Il cielo in una stanza
Lui dice che così si gioca il jolly. Uno a settimana, il sabato. Quel giorno può andare, può fare quel che vuole. Ma la domenica no: quella è tutta per Anna. E a lei non si può negare nulla. Ma a Roberto Munarin un giorno basta e avanza. Per anni e anni, con un jolly ogni sette giorni ha fatto cose che tanti umani neppure in una vita. E comunque, ora che è tempo di abbassare le luci sul lavoro da consulente tessile esperto di stile, chissà che qualche altra matta esca dal mazzo. Che ci sia tempo per fare ancora di più. Chissà. Fra un settebello e un asso di cuori, la carta che vince non cade mai troppo lontano. Munarin la getta sempre lì. Intorno alle montagne di casa, quelle di sempre. Per lui, 59 anni, gragliese trapiantato a Muzzano, gioiellino dell’Alta Valle Elvo biellese, l’ombra del Mucrone è il cielo nella stanza. Il tetto sulla testa. E una vita intera a pestare rocce, neve, ghiaccio e terra fra questi stessi punti GPS non è bastata a stancarlo. Né, è sicuro, lo stancherà mai. Da San Carlo al colle Carisey, dal Giassit al Camino, alla Nord del Mars, al Mombarone, fino alla valle Oropa e poi ancora e ancora, se un Pollicino avesse raccolto tutte le briciole lasciate a terra da Munarin in quasi quarant’anni di strada, ne avrebbe fatto una montagna. Una grande montagna ripiena di dieci, cento, millemila avventure.
Di scalate, chiodature, salite con gli sci, ravanate, scoperte, linee nuove e discese ripide. Farcita di aperture, sistema- zioni, bonifiche, camminate e ciaspolate. E insaporita di piccozzate, vie ferrate, escursioni e sciate in solitaria. Una ricetta che nessun altro da queste parti, sulle Pennine che guardano a Biella, ha mai saputo amalgamare fino a questo punto. E che per Munarin, con la modestia che da sempre si porta nello zaino, altro non è stata che un viaggio fatto in punta di piedi. Nel silenzio. E nel rispetto di un ambiente che, lo ripete come un mantra, di ogni alpinista resta sempre più forte.
Lui le chiama le scolastiche. In un mondo in cui le tentazioni strizzano l’occhio alla vanità e offrono palcosce- nici di parole, Munarin torna con la mente alla scuola. I banchi in cui ci si sedeva e da cui si ascoltava, si imparava. E si cresceva. Ogni uscita, anche con quattro decenni di montagna alle spalle, anche con un curriculum che conta un titolo da istruttore sezionale del CAI di Biella, nonché uno da vicecapo della stazione Valle Elvo del Soccorso alpino, oltre a lunghi anni da chiodatore e apritore di vie, realizzatore di progetti inediti, attività invernali e più di 120 salite e discese in solitaria, anche con tutto questo in tasca Munarin continua a sentirsi uno scolaretto. «Le mie non sono imprese, ma una ricerca vera. Un modo profondo e sincero di apprendere gli insegna- menti della montagna ed entrare a far parte del suo mondo. Esperienze che vivo in punta di piedi per cogliere le più piccole sfumature, con umiltà. Nella coscienza delle mie paure, compresa quella di non essere accettato, di sentirmi un estraneo e dover tornare sui miei passi, e nella consapevolezza che saprei sempre accomiatarmi con profondo rispetto».

Guidato da questo approccio slow, quasi meditativo, Roberto Munarin con il tempo si è reso uno dei più originali e innovativi alpinisti della scena biellese. Uno sportivo sui generis. Che non ha guardato alla montagna per farne reddito e pure ne ha percorso i tratti con la stessa intensità di un professionista. Anni di lavoro partiti quasi in sordina con la formazione classica del Club Alpino, poi il primo gradino istituzionale. Istruttore di alpinismo, arrampicata, cascate di ghiaccio per la scuola Guido Machetto del CAI concittadino di Quintino Sella. Quasi vent’anni da docente e, nel frattempo, l’esperienza nel soccorso e l’incontro folgorante con Tito Sacchet, precursore dell’arrampicata in quella mecca diventata la bassa Val d’Aosta. Con lui Munarin inaugura la stagione delle chiodature, rigorosamente dal basso. Mettono per primi il trapano tra le fessure di Mitico Vento a Machaby, poi si spostano ad esplorare i settori inediti di Outrefer e Albard. Per Roberto è il colpo di fulmine, lo sbocciare di una passione che a tutti i costi sente di dover trasferire ai suoi monti. Alla sua casa. Nasce così l’idea: un gruppo chiodatori tutto biellese, da mettere all’opera nella verticalità che ha visto perfezionarsi talenti unici. Da Guido Machetto a Nito Staich. «Quanto mi impressionavano quei salti di roccia che scendono dal monte Tovo e che raccontano decenni di storia alpinistica della mia terra - ricorda Munarin - Strutture e sentieri gloriosi lasciati in stato di abbandono, non solo per la scarsa conoscenza dei luoghi, ma anche per il pionierismo delle lontane chiodature. Qualcosa di ormai troppo distante dalle esigenze di sicurezza degli arrampicatori moderni». Insomma, è tutto da rifare.
Tutto da sistemare. Tutto ancora da inventare. E così, nel 2005, la macchina si accende.
La prima via, Ai Event, chiodata con l’amico Aldo Echerle, apre il gas. E poi via, come siluri. In appena cinque anni, con centinaia di giornate di lavoro, nella sola Conca di Oropa quasi centosettanta tiri di corda vengono chiodati in undici settori e decine di vie diventano realtà. Rinascite. Battesimi ex novo. Sono linee che si disegnano sulla misura di chiunque. A disposizione di chi le voglia provare e rivivere, dalle più classiche alle grandi novità.

