Bosatelli sul percorso della nuova 100 miglia del Bernina
Questa strana stagione senza gare è l’occasione per mettere a fuoco nuovi progetti. Così gli organizzatori della Valmalenco Ultra Distance Trail, la gara di 90 km con 6.000 m D+ ai piedi del Bernina, ne hanno approfittato per progettare una nuova 100 miglia. «La VUT è nata con il preciso intento di promuovere il nostro territorio, l’Alta Via e i suoi rifugi. Proprio in quest’ottica, già a partire dall’anno prossimo, ci piacerebbe affiancare alla nostra gara principe due prove che definire di contorno sarebbe limitativo: una vera e propria 100 miglia e la 35 km. Ciò ci permetterà di offrire una proposta a tutto campo, dalle medie alle lunghissime distanze» ha detto Fabio Cometti del Comitato Organizzatore. E allora ecco un tester d’eccezione per il nuovo percorso. Oliviero Bosatelli è partito lo scorso 15 luglio da Piazza Garibaldi a Sondrio e ha corso all’ombra di Bernina, Disgrazia e Pizzo Scalino. L’ultra trailer del Team Scott Italia, main sponsor tecnico della gara, era accompagnato da atleti del posto e ha toccato alcuni punti tra i più belli della zona: Passo del Ventina, Valle di Scerscen, Diga di Alpe Gerala, Val di Togno e Val Poschiavina. «Ringrazio Scott e gli amici della VUT per avermi dato la possibilità di vivere questa tre giorni di immersione in una natura incontaminata - ha detto il Bosa al termine -. Su questi percorsi si vede la vera montagna in scenari che definirei stupendi. La fatica che si fa in salita è ampiamente ripagata dallo spettacolo che si può godere. Sarà una gara impegnativa, ma vi assicuro davvero bella». Il test event è stato anche l’occasione per fare del bene. Bosatelli è molto legato alla sua terra, epicentro dell’epidemia di Covid-19 e il comitato organizzatore per ringraziarlo ha fatto due piccole donazioni ad associazioni orobiche che lo stesso Oliviero ha segnalato.
Davide Cheraz e Pietro Picco, 4x4.000 in Valle d'Aosta
Non un record, almeno questo non era lo spirito, ma un sogno, una bella avventura da vivere con l’amico Aspirante Guida alpina Pietro Picco. Ecco come è nata l’idea di 4x4000 di Davide Cheraz del team Salomon. Il runner voleva salire i quattro quattromila valdostani in velocità, concatenandoli in bici. Un progetto più volte rinviato a causa delle condizioni problematiche, soprattutto sul Cervino. Poi il via da Courmayeur venerdì scorso e l’arrivo ieri alle 16 sempre a Courmayeur. In mezzo 400 km e un totale di 16.500 m D+ per raggiungere le vette di Cervino (4.478 m), Monte Rosa (4.554 m), Gran Paradiso (4.061 m) e Monte Bianco (4.810 m), prima di fare ritorno a Courmayeur, al Jardin de l'Ange, dove ad accoglierli c’era una nutrita folla di amici e turisti.
«E’ andata bene, benissimo - ha dichiarato Davide Cheraz -. Non fosse per il Bianco dove ci siamo trovati nella nebbia, direi che è andato tutto alla grande». Entrando nei dettagli, l’azzurro di trail running ha continuato: «Le condizioni non erano delle migliori, abbiamo anche pensato di tornare sui nostri passi, ma grazie all’assistenza di alcuni amici siamo riusciti ad arrivare in vetta. Il Cervino era la montagna che mi preoccupava di più dal punto di vista tecnico… invece siamo saliti molto più rapidi rispetto all’ascesa fatta come test. Ci siamo sempre mossi agevolmente anche grazie a delle giornate spettacolari. Momenti di difficoltà? Non molti. Oggi Pietro ha patito un dolore al tendine sull’ultima discesa verso Courmayeur, ma è stato un duro e ha stretto i denti».
Alle sue parole hanno fatto eco quelle dell’amico Pietro Picco: «Sapevamo che oggi il meteo non sarebbe stato dei migliori, ma nemmeno così proibitivo da vanificare l’ultima ascesa. È stato difficile trovare il momento giusto per partire, ma attendere e rinviare di qualche giorno si è rivelata la scelta giusta. Siamo contenti di essere riusciti a coronare questo nostro piccolo sogno. In questi giorni ci siamo sempre mossi bene, con una buona sintonia e senza prendere eccessivi rischi. Ora direi che ci siamo meritati una bella dormita.
Kilian a nudo
Da Steck a Jornet. Skialper 130, dedicato all’alpinismo, agli alpinismi, ai modi di intendere i nuovi alpinismi nei quali il fast & light ha un ruolo importante, si apre con Ueli e non può che chiudersi, dopo una carrellata di personaggi eccezionali, con Kilian. Perché rappresentano due strade diverse per arrivare alla velocità con ingaggio, quella dell’alpinista e dello skyrunner. Due strade che partono lontane, ma che a un certo punto corrono parallele fino a incrociarsi. Ma pur sempre due strade diverse. Non c’è dubbio che curiosità e sperimentazione abbiano accomunato questi giganti delle montagne e siano i fattori che li hanno fatti incontrare e dialogare. Ueli ha scritto la storia del fast & light, Kilian anche e ha ancora margini per scriverne altre di pagine. Lo abbiamo intervistato tante volte, ma mai eravamo andati tanto in profondità su argomenti come rischio, leggerezza, ingaggio, acclimatamento, attrezzatura, tecnica o allenamento. E anche sul suo rapporto con Ueli, of course.
