Marzo 2021. Per arrivare a San Vigilio ci ho messo meno del previsto: l’autostrada era deserta. Oh no – starete pensando voi – ecco che ci risiamo con l’ennesima tirata sulle località sciistiche deserte a causa del lockdown. E un po’ avrete anche ragione, ma l’inverno 2021 per me è stato di fatto quello in cui, finito di sciare, mi capitava di ritrovarmi in un albergo vuoto a fissare il muro di fronte perché i bar erano chiusi e la gente, in Alto Adige, non poteva letteralmente uscire dal proprio comune, quindi un po’ vi tocca beccarvelo. Di positivo, però, c’è stata la possibilità di godermi questa parte di Alpi da assoluto privilegiato, assieme a Guide alpine locali che mi mostravano i loro giardini in un’atmosfera stranamente tranquilla e intima per essere, appunto, nelle Dolomiti. San Vigilio è il punto di partenza del mio tour sciistico. Sono in Val Badia, nel cuore delle terre ladine. Il ladino mi mette allegria, con i suoi suoni che mi sembrano l’anello mancante tra il bergamasco, il norvegese e il tedesco dei bolzanini. E allo stesso tempo mi incuriosisce tantissimo, perché una lingua così ben preservata, sembra qualcosa fuori dal tempo e dallo spazio, almeno a me. Il bello del viaggiare nelle Alpi è anche questo: le differenze, tanto antropologiche quanto ambientali, che ci possono essere tra una valle e l’altra fanno sì che, pur spostandosi di pochi chilometri, si abbia l’impressione di aver coperto distanze ben maggiori. 

L’appuntamento a scatola chiusa è con Simon Kehrer, che al mattino si fa trovare direttamente nella hall dell’albergo. Già dalla sera prima avevo avuto modo di intuire quanto Simon sia il beniamino della valle, quel genere di persona di cui gli altri si limitano a dire il nome senza specificare il cognome: lui è, semplicemente, Simon. Mi fa spazio nel suo furgone e insieme iniziamo a risalire la valle. Per tutto il tragitto il mio compagno mi elenca entusiasta le salite fatte da quelle parti, di tutti i tipi: aperture dal basso, sportive, invernali, solitarie, e tutte le loro possibili varianti. A dover fare un resoconto della sua attività in montagna verrebbe da chiedersi se da casa passi mai, almeno a fare finta di dormire. Al rifugio Pederü incontriamo Miriam e Walter, i gestori, che oggi hanno deciso di prendersi un giorno di vacanza per accompagnarci. 

© Federico Ravassard

Iniziamo a pellare all’ombra, dopo qualche tornante si scopre davanti a noi una delle vallate più belle del Parco Naturale Fanes-Sennes-Braies, che si merita ampiamente la posizione all’interno dei siti Unesco. Non abbiamo un vero e proprio programma: l’idea è semplicemente andare a cercare i pendii a nord dove la polvere si è conservata dopo le ultime nevicate, protetta dalle grandi pareti di dolomia che rendono uniche le Dolomiti. Saliamo verso il Piz de Sant’Antone mentre il cielo azzurro sembra volerci suggerire di non prenderla con troppa foga. La discesa sul versante opposto è perfetta, una linea sinuosa che si svolge tra contropendenze, avvallamenti e spalle fino a quando si arriva al momento che più o meno tutti aspettavamo: si ripella?  Lo zaino è carico del materiale fotografico, di cibo e acqua ne sono rimasti pochini, ma il sorrisone di Simon non può non convincerti, assieme alla promessa di una seconda discesa nel vallone parallelo a quello appena sciato. Seicento metri più tardi siamo di nuovo in cima a una montagna, a crogiolarci sopra uno spiazzo erboso e a godere della vista intorno a noi. La valle che abbiamo percorso stamattina in macchina è proprio lì sotto, protetta da bastionate di roccia gialla che sembrano essere state messe apposta per accompagnarti lungo il tragitto. Sciamo su pendii che si fanno sempre più stretti, fino a inanellare le ultime curve su una cengia che di fatto è la cima della falesia in cui si allena d’estate Simon. Uno degli aspetti del farsi portare in giro da qualcuno sulle sue montagne è la confidenza con cui lo si vede scivolare tra le pieghe del terreno, proprio come faremmo noi per passare da una stanza all’altra in casa nostra. Con Simon è la stessa cosa: la sciata non è particolarmente tecnica o ricercata, ma in un modo o nell’altro le punte degli sci sono sempre girate dal verso giusto, specialmente nei tratti più ripidi e stretti. A fine giornata ci salutiamo con un arrivederci e una frase che, se in altri contesti può apparire come una remota eventualità, tra sciatori invece si rivela spesso una constatazione, perché poi succede veramente: ci si vede in giro. 

