di perline da scialpinismo light: entrambi, infatti, hanno deciso di portarsi dietro sci oltre i 100 millimetri al centro e scarponi a quattro ganci da freetouring. L’attenzione della coppia, ormai innamorata del Vallese, si sposta a questo punto su un altro monumento del ripido, che risponde al nome di Grand Combin de Valsorey. Lo scivolo Nord-Ovest, che culmina a 4.184 metri, viene descritto da Max come una scala di Giacobbe, facendo riferimento all’affresco di Raffaello in cui il profeta biblico sogna una scalinata da cui gli angeli possano muoversi fra la Terra e il Cielo. Lo stesso scivolo in cui, nel film La Liste, Jérémie Heitz perdeva uno sci, riuscendo incredibilmente a salvarsi la pelle dopo una caduta a 50° di pendenza. Per i due la giornata si rivela fortunatamente meno adrenalinica, anche se la stanchezza inizia a farsi sentire. Proprio quel giorno avrebbero dovuto riposare, ma passare sotto a quella rampa senza sciarla non sarebbe stata un’azione da fedeli devoti alla causa dello sci.

© Max Kroneck, Jochen Mesle, Julian Rohn

Al trentesimo giorno, nei pressi del Gran San Bernardo, iniziano a manifestarsi i primi indizi che indicano che ormai è solo questione di pochi giorni prima di potersi spaparanzare in spiaggia. Nizza 323 km, recita un cartello nei pressi del tunnel. Pochi chilometri più in là, a Donnas, delle palme appaiono a bordo statale come oasi nel deserto. Come i barbari alla fine dell’Impero Romano, i due germanici continuano a calare verso Sud a bordo dei loro ronzini meccanici, nutrendosi unicamente di pizza, pasta e carboidrati vari per onorare la cultura del turismo tedesco in Italia. Valle di Susa, poi il Monginevro: il prossimo obiettivo sarà la Barre des Écrins, il quattromila più meridionale dell’arco alpino, e sarà anche l’ultima vetta in programma prima di dirigersi verso il Col du Vars e le spiagge francesi.
Quella sulla Barre è un’altra giornata memorabile. Si filmano a vicenda all’alba, mentre si dirigono, sci ai piedi, verso la terminale della parete Nord, che per l’occasione si è presentata con il vestito dei giorni di festa. Solitamente è un muro ghiacciato e non sempre la neve la ricopre in modo sufficiente per poter essere sciata. Solitamente non vuol dire sempre, e per i due l’ultima discesa del loro viaggio può cominciare direttamente dalla croce sommitale, dalla quale si può vedere tanto il Monte Bianco quanto il Golfo di Nizza. Chi ha già sciato nelle Alpi del Sud sa bene l’emozione che si prova a vedere il Mediterraneo scintillare in lontananza, la stessa che provano Jochen e Max mentre gli attacchi fanno clack.

Il Col du Vars è una formalità che viene sbrigata in fretta, aspettando l’ultimo ostacolo: il Col de la Bonnette, che con i suoi 2.715 metri è, insieme allo Stelvio, all’Iseran e all’Agnello, tra i più alti valichi asfaltati delle Alpi. Nel 2016 il Giro d’Italia era passato di qua in una tappa memorabile, la penultima: in soli 134 chilometri erano stati concentrati 4.100 metri di dislivello, con le salite al Vars, alla Bonnette e alla Lombarda per poi terminare sui tornanti che conducono al Santuario di Sant’Anna di Vinadio. Proprio qui, sul finale, Vincenzo Nibali aveva attaccato sul diretto concorrente Esteban Chaves, che si era visto sfilare la maglia rosa a meno di 24 ore dalla fine del Giro. Quel giorno, all’arrivo, i genitori di Esteban si erano resi protagonisti di una scena di sport indimenticabile, andando ad abbracciare il siciliano sul traguardo e complimentandosi con lui per la vittoria. Uno sgambetto è stato riservato anche a Max, che riesce a forare a meno di 30 km da Nizza, dopo 42 giorni e 1.800 chilometri di strade di montagna. L’arrivo sul lungomare è uno shock: dopo sei settimane in cui le uniche priorità erano state sciare, pedalare e più generalmente sopravvivere, il senso di smarrimento è totale. «Cosa faremo ora?», si chiedono i due, confusi al punto che pure scegliere dove andare a cenare rappresenta una sfida al pari della traversata del Furkapass innevato. Succede così che il capitolo finale del loro viaggio viene scritto in un ristorante messicano nel sud della Francia, un’idea assurda e apparentemente incomprensibile quanto voler partire dalla Germania per arrivare al Mediterraneo sciando e pedalando. Cosa ci insegnano Max e Jochen? Beh, di sicuro potrebbero illuminarci sulla loro gestione del tempo libero, ma è limitante dire che per intraprendere un progetto come Ice & Palms sia sufficiente trovare 40 giorni di ferie, anche perché, in un certo senso, loro in quel momento stavano lavorando, in quanto freeskier professionisti. No, Jochen e Max ci insegnano che le avventure più belle possono essere vissute anche dietro casa, che non è necessario viaggiare dall’altra parte del mondo per ritrovarsi in balia dell’incognito. E che l’incognito - o inesplorato, che fa più figo - può avere moltissime forme diverse: dalle condizioni della neve sul Grand Combin a quelle della strada sul Furkapass, fino a quelle fisiche di Max quando, nel trasferimento dalla Val d’Aosta alla Francia, si ritrova a macinare duemila metri di dislivello con 39 gradi di febbre. E ci insegnano anche in cosa consiste la creatività, ovvero su come prendendo due o più concetti e fondendoli insieme si possano creare infinite nuove idee. Tipo andare in bici e sciare, o sciare e andare al mare. Oppure, andare al mare pedalando e sciando. Insomma, ci siamo capiti. Un’ultima lezione potrebbero darcela sulla gestione della biancheria in sei settimane di ambienti umidi e freddi, ma quella è tutta un’altra storia.

Ice & Palms è un cortometraggio di 32 minuti prodotto da El Flamingo Films e diretto da Jochen Mesle, Max Kroneck, Philipp Becker e Johannes Müller. 

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124

https://youtu.be/AzyK5qr-WC0

https://vimeo.com/elflamingo/iceandpalms


Prova a prendermi

Questo pomeriggio alle 17 sul nostro account Instagram saremo in diretta con François Cazzanelli. Per ripassare l'argomento, ecco l'intervista pubblicata lo scorso agosto su Skialper. Ma da allora François non si è fermato...

Mentre camminiamo ai piedi del Cervino, su quei prati e quelle pietraie che in inverno vedono sfrecciare centinaia di migliaia di sciatori, François si ferma e si china. Raccoglie un pezzo di carta, poi uno di plastica, poi ancora il tappo di una bottiglia di vino. «Fai una fotografia alla mano con questi rifiuti? Ogni volta che salgo in montagna raccolgo quello che trovo e a fine stagione voglio fare un post con tutte le foto: si parla tanto di rifiuti e di inquinamento, ma se ognuno di noi iniziasse a raccogliere quello che trova, la montagna sarebbe più pulita». François Cazzanelli, classe 1990, è in quel momento della sua carriera alpinistica in cui succedono tante cose. L’ultimo anno è stato un susseguirsi di colpi di scena. Prima il record delle quattro creste del Cervino, a settembre, con Andreas Steindl: 16 ore e 4 minuti per polverizzare il tempo di 23 ore di Kammerlander – Wellig del 1992. Poi, un paio di settimane dopo, la nuova via Diretta allo Scudo sulla parete Sud del Cervino, aperta con Emrik Favre e Francesco Ratti. Un sogno iniziato dal padre, anche lui Guida alpina, e sul quale François metteva gli occhi dal 2012, alla ricerca di una soluzione nella parte più ripida. Poi a fine maggio la doppia ascesa sulla vetta del Denali, in Alaska, in una settimana, con la terza ripetizione italiana della difficile Cresta Cassin, in velocità: 26 ore e 45 minuti dal campo 4, 18 ore e 58 dalla terminale. Una linea che di solito viene chiusa in diversi giorni. In mezzo altre imprese che non fanno record, ma curriculum: il Mount Vinson, in Antartide, a gennaio; la traversata integrale estiva delle Grandes Murailles con Kilian Jornet in 11 ore; il tentativo di traversata invernale delle creste della Valtournenche, dal Theodulo alle Petites Murailles, passando per il Cervino. Ce n’è per gonfiarsi il petto, invece la ricetta Cazzanelli parte dal basso, dal rispetto e dall’umiltà.

 

IL CERVINO CI GUARDA, CHE COSA RAPPRESENTA PER FRANÇOIS CAZZANELLI?

«È la mia scuola di vita, la mia fonte d’ispirazione, mi ha formato: quello che ho imparato qui mi ha permesso di raggiungere le vette di tutto il mondo».

È UN SIMBOLO, UN PO’ COME L’EVEREST, DOVE SEI SALITO L’ANNO SCORSO. E, IN SCALA DIVERSA, PRESENTA GLI STESSI PROBLEMI DI AFFOLLAMENTO.

«Guarda, devo essere sincero, io questi problemi di affollamento e di sporcizia di cui si parla tutti i giorni, come pure le storie di morti appesi alle corde da anni, le ho trovate un po’ esagerate. Per quanto riguarda le file va però detto che l’anno scorso la finestra di tempo era stata più ampia. In vetta sono arrivato con l’astronauta Maurizio Cheli, con l’ossigeno perché dovevo garantire la sicurezza del cliente, poi qualche giorno dopo il Lhotse, con Marco Camandona, l’abbiamo raggiunto senza bombole e in stile alpino. Credo che non sia giusto criticare i nepalesi per il business dell’Everest. Sull’Everest per ogni cliente lavorano tre nepalesi, ciò significa permettere a tre famiglie di mangiare. Anche sul Cervino, fin dall’inizio, già nei sogni di Carrel, l’obiettivo era quello di aprire una via dove poter accompagnare i clienti, portando così ricchezza alla propria valle. Anche qui stiamo razionalizzando l’accesso, abbiamo ridotto i posti letto alla Capanna Carrel per migliorare la sicurezza e mantenere pulita e in ordine la nostra montagna. A differenza del Monte Bianco, nulla è vietato. Ripulendola ho trovato perfino un assorbente sotto i materassi che era lì da chissà quanto tempo. Se vogliamo criticare il sistema Everest, allora per essere coerenti dobbiamo togliere le corde fisse dal Cervino».

QUANTE VOLTE SEI STATO IN VETTA AL CERVINO?

«L’ultima ieri, e fanno 68. Una media di 11-13 a stagione, l’anno scorso 18 volte grazie al concatenamento delle quattro creste. Il numero è un valore relativo, quello che mi piace sottolineare è che ci sono salito da 15 vie diverse».

DAL CERVINO AL DENALI, L’ULTIMA STELLA SULLA TUA GIACCA. RACCONTACI COME È ANDATA E PERCHÉ SIETE SALITI DUE VOLTE IN VETTA.

«Le due salite in una settimana sono la ciliegina sulla torta, ma onestamente non ci contavo. Quando il 22 maggio siamo arrivati al campo 4, ci hanno comunicato che la finestra meteo favorevole sarebbe stata di sole 24 ore; a quel punto con Francesco Ratti abbiamo deciso di fare un giro di perlustrazione sulla West Rib per vedere l’attacco della Cassin. Poi, arrivati al colle, avevamo un mare di nubi sotto di noi e sopra il bel tempo, così siamo saliti fino in vetta, dopo 9 ore di scalata, alle otto di sera».

E LA CRESTA CASSIN?

«La salita vera e propria l’abbiamo fatta il 28 maggio, sempre con Francesco. Siamo partiti presto con Teto e Roger, poi loro hanno proseguito sulla West Rib. Siamo scesi per la Seattle Rump e in 4 ore e 20 minuti eravamo alla base della via. Dieci minuti per preparare il materiale e rifocillarci e poi via. Le condizioni al Japanese Couloir non erano delle migliori, c’era parecchio ghiaccio, ma siamo riusciti a cavarcela velocemente. La traccia delle due cordate davanti a noi ci ha aiutato parecchio e in poche ore siamo arrivati al ghiacciaio pensile. La prima rock band ci ha riservato un’arrampicata splendida, mai difficile e molto divertente. Arrivati in cima abbiamo superato le altre due cordate: una stretta di mano, un po’ di incoraggiamenti reciproci e poi su verso la seconda rock band. Abbiamo trovato agilmente il couloir nascosto e lo abbiamo superato. In cima a questo tratto, a circa 5.000 meri, ci siamo fermati a mangiare qualcosa. Il passaggio successivo era superare la terza rock band, ma è stato più difficile: per i successivi 400 metri avremmo dovuto tracciare la via con la neve alle ginocchia. La notte stava arrivando e abbiamo deciso di fermarci due ore a riposare e bere dentro la tendina monotelo. Alle due del mattino è venuta l’ora dell’attacco alla vetta. Faceva molto freddo, circa -36 con vento a 45 chilometri orari. Gli ultimi 700 metri sono stati difficilissimi. Stringendo i denti, finalmente alle 7 del mattino eravamo al sole e in vetta».

RIPENSANDO A QUEI GIORNI, QUAL È STATA LA CHIAVE DEL SUCCESSO?

«La strategia, la strategia di non rimanere per lunghi giorni nel gelo del campo 4, ma di attrezzarlo e poi tornare a valle, all’aeroporto, a quota 2.170 metri, dove la vita è più agevole e abbiamo potuto regalarci anche qualche comodità in più, dai grandi pannelli solari per alimentare l’attrezzatura alle pizze per festeggiare la prima salita in vetta».

LE PIZZE, CROCE E DELIZIA, SAPPIAMO CHE NE VAI GHIOTTO.

«È vero, in Alaska siamo diventati amici dei piloti e siamo riusciti a farcene portare quattro nei cartoni, poi le abbiamo scaldate su dei fogli di alluminio con il fornelletto, devo dire che non erano niente male».

COME AVETE DECISO LA STRATEGIA DI RIMANERE IL MENO POSSIBILE AL CAMPO 4?

«Me l’ha suggerita Andreas Steindl, compagno di avventura sulle quattro creste del Cervino, che era già stato al Denali. C’è una considerazione però che va oltre questa strategia: è stata possibile grazie alla nostra velocità. Mi spiego meglio: la prima volta, dall’aeroporto al campo 4, con pesanti zaini sulle spalle, ci abbiamo messo 8 ore e 45 minuti. Abbiamo dormito lì due notti e siamo rientrati a valle. Quando siamo saliti in vetta per la West Rib ci abbiamo impiegato 6 ore e 30 minuti e abbiamo dormito una sola notte al campo 4. Infine quando siamo saliti per la Cresta Cassin ci abbiamo impiegato solo 4 ore e 20 minuti. E sono 24 chilometri da 2.170 a 4.327 metri di quota».

LA VELOCITÀ È TUTTO?

«La velocità non è fine a se stessa, ma è una qualità. E in questo caso è stata una qualità vincente».

© Damiano Levati/Storyteller Labs

LA VELOCITÀ PRESUPPONE LA LEGGEREZZA, COSA AVETE USATO SULLA CRESTA CASSIN?

