La fine è il mio inizio

«Come l’antica arte giapponese del Kintsugi che ripara con polvere d’oro oggetti rotti là dove hanno le crepe più profonde, così la polvere bianca a Limone ha coperto con eleganza i suoi crepacci terrosi. Osservo questa forza silenziosa e non posso non citare che lui: «Il mondo ci spezza tutti quanti, ma solo alcuni diventano più forti là dove sono stati spezzati». Ernest Hemingway (il mio preferito)».

© Daniele Molineris

L’oro bianco, caduto davvero in abbondanza in questo strano inverno su Limone Piemonte, ha davvero coperto le terribili ferite dall’alluvione autunnale, anche se non ha potuto fare nulla contro i lockdown e la pandemia. Per vedere da vicino una Limone diversa Chiara Guglielmina e il fotografo Daniele Molineris hanno messo sci e pelli e radunato una schiera di local nel comprensorio sciistico quanto mai silenzioso. Una gita per entrare nel genius loci, per parlare con i protagonisti, per guardare avanti senza arrendersi. A fare compagnia a Chiara e Daniele la Maestra di sci Sara Tammaro, Andrea Cis Cismondi che, oltre a gestire due rifugi in zona è anche uno dei più apprezzati testatori della nostra Buyer’s Guide, la Guida alpina Alessio Cerrina, Nino Viale, indimenticato autore della prima discesa sul Coolidge al Monviso e gestore dello Chalet Le Marmotte. «Occhi pacati che celano un passato pazzesco gestiscono ora quello Chalet avvolto nel gelo - scrive Chiara -; ma Nino resta ottimista. D’altronde, sto parlando con lo stesso uomo che quando gli dissero, senza indugi, che la sua idea di discesa non era possibile ribatté: «Le cose impossibili si possono anche fare. Altrimenti saranno tali per sempre».

© Daniele Molineris

All’altezza dello Chalet delle Marmotte un piacevole fuori programma. «Non faccio in tempo a capire i fatti che, mentre nella mente ripeto Rocca dell’Abisso... Rocca... Abisso.... appagando anche il mio lato nerd, Cis ha già tolto le pelli e sta serrando con foga i ganci degli scarponi pronto a sverginare quella meraviglia. Macchiando per primo il lenzuolo. Per sua sfortuna noi altri siamo altrettanto rapidi e d’un tratto siamo tutti e quattro pronti: i bastoni impugnati, la mascherina (quella bella) calata. Ooh! Woosh! Wow Pow! Pow! Yeah! sono i suoni che emettiamo: come bestie, sciamo facendo versi. Un vociare disarmonico contrasta le linee eleganti che tracciamo con i piedi e, nel complesso, lo spettacolo è unico. Come con tante delle cose più belle, il piacere tanto atteso è consumato in fretta, ma il ricordo resta. Dopo quindici curve scarse di pura estasi, incolliamo le pelli alle solette finalmente appagate e risaliamo da dove siamo scesi».

Su Skialper 134 di febbraio-marzo un reportage di 19 pagine su Limone Piemonte. Da non perdere. 

© Daniele Molineris

SCARPA lancia il Green Manifesto

SCARPA punta sull'ambiente con un ambizioso piano che prevede l'utilizzo di energia elettrica esclusivamente da fonti rinnovabili certificate, la formazione del personale della sede italiana e la presenza in azienda della figura del Sustainability Ambassador. A seguire il comunicato ufficiale dell'azienda.

SCARPA, azienda italiana leader nella produzione di calzature da montagna e per le attività outdoor, lancia oggi il suo “Green Manifesto”, impegno programmatico che enuncia i principi sostenibili dell’azienda e li concretizza in nuove iniziative, finalizzate ad allineare l’attività di SCARPA ai migliori standard internazionali.

Le prime azioni sono state intraprese già nell’anno in corso: il 100% del personale della sede italiana di Asolo (Tv) è stato formato su temi di innovazione sostenibile, e un gruppo di 16 Sustainability Ambassador, distribuiti in ogni funzione aziendale, è ora a disposizione dei dipendenti per qualsiasi domanda in materia di sostenibilità. Un analogo progetto è allo studio anche per quanto riguarda le sedi localizzate all’estero. Inoltre, a partire da gennaio 2020, il 100% dell’energia elettrica utilizzata in Italia proviene da fonti rinnovabili certificate, consentendo di neutralizzare la produzione di una quantità di CO2 di circa 1000 tonnellate ogni anno. Un impegno che si rafforza, a partire da inizio 2021, con l’utilizzo esclusivo di energia da biomassa vegetale a basso impatto. A ciò si somma il risparmio di emissioni già ottenuto grazie agli impianti fotovoltaici installati sulla sede SCARPA, che verranno rinnovati e ampliati nei prossimi mesi.

Sono queste le prime iniziative di un programma che renderà SCARPA sempre più all’avanguardia nelle pratiche sostenibili, anche attraverso il lancio nel 2021 di nuovi prodotti altamente eco-friendly. La base di partenza sono i valori su cui l’azienda ha costruito il suo successo, che ora il “Green Manifesto” rende espliciti tramite una nuova interpretazione dell’acronimo S.C.A.R.P.A, che diventa anche un acrostico. 