Brevi e lunghe, facili e difficili, tutte sono unite dal filo di un nome che inizia sempre allo stesso modo: Ai. Come Ai Gat ad Piumb, il gruppo di questi nuovi chiodatori. Stesso prefisso, due vocali, in una forma di rispetto anche simbolico verso la montagna. «Un modo di chiedere il nostro permesso» chiarisce Munarin. È un’attività senza alcuno scopo di lucro. Lui, il fondatore, non vuole lasciare che ci siano sospetti su questo. Con gli aiuti dei sostenitori e degli amici, che donano materiale, e con spese annue di poche centinaia di euro, la Conca si arricchisce di tutto ciò che non aveva mai ricevuto da nessuno. Per Roberto Munarin - che all’attivo oggi tiene nel cassetto oltre 1.200 tiri di corda, ben più del solo progetto realizzato nell’area protetta del Santuario mariano - è la ciliegina sulla torta. La soddisfazione, sapendo che il dolce vero resta fatto di tanti altri ingredienti. Lasciato il trapano, dal mazzo spuntano i jolly giocati con la corda. Con le piccozze. Con i ramponi.
E soprattutto con gli sci. Nel corso degli anni Munarin colleziona un numero spropositato di salite e discese. Misto, ripido, invernale puro, nella lunga ricerca ce n’è per tutti i gusti.
E il poker scende con le realizzazioni più ardite: quelle inedite e le solitarie. Solo di queste ultime il biellese ne colleziona oltre un centinaio. E ancora non si ferma. «Sono i momenti in cui sono più me stesso. Da solo, con le mie montagne. E per forza di cose è lì che la preparazione diventa quasi maniacale. Soprattutto nel periodo invernale, quello che di gran lunga prediligo, è tutto un pianificare. Ricercare la linea della salita, della discesa, individuare il passaggio impossibile fra le rocce, il pendio più addomesticabile, l’attacco, l’uscita». Non sempre tutto è facile. Spesso è un gran gioco di incognite e difficoltà. A volte, anche di rinunce. Ma lui lo dice: «Qui non c’è niente di commerciale. Niente da vendere. Questo modo di vivere la montagna va semplicemente oltre il gesto atletico e rappresenta un mio modo di stare a stretto contatto con l’ambiente e la natura selvaggia che mi circonda». Niente di più.
L’unica vetrina verso il mondo è un sito web. Raccolte con la cura di un padre, tutte le immagini delle avventure di Munarin si srotolano lungo una stessa pellicola. Fotogrammi di un unico sogno. La solitaria alla parete Nord del Mombarone, la vedetta della Valle Elvo, quella alla Nord-Est della Punta Tre Vescovi, quella alla Nord del monte Roux. Lui racconta che ogni volta è un crescendo di emozioni. «La settimana prima del grande giorno i collegamenti web non si contano. Controllo continuamente l’evoluzione del meteo, analizzo tutti i siti che conosco. Incrocio i dati. E intanto tengo sempre fra le mani le foto del mio progetto. In auto, a pranzo, a cena, sul desktop del computer: ogni momento è buono per ripassare i compiti. Poi arriva il momento delle riflessioni. È quasi ora. E io divento taciturno, assente. Anna lo sa. E ogni volta capisce al volo che qualcosa bolle in pentola». Ma la scolastica vince sempre. È lei la più forte. Il grande giorno l’essenziale è fatto di poche cose: una colazione che è quasi un pranzo, uno zaino che riduce al minimo i pesi e un cuore tormentato di emozioni. «Me lo chiedo ogni volta. Ma chi me lo fa fare?».
E nessuno la risposta la sa. «Poi arrivo all’attacco, indosso l’imbrago, calzo i ramponi, metto gli sci nello zaino, controllo di avere tutto. E parto. È il momento in cui divento una cosa sola con la mia montagna: la tensione si allenta, sento l’abbraccio della parete e non mi sembra più di essere solo». È l’apoteosi dell’alpinismo introspettivo. Una specie di catarsi. Che però non fa sconti, e impone di mantenere sempre le antenne dritte. «Alterno passaggi facili che supero in conserva ad altri più alpinistici, che affronto in autoassicurazione - spiega Munarin -. È un’armonia fatta di perfetta concentrazione e veloce progressione: i due requisiti fondamentali per conquistarsi il diritto, a patto che la montagna lo voglia, di toccare la cima».

Una vetta, però, non è mai in tasca finché non si torna dove si è partiti. Così dice la storia. E Munarin a queste parole crede dal profondo. «Non deve essere cima a tutti i costi. Non mi importa. L’essenziale è coltivare un’idea, immaginarla, farla propria e tentare il possibile per realizzarla». Ecco perché, al di là delle uscite solitarie, ogni jolly giocato dal Maestro - come tanti amici ormai lo chiamano - è il punto di arrivo di uno studio. Di una proiezione mentale. E mai di una banale esecuzione meccanica di gesti. Anche l’ultimo asso calato è figlio di questa logica, Ai fil di cresta. Sempre Ai. Sempre una linea. Sempre un’idea nuova alla base. Una traversata a fil di cresta dalla Colma del Mombarone al Monte Barone, l’Ovest e l’Est delle Alpi Biellesi, passando per la locale Alta Via e per la montagna regina, il Mars (2.600 m) e poi ancora per il Cresto e la Valle Cervo, il Bo e le linee fra Valsessera e Oasi Zegna. Un sogno nuovo, da rendere vero a puntate. Con calma. Con i compagni giusti, la preparazione adeguata e con sci e pelli. E se qualcosa, a dirla tutta, è già diventato realtà, altro lo diventerà nei tempi a venire. Quando il destino lo vorrà. Per Munarin, in effetti, non conta correre, conta solo vivere. E ora che i jolly spunteranno dal mazzo senza più obblighi di lavoro a intralciare, ogni singolo giorno potrà finalmente essere quello buono. Pronto a spargere il profumo della vita da divorare. Dell’ossigeno da inseguire. E dei sogni da coltivare.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 128

