François Cazzanelli, la velocità dietro casa

«Più il terreno diventa tecnico, più essere veloci e leggeri diventa una specialità riservata a un’élite alpinistica. Ti basti pensare alle salite in velocità sul Nose. Fantascienza! Ovvio che su terreno via via più tecnico parte del tempo deve essere impiegato per proteggersi, per assicurarsi, per fare sosta. Anche nell’alpinismo però c’è voglia di confrontarsi con il tempo, ma personalmente non penso che vada cercata la velocità per confrontarsi con un tempo, ma perché invece è in grado di offrirti la possibilità di godere di un maggior numero di prospettive stando in montagna. Spesso si vuole correre senza saper camminare: per muoverti veloce in montagna ritengo che sia fondamentale avere un curriculum alpinistico classico. Ci devi passare, devi essere un alpinista. Succede lo stesso nelle grandi gare di scialpinismo: per vincerle, per andare forte, non bastano i metri di dislivello che puoi macinare a bordo pista. Devi essere uno scialpinista».

© Daniele Molineris/Storyteller Labs

Parole e musica di François Cazzanelli, che lo scorso inverno, per non annoiarsi, ha chiuso un progetto già provato due volte. Propio dietro casa sua, in Valtournenche. Perché non sempre bisogna andare lontani per trovare sfida e avventura. «È una cresta enorme, comprende in totale 20 vette: la più alta è quella del Cervino con i suoi 4.478 metri. Per le sue dimensioni, per le altezze e per i passaggi vertiginosi, la cresta è sicuramente una delle più spettacolari delle Alpi: misura circa 51 chilometri ininterrotti con 4.800 metri di dislivello positivo». François parla del primo concatenamento invernale delle Catene Furggen, Cervino, Grandes Murailles e Petites Murailles, portato a termine con Francesco Ratti. Il nostro Andrea Bormida l’ha intervistato su Skialper 130 di giugno-luglio. Però non hanno parlato solo del concatenamento, ma anche di Kilian, di materiali, si alpinismo classico, di Carrel, di Loretan…

Appuntamento su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.

© Daniele Molineris/Storyteller Labs

Alla ricerca di Tom Ballard

«Il collegamento si era interrotto all’improvviso, ma Alex Txikon non aveva alcun dubbio: il video che stava guardando mostrava due corpi senza vita; non c’era stato il tempo di scattare una foto, prima che il drone smettesse di trasmettere, ma l’immagine di quei due corpi si era impressa nella sua mente. «Ho riconosciuto i loro zaini, i guanti, i berretti che indossavano e anche la forma dei loro corpi» racconterà dopo. I due corpi, legati alla stessa corda, distanti non più di tre metri l’uno dall’altro, si trovavano a circa 5.800 metri, in un labirinto di rocce e neve. Il primo, ancora appeso alla corda, penzolava all’interno e fuori dall’inquadratura del drone; il secondo, anch’esso attaccato alla corda, giaceva riverso su una roccia, qualche metro al di sotto del suo compagno».  

© Rugero Arena

Comincia così l’articolo di Michael Levy, editor di Rock & Ice, su Tom Ballard, pubblicato da Skialper in esclusiva per l’Italia. Più che un articolo un vero e proprio libro sulla vita dell’alpinista scomparso nel 2019 al Nanga Parbat insieme a Daniele Nardi. Un romanzo avvincente di 20 pagine per la passione che Levy ha messo nella prosa, ben tradotta da Simona Righetti con la revisione di Leonardo Bizzaro, ma anche un incredibile lavoro di documentazione, con decine di testimonianze e di citazioni. Ne esce un ritratto di Ballard fin da bambino, del suo rapporto con la madre Alison Hargreaves, definita da Reinhold Messner come la più forte fra le alpiniste donne e morta al K2 nel 1995. Un’ombra, quella della madre, che inseguirà per tutta la breve vita Tom che nella sua carriera alpinistica ripercorrerà spesso le orme di Hargreaves, come sulle grandi pareti Nord delle Alpi, che Tom ha completato in invernale e sulle quali accade anche un curioso episodio molto simile a entrambi. Alla Nord dell’Eiger infatti Alison si era imbattuta in svariati pezzi di equipaggiamento: una vite da ghiaccio, una piccozza, un guanto e altri piccoli frammenti non perfettamente riconoscibili e alla fine dei detriti aveva identificato il corpo senza vita di un alpinista. Si trattava di un alpinista spagnolo che aveva tentato la salita ed era morto cadendo. «Scendendo lentamente e con la massima attenzione dalla vetta dell’Eiger, Tom nota dapprima frammenti di plastica arancione sparpagliati nella neve, poi poco più in là un guanto e più sotto ancora scorge un corpo. Uno sciatore, incontrato poco prima sulla cima, è precipitato battendo la testa su una roccia; il casco arancione si è frantumato nell’urto e il ragazzo è morto. Tom non ha mai visto un cadavere e quella visione gli ricorda quanto pericolosa sia la passione che ha scelto come compagna di vita. La similitudine con quanto accaduto alla madre proprio sull’Eiger, più di vent’anni prima, lo colpisce non poco: Ci è successa quasi la stessa cosa. È molto triste, ma al tempo stesso è come aver vissuto un déjà vu commenterà».

© Gloria Ramirez

Levy, attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuto meglio, dalla fidanzata ai compagni di spedizione, ripercorre l’infanzia di Ballard e la carriera alpinistica alla ricerca del perché sia andato al Nanga Parbat in inverno senza avere mai avuto esperienze, neppure estive, su un ottomila.

Appuntamento su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.