“S” rappresenta la Sostenibilità, a sottolineare l’imperativo che SCARPA, da sempre azienda che vive la montagna e la natura, vuole porsi aderendo ai migliori standard internazionali e dandosi obiettivi concreti e misurabili.

“C” simboleggia invece la Cura, intesa innanzitutto come quella con cui vengono realizzate le calzature SCARPA, evitando l’obsolescenza programmata e offrendo anche servizi di risuolatura per dare una seconda vita ai prodotti. Il fatto che circa il 60% della produzione avvenga in Italia permette poi di ridurre al minimo gli impatti associati agli spostamenti logistici, e assicura l’applicazione di standard di gestione e qualità elevati.

Aria è la parola associata alla prima “A”: da una parte perché la vocazione dell’azienda è l’outdoor, l’aria aperta, uno stile di vita attivo ma al tempo stesso contemplativo; dall’altra per evidenziare l’impegno a ridurre al minimo le proprie emissioni dannose per l’ambiente.

“R” come Rispetto, inteso ovviamente come rispetto per la natura, ma anche come fondamento della convivenza tra gli esseri umani: dunque conoscere e rispettare le regole, adottare i migliori standard qualitativi, certificare le eccellenze. SCARPA è una delle rare aziende del mondo footwear a produrre oltre l’85% dei prodotti in fabbriche di proprietà, e in grandissima parte in Europa. Questo permette un controllo diretto e puntuale sulle pratiche sociali e ambientali adottate, con particolare attenzione anche alla salute e alla sicurezza dei lavoratori.

“P” di Performance, sottolinea la passione di SCARPA per la creazione di prodotti altamente innovativi e all’avanguardia, testimoniata dai notevoli investimenti in Ricerca e Sviluppo (circa il 5% del fatturato). Una spinta innovativa che l’azienda vuole rivolgere sempre di più al trovare metodi di produzione e materiali ecosostenibili, sull’esempio del Pebax® Rnew, il materiale totalmente biologico e riciclabile che SCARPA ha utilizzato per prima nei suoi scarponi da scialpinismo.

Infine, la seconda “A” richiama il valore dell’Autenticità, ossia il voler essere trasparenti, senza filtri, forti di un lungo cammino - iniziato oltre 80 anni fa - in cui l’azienda ha costruito la sua unicità e un rapporto sincero con partner, atleti e clienti.

Oltre a sintetizzare questi valori, il “Green Manifesto” di SCARPA vuole rappresentare anche una dichiarazione di intenti per il futuro, uno standard a cui l’azienda desidera attenersi ed essere responsabile di fronte al mondo. “Per noi questo manifesto è un prendere consapevolezza di cosa è SCARPA oggi, per poter immaginare cosa sarà SCARPA domani,” spiega il presidente Sandro Parisotto. “Da sempre, vivendo le montagne, abbiamo spontaneamente sviluppato una cultura di rispetto per l’ambiente e ora vogliamo darle una struttura più definita, affinché i nostri valori possano trasformarsi in un contributo concreto ed efficace alla custodia della natura e al benessere della società.”

https://www.scarpa.net/green-manifesto


It's the end of the world as we know it?

«Era l’inverno del lontano 2020 e le Dolomiti di Brenta sembravano avvolte da un incantesimo. Dopo giorni di incredibili nevicate finalmente era sbucato il sole. Così, domenica 13 dicembre, non avevamo avuto dubbi sul da farsi. Messe le pelli, eravamo partiti con destinazione quota 2.069 metri. Ricordo le impronte dei camosci confondersi con la mia traccia. Tutto intorno il manto nevoso immacolato illuminava le montagne. Le condizioni erano davvero eccezionali, favolose. Sarebbe stato tutto nella norma se non fosse che stavamo facendo scialpinismo sulla pista Cinque Laghi, che di solito in quel periodo era piena zeppa di sciatori che sfrecciavano a folle velocità verso valle. Accanto a noi, le seggiovie coperte di neve sembravano un reperto d’altri tempi e incutevano una certa tristezza. Madonna di Campiglio era semi deserta. Da allora nulla è stato più come prima. Tutti noi siamo cambiati». 

© Alice Russolo

Inizia così l’articolo It’s the end of the world as we know it di Marta Manzoni, con le stupende fotografie di Alice Russolo che pubblichiamo su Skialper 134 di febbraio-marzo. Una provocazione sul filo sottile delle citazioni musicali per partire alla scoperta di una Madonna di Campiglio irriconoscibile, naturalmente con sci e pelli, ma anche per immaginare come potrebbe cambiare l’offerta turistica della montagna dopo questo inverno inimmaginabile e irripetibile. «Questa situazione porterà un cambiamento. Dobbiamo rallentare. La giostra del su e giù con gli impianti è troppo frenetica, come la nostra vita. In questi giorni per salire in cima ti devi prendere la giornata, te la godi, assapori ogni momento – racconta Martina Marcora, proprietaria del Rifugio 5 Laghi – Mi piace la relazione con le persone e per questo soffro i momenti di alta affluenza, quando il rapporto umano viene meno. Bisogna diluire l’afflusso di turisti su tutto l’arco dell’anno».