«Ramponi, piccozze, una corda da 35 metri, una serie di friend, una tenda monotelo, una bombola di gas, un fornello, due sacchi da bivacco, cibo e naturalmente abbigliamento imbottito in piuma».

PERCHÉ LA TUA CARRIERA ALPINISTICA È STRETTAMENTE LEGATA AL CONCETTO DI FAST & LIGHT?

«Forse perché arrivo dalle gare di scialpinismo. Così ho iniziato a fare delle gite e delle alpinistiche con gli amici e mi sarebbe piaciuto tornare da solo, in libertà, veloce e senza pensieri. È un alpinismo che mi appaga molto e mi fa sentire libero».

È UNA DOMANDA BANALE, MA IL CONCETTO DI VELOCITÀ È STRETTAMENTE LEGATO A QUELLO DI TEMPO. CHE COSA È PER FRANÇOIS CAZZANELLI IL TEMPO?

«Nonostante le polemiche sui record e la loro omologazione, credo che rimanga comunque un fattore immediatamente tangibile, anche nell’alpinismo dove ci sono altri aspetti da tenere in considerazione».

E IL RISCHIO?

«Il rischio c’è, in montagna come nella vita, ma credo che sia relativo. Relativo alla propria esperienza, allo stato di forma, alla tecnica, a tanti fattori».

LA VELOCITÀ È UN FATTORE DETERMINANTE, MA ANCHE L’ALLENAMENTO. IN UN POST HAI SCRITTO CHE LA CRESTA CASSIN È STATA POSSIBILE PERCHÉ VI SIETE PREPARATI METICOLOSAMENTE TUTTO L’INVERNO. COME TI ALLENI?

«Mi alleno semplicemente andando in montagna, in estate con roccia, corsa e mountain bike, in inverno con ghiaccio, alpinismo e soprattutto lo scialpinismo. Con mio cugino Stefano Stradelli mettiamo sempre in programma quattro-cinque gare, poi magari ne aggiungiamo altre se riusciamo. Quest’anno abbiamo fatto, tra le altre, la Pierra Menta e il Mezzalama. Però non ho un preparatore atletico e non ho fatto qualcosa di particolare questo inverno rispetto agli altri, vado molto a sensazione. Quello che volevo dire con quel post è che nulla arriva per caso. Dietro alle imprese c’è tanto studio della via, tanta preparazione fisica ma anche tanta attesa della finestra giusta. Come atleti e alpinisti abbiamo una grande responsabilità, i nostri exploit vanno spiegati, altrimenti in tanti, per imitazione, metteranno le scarpe da trail per andare in vetta al Cervino. Facendo la Guida vedo troppa improvvisazione, troppe persone impreparate per quello che stanno affrontando».

DOPO IL TANDEM CON MARCO CAMANDONA, IL TUO TALENT SCOUT NELLO SCIALPINISMO, SI È FORMATO QUELLO CON FRANCESCO RATTI…

«Con Francesco mi trovo molto bene in montagna abbiamo la stessa maniera di valutare i rischi e pericoli. Il tentativo di traversata delle creste della Valtournenche di questo inverno lo dimostra. Con Camandona ho un rapporto speciale, per me è come un secondo papà e mi ha insegnato molto. Con lui siamo stati al Churen Himal, al Kangchenjunga, all’Everest e al Lhotse e a settembre ripartirò per l’Himalaya».

RACCONTACI DI PIÙ DELLA TRAVERSATA INVERNALE DELLE CRESTE.

«A febbraio siamo partiti dal Theodulo con l’idea di attraversare il Furggen, il Cervino (salendo la via degli Strapiombi di Furggen), salire la Dent D’Hérens, le Grandes Murailles e le Petites Murailles. Sulle creste delle Murailles l’esposizione cambia continuamente e non c’erano le condizioni, diventava pericoloso e la stanchezza aumentava, abbiamo deciso di rinunciare: quelle montagne le abbiamo qui sopra casa e sarebbe stato stupido proseguire, bisogna anche sapere rinunciare».

E QUELLA ESTIVA CON KILIAN? COME È NATA?

«Mi ha chiamato lui, era in Valle d’Aosta. Ci conosciamo dai tempi delle gare e siamo entrambi amici di Mathéo Jaquemoud, lo siamo stati anche nei momenti difficili, quando Mathéo era in crisi e non andava. Sulle difficoltà alpinistiche andavamo bene, sulla corsa, soprattutto in discesa, qualche volta mi ha staccato. Alla fine però, quando avevo una gran sete, ho visto che anche lui iniziava a essere stanco e appena ha trovato una fontana si è messo a bere e a rinfrescarsi. Ci siamo trovati bene, mi piacerebbe fare ancora qualcosa questa estate».

COME È NATA L’IDEA DELLE QUATTRO CRESTE DEL CERVINO?

«In vetta, con Andreas ci incontriamo spesso alla croce del Cervino, così abbiamo unito i nostri progetti».

L’HIMALAYA, COME PER LO SCI RIPIDO, È LA PROSSIMA FRONTIERA DEL FAST & LIGHT?

«Credo che la storia dell’alpinismo sia fatta di corsi e ricorsi storici. Ci sono state le fasi di scoperta e poi le ripetizioni più veloci delle vie. È chiaro però che oggi il mix di preparazione ed evoluzione dei materiali consenta nuovi exploit e credo che in Himalaya ci siano tante possibilità».

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 125, SE VUOI RICEVERE COMODAMENTE A CASA TUA SKIALPER, ABBONATI

© Achille Mauri

La Promenade

In questi giorni in cui siamo confinati in casa, ecco il racconto del giro della Valle d'Aosta con gli sci ai piedi. Un'avventura per la quale saremmo tutti pronti a partire, ma che dovremo rinviare. Le montagne rimarranno lì ad aspettarci...

Fra i legni lunghi due metri e dieci e i palettoni da 106 millimetri sotto il piede scivolano via cinquant’anni. Come niente fosse. Decenni di vite, senza che la montagna se ne sia neppure accorta. Corse, salite, discese, gare, neve, pioggia e sole. E lei sempre uguale a se stessa. Sempre lì, a due passi da casa. Corrono via cinquant’anni, ma gli orizzonti restano immobili. Vicinissimi a tutto, ma lontanissimi dal mondo. E i ricordi di allora si fondono con quelli di oggi. Raccontando come tutto sia cambiato. È il 1970, i legni sono altissimi e stretti, fardelli sugli attacchi capaci di alzarsi non oltre un paio di dita. Pelli fissate a tre ganci laterali, una tenuta approssimativa, nello zaino l’attrezzatura per sistemarle nei momenti peggiori. Nello sconfinato bianco della Val d’Aosta, in condizioni di neve perfette e abbondanti, tre ragazzi. Guido, Ruggero, Carlo. Ad aprile, primi di sempre, tracciano il loro sogno: attraversare la regione sugli sci, da Champorcher a Gressoney. Tredici tappe, due giorni di sosta per maltempo, 37.000 metri di dislivello. Quando arrivano alla meta, il giorno della Festa del Lavoro, a unirli non è solo la sensazione di aver fatto qualcosa di mai visto. È la certezza di aver fissato un’amicizia. Di averla messa alla prova. Nelle difficoltà e nelle risate. «Resterà sempre uno dei ricordi più belli della mia vita» dirà uno di loro.

Cinquant’anni si dileguano in vapore. Ma le cose belle diventano cemento. Anno 2017, mese di maggio. La storia si ripete. Sulle stesse linee che ogni anno decine di persone ripercorrono, sugli stessi passi che gli atleti del Tor des Géants inanellano frenetici, il sogno di Guido, Ruggero e Carlo rinasce. È lo spirito a dettare le regole: nessuna sfida contro il tempo, nessun bisogno di leggerezza per correre più veloci. Lì, a due passi da casa, Shanty Cipolli e Simon Croux decidono semplicemente di ripercorrere quel che qualcuno ha già fatto. Per raccontare a tutti, senza esibizionismi alpinistici, che «per esplorare non si deve per forza andare lontano». Perché quando parti, come puoi apprezzare quello che trovi, se non sai quello che lasci?. Sono le montagne su cui si affaccia la camera da letto, rimaste lì nel tempo ad osservare, senza dire parola. I luoghi di una vita. Shanty Cipolli, nome sanscrito portato in dono da un viaggio paterno in Nepal, qui ci scia da sempre. Ventisei anni, maestro di sci di Antey, porta sulle gambe giganti e gare di skicross con i colori della nazionale, prima di approdare al mondo freeride e ai Qualifier per il World tour. «Studiavo da geometra, ma ho lasciato perché non era compatibile con tutti questi impegni» ammette. E lo sguardo a un futuro professionale si è ridisegnato di conseguenza: «Ora punto alle selezioni per diventare Guida alpina» non nasconde. E intanto, si scia. Un po’ la stessa storia di Simon Croux, ventunenne di Courmayeur, nato in Svizzera e posato sugli sci all’età di tre anni da una famiglia titolare di un locale sulle piste ed erede di una lunga tradizione di Guide alpine (il trisnonno Laurent era fra i consueti accompagnatori del Duca degli Abruzzi). Anche per lui gare di gigante, poi un salto alle competizioni freestyle e l’arrivo a soli 14 anni al Freeride World Tour junior. «Anche io ho dovuto lasciare la scuola: frequentavo il liceo sportivo, ero riconosciuto come atleta nell’ambito di una classe de neige. Ma niente: la mia attività non era vista alla pari dell’agonismo più classico, da sci club. E questo non mi ha aiutato». Oggi, tanto per chiarire com’è finita, è nei Qualifier del Freeride World Tour.

© Achille Mauri

Per Shanty e Simon, stuzzicati dal filmaker Michel Dalle, di Grobeshaus Production, l’idea di ripercorrere quel sogno lungo cinquant’anni, ritrovando lo spirito di quei lontani giorni scoperto per caso in un libro, è la scintilla. L’innesco di un’avventura diventata film con la voglia di mostrare a tutti cosa c’è là dietro. Dietro le cime di sempre. Oltre lo sguardo. A due passi da casa. Ma tra il fare per conservare e il fare per raccontare passano differenze immense. E dove Guido, Ruggero e Carlo scivolavano senza guardarsi indietro, pensando solo alla loro avventura, Shanty e Simon si trasformano in protagonisti. Accompagnati dal regista-snowboarder in split e illuminati dal volo di perlustrazione effettuato con l’amico Cesare Balbis, pezzo di storia del Soccorso Alpino valdostano, cercano soluzioni, inquadrature, momenti, luci e pensieri da cristallizzare. I chilometri si susseguono, i metri di dislivello scattano. «Ma i pesi dell’attrezzatura sono di per sé il segno che quel che si voleva non era la performance, piuttosto una forma di ricerca» chiarisce Michel. Il desiderio di dire qualcosa. Di vivere i luoghi della vita in modo diverso. Venti chili di materiale foto-video, sacco a pelo, fornellino, bombole, attrezzatura alpinistica, tende, cibo, acqua, sci, scarponi. Addosso a ciascuno c’è più di una ventina abbondante di chili. E da Courmayeur Arp, dove tutto inizia, le giornate si fanno pian piano sempre più dure. Sveglia alle 6 del mattino o giù di lì, pelli e sciolina fino alle 16, poi sosta. Se serve in tenda, dove la zanzariera deve restare aperta per evitare che tutto condensi, se si può in rifugio. Giorno dopo giorno, per ventidue albe e tramonti, corrono sotto le lamine La Thuile, il Rutor, la Valgrisa e il col Bassac Déré, il rifugio Benevolo, la Val di Rhêmes con la Punta Basei, la Valsavarenche con i Piani del Nivolet, il Miserin e Champorcher, Gressoney e il Colle Bettaforca, Champoluc e il Col di Nana, Torgnon, Saint Denis, Saint Barthélemy e il col Vessona, la Valpelline, il Gran San Bernardo e il Col Malatrà. La birra finale evapora qui, seduti fianco a fianco ad ammirare i 4.810 metri che sovrastano ogni cosa. E la mente corre veloce a tutto quel che è stato in così poco, ma anche tanto tempo: la salita durissima verso La Thuile e il Deffeyes, la volpe che curiosava in tenda e poi accettava uno spuntino, il caldo opprimente della Valgrisa. La giornata di relax totale sul ghiacciaio Goletta, all’ombra del Granta Parey. La voglia di uscire di rotta e salirlo, la decisione di farlo davvero. La fatica della parete dura e ripida. La bellezza della sciata fuori programma. E poi la polvere che solleticava le ginocchia sotto il Città di Chivasso, la durezza della salita al Miserin, la tappa a Chamois e Antey, con la grigliata a casa di Shanty e la parentesi di una notte nel letto di sempre. La polverella fine al Vessona, le tracce di lupi verso la Valpelline. Tutto si accavalla, tutto torna. Ma è tutto troppo caldo ancora. E giù dal Bonatti scalpita la voglia di dire basta alla fatica. «Era ora di arrivare  - ricorda Simon -. E ho tirato giù una linea dritta sulle pigne del bosco. Era fatta».

Venticinque minuti di film, poco più di un minuto per ogni giorno, un anno dopo sintetizzano e fermano nel tempo quelle emozioni. Campi larghi, silenzi, parole scelte con attenzione. E un racconto che non risparmia dettagli sulle difficoltà. Shanty e Simon che osservano la mappa, che scendono a fuoco nell’immenso del bianco. Che attendono in tenda. Che scherzano sul cibo. Sono i momenti televisivi. Dietro ai quali si nascondono le discussioni sulla scelta dell’itinerario, le rotte decise in base alle condizioni del momento, i consulti con gli amici di ogni valle, gli sguardi ai bollettini valanghe. La consapevolezza di percorrere una linea logicamente contraria all’usuale, sempre in partenza da ovest per scendere ad est, dal cemento del mattino alle insidie del pomeriggio. La speranza che il tempo regga, la fortuna di vedere che sarà così. I tratti più critici, i traversi a rischio. I momenti di confronto sulla scelta delle inquadrature. I tempi di assetto del regista nei punti strategici e più magici. Ma la neve si offre stabile. Perfetta. Ed è lei a legare ogni pezzo all’altro. Un giorno, due. «La camminata fin da subito si rivela più lunga e faticosa del previsto - recita Shanty, voce narrante sullo sfondo delle immagini -. Ma ormai non si torna più indietro. Adesso siamo qui, solo noi con le nostre forze». Ed è lì, nell’attimo della consapevolezza, che il vero sogno di Guido, Ruggero e Carlo riprende forza. «Gli spazi si fanno sempre più ampi - spiega Shanty -. E noi ci sentiamo piccoli». Puntini nel bianco. Proprio come cinquant’anni prima, pur sorretti da materiali, idee, attitudini e propositi molto lontani, i pupilli del CAI Guido Fournier, Carlo Vettorato e Ruggero Busa avevano immaginato. «Il nostro non voleva essere solo un esercizio fisico - ricorda Guido quasi cinque decenni dopo -. Era qualcosa di più. Che aveva in sé anche una componente estetica e naturalistica». Un’esperienza. «Un ricordo fantastico - chiarisce Carlo -. Che se avessi cinquant’anni meno, o anche solo 30 o 40, rifarei subito. Anche se so che non sarebbe più la stessa cosa».