Ecco un’anticipazione, quello che ci ha detto sul suo rapporto con Ueli Steck: «Abbiamo scalato insieme in Nepal, intorno a Chukkung. Abbiamo parlato molto di allenamento, approccio alpinistico alle grandi vette, acclimatamento, alimentazione. Un giorno ero a casa e, parlando, mi ha chiesto se avessi mai scalato l'Eiger. Io ho risposto di no, così mi ha detto di andare a trovarlo il giorno dopo a Interlaken, ho preso l’auto e la mattina siamo andati a Grindelwald. Abbiamo parcheggiato, una corsa fino alla parete, poi siamo saliti in simul-climbing, ma non così velocemente, solo godendocela e scattando foto. Dalla macchina alla macchina ci abbiamo messo dieci ore. Il suo è un approccio molto interessante, si è allenato tanto, ha curato ogni dettaglio ed è sempre stato aperto a provare il nuovo e a evolvere. Ogni uscita con lui è stata ricca di insegnamenti!».
E a proposito del diverso approccio all’ingaggio in quota di chi arriva dal trail running e chi dall’alpinismo? «Probabilmente la differenza sta nelle capacità tecniche e fisiche all'inizio più che nella visione, io devo concentrarmi sulla tecnica e loro lavorano sul fisico. Penso che gli stili siano molto simili, è solo il nostro background a essere diverso».
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Davide Magnini sale e scende dalla Presanella in 2 ore e 39 minuti
Il cielo è il limite per Davide Magnini, è davvero il caso di dirlo. Il ventiduenne di Vermiglio, punta di diamante della squadra di scialpinismo del Centro Sportivo Esercito, ha lasciato la sua firma su un’altra vetta salita in velocità questa mattina. Questa volta l’obiettivo era la Cima Presanella, la più alta del Trentino con i suoi 3.558 metri d’altezza e, soprattutto, la montagna di casa per Davide, che ogni mattina la guarda svegliandosi nella sua Vermiglio, sulle prime pendici del Passo del Tonale.
La corsa di Magnini è partita proprio dal suo paese natale alle 7.19 del mattino, circa un’ora dopo l’orario inizialmente previsto a causa della nebbia e delle basse temperature in quota prima che il cielo si aprisse. Dopo aver raggiunto la vetta con una grande prestazione (probabilmente la mia migliore scalata della Presanella di sempre dirà dopo la prova,) lo skyrunner si è lanciato nella discesa verso la località Cadin, sede di partenza e arrivo, arrivando a chiudere il suo sforzo in 2 ore, 39 minuti e 7 secondi sui complessivi 21 km di percorrenza per 2.350 metri di dislivello positivo. In allenamento, il trentino aveva fatto segnare un personal best di 3 ore, 7 minuti e 19 secondi: un miglioramento di quasi mezz’ora, a conferma di una prestazione di livello assoluto.
Magnini ha poi proseguito la sua corsa verso il centro di Vermiglio, dove ad attenderlo ha trovato famiglia, tifosi e appassionati per celebrare una nuova impresa conquistata dopo il record di salita e discesa dell’Ortles di appena otto giorni fa. «Dopo il record della scorsa settimana sapevo di contare su un’ottima condizione, ma l’emozione che provo oggi è fatta di tante cose. C’è stata la tensione, con l’avvio ritardato al mattino, ma anche la responsabilità dell’organizzazione che caratterizza eventi come questo, il desiderio di fare bene davanti alla mia gente, e la gioia di incontrare così tante persone prima sul percorso, e poi in piazza a Vermiglio. Volevo che fosse la festa di Vermiglio, della montagna, della passione: è stato proprio così» ha detto Davide. «Questa mattina avrei voluto partire alle 6, ma in quota c’era nebbia e uno strato di ghiaccio sulla cresta. Mio padre e il tecnico dell’Esercito Manfred Reichegger che erano sul percorso mi hanno consigliato di attendere, e anche grazie a questo sono riuscito a fare un’ottima ascesa, mentre oggi la discesa ha rappresentato l’insidia più grossa, sia per il fondo che per lo sforzo che nell’ultima parte ha iniziato a farsi sentire parecchio. Ma non c’è dubbio: sentire così tanto affetto intorno a me mi ha permesso di dare qualcosa in più, e staccare un tempo che ha superato le mie più rosee aspettative. Sono felice.
Al fianco di Davide Magnini nella sua impresa, il Consorzio Pontedilegno-Tonale. Davide Magnini ha la straordinaria capacità di riuscire a sorprenderci ogni volta - ha detto il consigliere delegato Michele Bertolini - Ormai tutto il mondo conosce il valore di questo straordinario campione, che oggi ha regalato ai tifosi di casa sua una grande prestazione e un’emozione ancora più grande. Non vediamo l’ora di seguire le prossime imprese di Davide: un percorso di grandi successi che speriamo lo porterà alla ribalta nel 2026, quando lo scialpinismo potrebbe fare il suo debutto come sport olimpico proprio nei Giochi di Milano-Cortina».