«Siamo arrivati a un punto di svolta: la parabola del turismo dello sci alpino è sempre cresciuta e ora improvvisamente ci troviamo in una caduta verticale - dice Bruno Felicetti, direttore delle Funivie Madonna di Campiglio - Le varie forme di outdoor sulla neve non possono più essere considerate in competizione con gli impianti, la logica, al contrario, dev’essere quella dell’integrazione: si potrebbe offrire non più lo ski pass ma un winter pass, una tessera outdoor ricaricabile, per permettere a ognuno di scegliere l’esperienza che preferisce vivere. Questa situazione ha messo in evidenza i limiti della monocultura dell’offerta invernale. La normalità non sarà più quella di prima e su questo dobbiamo interrogarci».

Tante altre voci e idee dalle piste chiuse di Madonna di Campiglio su Skialper 134 di febbraio-marzo.

© Alice Russolo

48 ore al massimo. O la storia di una rapina in Appennino

«La luce è splendida e illumina un sorprendente paesaggio invernale, il bianco candido delle cime spunta in mezzo a un oceano di foresta. In lontananza, le piste da sci di una stazione sciistica chiusa, forse per sempre, attirano la mia attenzione e mi ricordano il Vermontì e gli Stati Uniti. Usciamo dal bosco delle Veline per guadagnare la morbidezza e le curve dolci dei pendii che brillano al sole, l’aria rimane relativamente fresca e non c’è un filo di vento. Questa salita è una pura meraviglia, Layla, che aveva avuto qualche dubbio a lasciare l’abbondante nevicata di Chamonix, ora è in paradiso. C’è molta gente intorno alla croce artisticamente incrostata di ghiaccio in cima al Monte Cusna; è il punto più alto della provincia di Reggio Emilia, a 2.121 metri sul livello del mare, e attira una folla variopinta venuta a festeggiare la gioia dell’inverno e della neve fresca».

È il racconto di Bruno Compagnet, arrivato in fretta da Chamonix per trovare le giuste condizioni sull’Appennino Emiliano, come si fa per l’onda giusta nel surf, quell’onda che aspetti per anni, a raccontare la meraviglia dello scialpinismo al Monte Cusna a dicembre, dopo le nevicate record di inizio stagione. In prossimità delle piste di sci chiuse, accanto a ciaspolatori e curiosi. Due giorni di sci intenso, di sci-scoperta. Un reportage alla ricerca dell’essenza di sci e pelli in questo momento così particolare della nostra esistenza. Non solo una descrizione dei luoghi, ma una riflessione sulla bellezza di scivolare nella neve fresca, di conquistarsi ogni curva, di respirare aria pura a pieni polmoni.

© Layla Kerley

«Ci sono i vecchi con l’attrezzatura collaudata, esausta e a volte anche un po’ obsoleta, e poi ci sono i giovani, i nuovi, quelli che leggono le riviste specializzate di sci, che sono attivi su Instagram, e quelli che se ne fregano. Oppure quelli che fuggono dall’atmosfera soffocante delle città. C’è tanta gente e io sono diventato un vecchio solitario, ma per una volta sono felice di vedere persone entusiaste di uscire a prendere un po’ d’aria fresca, senza mascherine, di vedere e sentire tutto questo parlare, toccare, sorridere. Non importa se con gli sci o le ciaspole, ecco che dai vari tracciati e dalla pista diversi gruppi invadono la salita».

E poi… ci sono le splendide fotografie di Layla Kerley a documentare una sciata con lo sguardo che corre dal mare al Monte Rosa. L’articolo completo è su Skialper 134 di febbraio-marzo. 

© Layla Kerley

La Grande Course tra cancellazioni e speciali edition

Visto l’annullamento del Trofeo Mezzalama e con la Pierra Menta riservata ai soli atleti nazionali nella gara che venerdì 12 marzo assegnerà il primo titolo mondiale ISMF-LGC Long Distance per squadre, il comitato organizzatore de La Grande Course ha deciso all’unanimità che il nuovo circuito riprenderà di fatto nel 2022 con L’Altitoy Ternua e terminerà nel 2023 con il Trofeo Mezzalama. Per chi nell’anno corrente avesse già acquistato la tessera, quella in suo possesso sarà comunque valevole per il triennio che ci attende.

ADAMELLO SKI RAID SPECIAL EDITION 

Pur non essendo tappa del circuito, il 10 aprile andrà in scena la settima edizione dell'Adamello Ski Raid. Le iscrizioni sono già aperte e, sulle montagne di confine tra Lombardia e Trentino, lo spettacolo è assicurato. Per l’occasione i ragazzi di Alessandro Mottinelli hanno infatti promesso un tracciato davvero ‘extreme’ per veri gourmet del mondo race. Vista la tecnicità del percorso, 34 chilometri di sviluppo, 3.400 m D+, saranno ammesse ai blocchi di partenza non più di 160 squadre. Nel caso in cui il numero di richieste superi la disponibilità, per stabilire le priorità verranno tenuti in considerazione il curriculum degli atleti e la data di invio del modulo. Come anticipato, dato che il circuito della Grand Course quest’anno non avrà luogo, l’Adamello Ski Raid 2021 sarà gara Fisi aperta agli stranieri e assegnerà punti preziosi per chi, il prossimo anno, sogna le grandi classiche. Maggiori info su: www.adamelloskiraid.com

GARE AFFILIATE

Sono eventi scelti ad hoc per qualità organizzativa e tecnicità dei tracciati volti ad accrescere la formazione alpinistica degli atleti per garantire loro il bagaglio tecnico necessario per correre le grandi classiche. Proprio come L’Adamello Ski Raid 2021, queste gare forniranno ai finisher una sorta di wild card per un accesso diretto alle iscrizioni delle grandi classiche dello skialp. Le gare affiliate 2021 e attualmente in calendario sono:

- La Grande Trace, Le Dévoluy (F) in programma 13 e 14 febbraio.