Il giorno successivo mi sposto verso ovest, fino a entrare in quella che è conosciuta come Val Ridanna, quella di Racines, per intenderci. Come scrivevo poche righe fa, in poco più di un’ora di viaggio sembra di essere letteralmente in un altro paese: la verticalità delle Dolomiti lascia spazio a cime e panettoni più dolci e il ladino è sostituito dal tedesco. Ed è proprio ai piedi di uno di questi panettoni che mi incontro con Alfons Fassnauer, la mia Guida per la giornata. Assieme a lui si presenta anche Christof, un suo amico di lunga data. Nella notte sembra aver fatto brutto un po’ su tutta la regione: una di quelle perturbazioni primaverili che lasciano il segno solo sopra una certa quota. Dal parcheggio, di sicuro, non si capisce granché. Saliamo nel bosco ripido con le pelli che gracchiano sulla neve rigelata, la luce che filtra tra i rami illumina i suoi grani grossi. Usciti dagli alberi, la vista si apre sulla meta odierna, che nell’aspetto sembra fare decisamente a pugni con il suo nome: Zunderspitze, ovvero Cima dell’Incendio. A dispetto di quanto suggerisce la toponomastica, non c’è un singolo angolo che oggi non sia coperto da quasi mezzo metro di neve fredda e polverosa, il regalo notturno della primavera altoatesina. E, come se questo non fosse abbastanza, le condizioni sono quelle ottimali per una sciata di classe: gli strati sono perfettamente coesi fra loro, e solo la parte più superficiale scorre verso il basso quando la si tocca. Sluff leggeri e felici come la spuma delle onde durante la bassa marea. Alfons non ci pensa due volte: per arrivare in cima oggi si può passare dalla cresta, normalmente più pericolosa della via normale. Casa sua è esattamente sotto di noi: Cima dell’Incendio è poco più che un’estensione del suo giardino e batte la traccia senza la minima esitazione, mentre mi spiega come questa valle sia particolarmente fortunata dal punto di vista meteorologico. Rispetto alla parte più orientale dell’Alto Adige, infatti, qui arrivano le perturbazioni da nord, quelle che in certi anni rendono gli sciatori austriaci i più invidiati dell’arco alpino. E le condizioni di oggi sembrano confermare il tutto, specialmente quando, dopo aver postato un paio di storie su Instagram, alcuni amici sembrano non credere alle risposte dategli sulla mia posizione. 

© Federico Ravassard

Mentre i pendii sciati ieri nel Parco Naturale Fanes-Sennes-Braies sembravano invitare a uno sci selvaggio, quelli di oggi sono agli antipodi: qui tutto sembra essere molto più godereccio, l’equivalente invernale di quella che in arrampicata si definisce una via plaisir. Un itinerario poco ingaggioso alpinisticamente ma su roccia buona e in un ambiente bucolico, in cui allo scalatore viene solo richiesto di godersela. Pure il fondovalle abitato sempre in vista non disturba, anzi. Probabilmente per la sua tranquillità: questa non è una valle di passaggio, seguendo la statale fino in fondo non si arriva da nessuna parte. Certo, il fatto di essere in zona rossa (ops, non volevo parlare di pandemie e decreti) aiuta a ovattare la situazione, ma da queste parti mantenere una certa distanza dagli altri non è che venga particolarmente difficile. I miei due compagni di gita sembrano fare parte dello stesso pacchetto: vanno in montagna insieme da così tanto tempo che fanno pure fatica a ricordarlo; non solo io non ero ancora nato, ma probabilmente i miei genitori erano due perfetti sconosciuti tra loro. Una volta in cima, Alfons si siede a pochi passi dalla croce di vetta, guardando per l’ennesima volta il panorama circostante. Qui le montagne non sono altissime, i nomi non particolarmente blasonati. Quelli che per alcuni sciatori possono essere difetti, per altri diventano pregi: magari si farà qualche curva in meno, ma con molto meno stress. A posteriori, l’atmosfera selvaggia di Fanes e quella rilassata della Val Ridanna sembrano aver fatto da anticamera per prepararmi alla prossima tappa del mio viaggio, dove troverò il meglio delle due. 