© Achille Mauri

Anche Shanty e Simon lo dicono. È passato un solo anno, ma la voglia di rifare tutto è già forte. «Un rewind? Potendo farlo, mi muoverei a tappe - spiega il maestro di Antey -. C’è tanto, così tanto da sciare in quei luoghi che scorrere via veloci, in una sola linea di passaggio, sembra un peccato». E allora, chissà. Forse sarà domani, forse tra qualche tempo. Forse ci penserà di nuovo qualcuno tra cinquant’anni. Intanto il bello è ormai dentro al cuore e alla memoria. Una lotta contro il «freddo, il vento, la stanchezza, la fame, la condensa, gli scarponi ghiacciati». Con un finale che non ti aspetti. Perché «quando sei lassù a guardare le stelle, a sentire il silenzio, a vedere la luce del mattino, ti rendi contro che, nonostante tutto, ne è valsa la pena». E forse, a due passi da casa, ne varrà sempre la pena.

1.300 metri al giorno

La traversata scialpinistica della Val d’Aosta portata a termine nel maggio 2017 da Shanty Cipolli e Simon Croux è durata 22 giorni. Queste le tappe: Courmayeur Arp la Balme; La Thuile e Rutor; Valgrisa e Col Bassac Déré; Rhemes e Punta Basei; Valsavarenche e Piani del Nivolet; Miserin e Champorcher; Gressoney e Colle Bettaforca; Champoluc e Col di Nana; Torgnon; Saint Denis; Saint Barthelemy e Colle Vessona; Valpelline e Valle del Gran San Bernardo; Col Malatrà e Courmayeur. I due freerider valdostani hanno coperto circa 1.300 metri di dislivello al giorno, con alcune varianti e soste rispetto al classico percorso del Tor des Géants, facendo affidamento su mappe, cartine e telefonino, oltre a un GPS che però è stato utilizzato solo nei punti più critici. Membri del team Mammut, supportati da alcuni sponsor, hanno percorso la traversata con sci da freeride: per Simon Croux i Line Francis Bacon (104 mm sotto il piede) con attacchi Marker Kigpin; per Shanti Cipolli i Movement Go Strong (106 mm), sempre con Kingpin. Con loro il filmaker Michel Dalle, che ha seguito la traversata con una tavola split. Al seguito, quattro batterie da un chilo l’una, un corpo camera da cinque chili, un computer, caricatori, treppiedi e ottiche, per un totale di circa 20 chili di materiale video. Nel 1970 un itinerario analogo era stato percorso da Carlo Vettorato, Guido Fournier e Ruggero Busa: partiti da Champorcher il 17 aprile, arrivarono a Gressoney il primo maggio, chiudendo la linea in tredici tappe, con una sosta di due giorni per maltempo. Percorsero 37.257 metri di dislivello, di cui 17.842 in salita e 19.415 in discesa.

© Grobeshaus Production

Il film

Disponibile online su YouTube, La Promenade (25’ 48”) è il film che racconta i 300 chilometri e 20.000 metri di dislivello percorsi da Shanty Cipolli e Simon Croux nella loro avventura scialpinistica. Prodotto da Grobeshaus Production di Aosta, il video è stato scritto e diretto dal filmaker Michel Dalle, maestro di snowboard. Al suo attivo da un paio d’anni anche il film cAPEnorth, realizzato con la comproprietaria di Grobeshaus, Francesca Casagrande, per raccontare il viaggio su un’Ape Piaggio di due giovani aostani fino all’estremo nord della Scandinavia.

© Achille Mauri


Salewa-Oberalp fornisce oltre 16 milioni di mascherine e materiale sanitario alla Protezione Civile e alla Provincia di Bolzano

Ci sono anche aziende del mondo outdoor impegnate in prima linea nella battaglia contro il Covid-19. Quello che è riuscita a fare Salewa, controllata da Oberalp, in sole due settimane è uno dei tanti miracoli del mondo dell'imprenditoria per aiutare ad affrontare l'emergenza sanitaria, grazie alla riconversione dell'impianto tessile di Montebelluna per la produzione di mascherine e camici con gli scarti di produzione e al trasporto dalla Cina di altri milioni di mascherine. Riportiamo di seguito il comunicato ufficiale dell'azienda.

«Siamo abituati ad assumerci le nostre responsabilità, non solo per i nostri dipendenti e consumatori, ma anche per la società in cui viviamo e lavoriamo - spiega Heiner Oberrauch, Presidente del Gruppo Salewa-Oberalp - In tutta Italia, come nel territorio della nostra sede a Bolzano, c’è un’emergenza nella emergenza, rappresentata da una forte carenza di dispositivi medici di protezione per il personale che tratta i pazienti affetti da COVID-19. Per rispondere in tempi brevissimi alla necessità del Servizio Sanitario dell’Alto Adige, abbiamo iniziato a cucire mascherine e camici protettivi idrorepellenti presso la nostra filiale a Montebelluna, riutilizzando i materiali di scarto delle nostre produzioni». La produzione settimanale di 50.000 mascherine in cotone misto poliestere e 800 camici protettivi in Gore-Tex® e PowerTex, tessuti tecnici normalmente utilizzati per le giacche da alpinismo, ha permesso alle strutture mediche dell’Alto Adige di affrontare l’emergenza più immediata di mancanza di materiale. Allo stesso tempo, attraverso il proprio partner licenziatario Salewa nella città cinese di Xiamen (Cina), il Gruppo Salewa-Oberalp ha potuto ordinare un totale di 16,5 milioni di mascherine protettive chirurgiche e KN95 e 600.000 camici protettivi, di cui 1,5 milioni di mascherine sono state ordinate dalla Provincia Autonoma di Bolzano, mentre ulteriori 15 milioni di mascherine dalla Protezione Civile Statale. In stretta collaborazione con le autorità sanitarie e la Protezione Civile, si sono aperte più vie di trasporto aereo da utilizzare per la consegna del volume gigantesco di oggetti. Il materiale è stato trasportato dalla Cina a Vienna grazie a una collaborazione unica nel suo genere con Austrian Airlines e il governo austriaco. Con un'azione straordinaria, due Boeing 777 per uso commerciale sono stati utilizzati per trasportare la prima spedizione, e tutti i sedili della cabina passeggeri sono stati riempiti di cartoni. In questo modo la Provincia Autonoma di Bolzano e la Protezione Civile Statale riceveranno questo materiale sanitario di cui hanno urgentemente bisogno e che aiuterà a salvare delle vite umane, per la via più veloce che si è potuta trovare. Il trasporto con gli aerei messi a disposizione da Austrian Airlines sarà possibile per tutto il tempo necessario e potrà continuare a portare materiale sanitario in Italia ed Europa. La Protezione Civile Statale invece è riuscita ad organizzare un aereo cargo Antonov AN123, con oltre 1.000 metri cubi di capacità di carico. «La competenza nella produzione di abbigliamento per lo sport di montagna per i nostri marchi Salewa, Dynafit, Evolv, Pomoca e Wild Country, l’organizzazione logistica, la rete di consolidati rapporti internazionali e la capacità di agire rapidamente, sono stati gli elementi che ci hanno permesso di dare un contributo attivo per affrontare l’emergenza» spiega Christoph Engl, Amministratore Delegato del Gruppo SalewaOberalp. L’impegno del Gruppo Salewa-Oberalp continuerà nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Gli aerei messi a disposizione da Austrian Airlines sono stati pragmaticamente trasformati in aerei da carico per rendere possibile il trasporto di questo prezioso materiale sanitario per tutto il tempo necessario. In questo modo sarà possibile spedire i necessari dispositivi di protezione alle istituzioni pubbliche e sanitarie. «Questa è una nuova dimensione dell’impegno in ambito di sostenibilità e responsabilità sociale del Gruppo Salewa-Oberalp - conclude Heiner Oberrauch - che mai ci saremmo immaginati di attuare due settimane fa. Come azienda privata abbiamo potuto mettere a disposizione risorse e rapidità di intervento per anticipare tutti i costi per le istituzioni pubbliche, organizzando anche i permessi ufficiali per i trasporti in Cina e verso la destinazione finale. Il nostro dipartimento di logistica si occuperà della distribuzione del materiale per conto del Servizio Sanitario dell'Alto Adige, riorganizzando il proprio carico di lavoro e aumentando il numero di turni».


Da Est a Ovest

In questi giorni in cui i confini della nostra esplorazione sono la cucina o il salotto e solo l'immaginazione ci può portare a varcare nuovi orizzonti, vi riproponiamo il racconto della traversata della Groenlandia sulle orme di Nansen, pubblicato su Skialper 118. Per sognarli questi nuovi orizzonti, oltre a immaginarli.

Bianco. Nessun colore ci accompagna, mentre seguiamo l’ago della bussola che ci conduce a Ovest-Nord-Ovest. Whiteout. Niente suoni, tranne il vento che per fortuna oggi soffia più leggero. Per il resto, solo il ritmo degli sci e il nostro fiato. Abbiamo lasciato il fiordo di Isortoq da qualche giorno e siamo in pieno deserto bianco. Tento di interpretare le forme della neve, quando è il mio turno a battere traccia. Creste, buchi, sculture traforate dal vento. Una zampa d’orso. Che ci fa qui, a quasi cento chilometri dalla costa? Chiamo i compagni dietro di me, a loro non sembra. Mostro le unghie che hanno grattato il ghiaccio, ma ribattono che è uno scherzo di neve, nessun pericolo di incontrarlo stamattina. Però i norvegesi, che hanno il fucile, controllano che la cartuccia sia in canna. Non è un orso? Mah. Già abbiamo incontrato, ancora in vista del mare, piume, ossicini e peli che ha vomitato sul ghiaccio, liberando lo stomaco dai resti delle prede di qualche settimana. Erano freschi, non era transitato da tempo. Via di nuovo, per la cronaca non incroceremo alcun orso fino al termine della traversata, ma quelle orme, sono sicuro, erano sue.

Groenlandia, 14 agosto-10 settembre 2017, autunno a quelle latitudini. La traversata della più grande isola ghiacciata della Terra è un sogno fin da bambino, quando ho letto e riletto un libro sui grandi esploratori e fra tutte mi è rimasta in testa l’avventura di Fridtjof Nansen, ventisettenne di Christiania (Oslo), il suo viaggio da costa a costa del 1888, nella stessa stagione, da Est a Ovest come lo stiamo ripetendo noi. Un po’ più a sud il suo, un centinaio di chilometri in meno, ma rimane straordinaria l’impresa. Undici giorni di peregrinazioni in mezzo ai ghiacci a bordo di due scialuppe sbarcate dalla nave Jason, bivacchi sugli iceberg, la rotta contesa all’acqua gelata a colpi di ascia. Poi l’inlandsis, le barche abbandonate per proseguire con due sole grosse slitte del peso di oltre cento chili ognuna e allora un mese di odissea per raggiungere Godthåb, l’attuale Nuuk, capitale dell’isola. La fame. E finito il ghiaccio, ancora acqua da attraversare su una barca costruita con pezzi di slitta e, raggiunta una colonia danese, l’intero inverno in attesa di una nave per rientrare in Norvegia. Per loro una marcia verso l’ignoto, in un’immensità glaciale che gli inuit dicevano abitata da mostri. Per noi la ripetizione di un itinerario duro per le condizioni atmosferiche, faticoso e lungo, ma in fondo quando hai dubbi basta accendere il gps e trovi la traccia verso Kangerlussuaq (ma abbiamo proceduto sempre con la bussola).

E però se alla sera, rintanato tra le piume, rileggi le pagine del suo libro - un bestseller per la borghesia appassionata di montagna a cavallo del secolo, tradotto in ogni lingua europea salvo in italiano, quello che fece scoprire in tutti i Paesi alpini lo sport dello sci - ritrovi le stesse emozioni, i paesaggi, le difficoltà di un territorio che nonostante i mutamenti climatici è rimasto sostanzialmente uguale ad allora. Anzi lo scorso autunno, a causa di un’anomalia termica registrata solo in Groenlandia, le temperature erano crollate più ancora che ai tempi di Nansen: notti a -35° e una media diurna tra gli 0° e i -10°. I venti catabatici, che si rinforzano a Ovest sulle pianure canadesi e dall’Islanda sull’oceano Atlantico a Est, ci hanno frullatoper l’intero viaggio, in continuo contrasto, tanto da avere, dal mattino alla sera, bufera da ogni direzione.

Non è cominciata a metà agosto, la nostra traversata. È partita qualche anno fa con il tentativo di convincere gli amici delle precedenti spedizioni in giro per il mondo, poi una settimana sugli sci in Finnmark, nord della Norvegia, in febbraio per testare materiali e noi stessi nel grande freddo. In un inverno particolarmente mite, abbiamo cercato l'angolo d’Europa più gelido in quella stagione ed è risultato lassù. È finita con il congelamento di tre dita per Giorgio Daidola, fortunatamente temporaneo. Non ho idea se la visione delle falangi gonfie e annerite abbia convinto gli altri a sfilarsi, ma così è stato. È rimasto Matteo Guadagnini, scialpinista di lungo corso, e sono cominciati gli allenamenti seri, tabelle da maratona, montagna e soprattutto quella che Borge Ousland, il grande esploratore polare, chiama «la nobile arte del trascinare pneumatici», per abituarsi al traino delle slitte. A metà 2016 è toccato a me arrendermi, fermato da un elettrocardiogramma sotto sforzo del dottor Massimo Massarini. Matteo è partito lo stesso, affidandosi all’organizzazione di Ousland, io ho dovuto rimandare all’anno seguente. Ce l’abbiamo fatta entrambi, pur con spedizioni diverse, Matteo ci ha pure scritto un piacevole racconto pubblicato da Fusta editore, Groenlandia sulle orme di Nansen.

© Leonardo Bizzaro

Ci vogliono almeno ventotto giorni per lasciare la traccia degli sci dalla costa Est alla costa Ovest. Ci si può mettere meno, ma diventa una gara contro il tempo, da impostare in maniera totalmente diversa da una spedizione alpinistica. Per sopravvivere a quella che è una delle più lunghe traversate sul ghiaccio - Antartide a parte, è ovvio - occorre trascinare almeno settanta chili di attrezzatura e cibo divisi fra due slitte. Cibo soprattutto, ché nel corso della giornata ingurgiti di tutto, per tirare avanti. Difficile correre, con un peso del genere attaccato alle spalle. Se però si affronta con spirito agonistico, è un’altra cosa. A metà giugno 2016, i norvegesi Ivar Tollefsen, Trond Hilde e Robert Caspersen hanno impiegato 6 giorni, 22 ore e venti minuti per coprire 560 km da costa a costa. Il primato precedente durava da tredici anni. Trond e Ivar c’erano già riusciti in poco più di nove giorni in autunno. In entrambi i casi non hanno utilizzato sci da fondo escursionistico come i nostri e pelli di foca, ma stretti e leggerissimi attrezzi nordici sciolinati, trainando un’unica slitta di pochi chili e stringendosi in una sola tenda. Roba da norvegesi, per i quali il tempo è buono e quindi si può andare se il vento cala appena sotto i 100 km/h. E la temperatura ideale è attorno ai meno venti. E infatti preferiscono partire a metà agosto, quando già comincia a farsi sentire il morso del gelo invernale e tradizionalmente si attraversa l’isola da Est a Ovest, mentre in primavera, dopo metà maggio, le temperature sono più alte, i venti meno impetuosi e la direzione usuale è l’inverso. C’è un vantaggio però a farla nella stagione meno favorevole: i crepacci nella prima e nell’ultima parte dell’inlandsis sono più chiusi, le seraccate meno tormentate e i canali di fusione, che in primavera assomigliano a fiumi in piena, in autunno si possono percorrere senza bagnarsi troppo, lasciando galleggiare le slitte.

