A Chantel non piace far rumore, forse è proprio per questo che a volte ricerca la solitudine nel suo modo di andare in verticale. Confesso che il suo nome per me era legato alla recente prima solitaria femminile della Cassin Ridge al Denali con uno stile a dir poco fantastico: minimale e sci per avvicinamento e discesa. Un numero come questo del Denali del giugno 2021 però non è alla portata di tutti: avevo capito che Chantel non era soltanto una forte alpinista, ma prima di tutto una donna, una donna forte. Una donna preparata e appassionata per la quale la molla dell’avventura prima di tutto nasce dal piacere di stare  – in modo totalizzante – in montagna. 

Chantel Astorga, atleta del Team The North Face USA, è americana, classe 1985: un’antenata di origine italiana e una vita da vera montanara. Oltre che una delle migliori alpiniste al mondo. Nel curriculum un elenco di salite dall’Alaska all’Himalaya e allo Yosemite che si distinguono non solo per la difficoltà, ma anche per lo stile e il livello di impegno. Non solo sciatrice, ma soprattutto una delle alpiniste top sulla scena mondiale: arrampicata su ogni terreno, dal ghiaccio e misto tecnico in quota alle grandi big wall dello Yosemite. Esattamente dieci anni fa, nel settembre del 2011, insieme a Libby Sauter, a soli 26 anni, ha stabilito un nuovo record di velocità femminile sul Nose a El Capitan, nello Yosemite, salendo la via in 10 ore e 40 minuti. 

Solitamente quando si parla di velocità su The Nose, si pensa ai fantasmagorici record maschili in simul climbing, ma anche queste ragazze avevano voluto dire la loro, polverizzando il record precedente del 2004. Quelli che la conoscono e i suoi partner tecnici dicono che Chantel è sempre rilassata e naturale, quasi non sembra che si stia impegnando molto: la puoi vedere salire su tiri di ghiaccio strapiombanti, attraversare difficili creste incorniciate al buio e arrampicare per oltre 30 ore con un sorriso sul viso. Ed è così che ci ha accolto, con un bel sorriso. Genuino.

Ciao Chantel, prima di parlare dei tuoi più recenti exploit, ci piacerebbe far scoprire ai nostri lettori chi è la Chantel di tutti i giorni; insomma, cosa fai, come vivi la montagna nella tua quotidianità, come è nata la Chantel alpinista di punta che stiamo imparando a conoscere. 

«Beh ecco, la montagna è una presenza di tutti i giorni. Vivo in Idaho, nel nord-ovest degli Stati Uniti, dove lavoro come previsore valanghe per la rete autostradale (e questo la dice lunga sulla quantità di neve che cade in quelle zone, ndr) e per il dipartimento dei trasporti locale. L’autostrada è importante per le comunità rurali, è un passaggio che consente di raggiungere la città, per esigenze anche primarie. Questo lavoro mi permette di trascorrere molte giornate in montagna e sugli sci. Però sono molto attratta dalla scalata in ambiente e mi sono dedicata molto all’arrampicata in velocità, specie nello Yosemite. È pericoloso, ma fa parte della cultura del posto. Nel 2014 ho portato a termine la salita solitaria del Nose in poco più di 24 ore, per la precisione 24 e 39 minuti. Sempre in valle, ho anche chiuso il primo concatenamento femminile in giornata del Nose a El Capitan e della North West Regular Route dell’Half Dome». 

La tua passione è un affare di famiglia o personale? 

«Penso che l’approccio qui sia diverso che in Europa, proprio da un punto di vista culturale. Personalmente non sono nata come climber, ma con i miei genitori praticavo solo escursioni e vita all’aria aperta, fino a quando, da adolescente, mio padre mi portò in Alaska, non lontano dal Denali. Lì l’emozione fu grande, qualcosa cambiò. Iniziai a interessarmi, andavo a comprare libri per documentarmi. Dai 18 anni ho iniziato a trascorrere la maggior parte del mio tempo in montagna, prima lo scialpinismo, poi le salite su ghiaccio in autosicura. C’è un incontro che è stato fondamentale per la mia evoluzione alpinistica, quello con i fratelli gemelli Damian e Willie Benegas. Sono due alpinisti con una grande esperienza in Patagonia e Himalaya e hanno salito un numero incredibile di vette in tutto il mondo. La loro curiosità per l’arrampicata è stata innescata dal padre, Rafael Benegas, che, durante i lunghi e freddi inverni argentini, li intratteneva con le foto e i racconti delle sue avventure in Patagonia. Loro sono stati i miei mentori, mi hanno aiutato a essere meno approssimativa, specie con il materiale. Mi ricordo che quando avevo 19 anni giravo con scarpette da arrampicata non esattamente del mio numero: pensa che a quell’età mi ero messa in testa di sciare il Denali e lo volevo fare con scarponi che erano due numeri più grandi del mio!». 