Arianna Tricomi, go with the flow
Sono passate un paio di settimane da quando ho intervistato Arianna nella sua casa di Corvara; potrei dire per un caso fortuito, o più che altro sfortunato, visto che vi si trovava a causa di un infortunio alla caviglia che pareva serio e in grado di tenerla lontana dagli sci e dal tour. Dopo queste due settimane Arianna, quando ho scritto questa intervista, era in testa alla classifica generale del Freeride World Tour, avendo dominato la tappa di Fieberbrunn. Non si possono fermare gli healing vibes della famiglia del Tour a quanto pare...
Ciao Arianna, come prima domanda vorrei chiederti perché molti atleti rimangono al Tour molte stagioni, anche se hanno già vinto il titolo. Non sarebbe più fico scegliere la strada del filming e creare contenuti di alto profilo con case come Teton o Matchstick?
«Il punto principale è che passare dal Tour al filming non è scontato, è riservato a pochi atleti, che hanno queste opportunità per una combinazione di sponsor, personalità interessanti e richiesta delle stesse case di produzione; oltre ovviamente a un livello tecnico al top. Quindi sebbene al Tour gli skier e snowboarder siano il meglio del meglio, solo pochi riescono a passare al mondo del filming; per gli altri rimane l’unica reale possibilità di essere pro. Un aspetto che non traspare dall’esterno è che siamo una famiglia: il Freeride World Tour diventa questo gruppo di personaggi che gira il mondo insieme, condivide trasferte, gare e giornate in powder, già solo questo è di per sé un ottimo motivo per ripresentarsi anno dopo anno allo start. Ognuno è libero di vivere come vuole, di organizzarsi come meglio crede, sia per quanto riguarda gli aspetti logistici che gli impegni in calendario, allenamenti compresi. Nessuno ti dice quello che devi fare, non ci sono le federazioni di mezzo ed è forse l’unico ambiente rimasto un po’ punk rock in tutto lo sci. Il Tour ti dà tanto, sia in termini di visibilità che di opportunità, quindi va solo apprezzato, a prescindere dai voti dei giudici. Rimanere all’interno di questa cerchia è l’unico modo per molti per vivere di sci ed è una rampa di lancio per le nuove generazioni».
Questa cosa effettivamente non si coglie dallo streaming, che negli anni passati è sempre stato il tallone d’Achille, con dirette eterne e il giudizio sempre opinabile dei giudici a creare del malcontento.
«Certamente i giudici non sono infallibili e molte volte si accorgono loro stessi di avere commesso errori, però cercano sempre un miglioramento dei criteri, anche con vari meeting dove sono presenti i rider. Organizzare il World Tour non è cosa da poco a livello economico, lo streaming è tutto per la sua divulgazione e i giudici subiscono pressioni per velocizzare il processo di valutazione e per rendere più fluido lo spettacolo. Il lavoro che viene svolto è da rispettare e apprezzare e se alla fine della gara sei scontento del punteggio, ci sta. Però devi ricordarti che il gioco è questo, se vuoi farne parte, che i rider sono importanti, ma sono solo un pezzo dello show. Uno show che deve filare il più veloce possibile per piacere. Purtroppo alla fine sono sempre i soldi che comandano».
Secondo te il judging ha contribuito a fare chiudere il gas ai rider, penalizzando i backslap?
«Agli skier uomini no di sicuro! Loro è meglio tenerli a bada che sennò veramente esagerano (ride). E comunque vanno sempre molto forte, sempre al limite. Certo, a volte i backslap penalizzano cliff o trick stilosi perché atterrati un po’ al limite, però quello che si cerca di premiare è sempre lo stile e la misura, dando più punti a chi si distingue. Il judging sarà sempre il limite, perché comunque va applicato a diverse interpretazioni della montagna date da background diversi. L’unico aspetto che forse limita la progressione dei rider durante il Tour è il fatto di passare molto tempo lontano dalla neve a causa degli spostamenti e del down time quando le condizioni non permettono di sciare e gareggiare; questo non aiuta affatto a dedicare il tempo necessario a imparare e perfezionare i trick e lo stile. Cercare di rimanere integri durante la stagione senz’altro ti limita nello spingere».
Quindi come scegli la tua linea, la costruisci per raccogliere più punti, sapendo cosa guardano i giudici?
«Assolutamente no, scelgo la linea che più mi ispira e che più rispecchia il mio stile e il mio background, fatto da sci alpino e freestyle-slopestyle. I giudici ti conoscono e lo vedono se ti perdi, se scegli una linea che non ti rispecchia. Molti dei giovani che arrivano dalle gare FWQ Juniors sono più abituati a questa tipologia di gara e sono già specializzati, puntando ogni tanto a ciò che dà più punti, anziché all’estetica della linea e alla propria voglia di sciarla quella determinata linea».
Sei tornata da poco da Jackson Hole, dove sei stata invitata alla jam/gara sul famoso Corbet’s Couloir, che ti ha visto al secondo posto, che esperienza è stata?
«È stato bellissimo! Abbiamo ricevuto una super accoglienza per una settimana intera, condizioni top per girare con gli amici e spingere. La gara in sé consisteva in due run per rider, giudicate poi dagli stessi rider in una video session un paio di giorni dopo, con tanto di birrette per completare il tutto. Questo formato è stato molto divertente, all’ameri- cana, con il pubblico che urlava e gasava in partenza, dove ognuno poteva decidere come droppare, costruendo anche il proprio kicker. Ho avuto la possibilità di concentrarmi di nuovo di più sui trick e proprio all’ultimo giro dell’ultimo giorno sono caduta su un 360 infortunandomi alla caviglia già malconcia».
A proposito di progetti, il tuo film La luce infinita come è andato?
«È andato molto bene, credo che sia stata un’espe- rienza unica, qualcosa che difficilmente si potrà replicare: una crew di amici, le musiche realizzate in casa. Purtroppo le cose ora sono cambiate e i miei amici hanno impegni, non hanno tutti la possibilità e il budget per prendersi del tempo e filmare».
E quindi niente più filming? O qualcosa bolle in pentola?
«In realtà ci sarebbe qualcosa di più o meno segreto, qualcosa di importante. Vedremo in primavera, mi piacerebbe tornare in America, un viaggio di rivincita visto che l’ultima volta a Mammoth mi sono rotta una vertebra!».
Non ti voglio far sbottonare troppo, però è chiaro che tutto questo sarà possibile, oltre che per le tue qualità, anche grazie all’apporto fondamentale degli sponsor...
«Certo, forse non tutti lo sanno, ma funziona cosi: la casa di produzione vuole uno skier rappresentativo, ma la sua parte, che ha dei costi molto alti, viene finanziata dagli sponsor e dal rider stesso, che
- diciamo - investe su di sé. Io posso essere contenta di avere degli ottimi sponsor e mi reputo molto fortunata, un grazie va senz’altro al mio manager che mi dà una mano enorme».
Questa domanda è doverosa: il tuo background? Forse non tutti sanno che arrivi prima dallo sci alpino e poi dal freestyle.
«Come tutti i bambini della valle ho cominciato con lo sci club e le gare della zona però, per farla breve, non era tanto il racing in sé che mi ha stufata, ma il fatto di essere in un mondo con troppe regole e costretta a fare solo ciò che diceva l’allenatore; a me piaceva fare i salti e scappare nei boschi o in park, non volevo sentirmi limitata».
—
Qui interviene la madre di Arianna, Cristina Gravina, olimpionica di discesa libera a Lake Placid: «Arianna faceva incavolare gli allenatori perché o si faceva i fatti suoi o non si presentava agli allenamenti e poi alle gare andava forte e batteva gli altri bambini, figurati i genitori... Una volta aveva avuto la possibilità di andare col club a Les 2 Alpes a fare allenamento e nella sacca degli sci aveva nascosto quelli da park: un giorno l’allenatore mi chiama e mi chiede dove sparisce tutti i giorni Arianna alla fine degli allenamenti!».
Un talento rubato allo sci alpino? «Mah, forse, però ha fatto bene cosi! E comunque per un motivo o per l’altro solo in poche della sua età sono andate avanti (Sofia Goggia per dirne una!)».
—
Una giovane ribelle già da piccola quindi. Di conseguenza il freestyle si addiceva di più alla tua personalità.
«Esatto, all’inizio l’ambiente del freestyle era super punk, ognuno faceva quello che voleva ed era libero di esprimersi liberamente, ma poi anche lì con l’arrivo della FIS e delle federazioni siamo tornati da capo: l’ambiente è cambiato e molti hanno mollato, come me e Markus Eder; con l’arrivo delle Olimpiadi sono apparsi sulla scena skier che non hanno mai costruito un kicker in vita loro, che non si sono sbattuti, attirati solo dai Giochi e dai benefici che possono portare. Ora questi park skier si allenano come matti in park e sui tappeti, ma poi se devono tornare a valle preferi- scono montare in cabinovia piuttosto che sciare (ovviamente questo non vale per tutti i freestyler). Dov’è la passione per lo sci? Le leggende che hanno spaccato nel freeski, come Tanner Hall o Candide Thovex, presenti dal giorno uno di questa rivoluzione, non torneranno più probabilmente, ora è tutto più incentrato sulla prestazione, è un vero e proprio sport e la progressione è molto più veloce. Come dicevo riguardo le nuove leve del Tour, ad alcuni giovani sicuramente manca il background fatto di sperimenta- zione e passione».
A proposito di Tanner, cosa vuol dire relazionarsi con molti di quelli che una volta, quando giravi in park, erano i tuoi idoli?
«Come dicevo, loro sono le vere leggende, adesso Tanner è un mio homie, ha una passione sfrenata ed è una persona speciale. È incredibile conoscere gente come lui e Sage Cattabriga-Alosa, essere sullo stesso piano di personaggi che hanno fatto la storia del freeski e del filming e vedere che sono delle rockstar anche come persone».
Oltre allo sci cosa ti piace fare? Hai qualche altro progetto?
«Mi sono laureata in fisioterapia a Innsbruck, dove ora vivo, quando non scio vado in mtb enduro, cammino e arrampico, vivo la montagna a 360 gradi. Un giorno forse mi piacerebbe insegnare e trasmettere la passione per lo sci ai bambini, senza limitazioni. Sempre se riuscirò a finire il corso Maestri di sci, in maniera più o meno legale!» (ride)
Words of wisdom finali?
«Respect the mountain! Prima di ogni cosa, sia per sperare che ci regali tanta neve e sia per quanto riguarda la sicurezza. E poi, andare col flow, non forzare mai, rimanere sani e senza infortuni».
Da quando ci siamo incontrati per questa intervista a quando l’ho scritta molte cose sono cambiate. La tappa finale del Freeride World Tour è stata cancellata a causa del virus bastardo e Arianna è stata incoronata regina per la terza volta. Noi speriamo che riesca ad andare avanti col suo progetto di filming, prima o dopo, se non altro avrà tempo di ristabilire la caviglia malandata, grazie anche alle sue nozioni di fisioterapia. Di un’ora e mezza di registrazione niente è stato cambiato, ma soltanto arrangiato per rendere più scorrevole la lettura. Dopotutto, come dice Arianna, go with the flow.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 129