Federico Nicolini: Cima Tosa andata e ritorno in 3h4'50''
Ha sfidato la sorte per stabilire il nuovo fastest known time da Molveno a Cima Tosa scegliendo venerdì 17 per il tentativo. Ieri Federico Nicolini ha chiuso il giro di circa 30 km e con circa 2.300 m D+ in 3h4'50''. Partenza da quota 850 m e arrivo in vetta alla punta più alta del Brenta, Cima Tosa (3.173 m) per lo scialpinista figlio di Franco, gestore del rifugio Pedrotti. E proprio dal Pedrotti è passati Kikko, dopo essere partito alle 9 e avere seguito la Val delle Seghe. «Raggiungere la vetta sopra casa, nel minor tempo possibile è il sogno di ogni atleta - ha detto Kikko prima della partenza - Se poi la cima è anche la più alta del Gruppo di Brenta che con i suoi 3173 mt. domina tutta la valle l’adrenalina sale ancora di più. La Cima Tosa è una montagna simbolo per noi di Molveno e dell’altopiano Paganella...
Se poi vivi più di 3 mesi l’anno ai suoi piedi al Rifugio Tosa Pedrotti la sentì ancora di più tua».
Nadir Maguet, il Mago trasformista
È solo di pochi giorni fa la notizia che Nadir Maguet ha abbassato il record di salita e discesa dal Gran Paradiso, che resisteva dal 1995. Siamo andati a trovare Nadir a casa sua giusto qualche giorno prima del lockdown. Ecco cosa ci ha raccontato in quell'occasione.
Lo chiamano test Bertone e, a modo suo, è un metodo infallibile per valutare lo stato di forma e le potenzialità degli atleti. Non è proprio un test scientifico di laboratorio, come per esempio quello di Cooper, ma negli anni ha dato i suoi verdetti. Consiste in un vertical di corsa dalla base della Val Sapin, appena fuori Courmayeur, al rifugio Bertone, sul Mont de la Saxe: 700 metri circa di dislivello. Non una gara ufficiale, ma una tradizione per gli atleti del Centro Sportivo Esercito di Courmayeur, da ripetere un paio di volte l’anno, cronometrati uno alla volta. E un tempo da battere, quello di Damiano Lenzi, che resiste dal 2012. Fino all’inizio di ottobre del 2019, quando Nadir Maguet ferma il cronometro su 22 minuti e 35 secondi, qualche secondo in meno di Lence e e una ventina davanti a Davide Magnini. Alla vigilia della finale delle Golden Trail Series, il circuito di running outdoor più ambito per le medio-corte distanze, un ottimo riscontro per l’atleta valdostano. E la conferma dell’ultima transizione del Mago, dallo scialpinismo al trail e allo skyrunning, dopo quella dal fondo al biathlon, con un passaggio fugace nel calcio. Nadir parte per il Nepal al secondo posto nella classifica del circuito, dietro a Kilian e davanti a Magnini. Guardacaso tre skialper e – sempre guardacaso – con un vantaggio nel test su uno dei suoi avversari.
Dopo due mesi di alta pressione il cielo si copre velocemente. Mentre tagliamo gli ampi tornanti che portano a Torgnon, nella valle del Cervino, iniziano a scendere i primi fiocchi. Google Maps indica di svoltare a sinistra su una ripida e stretta rampa, fino ad arrivare a un piccolo parcheggio. Forse la neve è la risposta dell’oracolo alla nostra domanda. In effetti siamo saliti fin quassù per chiedere al Mago se dobbiamo considerarlo uno scialpinista o uno skyrunner. Scendiamo dall’auto nel cuore di un grazioso borgo di pietra con i tetti in ardesia, i fiocchi si fanno più consistenti. «Ciao Nadir, siamo al parcheggio, dove dobbiamo venire?». «Nella casa bianca, aspetta che esco sulle scale così mi vedi». Nadir si sbraccia, insieme a lui c’è Buck, un bellissimo esemplare di lupo cecoslovacco. Saliamo le scale, entriamo nell’accogliente pied-à-terre che da qualche mese il Mago condivide con la sua Sharon. Legno in abbondanza e grandi finestroni, con la neve che cade là fuori. Il posto migliore per una chiacchierata sulla fatica, in inverno e in estate.
Nadir, allora, sei uno scialpinista o uno skyrunner? «Me lo chiedono in tanti adesso. Ma, come in tutte le cose, ci sono sempre delle novità. Ho iniziato con lo sci di fondo, poi ho scoperto il biathlon, diventando anche campione italiano Ragazzi. Ho provato, per un anno, pure il calcio e non andavo male: volevano farmi fare un provino per il Torino, ma non mi piaceva l’ambiente. Così grazie a Teto Stradelli, che era mio compagno di scuola e faceva già gare di skialp, ho provato sci e pelli e ho sfidato mio padre nel vertical notturno del paese: se l’avessi battuto mi avrebbe comprato l’attrezzatura, che per quell’occasione mi ero fatto prestare. Inutile dire come è andata e che grazie a Marco Camandona ho iniziato ad allenarmi con lo sci club Corrado Gex. Ricordo ancora quella volta al Trofeo Vetan quando mi ha insegnato i cambi di assetto sull’asfalto, pochi minuti prima del via. Poi dai vertical sono passato alle individual e in estate ho iniziato a fare prove di sola salita per allenarmi, infine la salita ha lasciato posto anche alle skyrace, perché sono molto simili a una gara di scialpinismo. E così siamo arrivati all’estate scorsa quando ho deciso di partecipare alle Golden Trail Series e di fare la mia prima gara di quasi quattro ore, a Chamonix. Un’altra novità».