© Rugero Arena

Alex Txikon, l'alpinismo è immediatezza

«La vita media oscilla intorno ai 33.000 giorni, se dipendesse da me passerei la maggior parte del tempo di questo viaggio tra le montagne. Se ci fermiamo un attimo a pensare, ci sono molte cose importanti. Però solo due sono essenziali: la vita e il tempo. Ed è proprio in questi momenti che guardo indietro e vedo un bambino che gioca e sale sulla bici e, sorpreso e inquieto, mi domando: come è passato tutto così velocemente, vero?».

Alex Txikon ha preso sul serio questa sua affermazione, anche nei mesi scorsi quando si è allenato in Antartide prima di partire per l'Himalaya. Risultato? Road to Himalayas: partenza dal Cile a bordo di una barca a vela il 14 dicembre per andare a scalare ed esplorare nelle isole Shetland Meridionali, attraversando il burrascoso Canale di Drake. Poi, all’inizio di gennaio, con solo due giorni di riposo, subito in Nepal per scalare l’Ama Dablam e tentare l’Everest.

L’alpinista basco non è uno che ama rimanere fermo e il suo curriculum alla soglia dei 40 anno lo dimostra. E va in Himalaya quasi tuti gli inverni: «gli Ottomila invernali continuano a essere un luogo nel quale mi trovo a mio agio, mi piace lottare con le condizioni meteorologiche, mi piace soprattutto la montagna, perché è completamente diversa e non c’è l’affollamento degli altri mesi dell’anno». Su Skialper 130 di giugno-luglio Alex ci ha raccontato l’ultima spedizione, i suoi progetti, i suoi ricordi più belli, ha parlato di droni e di igloo, di bici, di moto, di rischio: «I limiti, la paura, il rischio li stabilisci tu stesso. La paura, il limite e il rischio sono i compagni della prudenza: più paura, più prudenza. Al contrario di quanto si pensi».

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Dani Arnold, la paura per amica

«L’obiettivo di questa spedizione era l'inverno freddo, quello giusto per tentare l'arrampicata su ghiaccio. Il riscaldamento globale sta rendendo le cose sempre più difficili alle nostre latitudini, quindi volevamo esplorare un nuovo posto, dove nessuno avesse mai scalato il ghiaccio». Un obiettivo raggiunto sul lago Bajkal, nella Siberia meridionale, dove di rado se si cerca il freddo ci si imbatte in qualcos’altro. «Abbiamo trovato esattamente quello che cercavamo, un freddo ben più intenso di quello che avevo provato sugli Ottomila: è stato fantastico. Ma anche la curiosità per il Paese, le persone e la cultura è stata un elemento importante di questo viaggio. L’ha arricchito molto».

Dani Arnold ha raccontato a Skialper la sua ultima spedizione in Siberia, della quale pubblichiamo anche le belle foto scattate da Thomas Monsorno. Ma a Veronica Balocco l’alpinista svizzero ha raccontato molto di più: della perdita di compagni d’avventura come Lama, Auer e Steck, della paura e del rischio, di quando va ad arrampicare con la moglie, dei free solo. E dell’Himalaya: «Quella in Himalaya è stata una bella esperienza per me, ma non ne sono uscito soddisfatto. Tecnicamente non è assolutamente nulla di impegnativo. Ogni persona con un Ottomila nel cassetto è celebrata come un eroe, ma ci sono molte montagne di duemila metri che richiedono molta più preparazione di una via normale laggiù».

Ne parliamo su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.

© Thomas Monsorno

Io e Ueli

«Era tanto un maniaco della precisione quanto, talvolta, completamente fuori dagli standard e anche un po’ impacciato in quelle che sono le cose quotidiane, a noi più normali» scrive Simone Favero nell’articolo su Ueli Steck (Io e Ueli) che apre Skialper 130 di giugno-luglio. Ueli Steck è il mantra che ricorre in tutte le pagine di Skialper perché è l’ispiratore di tutti gli alpinisti che abbiamo intervistato nel numero dedicato all’alpinismo e a The Swiss Machine abbiamo dedicato anche la copertina, una bella foto di Jonathan Griffith scattata su Supercouloir. Però di Steck è stato scritto già tanto e volevamo un ritratto diverso, più intimo. Dell’uomo prima ancora che del recordman alpino. Così Simone Favero, che ha lavorato gomito a gomito con Ueli nel reparto marketing di Scarpa, ha scritto parole che lo rendono (un po’) più umano.

«Dormivamo spesso nello stesso appartamento, tre stanze messe a disposizione da Scarpa quando facevo tardi in ufficio (sempre, in pratica) che condividevo con gli ospiti che venivano in azienda. Con alcuni era divertente, con Ueli era uno spasso e accadeva sempre qualcosa di assurdo: uno dei must era l’allarme che partiva la mattina a causa delle sue uscite a orari impossibili per andare a fare allenamento: anche venti chilometri di corsa attorno ad Asolo prima dell’alba. Poi una doccia, dieci ore con il team prodotto, e quasi sempre guidava la sera stessa fino a casa, per non perdere l’alba della mattina dopo e andare a provare i prototipi che aveva appena sviluppato. Ricordo che tutti i discorsi erano incentrati sui materiali, ogni dettaglio doveva essere più leggero; un’ossessione quella verso la leggerezza che non era mai fine a sé stessa, ma racchiudeva anzi una necessità ed era un primigenio stimolo a migliorarsi, darsi obiettivi in cui l’asticella doveva sempre alzarsi di almeno due tacche». Questo è solo uno degli episodi che troverete in Io e Ueli, su Skialper 130, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.