Concatenamento Cervino - Dent d’Hérens per Cazzanelli e Maguet
Se ne parlava da tempo e, complice la stagione senza gare, ecco che si è formata una nuova coppia per imprese in velocità e con ingaggio alpinistico in quota. Qualche giorno fa François Cazzanelli e Nadir Maguet hanno concatenato in una sola giornata Cervino e Dent d’Hérens. «Quest’anno in assenza di gare ho voluto dedicare più tempo alla montagna e scoprire un mondo per me nuovo, quello dell’alpinismo e quando François mi ha proposto il suo progetto di concatenare in una sola giornata il Cervino e la Dent D’Hérens, le due montagne simbolo della nostra valle, non ho esitato nel dirgli di sì» dice Maguet. In totale 15 ore e 57 minuti per un dislivello di 4.300 metri con 35 chilometri di sviluppo.
Partenza alle 2,15 della notte tra il 20 e 21 agosto dalla chiesa di Cervinia (2.050 m), poi la scelta di due belle vie di roccia, la Diretta degli Strapiombi al Cervino e la Cresta est della Dent d’Hérens. L’itinerario ha toccato il colle del Breuil per attaccare il Cervino (4.478 m.) proprio dalla via degli Strapiombi di Furggen «Dopo 5 ore e 20 minuti dalla partenza abbiamo raggiunto la vetta e siamo scesi per la cresta del Leone fino al rifugio Duca D’Abruzzi - aggiunge Maguet - Da lì ci siamo trasferiti alla base della Cresta Albertini. Dalla base fino alla vetta delle Dent d’Hérens (4.171 m) ci abbiamo impiegato 5 ore. Successivamente siamo discesi dalla cresta Tiefenmatten fino al fino al rifugio Prarayer in Valpelline (2.055 m). Il tutto in totale autonomia portandoci dietro il nostro materiale».