Un viaggio straordinario nel tempo, prima ancora che attraverso le latitudini. Un’avventura che vale un pezzo di vita, per chi ama le solitudini glaciali. Un grazie ai miei compagni Thomas Kober, Beate e Martin Klein, Grete Karin Saetervik, Bård Helge Strand e Sindre Sivertsen.

ATTREZZATURA ARTICA

Preparare l’attrezzatura per una spedizione polare o subpolare di un mese è un lungo lavoro di scelta e di eliminazione spietata. C’è da scegliere tutto il materiale in base alle proprie necessità, ai consigli di chi già l’ha fatta, alle visite dei saloni specializzati e alle lunghe navigazioni su internet. Poi ne va lasciato a casa metà. Sarà comunque troppo per le vostre povere spalle, troppo poco per le necessità durante la traversata. Qui mi limito a indicare l’attrezzatura meno usuale rispetto alle più comuni uscite alpine.

© Leonardo Bizzaro
  • Sci Åsnes Nansen 190 cm
  • Attacchi Rottefella Backcountry Magnum
  • Pelli lunghe e corte
  • Sciolina (necessaria quotidianamente per evitare gli zoccoli, altrimenti vi toccherà usare il burro o la crema solare)
  • Bastoni Swix Mountain (+ almeno uno di ricambio, le rotture sono inevitabili)
  • Scarpe Alfa Polar (abbondanti di almeno tre misure) con solette Woolpower in lana e alluminio
  • Calze in abbondanza, di varia grammatura: ai piedi ne vanno indossate tre, a meno di non preferire i kartansk lapponi in lana cotta
  • Guanti fini + guanti lavoro Ortovox Tour + moffole abbondanti in piuma e Polartec da sovrapporre a tutto
  • Underwear 200 gr. Merino Ortovox o Engel in Merino e seta
  • Underwear 600 gr. Woolpower in lana
  • Giacca Patagonia Nano Air
  • Duvet The North Face L6 Down Jacket
  • Pantaloni Patagonia Powslayer Bib
  • Pantaloni Patagonia Nano Puff
  • Giacca Norrøna
  • Berretti vari lana + balaclava + maschera neoprene + Buff + berretto in pelliccia sintetica 66° North Kaldi Arctic Hat

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 118, INFO QUI


La scatola magica

In questi giorni in cui siamo costretti a casa abbiamo pensato di proporvi qualche articolo sui viaggi più belli pubblicati da Skialper. Per tornare presto in questi incredibili luoghi. 

Fiona, si chiama. Volevamo darle il nome di una donna grande. Fiona è una Ford F250 4x4 del 1996 con in groppa uno slide in camper degli anni Ottanta. Abbiamo percorso più di 20.000 chilometri attraversando la foresta boreale e le montagne di British Columbia, Alberta e Alaska. In inverno. Fiona è stata la nostra casa per otto mesi. Io ed Hector ci eravamo appena innamorati. Non avevamo vissuto da nessun’altra parte insieme, eravamo quasi due sconosciuti. Lui era in Cile e io in Italia. Lui Guida alpina e io fotografa. Devo andare in Canada. Vengo con te! Se dopo otto mesi in un camper fossimo ancora andati d’accordo, ci saremmo pure potuti sposare un giorno.

Stavo vivendo nello stesso posto da qualche mese, volevo fotografare storie nuove, e mi stavo noiosamente abituando ad avere l’acqua corrente. Era tempo di tornare sulla strada e ripartire. Non sciavo da quindici anni. Non sapevo niente del mondo dello sci. Non avevo attrezzatura. Un tizio mi ha derubata in un fast food il settimo giorno di viaggio. Non avevo più le mie macchine fotografiche. Mettersi davanti a sfide e ostacoli e cercare di superarli è la storia della mia vita. Non sono un’alpinista e non ero nemmeno una sciatrice, ma credo che quello che spinga tutti noi sia fatto della stessa materia. Darwin diceva che se gli animali fossero continuamente appagati non avrebbero più una motivazione per compiere azioni di sopravvivenza. Nemmeno gli animali vivono senza desiderio. Il desiderio che mi ha spinto a vivere in un camper in inverno è lo stesso di chi dopo vent’anni di esperienza in montagna si pone un obiettivo e attacca una foto alla parete, poi non sa come andrà. Pensavo che riuscire a mettersi gli sci ai piedi per raggiungere le cime delle montagne camminando fosse qualcosa che vale la pena imparare. Fiona non era altro che un vecchio camper senza vita, parcheggiato nel cortile di un capannone a Vancouver. Una volta deve essere stata usata per la caccia al caribù. Non aveva muffa o perdite ed era di fibra di vetro, ma il riscaldamento non funzionava e l’interno era spoglio e triste. Mi ricordo il giorno in cui l’abbiamo vista e siamo entrati. Mi sono seduta sul letto e ho provato a immaginare quello che sarebbe successo. Una casa, la neve fuori dai finestrini, la condensa sui vetri, gli sci appesi alla parete e l’odore del caffè la mattina prima di andare in montagna. Aprire la porta ogni giorno ed essere in un posto diverso, ma dentro essere sempre noi. Una scatola magica. Ho guardato Hector e ho detto: credo sia lei.

Era ottobre ed eravamo pronti per partire. Alaska in aprile, l’unica cosa certa, e prima di allora, ovunque lungo la Powder Highway, l’autostrada della polvere della British Columbia, senza un vero e proprio piano. Ricordo la prima notte a Vancouver, in una baia, pensavamo sarebbe stato romantico passarla vicino al mare. La mattina mi sono rannicchiata tra i cespugli dei condomini, nascondendomi per pisciare lontano dalla gente che andava a fare una corsetta. Sarebbe stato più semplice vivere lontano dalla città, dove nessuno ti può vedere. La cosa bella di avere una casa con le ruote è che ci si può fermare ovunque, parcheggiare e passare la notte. Le possibilità sono infinite in primavera o in autunno. Poi è arrivato il freddo. A novembre abbiamo iniziato a dormire nei sacchi a pelo da spedizione con il cappello di lana. I nostri respiri diventavano nuvole e il termometro segnava già parecchi gradi sottozero. Alcune sere ci siamo scaldati con il forno a gas propano, e abbiamo scoperto che anche molte candele accese possono far salire la temperatura di un grado o due. Abbracciavamo le nostre Nalgene bollenti. Senza saperlo stavo imparando il winter camping e tecniche di alpinismo invernale. Era come dormire in tenda, fuori fanno -15 °C e dentro -12 °C. Ci siamo accorti della necessità di una stufa a legna. Ne abbiamo trovata una piccola, in realtà fatta per le barche, ma un camper è simile a una barca e ha talmente tanti spifferi da far circolare abbastanza ossigeno da tenerci vivi la notte. Tagliare la legna è diventato un rituale, fatto a turni. Una stufa piccola ha bisogno di pezzetti di legna piccoli, che non la tengono accesa nelle ore in cui dormi. Quando è mattina presto e devi uscire dal letto tutto è congelato. Avevamo un’accetta e una sega. Con i giorni che passavano diventavamo coscienti di quanta energia serva per sopravvivere. Quanta acqua, quanta legna, quanta elettricità.

© Elena Adorni

Le poche luci del camper erano collegate a una batteria che si caricava guidando la macchina. Ci svegliavamo assetati e tutta l’acqua era diventata un blocco di ghiaccio. Avevamo un contenitore da 20 litri, arancione, da riempire ogni due giorni, spesso nei distributori di benzina, nei bagni pubblici. All’inizio cercavamo di non dare troppo nell’occhio. Soprattutto a Whistler, il centro commerciale dello sci. A Revelstoke ci sentivamo come tutti gli altri. Fare i piatti e lavarsi alla hot tub dei bagni pubblici era diventato normale. Lavare i piatti dentro il camper, invece, era chiamato il momento della terapia di coppia. Si faceva bollire un po’ di acqua per versarla poi lentamente sui piatti e infine dentro a una bacinella. Uno versa, l’altro lava. Tre volte, come si fa nei rifugi canadesi. L’essere umano si adatta davvero a tutto.

Nei parcheggi innevati abbiamo incontrato molte altre persone che vivevano come noi. Dopo un mese nello stesso posto, impari a conoscere i tuoi vicini di casa. Spesso ci siamo sentiti fortunati, la nostra scatola magica ci sembrava un hotel a cinque stelle in confronto a quello che vedevamo. Alcuni dormivano in auto, riscaldandosi i piedi e asciugando i calzini con l’aria calda. Una ragazza dormiva da sola con il cane in una vecchia auto, sulla portiera una scritta a pennarello: el condor libre. Un ragazzino dell’Alaska una notte ci ha aiutati a uscire dai guai, quando la Fiona era finita in un buco. Non voleva aprirci la porta, pensava fossimo della polizia. La mattina alle sette bussano alle porte di tutti i camper e i van dei parcheggi. Se sanno che ci sei, la multa è di cento dollari. A volte bussavano così forte che pensavamo che avrebbero rotto la porta. Noi ci abbracciavamo sotto le coperte e non facevamo rumore. Trattenevamo il respiro, aspettavamo che i poliziotti se ne andassero, e ci alzavamo, mettendoci le calzamaglia sotto il piumino. Anche quello è diventato abitudine. Solo a Whistler, un paese a 125 chilometri da Vancouver dove l’industria dello sci sopravvive grazie alla passione dei ragazzini appena usciti da scuola, australiani ed europei, che accettano condizioni lavorative discutibili per poter sciare ogni giorno, eravamo fuorilegge. Natale stava arrivando e io ancora non avevo gli sci. Ho passato molto tempo sola nella Fiona. Mi piaceva guidarla verso posti sconosciuti, senza mappe, seguire una strada, un animale, il mio istinto. Mi sono messa in situazioni pericolose. Non avevo nient’altro. Sono sempre stata bene sola, ho imparato ad amare la solitudine e il silenzio ancora di più. Ma guardavo le montagne, a volte seduta sul tetto, congelandomi il sedere, e sentivo che mancava qualcosa. Sono riuscita a rimediare un paio di sci di seconda mano e un paio di scarponi da alpinismo per trenta dollari. Non sapevo che mesi dopo mi avrebbero distrutto i piedi e fatto talmente male da non riuscire a sfilarli.

Avevo pochissimi giorni nelle piste per imparare quello che forse il mio corpo si era dimenticato. Ho iniziato il primo giorno dell’anno, la mattina presto. Un giorno di sole e di neve buona, perfetto. Hector mi ha guardata, indossavo la sua giacca a vento di riserva di due taglie più grandi, gli sci usati in spalla, una mascherina di terza mano pagata cinque dollari e senza casco. Sembri quasi una seria. Scoppiamo a ridere. Appesa sulla seggiovia, con il freddo sulla faccia, mi prende una gioia violenta. Inizio a guardare le figure piccole scendere dalle piste e penso che l’essere umano è proprio strano a mettersi degli stecchini di legno sotto i piedi e a scendere da una montagna a tutta velocità. Ok, ora a spazzaneve arriviamo fino a quella collinetta lì, poi ci fermiamo. Parto, vado subito in parallelo, non mi fermo alla collinetta, inizio a fare qualche curva, il mio corpo si ricorda tutto. Inizio a scendere e, continuando a ridere per il senso di euforia provocato dalla velocità, non mi riesco a spiegare perché avessi smesso per tutto quel tempo. Il secondo giorno eravamo su una doppia nera. Il terzo a fare un fuori pista in mezzo agli alberi.

Il quinto scendevo da una parete così ripida che a ogni curva buttavo fuori la paura urlando. Spingevo fin dove potevo, rimanendo in confini sicuri. La parola steep stava entrando a far parte del mio vocabolario. Prima di quel giorno ciò che conoscevo del mondo dello sci l’avevo imparato fuori dalle piste, camminando per le strade e parlando con le persone nei bar. Ho iniziato a capire che lo sci è una grande industria che può cambiare la conformazione socioeconomica dei luoghi e anche che gli sciatori bevono moltissimo, molto più degli arrampicatori. A Revelstoke, un paese di ferrovieri e immigrati cinesi ed italiani, si scia dal 1890. Oggi è il posto più importante della British Columbia per l’heliski e il fuoripista. È anche la base operativa della Canadian Avalanche Association ed Avalanche Canada. Tutto grazie a Rogers Pass, il passo di montagna più importante per l’economia della British Columbia, dove si muovono tir e treni giorno e notte, trasportando merci dal porto di Vancouver verso l’interno. Rogers Pass deve rimanere aperto a tutti i costi e il governo investe milioni di dollari in controllo valanghe ed esplosivi. A Revelstoke gli affitti e il costo della vita sono altissimi, gli abitanti di classe medio bassa fanno fatica, ma gli sciatori fanno di tutto per rimanere, a volte scambiando lavoro gratis per un ticket giornaliero al resort. Golden invece, tra le Selkirks e Purcell Mountains, è molto più sotto copertura. La chiamano East Revelstoke. Circondata da cinque parchi nazionali, i pochi sciatori stranieri vivono insieme a chi lavora nell’industria del taglio e trasporto di legname. Chi ci abita è lì da generazioni, pionieri e amanti delle montagne che difendono il territorio.

© Elena Adorni

A inizio marzo sono riuscita a rimediare un paio di attacchi da alpinismo. Ho imparato a usare ARTVA, pala e sonda e siamo partiti per la prima gita, a Rogers Pass. Non dovevo più guidare per miglia, senza una meta, su strade pericolose. Non guardavo più i paesaggi e le montagne dal finestrino del camper o dalla strada. Ci entravo. In profondità. Pochi giorni dopo le temperature hanno cominciato a salire e la neve ha iniziato a sciogliersi. Il rischio valanghe è diventato elevatissimo. Ci siamo fermati qualche giorno in una falesia per un po’ di arrampicata su roccia. Camminando ci sorprendevamo nel vedere il terreno sotto i piedi, nel sentirne gli odori. Ci sembrava un lusso poter raccogliere rami secchi dagli alberi per il fuoco, senza dover comprare la legna. In quegli stessi giorni, gli allarmi valanghe sono diventati quotidiani, molte strade e passi chiudevano e grandi valanghe hanno compromesso a lungo termine lo scialpinismo in alcune zone. Per Hector era una tragedia e voleva fuggire a Nord. Io ero contenta dell’arrivo della primavera anticipata, poi ne ho capito l’anomalia. Siamo partiti per l’Alaska. Alla fine di marzo.