In ogni sport hai dimostrato il tuo valore, a Fully nel 2016 hai vinto nell’anno in cui c’erano tutti i big, mettendoti dietro due mostri sacri come Zemmer e Kilian, al primo anno delle Golden Trail Series hai collezionato il secondo posto alla Marathon du Mont Blanc e alla Dolomyths di Canazei e la vittoria alla Ring of Steal, presentandoti al secondo posto alle finali, dietro a quel Kilian che hai avuto davanti anche alla skyrace dei Mondiali scozzesi, nel 2018. «Sì e quel test Bertone faceva ben sperare, ero in gran forma. Poi al raduno della nazionale di skialp mi sono preso un virus intestinale che mi ha debilitato. Sono partito per il Nepal già non al top, anche se poi la situazione è migliorata, però in gara ho capito che non era giornata e non riuscivo a tenere il ritmo di Kilian e Davide. Ho cercato almeno di portarla a termine, ma non ce l’ho fatta e mi è tornato quel virus intestinale; peccato, ho chiuso il circuito al quinto posto».
Ai primi due posti sono arrivati due scialpinisti, al quinto tu, che senza quel maledetto virus saresti stato sul podio. Possiamo dire che lo skialp è allenante?
«Non ci avevo pensato, però in effetti se consideri anche quanto è forte Eyda nell’arrampicata o Lence sulla bici potrebbe essere uno spunto interessante, in effetti non saprei, bisognerebbe fare il gioco al contrario e vedere come vanno nello skialp gli atleti top nel trail e nello skyrunning».
Dunque non hai una risposta alla nostra domanda, allora mettiamola così, ti piace di più sciare o correre?
«Lo scialpinismo ha più obblighi perché faccio parte di un corpo militare, nella corsa è tutto ancora da inventare e in parte da scoprire. Il piacere è uguale, ogni sport ha la sua stagione e per come sono io non potrei fare la stessa cosa tutto l’anno. Andare sui ghiacciai in estate? Anche no, come correre in pieno inverno. Conosco le mie potenzialità sugli sci e ho ancora margini, ma credo di averne di più nello skyrunning. Più che altro su dieci gare di scialpinismo quelle dove sto veramente bene sono la metà, nella corsa diciamo otto su dieci. Non so ancora perché, devo lavorarci, forse dipende dall’allenamento, forse dal tipo stesso di movimento. Trovo che il running sia più dinamico, ci sia più leggerezza, mentre i movimenti dello skialp sono più lenti. Prendi per esempio il vertical: è tanto bello e armonioso con le scarpe da corsa quanto lento e goffo con sci e scarponi».
Le skyrace sono simili alle gare individual dello scialpinismo, sia come impostazione che come tempi, alla Marathon du Mont Blanc invece hai corso per la prima volta sulla distanza maratona e sei arrivato pure secondo. Come hai fatto?
«Era tutto nuovo per me, non sapevo come avrei reagito su una gara di quasi quattro ore invece delle abituali due o meno, così ho cercato di tenere un basso profilo, soprattutto nei primi 17 chilometri, quando è molto veloce, facendo un po’ l’elastico sui migliori per mantenere un’andatura abbastanza costante. Poi nella seconda parte, quando inizia la lunga salita finale, ho visto che ne avevo e ho fatto gara con Davide. I programmi erano questi e li ho rispettati».
Chi ti ha consigliato?
«La Marathon, come tutte le gare, l’ho preparata con Stephanie Jimenez, che segue la mia preparazione atletica. Con lei mi trovo molto bene e allena anche il marito, Fulvio Dapit, basta guardare i risultati… Ci siamo conosciuti in aereo andando alla The Rut, negli Stati Uniti, qualche anno fa. Prima mi seguiva un po’ Manni Reichegger ma poi, quando sono entrato anche io nell’Esercito e lui era ancora atleta, ho pensato di rivolgermi a Stephanie. Anche se stiamo lontani ci sentiamo tutti i giorni e ha accesso al mio account Movescount».
Dal Vertical alla maratona, il passo verso le ultra è breve…
«Non mi interessano, almeno per ora, almeno fino a quando avrò due stagioni, magari a fine carriera una UTMB o anche un Tor potrebbero starci, ma è un pensiero molto lontano».
Scialpinismo, trail e skyrunning sono tre mondi molto vicini, con fatica e dislivello al centro: sono più i punti in comune o le differenze?
«Più che in generale tra i tre sport, farei una distinzione tra le Golden Trail Series e il resto, soprattutto su come sono gestite e comunicate. Prendi per esempio la Coppa del Mondo di scialpinismo: si corre con poco pubblico e per gli atleti non c’è visibilità. Alle Golden Trail Series ti intervistano prima e dopo la gara, producono un video per ogni tappa dove fanno vedere i momenti più importanti con la voce dell’atleta a commentare, c’è un live streaming. E poi la formula della finale alla quale partecipano solo i primi dieci, portando anche un accompagnatore, ti fa vivere a stretto contatto con gli altri, fino alla gara c’è un bello spirito, quasi di vacanza, mentre nelle altre occasioni sei sempre solo».
Una risposta che tira un’altra domanda, che piega sta prendendo lo scialpinismo agonistico? Cosa pensi del sogno olimpico?
«Si è puntato tutto su format che siano spendibili per la televisione e lo spettacolo, come le sprint, che ci stanno. Però devono rimanere anche gare tecniche e fuoripista che sono l’essenza dello scialpinismo, invece in Coppa del Mondo ci sono sempre più tratti in pista e percorsi meno tecnici».