© photo courtesy Suunto

La Sportiva estate 2021: arrivano Karacal, Cyklon e Aequilibrium

Una scarpa per medie distanze, una per le lunghe e una nuova linea che accetta ramponi semi-automatici. Sono queste le principali novità dell’estate 2021 di La Sportiva, alle quali si aggiunge la versione mid cut della storica Ultra Raptor. Gli highlight sono stati presentati oggi alla stampa internazionale in una video conferenza in diretta dallo show room di Ziano di Fiemme.

Karacal e Cyclon, due idee di mountain running

Negli ultimi anni la gamma di calzature per le lunghe distanze La Sportiva si è ampliata e alla storica Akasha si è aggiunta Jackal l’anno scorso. Dal 2021 arriverà anche Karacal, pensata per allenamenti prolungati off-road su medie e lunghe distanze ma anche per il recupero post gara. La calzata è ampia e l’obiettivo cushioning e comfort. La tomaia seamless mono-strato in 3D Mesh è pensata per la traspirazione, i rinforzi posteriori in microfibra inglobati sotto una pellicola termo-poliuretanica supportano la stabilità generale. L’intersuola è in EVA a doppia densità, mentre il puntalino thermo-form sagomato protegge dagli urti contro rocce e radici. Supporto e stabilità posteriore sono bilanciati da una buona flessibilità anteriore. La suola è in mescola FriXion blu durevole con tasselli a spessore differenziato Impact Brake System.

Karacal

Ha un’anima diversa Cyklon, calzatura performance ideale per skyrace e corse off-road su terreni tecnici a media distanza. Frutto del lavoro di ricerca e sviluppo tra La Sportiva e Boa, che fa la sua apparizione dopo la VK Boa di questa estate, è un prodotto con focus su stabilità, precisione e avvolgenza grazie al nuovo sistema di chiusura Dynamic Cage con BOA Fit System integrato che lavora in sinergia con tre diversi elementi della tomaia. Il cuore del sistema di allacciatura è il Dynamic Flap interno che avvolge la calzatura e permette la regolazione dinamica della tensione agendo direttamente sul Boa Fit System con un movimento one-hand. Il puntalino in TPU protettivo e il pannello laterale multi-strato e termo-adesivizzato forniscono ulteriore struttura e stabilità. Il battistrada mud-ground, per utilizzo su terreni morbidi e fangosi, è in mescola La Sportiva FriXion White ultra aderente e prevede la possibilità di integrare chiodi AT Grip Spike in caso di utilizzi su terreni ghiacciati. L’intersuola è in EVA a bi-densità con inserto stabilizer.

Cyklon

Aequilibrium, la scarpa che mancava

Più che di singola scarpa si tratta di una nuova linea per l’alpinismo leggero e veloce, che accetta ramponi semi-automatici. Si posiziona idealmente tra Nepal e Trango e da questa ultima differisce soprattutto per la camminabilità e maggiore leggerezza. In pratica la suola è stata smussata al tallone per favorire la rullata e gli inserti dell’intersuola in PU permettono ai singoli tasselli di lavorare autonomamente. Il top di gamma è Aequilibrium Top GTX, pensato per gli impieghi più tecnici e a suo agio sui quattromila estivi. Ci sono poi le versioni ST GTX e LT GTX. La geometria a doppio tassello posteriore molto pronunciato aumenta l’effetto frenante in discesa e permette una rullata più fluida riducendo l’affaticamento muscolare. Durabilità e leggerezza convivono in armonia grazie al nuovo pacchetto suola/intersuola con costruzione a guscio Rubber Guard esterno e materiale espanso interno per un cushoning accentuato e leggerezza derivata da un minor utilizzo di strati di gomma. La versione Top GTX ha scarpa esterna con allacciatura Boa e ghetta esterna in Cordura. La suola è in mescola Vibram Mont.

 

Aequilibrium Top GTX
Aequilibrium ST GTX
Aequilibrium LT GTX

Ultra Raptor, il mito continua

Ultra Raptor Mid II GTX è la versione mid-cut del modello trail running Ultra Raptor II, è ideale per utilizzi fast hiking ed escursioni con carichi leggeri. Impermeabile e traspirante grazie alla membrana Gore-Tex Extended Comfort. La tomaia è in tessuto mesh resistente alle abrasioni e traspirante, perfetta per utilizzi in tutte le condizioni. La tallonetta stabilizzatrice posteriore permette un perfetto controllo sui traversi. Il sistema di allacciatura è integrato con la tomaia a mezzo di passanti cuciti sul tessuto elastico interno e con rinforzi in alta frequenza sul mesh esterno: tale sistema permette di ripartire la tensione dell’allacciatura su tutta la tomaia ed avvolgere al meglio il piede per un perfetto comfort di calzata. Ultra Raptor Mid II GTX è disponibile anche in versione comfort wide-fit dedicata ai runner con piede a pianta larga. Il risultato è una calzatura da ultra running indossabile per molte ore consecutive ed adatta per utilizzi off-road su qualsiasi tipo di terreno.

Ultra Raptor II Mid

Cosa resterà di quei formidabili anni ‘90

È di questi giorni la notizia del record di Franco Collé sul Monte Rosa. Il suo non sarà probabilmente l'unico record di skyrunning di un anno senza gare e si inserisce in una storia gloriosa che nasce proprio con il record del 1988 di Valerio Bertoglio sullo stesso itinerario. Su Skialper 129 abbiamo ripercorso l'epopea dello skyrunning in quei favolosi anni '90 e per celebrare l'impresa di Franco ve la riproponiamo.