In una settimana abbiamo guidato da Jasper a Valdez, percorrendo la strada più lunga, quella che attraversa lo Yukon. Durante quei 2.954 chilometri ci siamo lavati in un fiume che veniva dal ghiacciaio del Mount Robson. Un rito per lasciare in Canada quello che apparteneva al Canada e arrivare con energie pulite alla frontiera. Abbiamo salvato un’aquila investita da un camion, abbiamo camminato su un lago ghiacciato e visto il nostro primo caribù. Un topo ci ha fatto visita una notte, ma poi se ne è andato, da solo, quando abbiamo caricato l’aquila con un’ala rotta dentro la cassetta della legna, avvolta in una coperta. L’aquila è il simbolo delle terre del Nord. Siamo riusciti a guardarla dritta nei suoi occhi e ad accarezzarla. Per le popolazioni native è un uccello sacro, è quello che vola più in alto. Sulla strada, ci sono molti paesi fantasma, con un solo abitante e due o tre cani e un distributore di benzina. Qualche casa abbandonata, forse vecchi insediamenti nativi, poi il nulla. Nessuna traccia dell’essere umano per 300 chilometri o più. La natura selvaggia e qualche renna o capra. Siamo arrivati a Valdez il 2 aprile, parcheggiando davanti al lodge Rendezvous. La sera ci sarebbe stata una grande festa intorno a un falò per ricordare le vittime in montagna e il cane da alpinismo più figo al mondo che contava molte delle prime discese di Valdez e che viveva al lodge. Per me, un rito di passaggio. Da outsider sono diventata insider. Solo che non lo sapevo ancora. Ero un po’ stordita dalle birre e dallo shock sociale dopo aver passato una settimana guidando otto ore al giorno nei posti più selvaggi del mondo senza vedere nessuno. Ho chiacchierato con una ragazza di nome Anne, una guida della Nuova Zelanda. Quando le ho detto che cosa facevo mi ha risposto: Meno male, non ne potevo più di parlare di sci. Parliamo di arte?.

Quella comunità stava diventando la mia comunità. Hector a Valdez ci era già stato. Mi ha sempre raccontato di come abbia cambiato il suo modo di leggere le montagne. Quando pensava di fare una prima discesa, stava in realtà sciando una delle grandi classiche. Finalmente capivo di cosa stesse parlando. Solo passando sulla strada attraverso Thompson Pass si percepiscono la vastità e la verticalità del terreno, con pendii di oltre 55 gradi. Siamo arrivati in piena primavera, aveva appena smesso di nevicare. C’era molto sole e il bianco era accecante. Non sei mai da solo. I parcheggi sono pieni di camper e di tende. C’è sempre un elicottero che vola. Gli sledders, quelli in motoslitta, sono dappertutto. Si sente prima il ronzio fastidioso del motore che si avvicina e poi la puzza di benzina ti arriva alle narici. Non sciano nemmeno, stanno sulla motoslitta, rovinano la neve con qualche acrobazia idiota e se ne vanno. Una volta erano addirittura sopra di noi, rischiando di far staccare una valanga o più di una. Abbiamo urlato molte volte ma non ci hanno sentiti. Nei primi giorni la neve non era per niente buona. Abbiamo chiesto informazioni sulle condizioni al bar. Aveva piovuto fino a 1000 metri, poi in alto si trovava roba buona. Le montagne mi intimorivano, ero nervosa. Persone che sciano per una vita intera sognano di venire in questo posto, e magari non ci riescono. Io ero lì, dopo qualche giorno sulle piste e uno fuori. Mi sentivo una privilegiata senza essermelo meritato. Era da pazzi. Il livello di stress era alto per entrambi. Hector non sapeva se fosse stata una buona idea portarmi lì. Forse sarei dovuta andare a lavorare in quella fattoria. Ma quando condividi una casa con le ruote, non è sempre facile prendere decisioni individuali. È come andare al lavoro fuori città portandoti dietro la cucina e il letto che condividi con un’altra persona nel bagagliaio della macchina.

A Valdez è meglio non cadere, soprattutto con quelle condizioni. Ma volevo salire. Volevo essere lì anche se era pericoloso. Non volevo più guardare i paesaggi dal finestrino. Non mi piaceva nemmeno essere un peso per il gruppo, essere debole o goffa. Le mie esperienze sportive erano di corsa competitiva su lunghe distanze, trail e strada. Arrivata a un buon livello avevo lasciato perché non sopportavo più le pressioni della performance e i chilometri ogni giorno in solitudine. Lo sci era diverso dalla corsa, meno solitario. Con la stessa estasi di discesa dopo chilometri in salita e migliaia di metri di dislivello, ma senza competizione. Come succede spesso nella vita, le soluzioni arrivano da sole. Stavamo sciando con un gruppo di aspiranti Guide americane in preparazione agli esami. C’era un’altra donna, Erin, una ragazza del Colorado. Mi era simpatica, mentre salivamo con le pelli metteva musica country dal telefonino. Forse aveva capito tutto senza conoscermi. Vieni con noi, è solo un po’ di esercizio. Quel primo giorno le condizioni erano difficili. Tre di noi hanno provato a salire su per un canalone ma sono scesi quasi subito perché avevano persone sopra. Non ero mai stata in montagna con una donna. Le energie cambiano. C’è meno pressione. Siamo diventate amiche, ci siamo sostenute. Lo stress è sceso rapidamente. Siamo riusciti a trovare della buona neve nelle ore più calde della giornata. Morbida, con un pochino di crosta. Siamo scesi sorridendo a ogni curva. Tornati alla macchina abbiamo tirato un sospiro di sollievo, il rischio valanghe era stato molto elevato per tutta la giornata e sapevo che mi stavano tenendo d’occhio. Poi è arrivata la tempesta. Abbiamo lasciato Valdez per andare verso l’interno e siamo tornati dopo una settimana per sciare con il team di Livigno: Gerry, Sam e Lele. Ci siamo trovati una sera nel loro camper a noleggio, parlando delle discese ancora da fare, mangiando pasta al sugo. Girls, Diamond, Phyton, Berlin Wall, Meteorite, Books, Pyramid, RFS (Really Fucking Steep), Iguana Backs, Crudbusters.

I nomi delle classiche di Valdez come nomi di punk bands. Ne ho scese alcune. Altre volte non me la sentivo, ma non me la prendevo con me stessa. Lasciavo che i ragazzi andassero su e si divertissero senza dover preoccuparsi di me. Li aspettavo sotto il couloir facendo un picnic nella neve e fotografando, poi scendevamo insieme. La fortuna di sciare in Alaska in primavera è avere giornate interminabili, con la luce che se ne va alle dieci di sera. Si può iniziare tardi e finire tardi. O iniziare presto e finire tardi. Ci alzavamo, camminavamo su, sciavamo giù, tornavamo ai camper e programmavamo la discesa del giorno dopo, davanti a un fuoco o per terra, con una birra sotto il sole. Ho sciato in cinquanta centimetri di polvere, ho imparato a fare inversioni su terreno molto ripido. Sono caduta molte volte. Di faccia. Ho mangiato la neve. Ho fatto schifo, ho sciato bene. Ho avuto così paura da non riuscire a scendere, bloccandomi immobile su una cresta. Ho provato così male da urlare e piangere, cercando di non farmi vedere, rimanendo indietro. Ho giurato a me stessa che mi sarei fermata e non avrei mai più proseguito e poi non l’ho mai fatto. Ho giurato a me stessa che non avrei più sciato, e non l’ho mai fatto. È la natura dei salti nel vuoto. Partiamo con grandi idee, il cuore pieno, poi tutto diventa difficile. Lo sci, le relazioni, il freddo, dormire nei parcheggi. Tutto sembra essere difficile, preghiamo che finisca e dopo un milione di fallimenti ci ritroviamo. Ci guardiamo indietro, capiamo che non ci manca niente. Poi guardiamo avanti e ricominciamo un’altra volta.

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© Elena Adorni

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Rotta per casa di Zeus

In questi giorni in cui siamo costretti a casa abbiamo pensato di proporvi qualche articolo sui viaggi più belli pubblicati da Skialper. Per tornare presto in questi incredibili luoghi. 

Spiagge senza fine, oliveti, mare cristallino, valli selvagge, baie e siti archeologici. Così viene ricordata Creta nel 99 per cento dei casi. Ma Creta è molto di più. Nel cuore dell’isola del padre di Minosse, Zeus, sorge una distesa di neve che permette di soddisfare il piacere di sciare in un luogo davvero esotico. L’arrivo di scialpinisti stranieri da queste parti è un avvenimento e i locali, nel vederci giungere bardate di Primaloft e Gore-Tex, hanno scosso il capo e si sono lasciati sfuggire qualche occhiataccia. Però, appena si sbarca, le sinuose montagne del Lefka Ori nell’ovest e i rilievi dell’Ida nel centro dell’isola farebbero aumentare i battiti di qualsiasi scialpinista.

Quando atterriamo a Chania, una città con porto nel nord-ovest dell’isola, il sole sta già calando dietro le montagne e la notte si avvicina. Blu, nero e grigio sono i colori dominanti che ci hanno accompagnato durante il viaggio da Atene verso Chania e sfumano verso l’ibisco e il colore notturno del mare. Già al recupero bagagli notiamo che gli isolani non sono così stupiti di vedere, sul nastro trasportatore, in mezzo ai loro bagagli, due sacche di sci. Fuori dall’aeroporto troviamo ad aspettarci la nostra guida George, che ci accompagnerà durante il tour, e gli autisti Nikos e Vangelis. Qui l’aria non sa d’inverno. Una brezza tiepida arriva dal mare, l’odore di primavera… il pensiero di trovarci, tra un paio d’ore, nella neve, sembra un’utopia. La fame si fa sentire, ma dobbiamo passare ancora un’ora nella nostra Mercedes Classe-V percorrendo una strada di montagna verso Omalos, mentre la radio ci fa compagnia con una musica greca a ritmo di chitarra. Purtroppo, a causa del buio, non abbiamo la possibilità di apprezzare l’ambiente che ci circonda mentre proseguiamo, ma la sorpresa, a 900 metri, è la neve, assieme al ghiaccio, che si può scorgere solamente lungo le curve. Ci muoviamo tutti insieme, finché Nikos spegne il motore davanti a una casetta con le luci accese. Cariche di tutta l'attrezzatura, entriamo in quello che sarà il nostro alloggio per la prima notte qui a Creta. In un piccolo camino scricchiola un fuocherello, mentre il proprietario e sua moglie guardano la televisione, dove passano le notizie del telegiornale. Al nostro arrivo ci aspettano il sorriso del locandiere e il primo raki, una tipica grappa greca. Zuppa di verdura, carne di agnello, insalata con feta, tsatsiki, riso in foglie di cavolo e yogurt con miele ci danno la forza per i prossimi giorni. George, la nostra guida, ci spiega dettagliatamente il tour che faremo.

© Dan Patitucci

IL PRIMO GIORNO E IL SECONDO attraverseremo il Lefka Ori: circa 40 chilometri e 3.300 metri di dislivello con pernottamento in un bivacco. Alla parola bivacco tutte e cinque sgraniamo gli occhi. Durante la preparazione al tour nessuno aveva mai pronunciato questa parola. Ci avevano chiesto di portare un sacco a pelo e viveri solamente per la giornata. Il sacco a pelo, per i greci, è un sacco-lenzuolo idoneo a temperature fra gli 0 e i 5 gradi: siamo inquiete, per il tour erano stati previsti solo sacchi-lenzuolo sottili. Inquietudine aumentata dal fatto che nessuno sapeva che bisognava portare con sé una scorta di acqua per ben due giorni. Non c’è speranza per i nostri zaini da 28-30 litri (la guida ne aveva uno da 70). Massimo un litro e mezzo di liquidi, ma non di più. Una notte in un riparo di sassi, senza acqua e con un sacco lenzuolo? La presentazione ha portato decisamente scompiglio e agitazione. Ancora un sorso di raki e poi a letto, a pianificare cosa mettere nello zaino da 28 litri. L’aria fredda della camera veniva riscaldata da un impianto di riscaldamento crepitante. Ma non si può dire che fosse calda quella camera. Le lenzuola erano sicuramente troppo fini, però con un paio di coperte non si pativa così tanto il freddo.

IL GIORNO SUCCESSIVO, al risveglio, appare davanti ai nostri occhi la montagna imbiancata, il Lefka Ori. Pochi alberelli dispersi per la piana di Omalos, mentre tutto il resto è bianco, con le cime delle montagne facilmente riconoscibili. Il cielo è di un blu brillante che, insieme al sole, preannuncia che durante la giornata non soffriremo il freddo. Nel punto più a nord della gola di Samaria, lunga ben 17 chilometri (una delle più lunghe d’Europa), inizia il nostro tour. In estate questo luogo è colmo di bus e turisti, ma oggi neanche un’anima. Una vegetazione minima, spazi incredibili e, dopo alcuni metri, già i primi scorci del Mar Libico nella parte sud dell’isola. Le pendici settentrionali del Lefka Ori brillano di sfumature argentate, come se fossero davvero ricoperte d’argento. Ma in realtà è semplicemente neve sotto il sole. Dopo la discesa, ecco il primo stop al rifugio Kalergi (l’unico aperto e gestito) sulle pendici del Lefka Ori. Ci si sente come Bambi, che senza alcun appoggio e continuando a ruzzolare, a stenti, si trascina fino alla terrazza del rifugio. La vista dalla gola di Samaria è bellissima. Il profumo del the greco alle erbe ci conquista e ci fa andare avanti. Il gestore del rifugio si meraviglia, non capita tutti i giorni di vedere passare degli scialpinisti. Solamente nove local con gli sci frequentano i versanti del Lefka Ori, gli isolani passano tempo tra i monti solamente in estate. Riempiamo le nostre borracce ancora una volta e poi ci dirigiamo verso la cima Melidaou, direzione rifugio Katsiveli, dove pernotteremo. Di croci sulle cime delle montagne, qui a Creta, neanche l’ombra, di tanto in tanto fiancheggiamo qualche cappella. Dopo tante salite ghiacciate, discese nel firn e lunghe traversate, il primo giorno è già arrivato al termine. Non siamo ancora giunte alla nostra meta che il sole è già tramontato.

© Dan Patitucci

Accendiamo le frontali e, passo dopo passo, ci avviciniamo al rifugio. Alla domanda ‘quanto dista ancora? ’, la risposta è sempre stata, nelle ultime due ore, ‘not far anymore’. Le forze iniziano a calare, il freddo a farsi sentire. La voglia diminuisce e la gola è secca, lo stomaco borbotta. Otto ore di cammino e, grazie alla luce della frontale, eccoci arrivate al riparo. Nikos, un amico della nostra guida, ci aspetta insieme a una fumante tazza di the alla cannella ed erbe sul tavolo. Su un piccolo fornello a gas c’è una padella nella quale bolle la zuppa di verdura. Anche la temperatura nella stanza è aumentata di 10 gradi. Festeggiamo Nikos e l’incredibile spirito di ospitalità greco. Al peggio ci siamo adattate e alla fine abbiamo dimenticato la faticaccia e la nostra bocca ha preso una piacevole piega all’insù. Quando Nikos ha preparato gli spaghetti al ragù, la serata è diventata un vero e proprio trionfo. Tre coperte per ognuna di noi, una borsa dell’acqua calda e un piccolo posticino per dormire hanno fatto di quella notte la più calda delle cinque passate a Creta.