C’è qualcuno con cui hai legato di più alle Golden Trail Series e nel mondo dello scialpinismo?
«Alle Golden Trail Series, soprattutto alle finali, un po’ con tutti perché c’era davvero un bello spirito, è stata come una vacanza, un’occasione per condividere l’esperienza, anche con persone come Thibaut Baronian che viene dal mondo del trail e non conoscevo. Poi in gara ognuno ritorna avversario. Nello scialpinismo ho fatto coppia con tanti, ma quello con cui ho più feeling è Kikko Nicolini».
A guardare questa stagione sarebbe stato un bel giro di valzer, da Hermann alla Monterosa Skialp a Aymonod con cui avresti dovuto correre all’Altitoy fino a Eydallin che sarebbe stato il tuo compagno al Tour du Rutor…
«Con Hermann è stata dura e non abbiamo ancora gareggiato (questa intervista l’abbiamo fatta proprio qualche giorno prima della gara, l’unica delle tre che si è svolta, ndr). Mi sa che è l’ultima volta che faccio coppia con lui perché mi ha già subissato di domande (ride). Con Henri Aymonod mi trovo bene, però ogni tanto ci prendiamo in giro perché lui ama parlare e io invece sono abituato ad andare in montagna da solo e sono di poche parole, con Eyda ho uno dei ricordi più belli, il secondo posto al Tour du Rutor che è anche la gara con la quale sono più in sintonia per l’ambiente d’alta montagna e perché ha tante tappe ma non troppo lunghe».
Skyrace e individual sono la versione estiva e invernale di una filosofia simile, però ci sono gare più nervose, con continue salite e discese, magari corte, e altre con poche sezioni, una o due lunghe salite o discese. Quale preferisci?
«Sicuramente quelle regolari, come regolare è il mio ritmo, la gara estiva ideale sarebbe la Aosta Becca di Nona che riprende proprio quest’anno e che purtroppo non riuscirò a fare perché coincide con un’altra gara del mio calendario. Anche nello scialpinismo quando cambio assetto riprendo alla stessa velocità, con un ritmo regolare, guarda invece Magnini e Boscacci: loro uscendo dal cambio guadagnano subito margine e poi si stabilizzano».
Mentre siamo nel garage della casa di famiglia, dove c’è anche la ski room di Nadir, apre un cassetto e tira fuori tutti i pettorali. Ci sono quelli più recenti e i primi, insieme a qualche medaglia. In un angolo è appoggiato anche il trofeo della Transcavallo.
Se dovessi dire due gare estive e due invernali sopra a tutte?
«In inverno dico il terzo posto alla Pierra Menta con Boscacci e il secondo al Tour du Rutor con Eydallin, in estate in effetti ho fatto meno gare, potrei citare la vittoria a Fully e poi forse quella alla Ring of Steal o il secondo posto a Canazei, però mi piaceva molto anche la skyrace dei Mondiali giovanili di skyrunning al Gran Sasso, tecnica e in un bel paesaggio».
I materiali sono importanti, sia in inverno che d’estate, quanto sei maniaco in materia?
«Essendo pigro, sono attento ma non esageratamente. Gli sci me li preparo io quando mi alleno qui a casa, ho in dotazione due La Sportiva Gara Aero World Cup 70 più quello per le sprint e due scarponi Stratos Cube, uno per le gare e uno per gli allenamenti. Come attacco uso ATK, mentre in estate prevalentemente le Kaptiva, anche se per alcune gare più corribili come a Chamonix metto ai piedi le Helios. Non avevo mai riflettuto sull’importanza del peso delle scarpe da trail prima, ma alla fine 50 grammi di differenza su prodotti che ne pesano al massimo 300 sono più rilevanti di 50 grammi in uno scarpone in carbonio».
Non ti viene mai voglia di andare in montagna per il piacere di stare fuori, senza l’assillo dell’allenamento, di fare una bella sciata in compagnia o una passeggiata?
«Faccio scialpinismo per l’insieme del gesto atletico e la discesa non è una parte così importante per me e poi mi piace stare nella natura da solo, quando esco con gli sci o le scarpe da trail riesco davvero a staccare. Però in qualche lungo mi accompagna mio papà o Henri Aymonod. Vorrei andare oltre la competizione fine a se stessa, per questo ho iniziato ad arrampicare con regolarità per migliorare la parte alpinistica perché la prossima estate vorrei fare qualcosa in velocità e in quota, magari un concatenamento di cime. Potrebbe essere il giusto completamento dell’agonismo stesso».
Insomma, non sei uno sciatore, non sei un trail runner, cosa vorresti essere?
«Se fosse per me la guida di caccia».
Mentre finiamo di parlare fuori è già tutto bianco, la neve scende copiosa. L’oracolo continua a lanciare il suo messaggio. Ma forse non c’è una risposta, il Mago è tutto questo insieme, scialpinista, skyrunner, trail runner. Ogni sport che ha praticato ha regalato soddisfazioni, magari le avrebbe regalate anche il calcio. La risposta sta nel suo nome. Nadir in arabo significa prezioso, straordinario. Come chi eccelle in molto.