Monsieur Mezzalama
Certe persone, più di altre, hanno la capacità di complicarsi meravigliosamente la vita, portando avanti progetti che, presi singolarmente, basterebbero già a riempirti la giornata. Adriano Favre è una di queste: Guida alpina, tecnico e responsabile del Soccorso Alpino, viaggiatore, alpinista himalayano, organizzatore del Mezzalama e una delle menti dietro al successo de La Grande Course, rifugista. Probabilmente da piccolo doveva essere uno di quei bambini iperattivi con le ginocchia perennemente sbucciate. Per intervistarlo sono andato a intercettarlo direttamente sulle montagne di casa, a Champoluc.
Ciao Adriano, come sei diventato Guida Alpina?
«Sono diventato Guida 45 anni fa, il primo della mia famiglia ma di sicuro non l’ultimo, visto che mio nipote Emrik è aspirante in questo momento. Gli anni passano, certo, ma la passione rimane forte lo stesso. A quell’epoca ci si arrivava quasi unicamente dall’alpinismo, anche se io ho avuto la fortuna di avere Giorgio Colli come mentore, che già allora praticava molto lo scialpinismo».
Quando hai cominciato a organizzare spedizioni?
«La prima è stata nel 1980 sul Churen Himal, per cercare di completare una via tentata da una spedizione di Paolo Consiglio una ventina di anni prima. Tornammo a casa senza la vetta, dopo aver provato a salire la via normale. Per completarla ci sono poi tornato nel 1993 e nel 2012: è stata una lunga storia! La prima spedizione su un Ottomila, invece, è stata al Kanchenjunga nel 1995, e la prima vetta il Manaslu nel 1996. Poi ne sono seguite altre, non sempre arrivando in cima: K2, Shisha Pangma, Dhaulagiri, Annapurna e per finire l’Everest, nel 2005. Dopo ho continuato a vivere l’Himalaya in modo più tranquillo, portando i clienti a fare trekking o alpinismo a quote inferiori. Ho cominciato a lavorare con i viaggi organizzati in Nepal nel 1988 e oggi posso considerarla una seconda casa. Ora ho terminato il mio mandato da direttore del Soccorso Alpino Valdostano, ma continuo ad occuparmi del coordinamento di alcuni settori a livello nazionale, tra cui quello cinofilo».
Ci sono margini di miglioramento nell’attività del Soccorso Alpino?
«Sì. Per esempio nell’applicazione delle tecnologie di geolocalizzazione: si può migliorare ulteriormente nonostante i grandi progressi di questi anni. Come elicotteri e macchine l’Italia è a un livello altissimo, mentre invece stiamo lavorando molto su quelli che chiamiamo non-technical skills, vale a dire l’allenamento mentale e la capacità di fare squadra, che sono di grande aiuto in missione, per evitare ad esempio che si verifichi una delle peggiori circostanze in assoluto: l’incidente ai soccorritori. Come dicono i francesi, bisogna essere malin: svegli, attenti. Nel corso degli anni abbiamo poi gestito la formazione di squadre di soccorso estere, tra cui i peruviani e i nepalesi».
Hai ancora un’altra anima, quella del rifugista, vero?
«Sì, ho cominciato nel 1987 con la co-gestione del Rifugio Quintino Sella al Felik e anche lì ho vissuto i cambiamenti in prima persona. Sono aumentate le esigenze dei frequentatori (non li chiamerei mai clienti), i quali sono sempre più spesso stranieri. Proprio al Quintino è nato il progetto Highlab di Ferrino, più di 25 anni fa. Collaboravamo già grazie alle spedizioni ed è venuto spontaneo venirci incontro nel momento in cui cercavano un luogo dove poter testare veramente i loro prototipi: un campo allestito per tutta la stagione estiva, ad esempio, subisce la stessa usura di una spedizione alpinistica. Vedere una tenda sbriciolarsi o resistere a 150 chilometri all’ora di vento costituisce un test importante. Inoltre insieme abbiamo portato avanti diversi progetti, perlopiù legati alla sicurezza: lo zaino Airsafe è uno di questi».
E poi, come se non bastasse, è arrivato il Mezzalama.
«Sì, quella è un’avventura cominciata nel 1995. La prima edizione organizzata da noi è stata nel 1997, dopo quelle tenutesi fra il 1933-39 e quelle del 1972-78. L’idea del Mezzalama moderno fu del consorzio turistico del Monte Rosa e all’epoca, lavorando per Monterosa Ski, venni incaricato della questione. Non ero assolutamente pratico di quel mondo e mi sono fatto le ossa poco alla volta. Sono state determinanti la conoscenza di queste montagne e - diciamolo - un pizzico di fortuna per arrivare a far correre la gara anche con condizioni avverse. Fin dalla prima edizione, poi, è stata fondamentale la collaborazione con il meteorologo Luca Mercalli, capace di prevedere le finestre meteo giuste nelle quali far correre gli atleti. L’edizione 2015, ad esempio, si è disputata in un intervallo di nove ore tra le perturbazioni, basti pensare che gli atleti di testa indossavano il piumino anche in salita. Nel 2003, invece, abbiamo dovuto evacuare degli atleti in ipotermia e da quel momento abbiamo introdotto regole più severe per l’attrezzatura».
Cosa è cambiato nel corso delle varie edizioni?
«I partecipanti, ora, sono più preparati tecnicamente, sia perché è evoluto lo scialpinismo, sia perché la voce si è sparsa e ormai tutti hanno bene in mente quali siano le difficoltà aggiuntive del Mezzalama che ne fanno una gara unica: non è assolutamente sufficiente avere il motore e basta. Sono cambiate anche le condizioni della montagna, un fatto che si è palesato nell’edizione 2015, quella corsa in senso inverso da Cervinia a Gressoney; molte discese, a causa dello scioglimento dei ghiacciai, presentavano tratti tecnici con ghiaccio vivo e dubito che si ripeterà l’esperimento, a meno che non ci sia un’inversione di tendenza».
Qual è il focus principale del Soccorso Alpino nel giorno della gara?
«L’attenzione dei soccorritori è rivolta principalmente a ciò che potrebbe succedere in ghiacciaio, quindi nel tratto dal Colle del Breithorn fino ai rifugi Gnifetti e Mantova. La traccia viene balisata nei giorni precedenti, ma ciò non vuol dire che sia sicura al cento per cento: si sono già verificati crolli di ponti nelle ore successive al passaggio degli atleti, quindi il procedere in cordata non è una questione di folklore, ma una reale necessità. Noi come organizzatori ce la mettiamo tutta, ma l’ultima parola spetta sempre alla montagna. Ho introdotto due delfini, ai quali presto passerò la responsabilità, perché comunque non sono più un ragazzino: François Cazzanelli ed Emrik Favre. Con loro spero di migliorare ulteriormente l’organizzazione della gara e seguire anche l’evoluzione dello scialpinismo e dell’ambiente».
Quali sono gli obiettivi comuni de La Grande Course?
«Con gli altri organizzatori stiamo cercando di creare e seguire una traccia unica per tutti, collaborando per uniformare regolamenti e standard di gara, ma anche, ad esempio, la logistica, con una piattaforma unica di iscrizione. Ci si confronta e ognuno assiste alle gare dell’altro. Vogliamo anche riavvicinarci alla ISMF, per armonizzare i calendari e non penalizzare gli atleti. Credo che il formato delle gare di Coppa del Mondo sia complementare a quelle de La Grande Course, anche perché sarebbe l’unico tipo di evento replicabile in un possibile calendario olimpico. Sono anche favorevole allo scialpinismo alle Olimpiadi, tutto ciò che fa bene allo sport è sempre ben accetto. L’ingresso dell’arrampicata sportiva è un ottimo stimolo per noi. Gli atleti a livello da Coppa del Mondo sono un centinaio, quelli de La Grande Course sono 5.000: bisogna favorire il ricambio generazionale e la diffusione dell’attività agonistica fra i giovani».
Quali sono i momenti più emozionanti del Mezzalama?
«Il momento più bello è quando ci si vede tutti all’arrivo. Quello più emozionante, invece, è la partenza, durante la quale i mesi di preparativi giungono a una concretizzazione e sai che da lì devi stare sull’attenti. Ci sono stati episodi di tensione fortissima, come nel 2005 quando al momento della partenza il vento in quota non voleva attenuarsi e abbiamo dovuto ritracciare parte del percorso, posticipando il via di un paio d’ore. Contemporaneamente dovevamo anche gestire l’evacuazione di un gruppo coinvolto in una valanga al Castore la sera prima. O nel 2019, quando abbiamo dovuto cambiare il percorso abbassandolo di quota la mattina stessa, ritracciando e bonificando i pendii all’alba. Tra Guide, medici e volontari ci sono 120 persone sul percorso: credo che anche per un professionista sia un’esperienza formativa, perché si è tutti dentro una grande macchina e ognuno deve fare la sua parte».
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 129