Anche il secondo giorno inizia con un cielo limpido, benché all’orizzonte s’intraveda un banco di nubi e nebbia accompagnato da una brezza fresca che sembra dirigersi verso il nostro rifugio. E infatti, poco dopo, la nebbia ci avvolge. Ancora una volta c’è il the, le borracce vengono riempite, si mangia un panino con burro e marmellata accompagnato da un espresso ed eccoci pronte ad aprire la porta… che la nebbia si è dileguata! Cielo azzurro e un mare di nuvole sotto di noi. Quattrocento metri ci separano dalla cima dello Svourichti e, dopo un’altra salita, arriviamo in cima anche al Mikros Trocharis, a 2.410 metri, la seconda cima più alta della zona del Lefka Ori. Il vento soffia e la nebbia si aggira attorno alla vetta. Ma durante la fantastica discesa in firn abbiamo di nuovo un’ottima visibilità. Dopo un breve stop per il ristoro, ecco che ci dirigiamo verso l’ultima salita, la cima Fanari. Sono già tre ore buone da quando siamo ripartite e questa salita ci ha rubato parecchie forze. Fossimo state sulle Alpi, non avrei mai fatto un percorso del genere, avrei avuto troppa paura delle valanghe. Ma qui a Creta la consistenza della neve è ben diversa e unica. Il pericolo di valanghe è ridotto rispetto alle Alpi, anche se le temperature superano i dieci gradi e il sole bacia i pendii delle montagne. La copertura nevosa è così ben assestata che, racconta la nostra guida, dai suoi tempi (ha iniziato nel 1996), ha visto solamente due valanghe. Per noi è difficile da credere, ma meglio così. Il sole sta nuovamente calando e la valle che dobbiamo percorrere è già all’ombra. Questo significa che il terreno è ancora ghiacciato. Appena il sole cala, il firn scompare e così ci dirigiamo verso il Niato Plateau. E qui vorrei soffermarmi sulla nostra discesa nel firn. Un pendio ripido, cupo e vasto: il sogno di ogni sciatore. Dal Niato Plateau si prosegue lentamente verso Askifou. Arriva di nuovo l’oscurità e le frontali devono fare il loro lavoro. Il piano era che Nikos e Vangelis sarebbero dovuti venire a prenderci a 1.300 metri con la nostra Mercedes, ma è un inverno molto nevoso, perciò dobbiamo scendere fino a 1.000 metri con gli sci ai piedi.

© Dan Patitucci

ASKIFOU CI SALUTA con i belati delle pecore in sottofondo e offrendoci una ghiotta cena in una tipica locanda del posto. Attorno a due tavoli si sono raccolti gli uomini del luogo e ci fissano, o meglio, fissano la televisione sul muro. Fegato di agnello, patate, riso, insalata greca, lenticchie e una birra fresca sono pronti per noi. Per dolce ci aspettano il raki e i famosi bavlak (una sfoglia ripiena di noci, imbevuta nel miele). Sembra un garage: una stanza con un piccolo bar e quattro tavoli. Un paio di vecchi quadri addobbano la parete. Una piccola televisione è l’intrattenimento principale del luogo. Non c’è nient’altro qui, tutto ridotto al minimo. Dopo cena ci aspettano due ore di auto nell’oscurità, tra le strade di montagna e l’autostrada verso Anogia. L’entrata del nostro alloggio è molto accogliente, il tepore ci dà il benvenuto, insieme ai biscotti. La locandiera è molto zelante. Le camere di nuovo troppo fredde. Sono a disposizione ancora solo delle lenzuola e il camino è spento già da parecchio tempo. Anche qui siamo gli unici ospiti, solamente a colazione vediamo altri avventori. C’è sempre il tipico formaggio di capra misithra (la consistenza è quella della ricotta), da mangiare con pane e miele. La stanza dove mangiamo ha il profumo di salvia e rosmarino, un odore un po’ troppo forte per i miei gusti. La locandiera è così emozionata che parla senza sosta.

SALIAMO IN MACCHINA e ci indirizziamo verso Psiloritis (Monte Ida). Le pecore, alberi di limone e di arancio costeggiano la strada. Pini e cipressi sono visibili lungo il percorso. Presto però arriviamo in mezzo alla neve e lasciamo la macchina in favore di sci e pelli, pronte per partire alla volta del Migero Plateau e del Monte Kourouna. Ci sono diverse salite e molte discese in firn, verso sud e verso nord. Lo sguardo corre al mare cretese a nord e al Mar Libico a sud. Un caldo incredibile ci accompagna durante la salita e i nostri visi diventano rossi e nemmeno la migliore delle creme solari è utile. Psiloritis è nota come il luogo di nascita di Zeus. Nella cava di Ideon Andro si manifestò sotto forma di toro bianco e, accoppiandosi con la principessa fenicia Europa, diede vita a Minosse. Un’ultima lunga discesa in firn cancella la faticaccia fatta in questi giorni.

Dopo l’ultima escursione siamo stati ospiti di Andreas, un prete, in un posto così isolato che ci ha fatto scoprire un nuovo mondo, fatto di tradizione e accoglienza e abbiamo conosciuto gli uomini del posto, che sono anche scialpinisti. Proprio domenica il comitato organizzatore della Pierra Creta, la gara di skialp locale, si è radunato a casa di Papa Andreas. Il prete ci guida lungo le mura sassose, facendoci scoprire come si fa il formaggio misithra e ci fa assaggiare quello che produce lui. Fuori Papa Andreas aveva precedentemente messo sulla griglia la carne di agnello, pronta per noi. La piccola comunità di scialpinisti ci ha fatte subito sentire parte del gruppo e così abbiamo passato una bella serata in compagnia. Abbiamo cantato, ballato, suonato la chitarra, bevuto vino e raki e raccontato le nostre avventure tra le montagne. I local sono curiosi, ci hanno chiesto informazioni sulla tecnica sciistica, apprezzando il nostro abbigliamento tecnico e moderno e ci hanno raccontato di alcuni camp per giovani, durante i quali cercano di avvicinarli alla montagna. Sono così fieri di loro stessi e delle loro vette.

L’ULTIMO GIORNO del nostro viaggio abbandoniamo con difficoltà il letto (l’accoglienza greca ci ha procurato qualche effetto collaterale). Vogliamo conoscere anche l’altro lato di Creta, lontano dalle montagne, ma sempre con un occhio rivolto al gigante bianco dell’isola. Ci dirigiamo verso Chania, verso il mare. I prati diventano sempre più verdi, gli alberi di limone e arance sono sempre più rigogliosi. I fiori sbocciano, l’aria diventa più calda, l’odore di estate si disperde nell’aria. Vasi d’argilla, cipressi e oliveti costeggiano la strada. Gli uomini giocano a carte e bevono caffè. Ci fermiamo in un paesino di vasai, osservando il lavoro delle donne. Al porto di Chania possiamo toglierci le scarpe e mettere i piedi nell’acqua. Abbiamo anche fatto un salto nel mare. L’aria è carica di sale, il pesce, le palme, i vecchi lampioni e, sullo sfondo, le bianche pendici del Lefka Ori creano un’atmosfera magnifica. Ancora una volta George ci porta a cena. Insalata greca con avocado e noci, riso indiano, paprika con yogurt, involtini di verdura, finocchio, spinaci e un’altra bottiglia di vino. La fine perfetta di un viaggio in un altro, fantastico, esotico, mondo.

© Dan Patitucci

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Problem yok

In questi giorni in cui siamo costretti a casa abbiamo pensato di proporvi qualche articolo sui viaggi più belli pubblicati da Skialper. Per tornare presto in questi incredibili luoghi. 

Andiamo a sciare in Georgia, questo era l’obiettivo. In Georgia abbiamo passato due giorni. E non ci siamo mossi da Tbilisi. Partenza ore 9.10 del 18 marzo 2019. Una volta atterrati a Istanbul, Achille e io ci siamo subito divisi: lui si è lanciato in una corsa contro il tempo per recuperare il furgone dal meccanico prima che chiudesse, mentre io sono rimasta in aeroporto ad attendere i nostri due bagagli sportivi e quelli normali. Achille ha varcato la soglia del meccanico alle 17.58, riuscendo a prendere la chiave del nostro grande compagno a quattro ruote, mentre io l’ho raggiunto una mezzoretta dopo con tutta la nostra ingombrante attrezzatura. Il furgone risiedeva ormai tra quelle mura da un paio di mesi, durante i quali, nonostante la lunga permanenza, non gli era mai stata sistemata la quinta marcia: per cui, era ufficiale, avremmo affrontato il nostro viaggio con quattro marce, massima velocità 80 chilometri/ora.

Abbiamo passato il resto del secondo giorno di viaggio a dare una collocazione precisa a tutte le cose che ci eravamo portati dall’Italia e a quelle che avevamo immagazzinato nel furgone per via del mio trasloco da Istanbul a Milano. Infatti, oltre a sci, splitboard, racchette, caschi e vestiti, avevamo anche tre quadri, un cajon, una mappa da muro della Turchia, una canna da pesca, uno skateboard e una specie di arazzo di 3x3 metri regalato da Yusuf prima della nostra partenza. Il nostro è un California Westfalia T4 del ’93, di conseguenza qualche scompartimento per gli effetti personali c’è, ma penso che la Volkswagen non avesse mai previsto uno scenario di questo tipo, quindi spettava alla nostra immaginazione e creatività trovare un luogo per tutto. So che è difficile da credere, ma ce l’abbiamo fatta e, dopo qualche ora (quasi) tutto era scomparso dentro agli scompartimenti del furgone. Per celebrare ancora di più il nostro senso di riconoscenza nei confronti di questi salva-vita, gli scompartimenti li avevamo etichettati con dei veri e propri nomi: girasole, papavero, lavanda, ortensia, margherita, bucaneve e dente di leone. Perfino il furgone stesso era stato battezzato con un nome tutto suo: Cielo.

La distanza tra Istanbul e Tbilisi è di 1.800 chilometri e percorrendoli a 80 chilometri all’ora può risultare cospicua. Quindi seguirono giorni dedicati a macinare strada, ma, volenti o nolenti, gli stop giornalieri di contemplazione dei luoghi e di interazione con i locali, portavano a un avanzamento lento. Tempo perso o speso meglio? Non lo so, quel che so è che dopo circa cinque giorni di viaggio ci siamo domandati perché volessimo a tutti i costi arrivare in Georgia quando era evidente che fossimo destinati a essere trattenuti tra le meraviglie incontaminate del Nord-Est della Turchia. E abbiamo deciso così che la Georgia e il suo famoso Caucaso avrebbero lasciato il posto all’Anatolia e alla catena dei Ponti.

© Achille Mauri

Liberati dal senso di colpa di muoverci troppo lentamente, abbiamo apprezzato ancora di più la magia di ogni chilometro percorso. Ogni valle era diversa: la natura ha usato tutti, o perlomeno tanti, dei suoi strumenti e trucchi per creare spettacoli affascinanti. Guidando vedevo timelapsedi ere geologiche: ghiacciai che si espandevano, che si ritraevano, che creavano laghi e fiumi e si inaridivano per dare immagine a ciò che scorgiamo oggi. Vivevo lo stesso effetto di quando conto i numerosi anelli degli alberi, di quando tocco le mura di una chiesa del X secolo e di quando stringo le mani di mia nonna: l’effetto pervadente della saggezza intrinseca dell’antichità.

Le valli di Duragan e di Vezirkopru rappresentano lo scenario nitido di quel che immagino quando penso ai brontosauri pascolanti e rilassati: larghe valli a U di cui sono protagonisti freschi fiumi che rendono verdeggianti le circostanti pianure, le quali si trasformano brevemente in alte rocce. Le valli di Kolyulhisar invece sono sfilate come modelle davanti a noi, mostrando cappotti e strati di tutti i colori. È capitato più volte di fermarci in punti particolarmente panoramici a contemplare luoghi sempre così diversi e spesso non lontano c’era un pastore. Trovo che sia terapeutico osservare i pastori durante la loro quieta, quotidiana occupazione. Osservano il gregge con ancora gli occhi di Mosè e di Maometto. Se ne stanno lì su una roccia a guardare il monotono vivere di pecore che brucano su prati verdi, godendo dell’impetuoso sfondo di montagne rocciose. Qui la solitudine recluta anime ed eleva attraverso una delle occupazioni più antiche della storia dell’uomo.

In un’altra valle, quella di Camoluk, sembrava di essere in un alveare rappresentato da piccole montagnette triangolari aride, gialle, costellate di bassi cespugli verdi che interagivano tra loro, proprio come fanno le api mentre costruiscono e abitano il loro regno. A destra colline innevate, a sinistra un lago ghiacciato e in fondo un paesino dotato, ovviamente, di scenica moschea. Questo paesino si chiama Kose e, dopo aver dormito sotto flussi migratori di uccelli ai bordi del lago ghiacciato, abbiamo speso la mattinata nel bar - l’unico - del paese. Qui siamo stati serviti e riveriti a non finire. Achille ha fatto l’errore di chiedere simit varmi. Il Simit è il tipico pane dolce turco e alla fine ne ha dovuti mangiare sei… Gli uomini avevano uno sguardo molto vispo e si vedeva che capivano tutto quello che tentavamo di dire loro, nonostante la barriera linguistica; e nonostante il testosterone, la virilità e l’orgoglio dilagante in quella sala, tutti volevano una foto con noi due. Di donne neanche l’ombra. Siamo usciti da lì che sembrava avessimo passato una notte in un bar degli anni Venti durante il proibizionismo, con i vestiti impregnati di fumo. Non ci hanno fatto pagare nulla, esclamando problem yok, non c’è problema! E ci hanno salutato come se un loro figlio stesse partendo per la lontana America.

© Achille Mauri

Allontanandoci da Kose ho fatto una riflessione: che cosa rende duro il cuore degli uomini? Che cosa c’è nel mondo di tutti i giorni, delle grandi città, che ci impedisce di essere come loro? La genuina felicità per le cose semplici, il voler recare gioia nella vita del prossimo si traducono nella spontanea ospitalità. Il valore dell’esistenza è la ragion d’essere dell’ospitalità: tu sei ben accetto in casa mia perché esisti. È così antico come valore innato dell’uomo, ma poi qualcosa deve essere andato storto, perché Xenia è la dea dell’ospitalità, la Xenophobia è il male del mondo, e a noi non resta che scegliere.