- Transcavallo, Alpago - Piancavallo (I) in programma il 20 marzo.

- La Belle Étoile, Les 7 Laux - Isère (F) in programma il 27 e 28 marzo.


Gruppo vacanze Sellaronda

«Arrivo a Canazei alle dieci di sera di una sera qualunque di dicembre, le poche luci accese sono quelle delle insegne. Dopo l’uscita dall’autostrada avrò incontrato sì e no una decina di auto: più che nel cuore del Dolomiti Superski, sembra di essere in una di quelle valli un po’ decadute, frequentate solo da scialpinisti e scalatori. Il mio è uno dei pochi alberghi aperti, ci sono un paio di turisti e pochi altri ospiti che sono lì per lavoro. Una volpe attraversa la strada mentre scarico le valigie, fa freddo».

Comincia così l’articolo Gruppo Vacanze Sellaronda di Federico Ravassard, autore anche delle fotografie, su Skialper 134 di febbraio-marzo. Un racconto del Sellaronda desolatamente vuoto, di una delle massime espressioni del turismo invernale di massa trasformata in ritrovo per qualche scialpinista. «Nella sola Val di Fassa, ad esempio, tra alberghi, appartamenti e seconde case si contano oltre 56.000 posti letto disponibili, a fronte di una popolazione che non arriva ai 10.000 abitanti. Nella vicina Val Gardena le presenze annue superano il milione, distribuite in più di 700 strutture ricettive. Più di metà degli arrivi sono stranieri, un terzo del totale è di origine tedesca. Nella stagione invernale metà del fatturato viene prodotto nei mesi di gennaio e febbraio, il resto si sparpaglia, fra dicembre, marzo ed aprile. Questo significa avere un modello economico, quello del turismo invernale, basato sul fare grandissimi numeri ma in un periodo di tempo brevissimo, e a quel periodo dedicare – o sacrificare, dipende dai punti di vista – tutto il resto, dalle risorse naturali a quelle umane. È come se un negozio decidesse di aprire solo per un paio di mesi all’anno, vendendo pochissimi prodotti: certamente può funzionare, e la prova sono i pop-up store che vendono capi di moda in edizione limitatissima. Ma, proprio come nel mondo del fashion, basta poco perché un prodotto rimanga invenduto e per mandare tutto all’aria: questione di trend e di collezioni, oppure di pandemie».

Le 20 pagine di reportage che dedichiamo al Sellaronda, ma anche al fuoripista della Val Mezdì, non sono solo il racconto di un inverno diverso, ma la voce di chi di solito quell’inverno non ha tempo di viverlo, cioè di quei professionisti della montagna, Guide, Maestri, albergatori, che proprio nel periodo che amano di più si trova costretti a fare gli straordinari. E invece per un anno si sono goduti il loro parco giochi privato. Non senza leccarsi le ferite, perché quel parco giochi è anche la loro fonte di reddito. «Chiudere gli impianti da sci non significa levare un giochino del weekend a borghesi annoiati, ma di fatto tagliare alla base una catena che tiene in vita indirettamente una miriade di piccole attività e lavoratori stagionali, all’incirca 400.000 persone in tutta la penisola». Per fortuna rimane il fatto che «non è detto che sciare sia un’attività funzionale a risolvere qualsiasi tipo di problema, ma di sicuro ti pone nella condizioni di guardarlo in un modo più leggero».

© Federico Ravassard

Sci e pelli, la filosofia di Livigno

Se ne può discutere all’infinito: è scialpinismo salire accanto alle piste e scendere in pista? Non etimologicamente parlando, piuttosto ski fitness o se vogliamo ski touring, che non ha nella terminologia la parola alpinismo. Non c’è dubbio però che, a maggior ragione in una stagione come questa, con impianti finora chiusi e tanti appassionati che hanno acquistato o affittato l’attrezzatura da scialpinismo, una strategia di avvicinamento dolce sia diventata ancora di più un’esigenza. Per permettere a chi non lo ha mai fatto di provare in tutta sicurezza sci e pelli e poi magari fare un ulteriore passo nella montagna aperta.