Nel 1988 Valerio Bertoglio è salito e sceso da Staffal, nella valle di Gressoney, alla vetta del Monte Rosa, in 5h29’33’’. L’anno dopo Marino Giacometti ha coperto il percorso Alagna-Punta Gnifetti andata e ritorno in 6h07’07’’. Valerio, Marino e i primi mountain runner, inconsapevolmente, hanno acceso la scintilla che avrebbe infuocato tutti gli anni ’90 e l’inizio del secolo, ma soprattutto hanno dato vita allo sport di velocità in montagna e, indirettamente, al mondo meno estremo del trail running, che li avrebbe poi fagocitati. Scrive il professor Giulio Sergio Roi, nel 1995 tra i fondatori della FSA (Federation for Sports at Altitude) nell’interessante libro Skyrunning, l’abc di chi corre in quota pubblicato da Correre: «La parola skyrunner è stata introdotta da Marino Giacometti all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, proprio per indicare quello che allora era chiamato mountain runner, che partendo da un paese del fondovalle tentava di raggiungere la vetta di una qualsiasi montagna, situata a una quota maggiore di 2.000 metri, lungo il percorso più breve e nel minor tempo possibile. La quota di 2.000 metri, che indica il limite inferiore della media quota, è stata arbitrariamente scelta come la quota al di sopra della quale gli effetti dell’altitudine cominciano a diventare importanti, poiché comincia a essere evidente la riduzione della massima potenza aerobica che penalizza le prestazioni di lunga durata e può già comparire il mal di montagna».

Tutte le intuizioni hanno bisogno di sognatori e visionari e anche lo skyrunning ha avuto i suoi, a partire da Marino Giacometti, dallo stesso Giulio Sergio Roi e da Enrico Frachey. Il primo è stato atleta e inventore di uno sport al quale ha dato regole e organizzazione attraverso la FSA e poi l’International Skyrunning Federation, il secondo, medico dello sport, ha posto le basi per studi sulle prestazioni in alta quota che ancora oggi fanno discutere. Frachey, amministratore delegato di Fila e grande appassionato di montagna, agli inizi degli anni ’90 aveva capito la potenza comunicativa dello sport di velocità in quota e incoraggiato Giacometti a organizzare la prima gara in altitudine. Perché le due parole chiave di un’epoca forse irripetibile sono proprio quota e velocità e sono alla base di tutta la filosofia fast & light che permea la nostra passione per la montagna. «Lo skyrunner è un atleta che fa della velocità un fattore di sicurezza» dice Giulio Sergio Roi. E lo fa in alto. Tutto il movimento dello skyrunning è un ingranaggio perfetto per lo spettacolo e per studiare la prestazione sportiva in altitudine. Per arrivare a intuirne i limiti estremi.

Il 28 luglio 1991 quattro atleti – Adriano Greco, Marino Giacometti, Angelo Todisco e Sergio Rozzi – partecipano alla prima edizione della salita al Monte Bianco da Courmayeur con ben 52 chilometri di sviluppo, vinta da Adriano Greco in 8h48’25’’. Al Monte Bianco si disputarono tre edizioni consecutive, fino al 1993, e la gara faceva parte del Fila Skyrunner Trophy. Il tempo migliore è quello del 1993 di Adriano Greco (7h06’31’’), poi nel 1994 il maltempo costrinse ad annullare la prova e non se ne fece più niente. Ma era scattata la scintilla. Dal 1992 al 1998 si organizza il Fila Skyrunning Trophy, poi diventato Skymarathon Trophy, Skymarathon Circuit e Skyrunning Circuit. È un’epopea fantastica con regole semplicissime: si parte dal fondovalle e si raggiungono le cime più famose delle Alpi, tutte sopra i 3.000 e molto spesso i 4.000 metri, rientrando a valle nel minor tempo possibile. Nel 1992 si sale sull’Adamello, sul Monte Rosa e sul Monte Bianco e sono 51 in totale gli atleti-alpinisti iscritti. Il Monte Rosa è la gara più longeva, disputata nel 1992 (anche se su percorso modificato causa maltempo), 1993, 1994 e 1996, poi dal 2002 al 2011 rinasce come Monte Rosa Sky Marathon, ma su un percorso diverso. Nel 1995 si inizia a correre anche sul Bretithorn occidentale e nel 1998 Cervinia ospita il primo Campionato Mondiale di Skyrunning che vede al via 46 atleti di 18 Paesi. La Skymarathon, vinta da Bruno Brunod, arriva proprio fin sul Breithorn Occidentale, a 4.165 metri.