La meta si avvicinava: Petran, la culla dello snowboard. Per qualche strano motivo questo nome s’intercambia con Mesekoy: stesso luogo, due toponimi completamente diversi. Superata Bayburt, siamo giunti al bivio per Yoncali e di conseguenza per Petran. Abbiamo attraversato un passo che ha fatto guadagnare una medaglia al valore al nostro furgone e, arrivati a Yoncali, abbiamo ricevuto accoglienza immediata: knock knock sul vetro dl furgone ed ecco Ahmed sorriderci come a dei suoi fratelli. Si è presentato in perfetto inglese e ci ha chiesto dove pensavamo di andare dato che da lì a pochi metri la strada sarebbe terminata. Noi siamo passati dallo stupore di sentir parlare inglese a quello di non poter proseguire e aver fatto quella strada invano. Ahmed ha continuato a farci sorridere fino al momento in cui abbiamo lasciato il paese. Ci ha invitato a conoscere la sua famiglia e a pranzare tutti insieme nella casa dei suoi zii, non troppo distante dalla sua. Durante il pasto abbiamo avuto modo di consultare i fratelli di Ahmed, grazie alla sua pronta traduzione, riguardo al da farsi per raggiungere Petran. Ci sembrava una buona idea attraversare la montagna (Kirklar Daği, 3.550 m) a piedi, dal momento che la destinazione era a un tiro di schioppo dal colle. Però il maltempo non lo permetteva, le previsioni non erano promettenti e non eravamo attrezzati per un’eventuale notte lungo la strada. Di conseguenza non restava che vivere da molto vicino lo stile di vita comunitario della grande famiglia di Ahmed e usufruire dell’ospitalità mangiando tutte le delizie da loro prodotte: formaggi, miele, uova e salame. Ci tenevano molto a specificare che l’unico prodotto in tavola non di loro produzione erano le olive di Bursa, tutto era organik. In dieci, seduti per terra intorno al grande piatto d’argento da cui tutti attingevano, sotto lo sguardo di sedici occhi curiosi e rispettosi, e pronti a essere tamponati dai numerosi bimbi che giravano gattonando come trottole per la stanza, ci siamo goduti il primo lauto pasto della giornata. Problem yok.

La famiglia più stretta di Ahmed, la mamma e il papà, non erano presenti, li abbiamo conosciuti più tardi. Ahmed si era laureato da un anno in letteratura all’Università di Bursa: aveva un’ottima proprietà di linguaggio e ci ha impressionato molto quanto fosse legato alla sua terra e quanto le fosse grato. Dopo il pranzo con i parenti, Ahmed ha reclutato Achille per aiutarlo nelle mansioni della stalla, mentre io sono stata parcheggiata a casa, in compagnia della mamma, una forza della natura che ha cresciuto quattro meravigliosi figli e che ha sacrificato molto della sua vita pur di farli studiare in scuole eccellenti, proprio come quella di Bursa. Durante la mia permanenza a Istanbul, ho avuto modo di entrare in contatto con molta musica turca e tra le mie canzoni preferite c’è Tatli Dillim di Selda Bagcan. Questa donna ha iniziato a cantarla ad alta voce, tenendomi tra le forti braccia, proprio come se fossi sua figlia, e ha iniziato a ballare per la cucina come una ragazzina, lanciando il velo sul divano e facendomi capire che poteva perché eravamo noi due sole. Erano anni che non la sentiva ed evidentemente ci doveva essere molto legata.

© Achille Mauri

Poi abbiamo raggiunto i ragazzi e ho trovato Achille in un momento nirvanico, mentre scattava foto ad Ahmed in un fienile molto speciale. Infine siamo andati in un’altra stalla dove sono stati aperti i cancelli dei piccoli vitelli che con voracità sono corsi ognuno dalla propria mamma per ciucciare il latte. Uno di loro era rimasto dentro, non riusciva ad alzarsi. Problem yok, la mamma di Ahmed lo ha aiutato dolcemente ad alzarsi e lo ha condotto dalla sua genitrice. Il vitello era nato il giorno stesso e, dato il mio entusiasmo per quella creaturina così innocente, hanno deciso di darle il mio nome. Quindi oggi, a Yoncali, in provincia di Erzurum, Turchia, c’è una mucca di nome Elena.

Era ormai buio e, dopo abbracci sentiti e consapevoli, siamo partiti. Abbiamo dormito nei pressi di Ispir e alla mattina ci siamo svegliati sepolti dalla neve: per fortuna eravamo scesi! Se fossimo rimasti lassù a Yoncali, opzione presa in considerazione, saremmo stati sicuramente bloccati dall’abbondante nevicata. Abbiamo proseguito verso Petran sulla strada innevata, che poi prendeva quota senza pietà. Eravamo ben disposti a salire con le pelli agli sci, ma il furgone ha superato le nostre aspettative a ogni curva e la salita si è trasformata quasi in un gioco, fino a quando abbiamo dovuto parcheggiare Cielo in un ampio tornante nel bel mezzo del bosco. Secondo le nostre stime dovevamo essere a poco meno della metà della strada per Petran e l’altra metà non rimaneva che farla con le pelli. Mentre Achille le montava ai rispettivi sci e splitboard, io ho preparato una rapida pasta al sugo rosso e, dopo averla divorata in pochi minuti, eravamo pronti a partire. Non abbiamo fatto in tempo a mettere gli sci ai piedi che è arrivato un pick-up di 20 anni fa, ma molto solido. L’uomo alla guida ha abbassato il finestrino e, senza dire nulla se non problem yok, ci ha fatto cenno di salire. Eravamo titubanti: avremmo preferito farla a piedi, ma avevamo solo due o tre ore di luce, non sapevamo quanto più lunga del previsto sarebbe stata la strada e quanto sarebbe peggiorato il tempo. Così, pronti per una pellata, abbiamo accettato il suo invito: io davanti con l’uomo e Achille sul retro aperto, un po’ sconsolato ma divertito. In tutta onestà: per fortuna che siamo saliti su quel pick-up perché la strada era ben più lunga del previsto e poco dopo la partenza, usciti dal bosco, niente era più visibile. Abbiamo capito di essere arrivati a Petran solo davanti alla porta di casa di quell’uomo. In macchina avevo provato a fare un po’ di conversazione, riscuotendo poco successo: il guidatore era molto riservato, aveva occhi saggi e vissuti e fumava molto. Si chiamava Emre, e per prima cosa ci ha portato a conoscere la moglie Fatma che è spuntata fuori dalla piccola porta di una stalla con un gran sorriso. Ci hanno invitato a rimanere a casa loro per la notte. L’ingresso era una stanzetta dove si dovevano lasciare le scarpe, da lì, attraverso una porta, si accedeva al salotto/cucina. Nonostante levarsi le scarpe sia parte integrante della tradizione turca, in quella casa c’era un discreto terrorismo poiché Fatima aveva una certa fissazione e per lei e suo marito c’era uno specifico paio di ciabatte per ogni stanza. Quando Emre ci ha portato sul balcone nella parte opposta della casa, ha dovuto cambiarsi le scarpe tre volte: un paio per il salotto, un paio per la stanza del balcone e un paio per il balcone. Per lui era del tutto normale, sembrava abbastanza rassegnato a questo rito. Le ciabatte per noi giustamente non c’erano e sono bastati dieci minuti scalzi per il salotto per ritrovarmi una spessa scheggia nell’alluce. Fatima non ha esitato un secondo: si è impadronita del mio piede e chirurgicamente ha estratto il pezzettino di legno. Problem yok. Quando Emre ci ha portati sul balcone, siamo rimasti fulminati dalla vista che ci siamo trovati davanti: le nuvole si erano diradate, la luce era quella del crepuscolo e Petran si ergeva magnificamente intorno a noi. Le montagne circostanti ancora non si vedevano, ma Emre ci ha rincuorato subito dicendoci che il giorno dopo il tempo sarebbe stato bello.

La cena è stata servita da Fatima, molto simile a quella del giorno prima: la differenza era che questa volta sullo sfondo c’era una televisione, accesa. Poi siamo stati scortati nella stanza dove Fatima era andata a pregare poco prima e dove aveva preparato due bei lettini separati. Problem yok. L’indomani eravamo in piedi prima del sorgere del sole, ma già c’era luce. Finalmente il paesaggio si mostrava limpido. Le montagne innevate erano come spruzzate di polvere magica e noi ci muovevamo silenziosi tra le case di legno, il negozio di alimentari e la moschea. Siamo usciti dal paese che il sole era ancora basso. Non avevamo un itinerario definito davanti a noi, ma tanta voglia di muoverci in quell’idillio. La mattina siamo saliti e scesi per colline cariche di neve: non c’era un centimetro tracciato e avevamo a nostra completa disposizione tutto il circondario di Petran. Purtroppo però non eravamo a conoscenza dell’effettiva stratificazione della neve: quanto aveva nevicato in quell’area? Quante volte? Sapevamo che il terreno era erboso e sapevamo che, sebbene non fosse ripido, il pericolo di valanga era comunque in agguato, quindi ci siamo temuti lontani dalla minaccia e ci siamo divertiti a consumare tutti i versanti delle illibate colline, accompagnati solo da caprette e minareti.

Ci siamo allontanati da Petran, di nuovo a bordo di quel pick-up scassato, con i nostri amici e Fatima che ci salutavano commossi, augurandoci la protezione di Allah. Poi abbiamo ritrovato il nostro Cielo ed è arrivato il momento dei saluti. Tutti e tre commossi: Gule gule Emre, arrivederci. La strada per Yaylalar era impervia e anche un po’ illogica. Dalle parti di Karakamis abbiamo notato una costruzione di dimensioni enormi, il canale di scarico ausiliario della diga di Arkun, sul fiume Coruh. Eravamo di fronte a un templio ad Apollo rivisitato in chiave moderna. Era sopraelevato, dava su tutta la vallata e sul fiume stesso, costruito in massiccio cemento e nella sua bruttezza e invasività aveva qualcosa di affascinante. Abbiamo presto scoperto però che il fiume Coruh è destinato a essere prosciugato da dighe di questo genere.

© Achille Mauri

Yaylalar è un villaggio a 1.900 metri che conta più o meno 25 abitanti, nel pieno centro dei monti Kaçkar. Da lì possono partire spedizioni di tutti i tipi, anche sulla montagna più alta della zona, il Kaçkar Daği (3.937 m). C’è un centro d’accoglienza per gli sportivi che vengono alla scoperta di quelle montagne così sconosciute, gestito da una coppia che rende onore a tutte le ore del giorno alla parola accoglienza. Lui è il signor Mohammed e lei la signora Gamze. Dopo la prima colazione siamo entrati e abbiamo ricevuto qualche indicazione su dove fare una gita per quella giornata. Ci siamo avviati lungo la strada che usciva dal paese con gli sci in spalla e abbiamo risalito un ruscello per due chilometri con le pelli agli sci. Più volte, a causa delle numerose piccole valanghe che avevano bloccato il percorso, abbiamo dovuto cambiare lato del fiume, attraverso stretti ponti naturali di neve. Per me era semplice grazie agli sci nuovi che mi aveva regalato Achille, ma per lui ci sono stati momenti precari dovuti al fatto che i passaggi fossero insufficientemente larghi per la sua splitboard. Ogni metro guadagnato portava a una prospettiva differente sul paesaggio. Superata la valletta marcata dal fiume, dopo 400 metri di dislivello lungo un pendio esposto a Ovest, siamo sbucati in un anfiteatro di montagne innevate, vigorose e soprattutto ricche di discese interessanti. Eravamo soli, in una valle che per quel giorno era stata donata a noi. Eravamo lontani dalle cave, dalle città, dalle persone. La neve sotto gli sci era di qualità: aveva nevicato il giorno prima, faceva freddo e non sentivamo l’influenza del vicino Mar Nero. Queste erano le condizioni per la mattinata, ma verso le 13 tutto iniziò a cambiare. La visione del nostro itinerario era molto più completa da lì, c’erano delle tracce in un canale poco distante, proprio accanto a quello che volevamo fare noi. Ci siamo avviati verso quel canale ma, a causa della neve marcia, abbiamo dovuto salire con gli sci in spalla, a quattro mani, su per delle rocce: era meglio non dipendere dalla neve. Arrivati in cima alla salita abbiamo capito che raggiungere il canale non sarebbe stata una buona idea, così ci siamo goduti il panorama che si era aperto davanti a noi. Infatti da quella posizione potevamo vedere sia l’anfiteatro già menzionato, sia le valli che lentamente si trasformavano in pianure fino a giungere al mare. La discesa all’inizio è stata carica d’ansia a causa dell’instabilità della neve: erano necessarie lunghe e veloci linee. Poi, quando la pendenza è diminuita, abbiamo goduto molto di più dei nitidi solchi che ci lasciavamo alle spalle. Le tracce incise nella neve riportano la soddisfazione di una ricerca insita nell’uomo che è quella di marcare il territorio, sono come firme.

Quella sera abbiamo deciso la via da percorrere il giorno dopo ma, con gran dispiacere, ci siamo svegliati con un tempo da lupi e abbiamo dovuto cambiare programmi. Con le orecchie basse abbiamo guidato verso valle e percorso la strada verso Yusufeli; ormai la destinazione ultima era Tbilisi, da cui saremmo partiti con un volo il primo aprile. L’indomani abbiamo superato il confine e due giorni dopo decollavamo verso la familiare Europa, stringendo le mani l’uno dell’altra, commossi per l’accoglienza ricevuta dal giorno uno al giorno 15. In un mondo sempre più colonizzato dall’uomo e sempre più popolato ogni giorno ci si allontana sempre di più. Più siamo e più siamo fisicamente vicini, più siamo lontani. In un mondo dove sviluppo, tecnologia e innovazione hanno preso il posto di amore, solidarietà e rispetto bisogna ricordarsi invece che, a Yoncali, c’è un Ahmed che ti aspetta a braccia aperte, chiunque tu sia, e che è pronto a darti un pasto caldo. E perché lo farebbe? Perché siamo liberi ma uniti, perché per quanto ci sembra di essere al di fuori di qualsiasi catena alimentare ed ecosistema, in realtà ne siamo parte integrante e supportarci a vicenda porta armonia all’interno di questo equilibrio. A volte non ci si rende conto dell’interdipendenza del benessere: è difficile che esista il mio se non esiste il tuo, e viceversa. Il senso di ospitalità è caratteristico di ogni ecosistema perché tutti dipendono da tutti e tutti sono connessi. E se tutto è connesso allora, problem yok.

© Achille Mauri

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Kamchatka, la penisola di fuoco

In questi giorni in cui siamo costretti a casa abbiamo pensato di proporvi qualche articolo sui viaggi più belli pubblicati da Skialper. Per tornare presto in questi incredibili luoghi. 

Non è un bel gioco il Risiko. Non è istruttivo conquistare territori a destra e a manca a colpi di dadi e carrarmatini. Sono assolutamente convinto che esistano strumenti didattici migliori per studiare la geografia; anzi, la geografia la si dovrebbe studiare a partire dai fiumi, dalle montagne, dai mari, dai boschi, dalle pianure, dalle spiagge, dalla neve. Pensate che meraviglia un mappamondo della neve. Ad ogni modo, l’unico merito che si può riconoscere al Risiko è che tutti si ricordano della Kamchatka!

Io l’avevo già visitata, circa dieci anni fa, feci una vacanza di heliski. Si dormiva in città, a Petropavlovsk, si passavano ore in un hangar ad aspettare il bel tempo e, se poi eravamo fortunati, ci trovavamo su qualche pendio senza sapere esattamente dove. Elicotteri enormi, oblò piccoli, 25 persone: una funivia con le pale. Non mi era piaciuta l’esperienza nel suo insieme, ma la Kamchatka sì. La natura è meravigliosa e meritava un’altra chance. Così dopo qualche anno un bel gruppo compatto si è materializzato al check-in e siamo partiti alla conquista di questa terra lontana e misteriosa con in spalla un paio di sci, segno inequivocabile del nostro obiettivo: sciare. La penisola della Kamchatka è costellata da un’infinita catena montuosa dalla quale si ergono vulcani di tutte le dimensioni. Non sono tutti uguali: i crateri a volte si slanciano verso il cielo, quelli a cono, e non sono facilissimi da risalire. Anzi, più ci si avvicina al cratere, più è ripido e ghiacciato. Ci sono vulcani che implodono, creando caldere enormi.