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Simone Eydallin da record nell'everesting
Dieci ore e 6 minuti. In questa estate così strana e così ricca di exploit personali, senza pettorale, ieri è arrivato un nuovo record, anche se è ancora in attesa di omologazione. Simone Eydallin ha fermato il cronometro sul miglior tempo dell’everesting, vale a dire 8.848 m D+ di corsa. Il precedente crono con lo stesso stile è di 11 ore e undici minuti. Perché esistono diverse opzioni, oltre a naturalmente alla più famosa in bici. L’atleta Dynafit ha scelto di scendere in mountain bike, su un percorso parallelo. La partenza ieri alle cinque di mattina in punto, nella sua Sauze d’Oulx, per risalire 12 volte e mezza una pista di sci di 715 metri di dislivello, lunga 3,3 km e con una pendenza media del 24%. «È una salita aritmica che uso spesso per allenarmi e per testarmi» ha detto Simone. Un record costruito con meticolosità, con un team, tra ristori, assistenza e lepri, di una decina di persone. «L’idea dell’everesting è nata più per allenamento e per dare un senso all’estate senza gare, ma inizialmente non pensavo al record, poi quando ho fatto una prova su un dislivello di circa la metà ho capito che avevo delle possibilità». La tattica di Simone è stata spavalda: spingere nelle prime cinque salite, per avere poi margine per gestire gli ultimi giri. «La prima salita l’ho chiusa in 33 minuti, forse un po’ troppo veloce, poi sono stato su una media di 35-36 minuti e l’obiettivo da metà era di potermi gestire 43 minuti di media, però all’ottavo e nono giro ho avuto un black-out durissimo. Il problema non era il fisico, ma la testa, non ce la facevo più a mangiare, a vedere le stesse persone, sono stato a un punto dal ritiro». Qualche curiosità: le scarpe usate sono state Feline Up, Simone aveva con sé anche un paio di bastoni pieghevoli, che non ha usato solo nelle prime due salite, ha consumato circa 12.000 calorie, 4,5 litri di bevande e percorso in totale 84 km con una media di 150 battiti al minuto. «Ogni 30 minuti prendevo un gel di carboidrati, poi all’arrivo sali o carboidrati liquidi e dopo circa metà delle salite ho aggiunto dei tramezzini con miele e marmellata, non ho mai avuto cali di zuccheri ma lo stomaco ne ha risentito un po’». Anche a metà percorso c’era un punto ristoro. Un altro aiuto è venuto dalle lepri, non tanto nelle prime salite, ma nelle ultime, nelle quali sono state importanti nell’impostare e mantenere il ritmo. Però l’atleta Dynafit non ha mai fatto portare nulla ai compagni, né i bastoni, né il flask. Well done Simone.
Arriva Scott Kinabalu Ultra RC
Viene lanciata ufficialmente oggi la nuova Scott Kinabalu Ultra RC, scarpa pensata per la corsa off-road su lunghe distanze, in gare e allenamento. Tra le caratteristiche la suola Hybrid Traction, con combinazione di tasselli a forma di chevron e conici: un mix che aiuta la spinta e la trazione, ma anche la stabilità nelle curve ad alta velocità. I tasselli conici sono posizionati ai lati. L'intersuola Kinetic Foam restituisce il 14% in più di reattività rispetto alla tradizionale EVA e la tomaia è in un tessuto leggermente rigido che offre il giusto supporto ma anche tanto spazio retato per la traspirazione. Il peso dichiarato è di 270 gr e il drop di 8 mm. Il prezzo di vendita è di 165,90 euro.
Maguet da record sul Gran Paradiso
Un crono che resisteva dal 1995. L’ennesimo record sulle vette più alte d’Italia che cade in questa estate senza gare. È successo questa mattina sul Gran Paradiso. Una sfida per due. I due alpini in forza al Centro Sportivo Esercito, Nadir Maguet e Daniel Antonioli, hanno attaccato lo storico primato di Ettore Champrétavy. A spuntarla in 2h02'32" (1h29 in vetta), con il nuovo record di salita e discesa è stato Nadir Maguet. L'altro alpino ha invece stoppato il cronometro sul tempo di 2h10'32". I due sono partiti dalla frazione Pont di Valsavarenche (1960 mslm), hanno risalito sentieri, pietraie, ripide pareti e la parte sommitale di ghiacciaio, fino a toccare i 4.061 m della vetta. Da lì, giù a rotta di collo in una e vera corsa contro il tempo.
Il precedente storico primato di 2h21’36” (1h43’22” il tempo di ascesa) del 1995 era di Ettore Champrétavy che a sua volta aveva invece battuto quello di Valerio Bertoglio, guardaparco di Ceresole Reale con un passato da atleta, che il 6 agosto 1991 fermò il cronometro sul tempo di 2h32’6” (1h50’il tempo di salita).
Dopo essersi confrontati con Ettore Champrétavy, che non ha lesinato loro preziosi consigli, alle prime luci dell’alba i due alpini sono partiti da Valsavarenche per attaccare i 2.101 metri di tecnicissima ascesa. Lo stesso Champrétavy, si è unito al personale della Sezione Militare di Alta Montagna e ad altro personale tecnico del Centro Sportivo Esercito e dell’ambiente, per creare una cornice di sicurezza lungo il percorso permettendo agli atleti di compiere l’ascesa e la discesa in completa autonomia e in piena sicurezza seppur con limitato materiale alpinistico al seguito. Un record certificato del sistema GPS Live Tracking di Wedosport e dal cronometraggio classico della Federazione Italiana Skyrunning.