Da diversi anni Livigno propone una filosofia di avvicinamento al freeride e allo scialpinismo con percorsi di risalita segnalati e battuti. Un progetto, quello della località valtellinese, che non si limita agli itinerari ma cerca di trasmettere anche una cultura della sicurezza. Per questa strana stagione l’offerta legata a sci e pelli prevede quattro itinerari di risalita segnalati, battuti e monitorati con dislivelli da 460 ai 620 metri che permettono di raggiungere le piste di sci per la discesa, oppure per una sciata in neve fresca seguendo le tracce della salite. Il consiglio è comunque quello di avere sempre con sé il set sonda-pala-artva nel caso si opti per la discesa fuoripista. Inoltre vengono sempre evidenziate le sei regole d’oro della sicurezza: bollettino valanghe, set di autosoccorso, prudenza, utilizzo del casco e uscita con almeno un compagno, rivolgersi alle Guide alpine se non ci si sente sicuri e prestare soccorso e chiamare immediatamente il 112 in caso di incidente. Un’offerta, quella legata a sci e pelli, che è stata potenziata in questa stagione e ha visto un’alta adesione, segno che una porta d’entrata ‘dolce’ al mondo dello scialpinismo è un’esigenza reale. 


Finché c'è neve c'è Speranza

«In montagna ho fatto più o meno tutto, più o meno bene: salite invernali, arrampicate in falesia d’estate, trekking, corse in quota, ciaspolate a non finire, sci su pista e sci da fondo. In quest’ultimo settore ho partecipato pure a qualche gara e ad almeno una dozzina di Marcialonghe, a partire dalla prima, quella del remoto 1971. Solo per farvi intendere l’età che ho accumulato. Mi mancava dunque lo scialpinismo. È un po’ che ce l’avevo in mente ma per smuovermi davvero ci volevano due cose indispensabili: l’occasione e la compagnia giusta. Adesso l’occasione l’ho trovata: la quarantena nella casa di montagna».

Inizia così l’articolo Finché c’è neve c’è Speranza, di Franco Faggiani, affermato e premiato autore di romanzi (La Manutenzione dei Sensi, Il Guardiano della collina dei ciliegi, Non esistono posti lontani), oltre che ex responsabile dell’ufficio stampa del Tor des Géants, su Skialper 134 di febbraio-marzo. Un racconto giocato sul filo di un’intelligente ironia per raccontare le domande e le emozioni di fronte alle quali si sono trovati in molti in questa stagione invernale che ha fatto muovere i primi passi con sci e pelli a tanti sciatori. Speranza Vigliani è l’amica milanese di Faggiani che lo accompagna nella prima, semplice, escursione di scialpinismo. 

«Posizione centrale - dice Speranza Vigliani - niente uso degli spigoli, movimenti accentuati di flessione-distensione e appoggio dei bastoncini, che danno il ritmo. Fluidità, scioltezza, naturalezza. Niente lunghi diagonali, per non rallentare e rendere difficili le curve. Tutto qui». E Faggiani pensa, tra sé e sé, «Certo, tutto qui. Ora che mi concentro su ogni singolo elemento viene Natale 2021 ma in questo caso bisogna fare tutto insieme, contemporaneamente». 

Esilarante anche il racconto della tecnica di salita e di tutto l’abbigliamento ficcato nello zaino. «Decenni di passo alternato nello sci da fondo mi aiutano a coordinare i movimenti, ma un conto è andare in piano tra i binari ben tracciati delle vicine piste olimpiche di Pragelato, un conto è salire, salire, salire e cercare di stare dietro a Speranza che sembra andare con una lentezza esasperante e invece guadagna centimetri ad ogni scivolata. Lei scivola, io zampetto, qui sta la differenza. C’è anche da aggiungere che il sottoscritto, da neofita, ha portato nello zaino tutto quel che serve per proteggersi dal blizzard, dalla nevicata del secolo, dall’invasione delle locuste, dall’arrivo del vento dal Sahara, dall’alluvione e da ogni altra avversità dovuta ai cambiamenti climatici, sempre più imprevedibili. Speranza, che aveva controllato di nuovo le previsioni meteo, solo quel che serve davvero in una giornata di sole tiepido che fa rintanare il freddo del mattino nelle zone ombrose di fondovalle». Il racconto di Faggiani è illustrato da una serie di fotografie evocative di Mattias Fredriksson, in bianco e nero. 

© Mattias Fredriksson

Adamello Ski Raid il 10 aprile su un percorso diverso

L’attesa è stata lunga, ma ora l’Adamello Ski Raid, la prestigiosa competizione scialpinistica che si svolge ogni due anni a cavallo fra Lombardia e Trentino, è in rampa di lancio. La settima edizione si svolgerа sabato 10 aprile, organizzata dall'Adamello Ski Team, forte dell'esperienza maturata nel dicembre scorso, quando organizzò in sicurezza a Ponte di Legno la prima tappa di Coppa del Mondo. Fra due mesi circa 160 squadre si daranno quindi battaglia su un nuovo percorso, studiato per adattarsi alle circostanze e soprattutto per ovviare all’indisponibilità dei rifugi alpini, supporto fondamentale per la logistica, ma non per questo meno selettivo e affascinante di quello tradizionale. 

«Sarà comunque necessaria un’ottima esperienza alpinistica, oltre ad una buona preparazione fisica, per partecipare a questa gara – spiega il presidente del comitato organizzatore Alessandro Mottinelli – dato che abbiamo reso ancora più tecnico il tracciato per compensare la sua riduzione: avrà una lunghezza di 34 chilometri e un dislivello positivo complessivo di 3.400 metri. La pandemia ci costringe ad accogliere un numero inferiore di coppie rispetto al solito, ma rimane un appuntamento top».