Il privilegio della libertà
Viviamo una vita programmata fin nei minimi dettagli, invece il bello è partire alla scoperta, solo con la propria voglia di fare sport nella natura, che sia camminare o correre. È lo spirito che permea un po’ tutto Skialper 131 di agosto-settembre. Lo abbiamo anche scritto in copertina: non abbiamo seguito il sentiero, ma la nostra voglia di scoprire. Ed è quello che scrive Emelie Forsberg in un capitolo tratto dal libro Correre, vivere, pubblicato dalla nostra casa editrice. Ecco perché quel capitolo lo abbiamo riproposto all’interno di Skialper 131. «Lasciare i sentieri è eccitante. E lo è ancora di più cambiare itinerario seguendo il proprioistinto. La sensazione che hai quando raggiungi la cima è unica» scrive Emelie.
È proprio questo il privilegio della libertà. Un privilegio che inconsciamente abbiamo sempre avuto, ma questa strana estate ce lo ha fatto riscoprire. Per farvi venire voglia di comprare Skialper 131 e il meraviglioso libro di Emelie, ma anche per aiutarvi a uscire con le scarpe da trail e il giusto spirito, condividiamo anche sul nostro sito il contributo della trail runner svedese.
Nella High Coast della Svezia, dove sono cresciuta, la natura è selvaggia. I boschi sono secolari e invitano al gioco, con i loro grandi alberi, i licheni sulle rocce e un terreno caotico dove vedi appena cosa c’è sotto i piedi quando esci dal sentiero. Le spiagge di ciottoli sono lunghe, con grandi e piccole rocce che si tuffano nel mare. Qui mi diverto a giocare, a trovare la strada più veloce e le spiagge sembrano non finire mai.
Sono uscita a correre con un’amica nella parte meridionale della High Coast. È la prima volta che viene da queste parti e anche per me le spiagge di ciottoli, grandiose rocce e le fitte foreste sembrano nuove, nonostante le conosca bene. Stiamo correndo lungo un sentiero, di tanto in tanto parliamo, in altri momenti ci concentriamo sulla corsa e lasciamo fluire i nostri pensieri, come è giusto che sia quando stai fuori più ore. Sulla via del rientro vediamo una piccola cima interessante perché le rocce formano un plateau sulla parte alta. Vogliamo andarci e questo significa che staremo fuori ben più tempo di quanto previsto, ma rimanere sul sentiero e perdere la nostra avventura è impossibile. Man mano che ci addentriamo nel bosco il muschio ricopre completamente il terreno ed è necessario essere concentrati al massimo. Piano piano corriamo da un lato all’altro. A volte è più veloce la mia amica, a volte sono io a scegliere il percorso più rapido. Siamo concentrate e la collina che vedevamo lontano ora è alla nostra portata.
Lasciare i sentieri è eccitante. E lo è ancora di più cambiare itinerario seguendo il proprio istinto. La sensazione che hai quando raggiungi la cima è unica. E noi l’abbiamo raggiunta! Abbiamo scelto questo itinerario perché sembrava così intrigante, non perché dovevamo o era programmato. È stato fantastico anche se niente di più di una deviazione dal percorso. Lasciare spazio alla curiosità, ai propri desideri pervivere una nuova esperienza: non abbiamo seguito il sentiero ma la nostra voglia di scoprire. La curiosità ha un posto importante nella mia vita, è la benzina. Non sempre però vado avanti, magari trovo un nuovo itinerario e mi piace, ma se il terreno è troppo difficile torno indietro. La cosa più importante è provarci. A volte quando corri è necessario inseguire i tuoi pensieri e cercare nuove idee. Solo chi agisce con il cuore riesce a lasciarsi andare e seguire il suo istinto. Così trova nuove prospettive, prova esperienze sconosciute e cresce.
A volte ho paura di perdere per strada il lato più giocoso di me nel tentativo di diventare la migliore runner o scialpinista. Poi però mi basta pensare a uno dei tanti bei ricordi, per esempio quello del Grand Teton National Park, negli Stati Uniti, per tranquillizzarmi.
Stavo correndo con Kilian, il mio compagno di misfatti. Avevamo guardato le mappe e vi- sto una montagna un po’ più in là, ma senza nessun sentiero, che finiva presso un grande lago. La montagna saliva proprio oltre lo specchio d’acqua, dall’altra parte. Così abbiamo deciso di correre nel bosco, ma ci siamo trovati ingolfati in un terreno stile giungla e quattro chilometri hanno richiesto ben tre ore. Ma wow, è stato fantastico! Volevamo salire sul Mount Marcon, che pochi hanno salito. Arrivare in vetta è stato veloce: la nostra curiosità e il sollievo che abbiamo provato a non dovere correre saltando su e giù dai rami e cespugli hanno reso tutto un bel gioco. Al ritorno abbiamo deciso di nuotare. Abbiamo avvolto i nostri smartphone nelle magliette e le abbiamo arrotolate attorno alla testa. Non possiamo certo dire di essere dei provetti nuotatori, Kilian sembrava quasi un cane. Abbiamo riso a crepapelle, ma è stata un’impresa faticosa e impegnativa. Con inostri turbanti abbiamo continuato a nuotare con calma e due chilometri sono sembrati lunghi come l’andata in quel bosco stile giungla. Se esiterò a lasciare la strada programmata, ricordi come questo mi aiuteranno a decidere di cambiare sentiero.
Dal 27 agosto disponibili online i film del Trento Film Festival
Da oggi si può accedere alla piattaforma online.trentofestival.it e registrarsi per vedere i film che verranno proiettati anche in sala. I film saranno disponibili dal 27 agosto, giorno di apertura del settantottesimo Trento Film Festival, in base al programma delle proiezioni: ogni film andrà online il giorno successivo all'anteprima a Trento, per preservare la scoperta per gli spettatori in sala, e resterà disponibile per un'intera settimana.
Tutti i cortometraggi fino a 40 minuti di durata, ovvero ben 41 film da tutte le sezioni del programma, sono disponibili gratuitamente. Per tutti gli altri film è possibile acquistare a 20 euro l’abbonamento online che dà accesso all'intera selezione oppure noleggiare il singolo titolo a 4 euro. Ogni film, tanto quelli gratuiti, quanto a noleggio, è limitato a 500 visioni: come al cinema, quindi, è importante prenotare il proprio posto.
A inaugurare la piattaforma sarà Cholitas di Jaime Murciego e Pablo Iraburu, appassionante racconto di una spedizione unica, in cui cinque donne indigene boliviane affrontano la scalata dell’Aconcagua indossando i loro abiti tradizionali, come gesto di liberazione ed emancipazione. Il 27 agosto, grazie alla collaborazione con Montura, i primi 500 utenti che si registreranno avranno la possibilità di vedere il film gratuitamente, in contemporanea con l’anteprima a Trento.
La selezione cinematografica sarà presentata sia in proiezione per il pubblico del festival che in streaming, con l’eccezione di due titoli che si potranno vedere solo a Trento prima dell’uscita nelle sale: Paradise, una nuova vita di Davide Del Degan (Fandango), e l’evento di chiusura Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin di Werner Herzog (Feltrinelli Real Cinema e Wanted Cinema).
Luca Carrara e il Giro montano della Val di Scalve
Un nuovo giro in stile trail e skyrunning, che concatena sentieri esistenti, per stabilire un FKT, ma senza l’assillo del tempo, piuttosto per promuovere il territorio, divertirsi e registrare un primo crono, da cui ripartire. L’idea di Luca Carrara, atleta griffato Salomon, in Val di Scalve, nella bergamasca, era proprio questa. «Non è per il tempo che mi sono impegnato. La vera soddisfazione è la bontà della proposta che può avere un futuro. Mi dispiacerebbe se si esaurisse in questo mio tentativo» ha detto Luca al termine del giro di 68,5 km con un dislivello positivo di 4.400 metri chiuso domenica 16 agosto in 9 ore 21 minuti e 8 secondi. «I sentieri sono già in buono stato. I punti di ritorno a valle sono numerosi, così come i rifugi. Non tutte le alte vie hanno queste possibilità. Gli si dovrebbe dare un nome» continua Luca.