Adriano Greco nel 1993 sul Monte Bianco ©Dario Ferro/FSA

L’idea di correre in alta quota esce dai confini alpini e si iniziano a disputare gare in Messico, in Kenya e in Tibet. In America si corre sull’Iztaccihuatl, fino a 5.286 metri. Nel 1996 la prima edizione è stata vinta da Ricardo Meija. Nel 1995 sul Mount Kenia (5.199 metri) si assiste all’avvincente duello tra quelli che saranno due degli indiscussi protagonisti di quegli anni: Fabio Meraldi e Matt Carpenter. La spunta il valtellinese in 5h03’22’’. Meraldi era stato anche protagonista di un episodio che ha dell’incredibile proprio in Messico. La gara del 1996 avrebbe infatti dovuto disputarsi sul vulcano Popocatépetl (5.465 m) ma il percorso fino alla vetta non era accessibile per motivi di sicurezza perché il vulcano era attivo. Fabio e Pep Ollé vollero comunque fare un giro esplorativo in vetta e furono arrestati al rientro perché le guardie del parco avevano visto le loro tracce sulla neve. Il viaggio dello skyrunning oltre i confini dell’Europa ha un significato ben preciso: sempre più in alto. Così si arriva al punto massimo dello studio della prestazione in quota, la Everest Skymarathon, corsa nel 1992, 1993, 1994, 1995, 1996 e 1998. La prima edizione della Everest Skymarathon raggiunge quota 5.050 metri, mentre le altre si svolgono su anelli con dislivelli inferiori ai 200 metri. La distanza è quella della tradizionale maratona, anche se solo quella del 1998 è stata certificata dall’Association of International Marathons and Distances Races. Quattro gare vengono disputate a quota 4.300 metri, una a 5.200 metri. A parte la prima, con 1.470 metri di dislivello positivo, vinta da Greco e Meraldi, le altre sono state vinte tutte da Matt Carpenter. «Carpenter è stato l’atleta, dal puro punto di vista della corsa, più forte che ho potuto studiare, mentre quando iniziavano le difficoltà, non essendo un vero skyrunner, emergevano altri» dice Sergio Giulio Roi. La miglior prestazione ufficiale su maratona a 4.300 metri è proprio quella di Matt Carpenter nel 1998 con 2h52’57’’, mentre, seppur non certificata, quella a 5.200 metri è sempre dell’americano in 3h22’25’’. Le maratone in quota hanno permesso la realizzazione del Peak Performance Project, un progetto di ricerca scientifica promosso dalla FSA. L’obiettivo era rispondere ad alcune domande: è pericoloso correre in quota? Danneggia cuore e cervello? Qual è il limite della prestazione in alta quota? «Il Peak Performance Project ha portato a numerose pubblicazioni scientifiche e si è scoperto che è possibile correre ininterrottamente per 42 chilometri sopra ai 5.000 metri e in un percorso pianeggiante non innevato è teoricamente possibile utilizzare la corsa come forma di locomozione fino a un’altitudine di 7.000 metri» dice Sergio Giulio Roi. Altre scoperte? Si può correre a 4’/km sopra i 4.000 metri, lo skyrunner sale a circa 1.200/1.500 metri di dislivello ora, anche di più nelle gare corte e scende fino a 3.000 metri/ora, non sono emerse patologie significative legate alla prestazione in quota e negli atleti che hanno corso fino a 5.000 metri non si sono mai riscontrati casi di mal di montagna.

«I dati raccolti sugli skyrunner che hanno partecipato a maratone disputare a livello del mare e in alta quota in Tibet, a 4.300 e 5.200 metri, indicano che in termini di prestazione gli atleti meno veloci sono più penalizzati in quota rispetto ai più veloci. Ad esempio il vincitore della maratona evidenzia a 4.300 metri di quota un peggioramento di velocità del 21 per cento rispetto al record personale a livello del mare, mentre l’ultimo classificato evidenzia un peggioramento di velocità circa doppio, del 42 per cento; queste caratteristiche sono dovute alla diversa capacità di sfruttare un’elevata percentuale della massima potenza aerobica, al diverso costo del lavoro dei muscoli respiratori in quota e solo in parte alle diverse caratteristiche dei terreni» dice Sergio Giulio Roi. Gli anni ’90 volgono al termine, ma non la voglia di exploit in alta quota, che tocca anche altri sport. Nel 1998 nasce lo SkySki du Mont Blanc, che si corre fino al 2002. È un raid di skyrunning, scialpinismo e alpinismo inventato da Romano Cugnetto per promuovere la preparazione sportiva e la velocità in montagna come concetti di sicurezza. Si corre da La Villette, vicino a Courmayeur, fino al Rifugio Torino, poi si mettono gli sci per toccare Col du Rochefort, Flambeau, d’Entrèves, Base de la Vierge, Col du Rognon e si raggiunge l’Aiguille du Midi con tecnica alpinistica. È una gara a squadre e la prima edizione la vincono Ettore Champretavy e Leonardo Follis che coprono i 30 chilometri e 3.500 metri di dislivello in 3h48’30’’. Già nel 1992 si era corsa la Skyraid Adamello che prevedeva bici, skyrunning e alpinismo, ma la massima espressione di questi raid  multisport è stata nel 2002, in occasione dell’anno internazionale delle montagne, con l’Alpine Skyraid da Courmayeur a Cortina d’Ampezzo. Le squadre di tre-quattro atleti dovevano percorrere 500 chilometri e 23.000 metri di dislivello (in otto tappe) utilizzando la bici o mountain bike fino a 2.000 metri di quota, fino ai 3.000 in assetto skyrunning e oltre con tecnica alpinistica o scialpinistica. Per la cronaca la vittoria andò al Team Vibram di Stephane Brosse, Bruno e Dennis Brunod, Jean Pellissier in 27h00’40’’ e al Team Fila di Gisella Bendotti, Arianna Follis, Gloriana Pellissier e Alexia Zuberer. La combinata tra skyrunning, sci e bici era diventata di moda già prima e nel 2000 è stata organiz- zata la prima Olimpiade d’alta quota, gli Skygames, sulla scia delle imprese skybike di Giacometti del 1993 al Monte Rosa e del 1997 al Monte Bianco, raggiunto in 23 ore da Genova unendo bici e skyrunning.