Dunque quella per la montagna è una passione allround… 

«Esattamente, prima lo sci e poi l’alpinismo e via via terreni sempre più tecnici. Ma l’importante è sempre stato l’essere in montagna». 

Come scegli i tuoi obiettivi, soprattutto quelli più importanti? 

«Principalmente per la loro estetica, per qualcosa che mi colpisce della linea, della montagna, meglio se hanno il fascino del non ancora percorso. Per esempio, per quanto riguarda il Denali, ci avevo trascorso e speso già un sacco di tempo negli anni passati. Gli obiettivi magari se ne stanno nella testa per tanto tempo». 

Come ti prepari per questi obiettivi? 

«Ritengo che gran parte della preparazione risieda in realtà nella visualizzazione dell’obiettivo stesso. Trovo ispirazione dalla sfida mentale di una scalata alpina, dall’arrampicata veloce su big wall, dall’ignoto, dalla ricerca di target che non sono sicura che siano alla mia portata. Da un punto di vista tecnico, la preparazione consiste nel muoversi in montagna, trascorrere il più tempo possibile fuori». 

Quali sono gli spot preferiti per il tuo alpinismo? Visto che ci sei stata molte volte, mi sbaglio se dico Alaska? 

«No, assolutamente! L’Alaska è una delle mie destinazioni preferite. Ci sono spazi enormi, grandi ghiacciai, l’Alaska è spettacolarmente selvaggia. Sono molto affezionata anche alle montagne in cui vivo, in Idaho, il Sawtooth Range. È casa mia e ci passo un sacco di tempo ad allenarmi». 

Abbiamo parlato di Alaska e non posso non chiederti della tua ultima avventura solitaria sulla Cassin Ridge al Denali dello scorso giugno. Da dove è nata questa idea? Un sogno di lunga data? 

«In questi ultimi anni ho passato tanto tempo sola in montagna e non mi dispiace stare con me stessa. Lo faccio arrampicando e soprattutto sugli sci durante l’inverno. Ho iniziato a cercare un obiettivo che mi permettesse questo stile e che mi ingaggiasse allo stesso tempo, con un terreno tecnico e su una grande montagna. Volevo provare, capire come mi sarei sentita. La Cassin è una linea ultra classica, estremamente bella ed estetica.Ho pensato di usare gli sci per l’avvicinamento perché mi avrebbero permesso di essere più veloce e pertanto più sicura. Ci avevo già provato qualche anno fa, ma le condizioni meteo erano orribili. Poi altri obiettivi mi hanno allontanato dall’idea per qualche tempo». 

Come hai scalato, con gli scarponi da sci? Come hai gestito il materiale? 

«Ho scalato con gli scarponi da scialpinismo, degli Atomic leggermente modificati per renderli più rigidi e più caldi. Non ho usato la corda per autosicura, ho scalato tutta la via in free solo. Naturalmente avevo uno spezzone da 30-35 metri per eventuali emergenze e due viti da ghiaccio just in case, ma fortunata- mente non ho usato nulla. A quel punto è stato logico portare il materiale lungo la cresta e continuare fino in cima per poi usare gli sci in discesa. La parte alta della montagna era in pessime condizioni e il mio piano originale di scendere su una main line l’ho subito scartato e ho sciato sulla West Rib, che conoscevo e avevo anche già salito da sola». 

Il momento che porterai con te di questa salita? 

«I momenti clou sono stati l’avvicina- mento, la sciata dalla West Rib e dalla Seattle Ramp, una discesa in una seraccata decisamente complessa di circa 900 metri. Ho aspettato le 11 del mattino per avere neve morbida e infatti era perfetta, ma faceva caldo; ero un po’ impaurita, e in quel momento ho visto un’aquila enorme. È stato magico». 

Cosa ti spinge a salire in solitaria? 

«Mi piace la sensazione di poter essere leggera e voglio capire fin dove mi posso spingere come individuo, quanto posso salire di grado. Così arrivo a conoscermi meglio». 

Pensi che utilizzare gli sci per questo genere di salite o in alta quota porti dei vantaggi? 

«Ritengo che sia un bello stile. Figo! Non certo per terreni tecnici, ma rappresentano un buon compromesso quando ci si deve muovere su pendii o negli avvicinamenti. Mi piace l’alta quota, ci sono stata già due volte, su terreno tecnico, come nel 2017 sulla parete sud-ovest del Nilkantha, nel Garhwal centrale, in India. Vorrei tornare in Himalaya». 

Domanda secca: tre cose che cerchi in un’avventura in montagna. 

«Estetica. Stile. Partnership, che è un po’ strano per una che fa salite solitarie». 

Ultima. Prossimi obiettivi? 

«Preferisco non… ho origini italiane!».