Ad accompagnarlo lungo il percorso alcuni local: Antonio Boni, Patrick Belingheri, Ernesto Duci e Valter Albrici. Il nuovo giro collega alcuni degli angoli più belli della valle bergamasca. La partenza da Nona (frazione di Vilminore di Scalve), poi Passo della Manina, Pizzo di Petto, Pizzo Ferrante, Rifugio Albani, Colle della Guait, Dezzo, Azzone, Passo Cornabusa, Malga Epolo, conca dei Campelli, Passo del Vivione, Laghi del Venerocolo, Rifugio Tagliaferri, Passo Belviso, Diga del Gleno fino ancora a Nona.

Keep Clean & Run e il Campionato del mondo di plogging
Keep Clean & Run. Corri e pulisci. Un motto che è diventato anche una manifestazione che prevede un itinerario ben preciso e simbolico per unire corsa e raccolta rifiuti, cioè plogging. La Keep Clean and Run 2020 avrebbe dovuto svolgersi ad aprile ma è stata rimandata a settembre, dal 3 al 10, e si svolgerà tra Trieste e Cortina lungo i luoghi del fronte della Prima Guerra Mondiale.
Gli organizzatori hanno anche pensato a una KCR solidale e all’edizione pilota del Campionato del mondo di plogging. Il funzionamento è semplice: ci si iscrive online in una delle categorie, walking, running o trail running, e nei giorni iniziali della XCR, 4, 5 o 6 settembre, si decide di correre dove si vuole e sulla distanza che si vuole seguendo il regolamento e registrando la propria attività tramite Strava o altre app. Al termine bisogna comunicare i dati accumulati agli organizzatori unitamente a una foto con il pettorale e i rifiuti raccolti: un algoritmo realizzato ad hoc calcolerà tempi, chilometri percorsi e chili di rifiuti raccolti e verrà stilata una classifica speciale. Quella della categoria trail running costituirà la graduatoria del primo Campionato del mondo di plogging.
Le quote di iscrizione unitamente agli altri fondi raccolti con le altre iniziative che rientrano nel Keep Clean and Run Solidale, verranno devolute in beneficenza alla Caritas Italiana che sosterrà, attraverso uno specifico concorso di idee, una start-up di giovani capaci di sviluppare progetti per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile. Le iscrizioni chiudono il 30 agosto e costano 5 euro per running e trail running e 3 euro per il walking. Per iscriverti clicca qui.
Every Single Street
Correre su ogni singola strada di San Francisco in 45 giorni è stato come fare un’ultra ininterrotta tra le montagne, perché non puoi mai staccare con la testa, devi essere sempre concentrato e il dislivello è importante - dice Rickey - Però per altri versi è molto diverso, perché la nostra idea di trail running è spesso legata alla fuga, è semplicemente esistere in un posto e non essere perfettamente presenti e consapevoli in quel luogo: correre per le strade della città è l’opposto di fuggire.
Le sterminate distese di sabbia e le gelide onde di Ocean Beach, a San Francisco, hanno qualcosa di catartico. E il gesto simbolico di Rickey Gates, che qui ha chiuso il primo agosto del 2017 la sua corsa da costa a costa degli Stati Uniti e da qui il primo novembre del 2018 è partito per il progetto Every Single Street, un’ultra-maratona per toccare ogni singola strada di San Francisco, è stato premonitore. O forse profetico. Passare dalle immense distese di uno dei Paesi più grandi del mondo alle 49 miglia quadrate di una città di poco meno di un milione di abitanti assume un significato ancora più profondo ora che, a causa delle restrizioni dei lockdown e delle conseguenze dell’era Covid, abbiamo riscoperto tutti una dimensione più local. E l’hashtag #everysinglestreet, oltre che un cortometraggio della Salomon TV, è diventato virale, con seguaci in ogni parte del mondo. Per correre dalla South Carolina a Ocean Beach, Rickey Gates ha coperto 3.700 miglia (poco meno di 6.000 chilometri), per raggiungere tutte le strade di Frisco, come i local chiamano la città del Golden Gate, 1.317 miglia (poco più di 2.100 chilometri) e 147.000 piedi di dislivello, quasi 45.000 metri. Dopotutto in sette miglia per sette miglia ci sono ben 1.100 miglia (1.770 chilometri) di strade e per percorrerle tutte, anche se sei efficiente al massimo, devi coprire alcuni tratti più volte. Abbiamo parlato con Rickey di Every Single Street su Skialper 131 di agosto-settembre.

Una corsa alla fine del mondo
«Ero curioso di tornare nella valle Chacabuco e al lago Jeinemeni. Ma non era solo la natura ad attrarmi, piuttosto gli uomini e il loro rapporto con l’ambiente. Queste valli, questi monti, sono forse il luogo dove ho lavorato più a lungo come Guida di montagna, dove ho corso più lontano. Qui ho scritto record di salita e discesa in velocità su cime selvagge. Queste montagne le sento un po’ come mie, anche se non vivo qui, ma vicino a Santiago, nella valle Maipo. All’inizio del 2018, grazie alla donazione allo stato del Cile della terra della Valle Chacabuco da parte di Tompkins Conservation, la Reserva Nacional Lago Jeinemeni e la Reserva Nacional Lago Cochrane sono state unite nel Parque Nacional Patagonia. Queste valli sono state trasformate negli anni dall’allevamento e l’ecosistema, al di fuori dei panorami da cartolina, rischiava di essere compromesso irrimediabilmente, però la creazione del parco è andata contro alcuni degli interessi economici locali. Così, a distanza di due anni, volevo vedere come è stato accolto dalle persone che vivono da quelle parti e che effetto ha prodotto sull’economia locale. Volevo farlo a mio modo, tornando lì per correre».
A scrivere è Felipe Cancino, runner e attivista ambientale cileno, che ama guidare verso Sud, per andare a scoprire gli angoli più selvaggi della Patagonia usando i propri piedi. E così ha scoperto che un parco nazionale è molto più di un semplice contenitore di natura e può diventare un volano per l’economia locale e per uno sviluppo sostenibile. Attorno al Parque Nacional Patagonia, per esempio, sono sorte fattorie per l’agricoltura bio intensiva. Nei suoi viaggi in Patagonia Felipe è andato anche più a Sud, fino alla punta estrema del Sud America.