L’incredibile storia dell’attacchino che fa impazzire il mondo
È un quadrilatero che ha come estremi Bad Haring, in Tirolo, Graz, in Stiria, il Monte Bianco e la Valtellina. Non c’è dubbio però che il caso abbia voluto che il Monte Bianco, il luogo che apparentemente c’entra meno con questa storia, sia stato determinante. Siamo agli inizi degli anni Ottanta. Uno studente di ingegneria di ritorno da una vacanza con un amico per arrampicare nelle Calanques passa da Chamonix. Guarda il Monte Bianco e, con quell’incoscienza tipica dei ventenni, non ci pensa due volte: perché non proviamo ad arrivare in vetta? I due scelgono di traversare dall’Aiguille du Midi, poi Tacul e Mont Maudit. Alla fine in vetta ci arrivano, ma devono battere traccia e quell’attrezzatura pesante – sci da due metri e attacchi da skialp con telaio – li distrugge più dell’intera vacanza nelle Calanques.
Passano meno di dieci anni, siamo alla fine degli anni Ottanta, più precisamente nel 1988. Nella valle di Chamonix si corre il Rallye du Mont Blanc. Tra i concorrenti la coppia Fabio Meraldi-Adriano Greco. Mentre stanno salendo con sci e pelli, il primo giorno, vengono entrambi fulminati da una visione. Stanno zitti, il fiato è poco e c’è da fare il tempo. Poi al termine della prova si guardano fissi negli occhi. Hai visto anche tu quello che ho visto io? Lungo il percorso hanno incontrato uno scialpinista senza attacchi. Senza attacchi, sì, giusto un puntalino piccolo piccolo e la talloniera ancora di più. In fin dei conti è quello che frulla nella loro testa da un po’ di tempo, bisogna separare il puntale dalla talloniera, ma come? Il primo anno alla Pierra Menta hanno usato il Silvretta 300 togliendo la talloniera e sostituendola con quella del rampone, ma la sicurezza? Dobbiamo assolutamente trovarlo si dicono, ma in una località come Chamonix è come cercare l’ago nel pagliaio. Il giorno dopo, durante la gara, incrociano ancora quello scialpinista. Nessuno dei tre parla una parola d’inglese, gesticolano, si fanno ampi cenni per ritrovarsi dopo la gara. E si ritrovano. Lo scialpinista è un austriaco, si chiama Fritz Barthel ed è quell’ingegnere che quando studiava era salito sul Monte Bianco, di ritorno dalle Calanques. È a Chamonix per incontrare un giornalista francese incuriosito dal suo attacco-non attacco. Fabio e Adriano rientrano in Valtellina e il giorno successivo partono subito in auto per il Tirolo, destinazione Bad Haring. Lì Fritz regala loro un paio di attacchini e uno scarpone Dynafit, un altro attacchino se lo comprano.
Nel 1989 Meraldi e Greco si presentano alla Pierra Menta con quell’attacchino con due pin per rendere solidale il puntale con lo scarpone e due spine alla talloniera. Ma i due valtellinesi fanno molto di più che usare quello strano aggeggio: danno consigli, vengono visti dagli altri agonisti italiani, la voce si sparge. In gara lo vogliono tutti. Centro Sport di Sondrio, di Gianni Rovedatti, inizia a distribuire il modello in Italia, che diventa uno dei mercati più importanti. I valtellinesi provano anche ad alleggerirlo ulteriormente andando da una guardia giurata del carcere di Tirano che si diletta con lavoretti di tornitura e ne realizza un esemplare in ergal. La talloniera è ok, ma il puntale si rompe... «Tra gli ingegneri meccanici esiste uno scioglilingua: se conosci la plastica, usa l’alluminio e se conosci l’alluminio, usa l’acciaio. Non volendo aggiungere materiale, ho usato l’acciaio.» dice Barthel. Il sodalizio con il mondo degli atleti italiani funziona. «Non sapevo quanto fosse grande il mondo delle gare in Italia e poi voi siete più aperti alle novità. È buffo, ma comunque lo provo mi dicevano in Italia, mentre in Austria la risposta era categorica: non funzionerà mai. Così una volta mi sono ritrovato a passare otto ore alla dogana di Vipiteno per esportare sei paia di scarponi» aggiunge Barthel.
Flashbak, 1984. Nella cantina di Bad Haring quel testardo studente d’ingegneria lavora senza sosta per realizzare la sua idea: un attacco da scialpinismo leggero, senza telaio, separando puntale e talloniera.
Fa vari tentativi. Capisce che deve contare su un intero sistema scarpone-attacco, più che sul solo attacchino. L’università dove studia è a Graz e lì - guardacaso - c’è anche una fabbrica della Dynafit, che produce scarponi da skialp. Per realizzare i fori che alloggiano i pin anteriori le prova tutte, ma rovina irrimediabilmente i suoi scarponi. Un giorno prende la bici e va in Dynafit. Riesce a farsi dare qualche scafo degli scarponi Tour Lite per i suoi esperimenti. Arriva perfino a scollare le suole, ma niente, capisce che bisognerebbe creare quella modanatura nella fase di iniezione del materiale plastico. Ecco allora che in questa storia interviene il quarto uomo, il padre di Fritz. È uno scialpinista, grazie ai primi prototipi riesce a stare al passo dei suoi amici più giovani. Un giorno si spinge fino a dire al figlio che quell’attacchino lo ha ringiovanito di 15 anni. E così mette mano al portafoglio per fare modificare lo stampo, e non sono pochi soldi. E in quel 1984 viene depositato il primo brevetto. Manca solo il nome. È l’epoca dei personal computer e dell’high tech, quel prodotto che toglie, più che mettere, e che fa della semplicità la sua arma vincente non può che chiamarsi Low Tech.
