È un quadrilatero che ha come estremi Bad Haring, in Tirolo, Graz, in Stiria, il Monte Bianco e la Valtellina. Non c’è dubbio però che il caso abbia voluto che il Monte Bianco, il luogo che apparentemente c’entra meno con questa storia, sia stato determinante. Siamo agli inizi degli anni Ottanta. Uno studente di ingegneria di ritorno da una vacanza con un amico per arrampicare nelle Calanques passa da Chamonix. Guarda il Monte Bianco e, con quell’incoscienza tipica dei ventenni, non ci pensa due volte: perché non proviamo ad arrivare in vetta? I due scelgono di traversare dall’Aiguille du Midi, poi Tacul e Mont Maudit. Alla fine in vetta ci arrivano, ma devono battere traccia e quell’attrezzatura pesante – sci da due metri e attacchi da skialp con telaio – li distrugge più dell’intera vacanza nelle Calanques.

Passano meno di dieci anni, siamo alla fine degli anni Ottanta, più precisamente nel 1988. Nella valle di Chamonix si corre il Rallye du Mont Blanc. Tra i concorrenti la coppia Fabio Meraldi-Adriano Greco. Mentre stanno salendo con sci e pelli, il primo giorno, vengono entrambi fulminati da una visione. Stanno zitti, il fiato è poco e c’è da fare il tempo. Poi al termine della prova si guardano fissi negli occhi. Hai visto anche tu quello che ho visto io? Lungo il percorso hanno incontrato uno scialpinista senza attacchi. Senza attacchi, sì, giusto un puntalino piccolo piccolo e la talloniera ancora di più. In fin dei conti è quello che frulla nella loro testa da un po’ di tempo, bisogna separare il puntale dalla talloniera, ma come? Il primo anno alla Pierra Menta hanno usato il Silvretta 300 togliendo la talloniera e sostituendola con quella del rampone, ma la sicurezza? Dobbiamo assolutamente trovarlo si dicono, ma in una località come Chamonix è come cercare l’ago nel pagliaio. Il giorno dopo, durante la gara, incrociano ancora quello scialpinista. Nessuno dei tre parla una parola d’inglese, gesticolano, si fanno ampi cenni per ritrovarsi dopo la gara. E si ritrovano. Lo scialpinista è un austriaco, si chiama Fritz Barthel ed è quell’ingegnere che quando studiava era salito sul Monte Bianco, di ritorno dalle Calanques. È a Chamonix per incontrare un giornalista francese incuriosito dal suo attacco-non attacco. Fabio e Adriano rientrano in Valtellina e il giorno successivo partono subito in auto per il Tirolo, destinazione Bad Haring. Lì Fritz regala loro un paio di attacchini e uno scarpone Dynafit, un altro attacchino se lo comprano.

Nel 1989 Meraldi e Greco si presentano alla Pierra Menta con quell’attacchino con due pin per rendere solidale il puntale con lo scarpone e due spine alla talloniera. Ma i due valtellinesi fanno molto di più che usare quello strano aggeggio: danno consigli, vengono visti dagli altri agonisti italiani, la voce si sparge. In gara lo vogliono tutti. Centro Sport di Sondrio, di Gianni Rovedatti, inizia a distribuire il modello in Italia, che diventa uno dei mercati più importanti. I valtellinesi provano anche ad alleggerirlo ulteriormente andando da una guardia giurata del carcere di Tirano che si diletta con lavoretti di tornitura e ne realizza un esemplare in ergal. La talloniera è ok, ma il puntale si rompe… «Tra gli ingegneri meccanici esiste uno scioglilingua: se conosci la plastica, usa l’alluminio e se conosci l’alluminio, usa l’acciaio. Non volendo aggiungere materiale, ho usato l’acciaio.» dice Barthel. Il sodalizio con il mondo degli atleti italiani funziona. «Non sapevo quanto fosse grande il mondo delle gare in Italia e poi voi siete più aperti alle novità. È buffo, ma comunque lo provo mi dicevano in Italia, mentre in Austria la risposta era categorica: non funzionerà mai. Così una volta mi sono ritrovato a passare otto ore alla dogana di Vipiteno per esportare sei paia di scarponi» aggiunge Barthel.

Flashbak, 1984. Nella cantina di Bad Haring quel testardo studente d’ingegneria lavora senza sosta per realizzare la sua idea: un attacco da scialpinismo leggero, senza telaio, separando puntale e talloniera.
Fa vari tentativi. Capisce che deve contare su un intero sistema scarpone-attacco, più che sul solo attacchino. L’università dove studia è a Graz e lì – guardacaso – c’è anche una fabbrica della Dynafit, che produce scarponi da skialp. Per realizzare i fori che alloggiano i pin anteriori le prova tutte, ma rovina irrimediabilmente i suoi scarponi. Un giorno prende la bici e va in Dynafit. Riesce a farsi dare qualche scafo degli scarponi Tour Lite per i suoi esperimenti. Arriva perfino a scollare le suole, ma niente, capisce che bisognerebbe creare quella modanatura nella fase di iniezione del materiale plastico. Ecco allora che in questa storia interviene il quarto uomo, il padre di Fritz. È uno scialpinista, grazie ai primi prototipi riesce a stare al passo dei suoi amici più giovani. Un giorno si spinge fino a dire al figlio che quell’attacchino lo ha ringiovanito di 15 anni. E così mette mano al portafoglio per fare modificare lo stampo, e non sono pochi soldi. E in quel 1984 viene depositato il primo brevetto. Manca solo il nome. È l’epoca dei personal computer e dell’high tech, quel prodotto che toglie, più che mettere, e che fa della semplicità la sua arma vincente non può che chiamarsi Low Tech.

Fritz Barthel in un’immagine di qualche anno fa

Barthel prende la sua creatura e inizia a bussare alla porta dei grandi marchi dello sci. Per il suo brevetto chiede l’equivalente di 2.000 euro, ma nessuno vuole metterci quei pochi soldi per un prodotto che nella migliore delle ipotesi potrebbe interessare l’uno per cento del mercato. Così inizia a produrlo e commercializzarlo lui. Il primo anno ne vende uno, poi dieci, poi 40. Tra il 1986 e il 1990 arriva a quota mille, tutti stipati in casa. Un giorno bussano alla porta. È un acquirente, ma non di un singolo attacco. Arrivano dalla Dynafit e si garantiscono i diritti esclusivi sull’attacchino, lasciando a Fritz il brevetto. «Ho sempre pensato che l’attacchino fosse per pochi pazzi, ma non sapevo che fossero così tanti, però i primi proprietari di Dynafit a credere nel Low Tech sono stati quelli di Salewa, il successo è legato ad alcune persone in particolare, Heini, Reiner, Beni (Oberrauch, Gerstner e Böhm, ndr) e pochi altri che hanno reso lo scialpinismo cool». Da allora l’attacchino è diventato lo standard, ben oltre le gare, ed è arrivato sulle vette più alte del mondo, scendendo dai pendii più ripidi. «Credo che i pin resisteranno ancora, ma la storia dice che i sistemi vengono sostituiti da altri sistemi migliori e dubito che sarò io a fare il prossimo passo, non è giusto che lo faccia un vecchio testardo: giovani, fatevi avanti!». È proprio vero, tutto questo non sarebbe stato possibile senza la testardaggine di quell’ingegnere austriaco, due garisti valtellinesi, un’azienda austriaca (che poi sarebbe diventata di proprietà italiana, guardacaso). E al Monte Bianco.

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