Poi piano piano si è scesi di quota, lo skyrunning ha dato origine ad attività meno tecniche e meno d’élite, si è diffuso il trail running e la corsa del cielo è rimasta un sogno per pochi eletti. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile grazie ai favolosi anni ’90. Sabato 23 giugno 2018 Franco Collé e William Boffelli hanno chiuso la salita e discesa da Alagna alla Capanna Margherita in 4h39’59’’ in quella che è stata la prima edizione moderna della gloriosa gara del Monte Rosa, rinata a coppie sulla distanza di 35 chilometri e 7.000 metri di dislivello totale. La Monterosa Skymarathon si è disputata anche nel 2019 e, al momento di andare in stampa, è ancora in calendario, ma rinviata a luglio e in data da destinarsi. Il Monterosa segna il ritorno dello skyrunning alle sue origini: sport d’elite, per pochi, oltre i 2.000 metri, che richiede progressione anche con i bastoncini, con tratti attrezzati o l’uso delle mani. E dei gran polmoni. Come quelli che servono alla Dolomyths, al Kima, alla Pikes Peak, al Sentiero 4 Luglio o al Uyn Vertical Courmayeur Mont Blanc. Perché lo skyrunning è sempre stato vivo. E il futuro ha un cuore antico.

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Matt Carpenter in Messico © Dario Ferro/FSA

Il sogno di Franco Collé: Gressoney-Monte Rosa andata e ritorno in quattro ore e mezza

Crolla un record che durava dal 1997. Ieri alle prime luci dell’alba Franco Collé ha scritto la sua firma sul libro delle salite in velocità sul Monte Rosa. Partenza alle 4,30 da Gressoney, a quota 1.635, per arrivare alla Capanna Margherita (4.554 m) e rientrare in 4h30’45’’, 14’15’’ meno di Bruno Brunod nel 1997. Rimane però di Brunod il record di salita, che vede Collé dietro di 4’. «La neve nell’ultimo tratto dal Colle del Lys alla Capanna Margherita era polverosa e mi ha creato molte difficoltà, ma in discesa le condizioni erano ottimali» ha commentato Franco. La linea seguita da Collé copre 31 chilometri passando per il rifugio Mantova, Gnifetti e Colle del Lys. Erano tre anni che Franco pensava a questo FKT e l’assenza di gare in questa stagione estiva ha permesso di concretizzare il sogno di andare e tornare dalla montagna che vede dalle finestre di casa in quattro ore e mezza.

In un lungo post su Facebook, Marino Giacometti, padre dello skyrunning, ha riassunto la storia dei record sul Monte Rosa, dai vari versanti: «Nel 1988 un notiziario RAI riportava che un certo Valerio Bertoglio aveva salito il Monte Rosa in 4 ore. Da alpinista che ha salito molte volte il Monte Rosa, inclusa la parete est, uno dei miei pallini diventa farlo in meno di 4h. Ci riesco nel 1989 da Alagna, 3h53’. Solo qualche anno dopo scopro che il primo record di 4h (5h29’ a/r) era però da Gressoney, vale a dire circa 400 metri di dislivello e qualche chilometro in meno. La storia continua con le gare da Alagna dove Fabio Meraldi nel 1994 porta il record-gara a 3h14’ in salita e 4h23’27’’a/r. Nello stesso anno ci scappa il mio record da Genova alla vetta 16h30’ (tuttora imbattuto dal lato di Alagna). Nel 1997 in un ritaglio di tempo avevamo organizzato a Gressoney con Bruno Brunod, RAI Aosta e un cronometrista che certifica la salita in 3h05’ e ar 4h45’. La storia prosegue con il ritorno della gara a coppie da Alagna in cui si sfiora il record di Meraldi nel 2018 mentre come prestazione individuale (FKT) ci riesce per un soffio Marco De Gasperi, salita in 3h10’ e ar in 4h20’34’’ (3’ sotto il tempo di Fabio Meraldi in gara). Nel 2019, dal mare, ci prova Nico Valsesia passando però da Gressoney in 14h31’. Nel 2020 da Gressoney, Franco Collé abbassa il record a/r di 4h30’45’’ ma la miglior salita da questo versante resta di Bruno Brunod, 3h05’ contro 3h09’ impiegate da Collé».


Outdoor Italia: i produttori di articoli sportivi adottano rifugisti e Guide

Un gemellaggio tra le aziende che producono articoli sportivi outdoor e gli operatori turistici, dai rifugisti alle Guide alpine ed escursionistiche. Per fare conoscere il territorio dove dare sfogo alla nostra passione outdoor e chi di outdoor vive. Un’iniziativa per fare sistema. È la campagna social e digital #OUTDOORITALIA voluta da IOG Italian Outdoor Group di Assosport, l’associazione nata nel 2000 che raggruppa le principali aziende italiane leader nella produzione, importazione e distribuzione di abbigliamento, calzature e attrezzatura per l’attività outdoor e gli sport di montagna, con un totale di oltre 40 aziende associate. Un’iniziativa che vuole essere la rinascita dopo #IORESTOACASA, quanto di più in contrasto possibile con la ragione di esistere dell’industria outdoor, che ha tuttavia risposto in maniera responsabile, contribuendo nei mesi scorsi a promuovere attraverso i propri canali di comunicazione le misure di contenimento, raccomandando agli appassionati di rimanere in casa e di sospendere le attività sportive a contatto con l’ambiente.

In pratica i marchi italiani leader del mercato dell’outdoor che aderiscono a IOG Italian Outdoor Group hanno adottato alcuni operatori e strutture sul territorio che verranno presentati sul sito dell’associazione e sui canali social. «Siamo una delle destinazioni turistiche outdoor più amate nel mondo: dal mare, alla collina, alla montagna, il nostro ambiente naturale rappresenta la dimensione ideale per una vacanza rigenerativa a contatto con la natura. Pensiamo che sia nostro compito impegnarci per promuovere questo straordinario patrimonio, rendendo protagonisti quegli operatori che da questo ambiente traggono la propria fonte di sostentamento, aiutandoli a farsi conoscere meglio, in Italia e nel mondo, fornendo un aiuto concreto per la ripresa» ha dichiarato Luca Pedrotti, amministratore delegato del brand Lizard e presidente di IOG. «Abbiamo trovato un’intesa solida con una parte importante dei nostri associati, fra i quali figurano tutti i marchi Italiani leader nel mercato dell’outdoor, per portare avanti un’iniziativa che vorremmo diventasse un esempio su come si possa e si debba reagire con spirito pragmatico e solidale di fronte a un problema che ci deve vedere uniti, oggi più che mai».