Barthel prende la sua creatura e inizia a bussare alla porta dei grandi marchi dello sci. Per il suo brevetto chiede l’equivalente di 2.000 euro, ma nessuno vuole metterci quei pochi soldi per un prodotto che nella migliore delle ipotesi potrebbe interessare l’uno per cento del mercato. Così inizia a produrlo e commercializzarlo lui. Il primo anno ne vende uno, poi dieci, poi 40. Tra il 1986 e il 1990 arriva a quota mille, tutti stipati in casa. Un giorno bussano alla porta. È un acquirente, ma non di un singolo attacco. Arrivano dalla Dynafit e si garantiscono i diritti esclusivi sull’attacchino, lasciando a Fritz il brevetto. «Ho sempre pensato che l’attacchino fosse per pochi pazzi, ma non sapevo che fossero così tanti, però i primi proprietari di Dynafit a credere nel Low Tech sono stati quelli di Salewa, il successo è legato ad alcune persone in particolare, Heini, Reiner, Beni (Oberrauch, Gerstner e Böhm, ndr) e pochi altri che hanno reso lo scialpinismo cool». Da allora l’attacchino è diventato lo standard, ben oltre le gare, ed è arrivato sulle vette più alte del mondo, scendendo dai pendii più ripidi. «Credo che i pin resisteranno ancora, ma la storia dice che i sistemi vengono sostituiti da altri sistemi migliori e dubito che sarò io a fare il prossimo passo, non è giusto che lo faccia un vecchio testardo: giovani, fatevi avanti!». È proprio vero, tutto questo non sarebbe stato possibile senza la testardaggine di quell’ingegnere austriaco, due garisti valtellinesi, un’azienda austriaca (che poi sarebbe diventata di proprietà italiana, guardacaso). E al Monte Bianco.
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Robert Antonioli e Andrea Prandi abbassano di un'ora il record delle 13 cime
Non è durato neanche una settimana il fastest known time sul percorso da Santa Caterina Valfurva alle 13 cime nel gruppo del Cevedale e ritorno, fatto registrare da William Boffelli e Gil Pintarelli nella notte tra martedì e mercoledì scorso. La scorsa notte, alle 3 in punto, come annunciato, Robert Antonioli e Andrea Prandi sono partiti dalla località valtellinese dove sono arrivati questa mattina poco prima delle 10, fermando il cronometro sul tempo di 6h52'56''. Sullo stesso percorso nel 2018 Antonioli e Stefano Confortola avevano fatto registrare un tempo di 9h52', mentre il best time di Boffelli-Pintarelli era di 7h50'. Il percorso tocca 13 cime oltre i 3.000 metri del gruppo Ortles-Cevedale, con il gran premio della montagna a quota 3.769 metri del Cevedale. Oltre al Cevedale si passa per Pedranzini, Dosegù, San Matteo, Giumella, Cadini, Rocca Santa Caterina, Pejo, Taviela, Linke, Vioz, Palon de la Mare, Rosole.
L'arte del confino
«Faceva più freddo di quanto mi aspettassi. Il sole non aveva raggiunto ancora il fondo del ghiacciaio e una leggera brezza catabatica scendeva dalla testa della conca, penetrando sotto le giacche a vento. Di tanto in tanto il silenzio veniva interrotto. Bastavano pochi minuti e il sole del mattino allentava i vincoli che tenevano legate le pietre, facendone cadere qualcuna. In assenza di altri suoni, si sentiva il rumore di ogni singola pietra che scendeva dalle pareti a diversi chilometri di distanza. Poi la pace veniva cancellata dal ruggito di un seracco che crollava sopra il canale del Cordier sull'Aiguille Verte. Le settimane chiuso in casa avevano dato una spinta fortissima alla mia sensazione di stupore per la bellezza di queste masse di roccia e ghiaccio, ma ero frastornato da un'accozzaglia di emozioni contrastanti. Stare lassù non aveva quel sapore di libertà che mi aspettavo, ma mi sembrava un piacere illecito che potevo solamente sorseggiare per paura di ubriacarmi».
Descrive così il sapore della libertà dopo il lockdown Ben Tibbetts su Skialper 130 di giugno-luglio in un bell’articolo sul senso dello stare chiusi tra quattro pareti quando vivi ai piedi del Monte Bianco. L’inglese, autore del bel libro Alpenglow, sui quattromila delle Alpi, ha firmato per Skialper un racconto tra ricordi di quelle lunghe settimane, nelle quali ha avuto la fortuna di potere salire in montagna per lavoro, disegni delle grandi pareti Nord delle Alpi e riflessioni sul mestiere di Guida ai tempi del Covid-19 e il futuro. «Oggi siamo 1.500 guide. È probabile, e credo anche auspicabile, che si possa diversificare, se possibile, in vari settori - ha detto a Tibbetts Philippe Collet, un istruttore dell'ENSA (il centro francese di formazione delle Guide alpine) In ogni caso, data la forza dello choc economico, credo che sia ormai certo che il numero di Guide che potranno vivere di questo lavoro diminuirà notevolmente. Ho la sensazione che la nostra professione si stia muovendo verso qualcosa di più diffuso, che possa interessare un pubblico più ampio rivisitando il concetto di avventure local. Il rapporto con il viaggio e con l’idea di andare lontano per appagare la nostra passione diventerà un argomento di seria riflessione».
L’articolo completo è su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile anche nel nostro online-shop