Le iscrizioni si apriranno dal primo minuto della giornata di lunedì prossimo (8 febbraio) e dovranno essere inviate, al solito, utilizzando l’apposita sezione presente sul sito de
La Grande Course. C’è tempo fino al 29 marzo o fino a quando non si esauriranno i 160 posti disponibili per ogni coppia. Nel caso in cui il numero di richieste superi la disponibilità, per stabilire le priorità verranno tenuti in considerazione il curriculum degli atleti e la data di invio del modulo. Ci sarà tempo fino al 29 marzo per comunicare la modifica delle coppie.Dato che il circuito della Grande Course quest’anno non avrà luogo, ridotto ad una sola giornata di gara il programma della Pierra Menta, e annullato il Mezzalama, l’Adamello Ski Raid 2021 sarà gara Fisi aperta agli stranieri. Il quartier generale sarà allestito al palasport di Ponte di Ponte di Legno, struttura capiente in grado di ospitare al meglio briefing, premiazioni e pasta party finale.


Scala del pericolo e incidenti da valanga

La notizia dei recenti incidenti avvenuti in Valle Maira il 31 gennaio mi ha raggiunto proprio il giorno precedente ad una mia deposizione, in veste di perito, presso il Tribunale di Aosta, che deve pronunciarsi in merito alle possibili responsabilità degli organizzatori dell’escursione durante la quale il distacco di una valanga ha provocato la morte di due partecipanti. Nella mia perizia ho fatto anche riferimento al Supporto Interpretativo prodotto dal ben conosciuto IFNV (Istituto Federale Neve e Valanghe) di Davos.

In queste note voglio riportare alcune nozioni che ho prelevato proprio dal Supporto interpretativo, nozioni che dovrebbero essere ben conosciute dai praticanti dello sci al di fuori delle aeree controllate, ma che qui richiamo perché, a volte, lo stesso pensiero può essere reso più chiaro semplicemente mutando la forma espressiva. Ecco, con altro carattere, i passaggi che ritengo interessanti; ho aggiunto solo alcune sottolineature per richiamare l’attenzione sui punti che ritengo più significativi.

Il pericolo delle valanghe

Le valanghe sono un pericolo naturale del tutto particolare: diversamente da un maremoto o terremoto, il processo pericolosodella valanga può essere innescato dall’uomo. Quando qualcuno attraversa un pendio pericoloso, il suo sovraccarico può provocare il distacco di una valanga. Oltre il 90% degli appassionati di sport invernali sepolti hanno causato personalmente la propria valanga oppure a provocarla è stato un altro membro della stessa comitiva.

Le varie sfaccettature del pericolo di valanghe

Il grado di pericolo è una misura che indica quanto è alto il pericolo di valanghe anche in presenza di situazioni valanghive meno tipiche. Qui di seguito vengono descritte le varie sfaccettature del pericolo di valanghe e la loro valutazione da parte del servizio di avviso valanghe. Dal momento che si tratta di situazioni atipiche, l’elenco non potrà mai essere completo. In situazioni atipiche sono indispensabili scostamenti dalla definizione del grado di pericolo. Questi vengono descritti nel miglior modo possibile nella descrizione del pericolo contenuta nel bollettino delle valanghe.

Gradi di pericolo: un quadro semplificato della realtà

Il pericolo di valanghe non aumenta in modo lineare da un grado all’altro, ma in maniera sproporzionata. In questo caso:

  • la stabilità del manto nevoso e con lei anche il sovraccarico necessario per provocare il distacco di una valanga diminuiscono, causando un aumento della probabilità di distacco di valanghe.
  • la diffusione dei punti pericolosi aumenta, cioè i punti in cui le valanghe possono subire un distacco spontaneo o provocato sono più numerosi e le dimensioni delle valanghe aumentano.

Nei giorni in cui sono avvenuti gli incidenti il livello di pericolo annunciato dal Bollettino Valanghe per la zona interessata era 3 – marcato. Sui dizionari della lingua italiana il vocabolo marcato è definito: Ben avvertibile, chiaramente evidente, accentuato, spiccato.

Per questo livello di rischio, il Supporto Interpretativo fornisce le precisazioni riportate a seguire:

Situazione valanghiva critica: I rumori di whum e le fessure sono tipici. Le valanghe possono facilmente essere staccate, soprattutto sui pendii ripidi alle esposizioni e alle quote indicate nel bollettino delle valanghe. Possibili valanghe spontanee e distacchi a distanza.

Raccomandazioni per le persone che praticano attività fuoripista: questa è la situazione più critica per gli appassionati di sport invernali! Sono necessarie una scelta ottimale dell’itinerario e l’adozione di misure atte a ridurre il rischio. Evitare i pendii molto ripidi alle esposizioni e alle quote indicate nel bollettino delle valanghe. Persone inesperte dovrebbero rimanere sulle discese e sugli itinerari aperti.

Ma in quei giorni soffiava vento e quindi erano possibili oscillazioni del livello di pericolo verso 4 – forte. Ancora un’ultima citazione dal Supporto interpretativo, un avvertimento che deve sempre essere tenuto presente quando ci si muove in condizioni di variabilità meteorologica.