In altre occasioni geyser e fumarole compaiono qua e là, rendendo la montagna più viva che mai e facendo capire che lì sotto c’è un cuore pulsante, ribelle e pronto a eruttare come un bambino dopo un sorso di Coca Cola. Vale veramente la pena sciare un vulcano: l’esposizione costante del pendio fa sì che le sciate siano infinite, non esistono punti intermedi dove fermarsi, si parte e si va... Le distanze tra i vulcani e l’enorme spazio che c’è intorno farebbero impazzire chi è affetto da agorafobia, queste distese bianche sono il sogno dello sciatore, ma gli avvicinamenti sono un po’ utopici senza qualche aiutino meccanico. Le motoslitte ci sono venute in aiuto e non poco, i dislivelli, importanti, superano i 2.000 metri e quelli non ce li ha regalati nessuno. È bella la Kamchatka vissuta lentamente, immersi nel nulla. In questi dieci anni la ruggine in paese non è cambiata, i sottomarini nella baia di Petropavlosk girano più indisturbati di prima, il mercato del pesce ha messo un tetto e si sono sviluppati dei lodge in luoghi remoti. Questa è la grande differenza, poter vivere nella natura senza dover ripassare dal via ogni notte.

La nostra sete di avventura ci ha portato oltre i lodge, a raggiungere un rifugio futuristico piazzato tra crateri fumanti. Eravamo ancora più isolati. Un giorno, durante una risalita, ci siamo imbattuti in un nugolo di elisciatori: l’elicottero è lo stesso di 50 anni fa, ma ridipinto. Sciatori e Guide, vestiti da mazinga della powder, che non c’è a maggio, erano più antipatici del solito. Sarà per il loro accento con la r moscia o perché ci chiedevano dei soldi solo per guardarli… l’incontro, che a volte è piacevole, questa volta proprio no lo è stato. Vabbè, godiamoci i vulcani, la natura che bussa alla nostra porta, tramonti pazzeschi e la nostra compagnia, senza la quale non vale la pena arrivare fin qua.

Paolo Tassi

 

Ruggine e geyser

Il bianco della neve e delle fumarole e il marrone delle vecchie strutture metalliche sono i colori predominanti di una vacanza con sci e pelli dove le distazne obbligano a usare motoslitte e fuoristrada per gli avvicinamenti

La Kamchatka è una penisola vulcanica che si estende ad arco nell’estremo Nord-Est della Russia, proprio di fronte all’Alaska. Se lo sguardo scende verso Sud, seguendo i vulcani come puntini che emergono dal mare, si arriva in Hokkaido, l’isola più a Nord del Giappone. I puntini che conducono al Giappone sono le isole Kurili e ogni puntino è un vulcano che si innalza per migliaia di metri dal freddo e profondissimo Oceano Pacifico settentrionale. Tutta questa striscia di terre emerse, che va dal Giappone fino al Nord della Kamchatka per oltre 3.000 chilometri, è stata creata da eruzioni vulcaniche e molti dei vulcani sono ancora attivi. Lo sono in Giappone, noto per le eruzioni e per le fonti termali, e lo sono anche in Kamchatka. Con la differenza che i vulcani della Kamchatka sono molto più grandi e attivi di quelli del Giappone e possono superare i 4.500 metri. L’altra sensibile differenza la fa il clima. La Kamchatka è più a Nord e quindi se uno pensa che gli inverni in Hokkaido siano particolarmente freddi e ventosi è solo perché non ha mai avuto a che fare con il clima della Kamchatka. Nella parte meridionale della penisola le temperature medie invernali sono inferiori ai meno 10 e le precipitazioni annuali superano i 2.000 mm di acqua l’anno, molta della quale cade sotto forma di neve. A fine aprile, quando siamo stati nella zona Sud della penisola, c’erano ancora due metri di neve al livello del mare. Quando questa neve si scioglie crea fiumi impetuosi e immense zone paludose che impediscono il movimento via terra. Considerando che la Kamchatka è unita alla Russia solo nella sua parte settentrionale, è facile capire che non sia accessibile via terra, sia d’inverno che d’estate. Questo isolamento ha fatto sì che fino all’inizio del secolo fosse abitata da meno di 10.000 persone, la metà dei quali autoctone. Successivamente, vista la posizione geografica a ridosso dell’Alaska, è stata utilizzata come zona militare ed è rimasta chiusa anche ai cittadini sovietici fino al 1989 oltre che aperta ufficialmente agli stranieri nel 1990.

La città principale, che contiene quasi la metà dei 300.000 abitanti, è Petropavlovsk che è raggiungibile con voli aerei dalla Russia e, pare, con un traghetto che arriva dal Giappone. Già nel sorvolare la città si capisce che è un luogo fuori dagli schemi. Quelle che sembrano delle navi che solcano la baia sono invece dei sottomarini nucleari visto che il porto è una delle basi principali della flotta russa. Anche l’aeroporto è parecchio inquietante con le decine di aerei da guerra sparsi alla rinfusa e il piccolo hangar coperto di filo spinato che fa da terminal. La città è un susseguirsi di palazzoni squadrati e decadenti. Il colore predominante è il ruggine. Tutte le strade sono contornate dai tubi spelacchiati per il teleriscaldamento. In questo luogo dimenticato dal tempo l’attrazione più suggestiva è il cimitero dei sottomarini. Decisamente non si va in Kamchatka per visitare la città! In ogni modo proprio dalla strada principale partono degli impianti da sci che offrono un’alternativa. Ci si può rilassare e recuperare il jet-lag facendo qualche curva in totale solitudine perché sembra che lo sci non interessi molto ai russi. La migliore sorpresa in positivo è fornita dal mercato del pesce. Pare che un quinto dei salmoni di tutto il mondo nascano in Kamchatka e soprattutto qui si trovano i pregiatissimi salmoni rossi che sono eccezionali da mangiare, sia crudi che affumicati. In Kamchatka si pescano inoltre i granchi reali, dalle dimensioni veramente gigantesche e dal sapore eccezionale. Il cibo migliore della città è proprio il pesce e siamo rimasti piacevolmente sorpresi dall’ottimo sushi. Ma la cosa che rende unica Petropavlovsk sono i vulcani che spuntano ovunque si volga lo sguardo. Già appena atterrati ci si sente piccoli piccoli al cospetto delle vette dell’Avačinskij, Kozelskij e soprattutto Korjakskij che, come una perfetta piramide, si erge dalla pianura fino a oltre 3.400 metri di quota.

Noi abbiamo sciato quattro vulcani (Avachinsky, Viluchinsky, Mutnovsky e Gorely) più altre montagne più piccole, ma non più vicine. Per l’avvicinamento siamo sempre partiti da Petropavlovsk anche se sono stati necessari dei pernottamenti intermedi in rifugi o bivacchi. I mezzi utilizzati sono andati dal gatto delle nevi giapponese anteguerra, al gippone bigfoot con ruote gigantesche, al camion Kamaz con ruote ancora più grandi; e soprattutto abbiamo percorso tanti chilometri in motoslitta. Questo perché i vulcani, anche se sembrano vicini, sono in realtà molto distanti tra di loro e se non si è campioni di sci di fondo sono necessari alcuni giorni di pelli per arrivare alla base.

Il primo vulcano che abbiamo salito è stato l’Avachinski (2.740 metri). Per raggiungere la cima è necessario fare base al villaggio di container che chiamano enfaticamente campo-base e che si trova a circa 700 metri di quota. Da qui si parte anche per raggiungere la cima del Korjakskij la cui salita è di ben 2.700 metri di dislivello e che quindi solo i più allenati riescono a fare in giornata. Il campo lo si raggiunge con un vecchissimo gatto delle nevi giapponese. Il villaggio è gestito da un caratteristico energumeno locale che gira nella bufera in maniche corte. Consiglio: viste le sue dimensioni e il caratterino, meglio non farlo arrabbiare. Il campo è provvisto di una sala mensa in un container più grande dove ci si può sfidare in lunghe partite di ping pong durante le non infrequenti bufere. La linea di salita è molto evidente considerando che la cima del vulcano si vede lungo tutto il percorso. Nella parte superiore, come in molti casi, la neve è troppo dura e ghiacciata per essere sciata. Il cratere è attivo ed è meglio stare attenti alle fumarole che escono dal ghiaccio perché possono aprirsi sotto ai piedi e farvi cadere in buche sulla cui profondità è meglio non indagare. Per la discesa, una volta finito il pendio sommitale, l’opzione migliore è quella di scavallare il crinale e sciare sui bellissimi pendii di fronte al Korjakskij, fino al passo Avacinsky e da lì per facili pendii verso le baracche.

Per il Viluchinski (2.173 metri) è necessario fare base nel piccolo e lussuoso resort di Snow Valley che si raggiunge con dei macchinoni o dei camion con le ruote giganti. Questa zona è il paradiso delle motoslitte che pare siano lo sport preferito dei locali. Per fortuna di solito si arenano nei fondovalle e tutto il resto delle montagne rimangono a disposizione dei pochissimi scialpinisti. Il villaggio è veramente lussuoso, con tanto di terme naturali e un piccolo impianto di risalita privato che viene acceso su richiesta dei clienti. Il pendio è però brevissimo, ma per fortuna proprio di fronte si erge, come una splendida piramide, il Viluchinski. Sembra vicino, ma per arrivare alla base ci vuole un’ora abbondante di motoslitta. La salita si fa inizialmente con le pelli per poi passare a picca e ramponi nella parte finale che è troppo ripida per essere salita con gli sci. Dalla cima si gode di un panorama incredibile. Per scendere ci sono varie possibilità. Noi abbiamo optato per la parte opposta rispetto alla salita, in un largo vallone di oltre 1.500 metri di dislivello con una pendenza costante sui 30-40 gradi che va a diminuire quando si arriva verso il fondovalle. Un pendio enorme e perfetto per essere sciato.

© Martino Colonna

Da Snow Valley abbiamo proseguito sulla pista che porta verso la centrale geotermica di Mutnovoskaya. Quattro ore di motoslitta in un ambiente lunare e dalla bellezza abbagliante che ci ha fatto dimenticare il freddo mostruoso subito durante il viaggio. Una volta arrivati in prossimità del vulcano Mutnovsky c’è una specie di rifugio/bivacco che ricorda una navicella spaziale o una scultura futurista. Il rifugio ha all’interno delle specie di materassi mangiucchiati e poco altro. Però offre una vista pazzesca ed è abitato da una bellissima e sociale volpe rossa. Da qui si può risalire il pendio subito alle spalle per poi svalicare nel vallone della centrale geotermica che è caratterizzato da una serie di bellissime colonne di vapore che escono direttamente dalla neve con un effetto che lascia a bocca aperta. Non bisogna però farsi stregare dalla bellezza del posto perché è necessaria una seconda salita per rientrare al rifugio.

L’ascesa del Mutnovsky (2.322 metri) è molto semplice: basta seguire la direzione dell’unica spaccatura che permette di entrare nella caldera del vulcano. Una volta entrati in questa profonda valle si apre una vista che lascia sbalorditi: fumarole escono ovunque dal terreno e due grandi colonne di fumo salgono da due crateri che si trovano all’interno della caldera principale. Il resto della caldera presenta pendii perfetti per essere sciati con una neve, vista la protezione dal vento, che è spesso molto bella e polverosa. Sciare nella polvere dentro la caldera di un vulcano attivo è qualcosa di unico e penso mi resterà nella mente per sempre. Dal rifugio, scendendo verso valle per alcune centinaia di metri, si raggiungono i pendii dell’enorme vulcano Gorely (1.800 metri) che a differenza degli altri non ha la classica forma piramidale, ma è più simile a un’enorme collina con sopra una gigantesca caldera. I dolci pendii permettono una sciata rilassata anche se a dire il vero noi non eravamo così rilassati in considerazione delle tante e recenti orme di orso che abbiamo incrociato durante la salita. Dalla cima si scende in direzione del passo che porta fino a Snow Valley dove ci attendeva l’ultima cena a base di granchi reali e tanta Vodka per brindare a un posto di una bellezza unica e primordiale.

Vista la complessità dei trasporti tra una zona e l’altra è consigliato affidarsi a un’agenzia locale. Noi abbiamo scelto di appoggiarci all’amico Grigory Mintsev, che avevamo già conosciuto in Siberia, e alla sua agenzia Skiing in Kamchatka. Il nostro tuttofare-cuoco-fotografo-sciatore Denis Lomakin è una di quelle persone che vorresti sempre con te in una spedizione. Vista la variabilità del tempo, la forza dei venti e la lontananza dalla civiltà è consigliato avere con sé una guida esperta. Paolino Tassi (poltassi@gmail.com) organizza ogni anno un viaggio in Kamchatka e di sicuro con lui non vi annoierete mai!

© Martino Colonna

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Orotovox: avviso precauzionale di sicurezza per le cartucce al carbonio degli Avabag

Ortovox ha emesso un avviso precauzionale di sicurezza per le cartucce al carbonio degli airbag Avabag. A seguire riportiamo il comunicato stampa dell'azienda.

Purtroppo abbiamo dovuto constatare che nelle CARTUCCE AL CARBONIO AVABAG ORTOVOX prodotte in un determinato periodo, in casi isolati, può verificarsi una perdita di pressione.

Ciò è dovuto a un difetto dell’adattatore della cartuccia. In circostanze sfavorevoli ciò può compromettere la forza di sgancio del sistema airbag AVABAG. Sono interessate solo le cartucce di una serie di produzione con un adattatore blu scuro. Tutti gli altri adattatori della cartuccia (blu chiaro e argento) provengono da altri cicli di produzione e non sono interessati dall’avviso di sicurezza. Un'eventuale perdita di pressione della cartuccia può essere identificata in modo affidabile con un test di pesatura della cartuccia da effettuarsi prima di ogni utilizzo del sistema. Al fine di escludere qualunque rischio ricordiamo ancora una volta in via precauzionale che il peso della CARTUCCIA AL CARBONIO AVABAG deve essere assolutamente controllato con un test di pesatura prima di ogni utilizzo di uno zaino airbag AVABAG. Puoi trovare una descrizione dettagliata di questo test nelle istruzioni per l’uso contenute in ogni zaino airbag AVABAG nonché al LINK. Se le cartucce non fanno riscontrare alcuna perdita di pressione durante il test di pesatura possono essere utilizzate immediatamente senza alcun problema. Le cartucce interessate dalla perdita di pressione possono essere sostituite dal rivenditore specializzato. Tutte le informazioni e le istruzioni per il controllo della propria cartuccia possono essere richiamate sulla homepage di ORTOVOX al seguente LINK. Il servizio di assistenza di ORTOVOX può essere contattato per email all'indirizzo avabag@ortovox.com e telefonicamente al numero 0049-89-66675 215.