«La Peninsula Mitre è l’estrema punta meridionale del Sud America, quella punta dell’Argentina che guarda a Est. Ieri abbiamo provato a bere l’acqua degli acquitrini rendendoci conto che, anche bollita, è imbevibile perché inquinata dai castori. Sembra incredibile, ma questi roditori, introdotti dall’industria delle pellicce, hanno devastato l’ecosistema locale. L’alternativa era bere quel liquido disgustoso o l’acqua salata del mare, poi abbiamo capito che si poteva raccogliere l’acqua che ogni giorno cade dal cielo ed è stata la nostra salvezza. Essere qui, senza tutte quelle comodità del nostro mondo, a partire da un collegamento internet, mi ha obbligato a risolvere i problemi, tanti, facendo solo ricorso al mio intuito. Mi ha fatto capire che a volte devi avere fortuna».
Su Skialper 131 di agosto-settembre un intenso reportage con le meravigliose fotografie di Nacho Grez e Rodrigo Manns.

Va' Sentiero
Ieri ci siamo svegliati sulle rive del piccolo lago di Favogna, tempestato di ninfee. Sembrava un quadro di Monet. Ero ancora stordito dal sonno e ho pensato di farmi una nuotata. Dal pontile di legno, nudo, mi sono tuffato nel lago deserto. Grazie al fondo torboso l’acqua era a temperatura ideale e mi è venuto da urlare di felicità. Più tardi abbiamo raggiunto la cima del Monte Roen. Non è stato solo il nome a ricordarci il Signore degli Anelli. Da lassù, a Ovest, scintillavano i grandi ghiacciai dell’Ortles-Cevedale, sormontati da vette che parevano scolpite nel cielo.
Ai nostri piedi la parete orientale del Roen volava in picchiata per centinaia di metri. Lungo la discesa verso il rifugio abbiamo allungato per la Malga di Smarano e Sfruz. Volevamo toglierci lo sfizio di vedere se esistono davvero due tali con dei nomi simili, da Stanlio & Ollio altoatesini. Alla malga non c’erano né Smarano né tantomeno Sfruz (che abbiamo scoperto poi essere dei paesini a valle), ma due cani con il manto chiazzato che ci hanno guardati arrivare in attento silenzio, senza scomporsi né abbaiare. Erano Pastori del Lagorai. Un ragazzo dagli occhi gentili ci ha offerto birre e cacioricotte fresche di minuti, sapevano ancora di erba tagliata.
Lui e sua moglie (Alan e Roberta) salgono qui ogni primavera con le loro vivaci bimbe e le tante caprette. Ce ne hanno anche fatta mungere una. Mi ha colpito la loro serenità. Roberta aspetta un altro bimbo e, mentre mi preoccupavo della loro sussistenza, guardandoli ho realizzato di come fossero spontaneamente al di sopra di ogni tipo di preoccupazione, concentrati a vivere il presente come un dono. A fine tappa, mentre ci rilassavamo a piedi scalzi sul grande terrazzo del rifugio Oltradige, il Latemar, il Catinaccio e le Odle si sono tinti di rosa. È stata l’ultima grande vista delle Dolomiti, un bellissimo arrivederci.

A scrivere è Yuri Basilicò. Insieme a Sara Furlanetto e Giacomo Riccobono, neanche 90 anni in tre, si è inventato Va’ Sentiero, una spedizione lungo il Sentiero Italia, il trekking di 6.880 chilometri che attraversa tutta l’Italia, per fare riscoprire questa gemma dimenticata. Nel 2019 dal Golfo di Trieste a Visso, quest’anno, restrizioni permettendo, quello che manca. Su Skialper 131 di agosto-settembre Yuri ha scritto per noi un diario dei primi, intensi, mesi lungo il Sentiero Italia, scegliendo qualche episodio e luogo tra i mille. Perché il senso di un viaggio lungo il Sentiero Italia è quello espresso perfettamente dalle parole di Konstantinos Kavafis nella poesia Itaca, che Yuri e i suoi compagni di viaggio hanno letto alla partenza dal Golfo di Trieste: non conta la meta, ma il viaggio. Per info su Va' Sentiero: vasentiero.org

Transap
Le cose più belle della Transap sono quelle che non si vedono con gli occhi, sono quelle che non puoi toccare e quantificare materialmente. Credo sia un aspetto positivo non avere oggetti o riconoscimenti che definiscano il valore delle motivazioni e delle azioni. Non ci servono cose per essere e per fare. Nel caso della Transap, tutto ciò che ha un significato, almeno per me, rimane immateriale. A dare un senso alla Transap non sono certo i chilometri (non pochi), né tantomeno il dislivello (non male), anche se ci devi fare i conti, e magari dopo un po’ li maledici, come se fossero diventati delle vespe sotto la maglietta o delle tarme nelle scarpe bucate. Sudi e soffri, a volte sbocchi in mezzo al bosco, sbuffi come un vecchio motore a gasolio sfatto, ma vai avanti perché nella Transap c’è un perenne senso di attesa nei confronti di qualcosa che sta per accadere. Mi piace pensare alla Transap come a un viaggio ideale, che in realtà non si compie, ma ridefinisce ogni volta una meravigliosa aspettativa. Perché è sempre difficile cogliere il senso di un’attesa, visto che la sua magia è proprio il non compiersi, ma aspettare che nasca. Ci vuole impegno e il giusto atteggiamento per capire la semplicità.

Transap, come la chiama Niki Gresteri, sta per Transappenninica. Un’idea semplice semplice e perfetta per questa estate così diversa: partire dalla pianura per arrivare al mare della Liguria, valicando quell’Appennino tanto selvaggio quanto vicino alle località più turistiche. Naturalmente a piedi, o di corsa, comunque con passo veloce. Nella sua versione-evento la Transap ha luogo l’ultimo fine settimana d’estate, come un rito collettivo senza pettorali, quote di iscrizione e ristori, ma con lo spirito della grande avventura da vivere insieme, perché non sono ammesse inscrizioni singole. Ma idealmente la Transap è dentro ogni sognatore che dalle cime dell’Appennino volge lo sguardo verso il mare ed è un’idea per una estate diversa, fosse anche solo per correre per pochi chilometri su quelle vie del sale che collegavano Pianura Padana e Mar Ligure per crinali, lontano dai briganti. Ecco perché su Skialper 131 di agosto-settembre abbiamo chiesto a due che la Transap l’hanno fatta, di raccontarcela, di raccontarci le emozioni che si vivino su quei crinali. Le parole sono di Niki Gresteri e Marta Manzoni, le splendide fotografie di Nicola Damonte. Un articolo da leggere con lo spirito con il quale si sfogliano le pagine di un racconto.