La campagna, iniziata dal 15 giugno, si protrarrà fino a tutto il mese di luglio e agosto. «Ogni azienda socia di IOG ha attivato la propria rete di contatti sul territorio, offrendo loro la possibilità di fornire un messaggio promozionale sotto forma di video o di testo corredato da immagini, da diffondere attraverso il sito web e i canali social di IOG e attraverso i canali di comunicazione delle stesse aziende associate, per dare ancora maggiore eco al messaggio».


Ortovox continua a sostenere i rivenditori fisici tramite l'online shop

Con la campagna Support Your Local Ortovox Dealer, lanciata durante la chiusura forzata dei negozi imposta dall’emergenza Covid-19, il marchio outdoor ha versato ai rivenditori locali il 25% del fatturato ottenuto tramite l’online shop ortovox.com. Come annunciato lo scorso anno, Ortovox punta a unire il commercio al dettaglio specializzato con il proprio online shop. La nuova piattaforma del negozio digitale continuerà a fungere da base tecnica per i servizi B2B, garantendo numerosi vantaggi per i rivenditori locali.
A questo scopo, Ortovox, attraverso il nuovo online shop, si affida anche a Outtra. Questo strumento consente di verificare la disponibilità dei prodotti presso il negozio più vicino all’utente. In questo modo i negozianti collegati a Outtra possono contare su una vetrina digitale e hanno la possibilità di integrarla nella propria pagina web. Per proseguire questa collaborazione attiva con i rivenditori, Ortovox ha deciso inoltre di prolungare la campagna Support Your Local Dealer anche dopo la riapertura dei negozi e di continuare a sostenere i rivenditori specializzati versando il 10% del valore di tutti gli ordini (non resi) effettuati tramite l’online shop. Prima di confermare l’acquisto il cliente dovrà selezionare uno dei dieci rivenditori più vicini all’indirizzo di fatturazione che appariranno automaticamente sulla schermata. In questo modo il consumatore finale potrà quindi scegliere liberamente il rivenditore da sostenere. Il nuovo online shop incoraggia infine il consumo responsabile. Chiunque desideri acquistare un prodotto in negozio, infatti, può verificarne la disponibilità nell’online shop e successivamente contattare il negoziante di fiducia. Al fine di evitare il più possibile resi eccessivi degli ordini effettuati online e allo stesso tempo per contribuire alla tutela ambientale, Ortovox addebita ai consumatori finali una quota di cinque euro per ogni reso. Per ogni ordine non reso Ortovox dona cinque euro al fondo per la conservazione di Tarkine, l’ultima foresta vergine della Tasmania, terra natale delle pecore di razza Merino di Ortovox. Inoltre tutti i cartoni utilizzati per gli imballaggi vengono realizzati con carta riciclata.


Arriva Scott Supertrac RC 2

Scott lancia ufficialmente oggi la nuova Supertrac RC 2, la versione aggiornata della scarpa per medie distanze nata nel 2016. La v2 del modello della linea RC, pensata per gare su terreni anche tecnici e runner evoluti, mantiene la caratteristica suola radiale che è stata migliorata sotto il punto di vista della tenuta e della durata e aggiunge un rockplate in carbon-kevlar nella zona mediale per migliorare la stabilità e la protezione dal basso. La tomaia è realizzata con materiali Schoeller, per la precisione Coldblack e 3XDry. Il peso complessivo è di 270 grammi e il drop di 5 mm. L'intersuola è in Aerofoam Infinity che restituisce il 14% in più di risposta rispetto a strutture più tradizionali e garantisce un buon assorbimento. Scott Supertrac Rc 2 è già in vendita a 159,90 euro.

https://youtu.be/g416of6LHpI


Estefania Troguet: «Voglio essere me stessa anche a 8.000 metri»

E poi, quasi all’improvviso, il Nanga Parbat. La nona montagna più alta della Terra, con i suoi 8.126 metri di altezza, si lascia raggiungere nel punto più alto ed esposto portando nella storia della disciplina un nuovo nome. Quello di Estefania Troguet che lo scorso luglio ha conquistato il massiccio montuoso del Kashmir senza l’aiuto dell’ossigeno e quasi senza dirlo a nessuno, sussurrandolo appena. Ma, come succede in montagna, una parola detta da una cima diventa un’eco che si diffonde e amplifica. Così a soli 27 anni l’alpinista andorrana si è ritrovata a essere una donna da spedizioni, una di quelle che annoverano tra i propri numeri anche quello a quattro cifre che fa la differenza nel mondo dell’alpinismo: un ottomila. Lei che fino a qualche tempo prima era solo una ragazza appassionata di montagna, una sportiva, un’atleta. Ma prima di tutto una Maestra di sci nata e cresciuta ad Andorra, micro-stato dell’Europa sud-occidentale, situato nei Pirenei, tra la Francia e la Spagna, circondato dalle montagne. Quando nasci tra le cime, in un certo modo, è come se la tua strada fosse in parte segnata. Perché la gente di montagna è come quella di mare: quando hai a che fare con questi elementi della natura così incredibili, forti e insieme immensi, crei fin da subito un qualcosa che non si può spiegare esattamente.
Li vedi fuori, ma li senti dentro, come una sorta di malinconia permanente, di desiderio costante, di attrazione potente.