Il pericolo di valanghe cambia nel tempo e all’interno del periodo di validità del bollettino valanghe può passare da un grado di pericolo a quello precedente o successivo. Normalmente l’aumento del pericolo, causato ad es. da una nevicata o dal vento, avviene in modo nettamente più veloce che la sua diminuzione.

Concludo con una mia osservazione:

  • Una nevicata fa aumentare il pericolo in modo progressivo e regolare su tutto il territorio, in proporzione all’entità della precipitazione ed all’inclinazione dei versanti interessati.
  • Il vento agisce in funzione della direzione e velocità, ma subisce le infinite variazioni di velocità e direzione imposte dalla morfologia dell’ambiente, per cui i processi di erosione, trasporto e ridistribuzione del manto nevoso sono raramente ben localizzabili e, talvolta, tragicamente sorprendenti.

La fotografia in apertura di questo articolo della zona in cui è mosso il Tenente Filippo Calandri lo dimostra chiaramente: il canalone è stato disceso senza difficoltà; poco lontano, appena oltre il traverso a destra, era celato il trabocchetto preparato dal vento.

INTEGRAZIONE:

Il NUCLEO RILEVAMENTO DEL 1° REGGIMENTO ARTIGLIERIA DA MONTAGNA ha effettuato una ricerca sulle cause del distacco del 31 gennaio sul pendio della Cima Cobre ed ha condotto una prova penetrometrica il cui risultato è riprodotto nel profilo conclusivo della relazione.

Partendo dall’alto, si possono riconoscere:

  1. Quattro sottili strati, per uno spessore complessivo di ≈ 35 cm, di neve recente per precipitazione o trasportata dal vento (simbolo linea tratteggiata), tutti a debole coesione.
  2. Questi strati, ricoprono un lastrone, abbastanza resistente, spesso ≈25 cm (il simbolo a lato indica particelle rotonde sfaccettate).
  3. Sotto al lastrone si trova uno strato di ≈ 25 cm di cristalli sfaccettati (simbolo quadretto); la resistenza dello strato è molto bassa, come mostra chiaramente il rientro della linea di profilo.
  4. Infine uno strato di fondo di policristalli (grumi di granuli ghiacciati) di buona resistenza.

Lo spessore degli strati di superficie non è stato sufficiente a smorzare gli incrementi di pressione che lo sciatore in discesa esercitava sul manto nevoso; ne è conseguito che queste sollecitazioni hanno potuto raggiungere il lastrone e lo strato debole sottostante, provocando la frattura di quest’ultimo. Il lastrone, privato del sostegno al letto, è rimasto “aggrappato” agli ancoraggi periferici, ma questi erano sottili e, inoltre, l’ancoraggio a monte, come si vede bene nell’immagine n° 2, era interrotto dai due grandi massi che affiorano dalla neve. In queste condizioni non era possibile aspettarsi altro che la frattura ed il distacco del lastrone.

© Elisabetta Caserini
© Elisabetta Caserini

 

 


Dentro la Corsa della Bora

Quando un’ora prima della tua partenza fuori è buio e il vento sembra voler scoperchiare la casetta in cui ti trovi, ti viene il dubbio che quella di iscriverti alla distanza più lunga della Corsa della Bora, con partenza alle 22.30 di sabato 9 gennaio, sia stata una pessima idea. Poi ti rendi conto che sono mesi che hai voglia di tornare a spillarti un pettorale, che dalle edizioni degli scorsi anni il Carso e il suo fascino rude ti sono rimasti nel cuore, che in realtà quel vento che ruggisce là fuori non vedi l’ora di sentirtelo addosso, e allora ti vesti, molto bene, e vai.

Non amo chi parla con toni troppo enfatici del trail running, non trovo nulla di eroico nel seguire le proprie passioni su e giù per i monti, anche quando ti fanno stare sveglio per varie notti e ti consumano le suole a forza di chilometri e dislivello: sono ben altre le cose importanti e ammirevoli nella vita. Eppure la Corsa della Bora quest’anno a suo modo eroica lo è stata davvero. Non per chi è riuscito ad arrivare in fondo, ma per chi è riuscita a portarla alla partenza.

Il lavoro organizzativo complessivo è stato veramente mastodontico, perché una volta acquisito lo status di gara di interesse nazionale, e quindi la possibilità di far arrivare i concorrenti da tutta Italia anche in giorni di zona arancione, l’organizzazione guidata da Tommaso de Mottoni ha dovuto impararsi a memoria tutti i DPCM usciti negli ultimi 12 mesi e trovare il modo di rispettare alla lettera ogni singolo cavillo. Ne è uscita una manifestazione molto diversa dal solito, fin dal ritiro dei pettorali, con orario da prenotare per tempo per evitare assembramenti davanti alla segreteria, per proseguire nella partenza, sparpagliata su più orari diversi, e nei ristori durante la gara, dove ogni concorrente prendeva il suo sacchettino già pronto e schizzava via. Ma al di là del lavoro vero e proprio, il merito maggiore degli organizzatori è probabilmente quello di averci sempre creduto, dando dimostrazione concreta del fatto che davanti alle difficoltà si può arrendersi, o arrampicarcisi sopra. 