Chi sa cogliere questi segnali ne va alla ricerca. Stefy è una di queste persone. «Non so spiegare bene cosa e quando sia successo, so solo che è successo. Ho guardato le montagne e ho detto voglio andare là in alto. Avevo 20 anni. Mio padre è un Maestro di sci e io sono nata con gli sci ai piedi, ho gareggiato e sono diventata Maestra a mia volta e per me la montagna era solo quella invernale. Non sono mai stata un’appassionata di outdoor. Poi un giorno mio cugino mi ha chiesto se volevo andare in cima al Montserrat, ovvero la montagna più alta della Catalogna, e io ho accettato, un po’ come una sorta di prova. Il feeling che ho provato era così bello che non ho più smesso. Ho cominciato a viaggiare per il mondo, sono diventata anche Guida alpina di media montagna. Ho messo il mio corpo alla prova diverse volte e lui ha reagito bene in quota. La montagna mi ha insegnato più cose su di me che qualsiasi scuola e così ho cominciato: trekking, arrampicata, alpinismo. È arrivato tutto insieme». Inaspettato, come un colpo di fulmine che ti mette sottosopra lo stomaco, così è stato vederla lassù. Lei, colorata e piena di gioia, con le labbra rosso fuoco anche in montagna per non rinunciare alla femminilità che porta con orgoglio. Tocco di rossetto sulle labbra a rimarcare che la montagna è un posto per tutti e tutte, nonostante per secoli l’accesso alle donne sia stato considerato un tabù. Ma i pregiudizi nascono nella testa, prima che nella realtà. «Quando andavo in montagna e mi vedevano con il rossetto sulle labbra, mi dicevano: non puoi scalare, dove vai?. Mi sottovalutavano solo perché mi concedevo di essere me stessa. Figurarsi quando sono partita per il Nanga Parbat. Tutti credevano che non ce l’avrei fatta. E questo a lungo andare mette dei dubbi anche alla persona più sicura di sé. Già non sapevo come avrebbe reagito il mio corpo, visto che era la prima volta che mi confrontavo con quelle quote, non ero sicura nemmeno io di riuscirci, però ci credevo, molto più di quanto non facessero gli altri. Poi lassù ho visto che il mio corpo reagiva bene, mi sono sentita forte come non mai e questo mi ha impresso qualcosa dentro di indelebile».

La montagna crea dipendenza, inutile girarci attorno. La giovane andorrana comincia a essere impaziente, agitata. I soldi degli sponsor sono finiti eppure c’è ancora così tanto da fare. Così la bella e forte alpinista vende la macchina regalatale dal padre, una Fiat Abarth 500, compagna di mille avventure, per regalarsene una sola di avventura: a settembre Estefania parte ancora, questa volta per il Nepal, a raggiungere la vetta del Manaslu, anche questa volta senza ossigeno. Un’avventura difficile, dove non sono mancati momenti duri non solo per il fisico, ma anche per la mente. E non parliamo solo di fatica e paura, ma in un certo modo anche un po’ di distacco da quel genere di alpinismo così commerciale. Nonostante ciò, l’atleta dal rossetto rosso ha conquistato un altro Ottomila. Di ritorno dal Nepal Estefania ha cominciato ad allenarsi di nuovo, questa volta ancora più duramente perché ora sa cosa vuol dire raggiungere un ottomila, sa cosa serve al suo corpo e lo tiene costantemente in allenamento. «Mi sto dedicando a tempo pieno al mio essere atleta, lo posso dire con orgoglio. Questo significa fare dei sacrifici, tra cui, per esempio, rinunciare al lavoro di Maestra di sci. Purtroppo gli orari sono inconciliabili con gli allenamenti e avevo bisogno di concentrarmi bene. Ora lavoro con i brand che credono in me e che mi accompagneranno nella prossima avventura, come Ferrino. Purtroppo non ho più macchine da vendere (ride) e devo aspettare di raccogliere consensi per la mia prossima spedizione perché mi piacerebbe molto raggiungere un altro ottomila». Nel suo allenamento la Troguet combina il running per allenare la parte cardio, il climbing per prendere maggiore confidenza con la roccia, lo skialp, circuiti di potenza e un po’ di pesistica. Poco yoga e meditazione ancora, anche se è nei suoi prossimi obiettivi visto che nei buoni propositi del 2020 ha messo quello di cercare un po’ di calma, aspetto questo che le appartiene solo quando è in montagna. «La maggior parte del tempo mi alleno da sola, anche se mi piace quando qualche amico viene con me perché in fondo la condivisione è la base della vita. È vero che la montagna è in un certo senso un aspetto egoistico, ma dall’altra parte un compagno di cordata è fondamentale per assicurarti la vita. È sempre questione di equilibrio tra i due aspetti, sulla roccia e in città allo stesso modo».

Estefania non ha cambiato la sua vita da quando è diventata una piccola celebrità, ma sicuramente il suo esempio ha cambiato quella di qualcun altro. Attiva sui social media, la sua pagina Instagram è volata in poco tempo da pochi seguaci a più di 30.000 follower nel mondo, tra cui molte donne. «La cosa bella dei social media è che ti connettono con il resto del mondo e avvicinano le persone, anche se solo virtualmente. Ho ricevuto molti messaggi di supporto e mi sento di poter dire di far parte di una community di donne che vanno in montagna e che non hanno nulla da invidiare agli uomini per quanto riguarda forza e tenacia. Siamo molto forti ed è importante che ce lo ricordiamo. Il mio rossetto sarà sempre con me, simbolo ormai di questa provocazione che lancio alle ragazze che come me hanno il coraggio di mettersi alla prova».

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