Certo, le gare tradizionali, con il pasta party e tutte le altre occasioni di socialità dentro e fuori dalla corsa vera e propria, mancano a tutti e a tutte, ma una manifestazione un po’ asettica come questa è comunque mille volte meglio di stare a casa a struggersi per la nostalgia del pettorale. Tornando alle cose di corsa, la 80 km non è stata certo una passeggiata di salute (e, visto che la Bora ha proseguito a soffiare imparziale anche per tutta la giornata di domenica, neanche le distanze più corte lo sono state).  Durante la notte sono state registrate temperature di -10 °C, con raffiche di Bora fino a 130 km/h che hanno molto abbassato ulteriormente la temperatura percepita.  Eppure essere lì, nel buio, con il vento che suonava tutti gli alberi della foresta e, dove mancava la foresta, suonava abbondantemente anche te, è stato a suo modo magico. Personalmente ho sentito molto la mancanza delle stelle e del cielo azzurro, ma forse è giusto che il Carso ti accolga con il colore della sua roccia, anche sopra la testa.

Freddo, era freddo, ma con un minimo di attrezzatura (pantalone lungo felpato rinforzato con collant 40 denari, doppia canottiera termica più manicotti, maglietta pesante, guscio in Gore-Tex, scaldacollo in pile, berretto e doppio paio di guanti…) si è potuto correre più che bene. Unico  momento davvero critico alla base vita di metà gara, dove molti avrebbero voluto cambiarsi, ma il protocollo anti contagio permetteva l’ingresso contemporaneo nei locali riscaldati di un numero esiguo di persone, e dopo due minuti ad aspettare fermi all’aperto il freddo iniziava ad entrare nelle ossa. Dopo gli abbondanti saliscendi della prima parte della gara, con ampia panoramica by night sul golfo di Trieste, doppia scampagnata fin sul confine sloveno prima sul Monte Orsario e poi sui 650 metri dell’anonimo punto più alto della gara, e faticosa risalita alla Vedetta di San Lorenzo con nuova e differente visuale sul golfo di Trieste, gli ultimi 30 chilometri, rappresentati in un fumetto sarebbero stati pieni di puff – puff – pant – pant!. Ad attendere i concorrenti, già piuttosto provati da Notte&Bora, c’era infatti una sequenza di strade sterrate e sentieri, a volte affacciati sul mare, a volte stritolati fra due dei milioni di muretti di sasso del Carso, dove chi aveva gambe buone poteva correre a 4 al chilometro, e chi non le aveva avrebbe tanto desiderato averle, per far avvicinare il traguardo un po’ più velocemente. Quest’anno niente romantica escursione sui ciottoli della spiaggia prima di Porto Piccolo, ma foto ricordo davanti alla Grotta Azzurra di Samatorza, prima degli ultimi infiniti 7 chilometri fra le campagne. Poi finalmente l’arrivo, nel gelo della Bora e della solitudine del traguardo, dove le norme anti pandemia hanno fatto piazza pulita di amici, conoscenti, tifosi o semplicemente degli altri atleti già arrivati. 

E ancora una volta è venuto da ringraziare chi nonostante tutto ci ha permesso di essere lì con le gambe a pezzi e i polmoni congelati, ma anche da sperare fortissimamente di poter tornare al più presto anche a sbaciucchiarsi e scambiarsi sudori dopo l’arrivo.


Trail-food

Molte delle comodità a cui eravamo abituati non saranno disponibili, ma questo significa anche che potrebbero presentarsi piacevoli scenari inaspettati se saremo pronti a coglierli. In fondo, per quanti sarà davvero un deterrente l’idea di non trovare un rifugio o un bar aperto a fine gita? Era bello fermarsi con gli amici a bere una birra dopo una sciata, certo. Per non parlare della comodità di poter pernottare in quota e raggiungere la cima dopo una colazione al caldo. Ma non era ciò che ci motivava a partire e non lo sarà neanche adesso. Anzi, in alcuni casi il rifugio o l’impianto in funzione erano addirittura motivo per cambiare destinazione: il rischio di ritrovarsi in un luogo troppo affollato ha sempre fatto desistere chi dalla montagna si aspetta esperienze di stampo più esplorativo. Perché non riorganizzare questa stagione invernale anomala e ripartire dalle basi, ricordandosi che in fondo tutto quello che serve è un paio di sci ai piedi? Anzi, un paio di sci ai piedi e un pranzo al sacco.

Ed è per questo che su Skialper 134 di febbraio-marzo parliamo di trail-food. Una pratica che nasce tra backpacker e thru-hiker d’oltreoceano dove, a differenza di quanto accade normalmente nei territori alpini, i punti per rifornirsi lungo i più famosi cammini di lunga percorrenza distano normalmente parecchi giorni l’uno dall’altro. Più che di scienza culinaria si tratta di una vera e propria cultura dell’arrangiarsi nella wilderness. E di un modo per produrre meno rifiuti e fare una scelta più consapevole e amica dell’ambiente. Come si fa? Basta avere un essiccatore, ma anche un forno ventilato, con alcune accortezze, può funzionare. Abbiamo chiesto a Elisa Bessega, che si produce il cibo per le sue avventure nella natura, di darci qualche dritta e di consigliarci qualche ricetta. Per esempio quadretti energetici al cioccolato, cous cous e infuso di zenzero e limone. Non resta che comprare Skialper e provare le ricette.