In Val Martello ci arrivo nel pomeriggio, quando la luce del sole ti permette di guardarti intorno durante il tragitto. Se c’è una cosa che mi spiace dell’inverno è il dover spesso guidare col buio, potendo solo immaginare come sia il panorama fuori dai finestrini. Come tanti altri luoghi in cui sono stato in questi giorni, nella mia mente era un nome e poco più, sentito spesso riferito alla gara di scialpinismo nota come Trofeo Marmotta. Guardando una cartina, però, le idee sono più chiare: mi sono avvicinato alla Lombardia, ma soprattutto, a separarci, c’è il gruppo Ortles-Cevedale, cime simbolo di questa parte di Alpi e del Parco Nazionale dello Stelvio. Poi beh, ci sarebbero le fragole, che la rendono famosa al di fuori del nostro ambiente, tanto da essere conosciuta anche come Valle delle Fragole, rese particolarmente dolci grazie alla maturazione lenta data dalle giornate calde e notti fresche tipiche delle quote a cui crescono. Quando vengono raccolte qui, a oltre 1.500 metri di altitudine, nel resto d’Europa la stagione è già finita. 

© Federico Ravassard

Oltre alle fragole, c’è un’altra caratteristica che può far gola a chi decidesse di buttare il naso da queste parti: in tutta la valle, infatti, non esistono impianti sciistici. Un fattore penalizzante in passato ma che, in alcune località, si è poi rivelato determinante per un’offerta turistica di nicchia, assolutamente non in termini economici quanto di interessi. Il paragone inevitabile è con la piemontese Valle Maira, nota ormai da anni come località simbolo dello slow-tourism montano. E, proprio come in Valle Maira, in Val Martello si fanno molto bene due cose in particolare: sciare e mangiare. A ospitarmi sono Alexander ed Hermann Mair nel loro albergo di famiglia, il Waldheim. Trent’anni fa è stato proprio Hermann a rilevare la vecchia locanda e a trasformarla, lavorando parallela- mente allo sviluppo di una delle principali attrazioni locali, la pista da fondo e biathlon, di cui sono entrambi Maestri.

A cena conosco Hubert Wegmann, la Guida con la quale mi trastullerò in giro il giorno successivo. Nei nostri piatti c’è la trota affumicata cucinata direttamente da Hermann, che oltre a essere il gestore del Waldheim ne è anche il cuoco. Mi raccontano della passione che in valle nutrono per lo scialpinismo agonistico, che si sublima annualmente il giorno del Trofeo Marmotta, vinto quest’anno da Matteo Eydallin. La perizia con cui il percorso viene preparato è tale che, per minimizzare l’impatto sull’ambiente, ogni materiale viene trasportato a mano, facendo a meno dell’uso dell’elicottero. Il giorno dopo, come mettiamo gli sci, capisco perché gli occhi di Alexander e Hubert avevano quella strana luce parlando delle loro montagne: sopra il Rifugio Corsi, infatti, la vista si apre sulla mole del Cevedale e del Gran Zebrù, circondati da una serie infinita di pendii che sembrano in letargo, in attesa della primavera e delle grandi sciate in quota. Dal Corsi noi puntiamo a nord, verso la Punta Marmotta. L’ambiente è totalmente diverso da quello in cui mi sono mosso negli scorsi giorni: siamo in alto, a oltre 3.000 metri, e qua e là si intuisce la presenza di un ghiacciaio sotto i nostri piedi. Certo, Alto Adige significa Dolomiti, ma oltre a esse c’è ben altro, quell’altro che qualche ora più tardi contemplo con Hubert e Alexander mentre togliamo le pelli da sotto gli sci, affacciati sopra la Val di Pejo. Vicino a dove siamo partiti, mille e qualcosa metri più sotto, ci sarebbe un’altra chicca – se così possiamo definirla – per gli amanti del genere: l’imponente struttura razionalista dell’Hotel Paradiso, costruito nel 1935 dal maestro Gio Ponti come meta di villeggiatura per l’alta società fascista. Dal 1955 è rimasto sempre abbandonato, visitato occasionalmente da studenti di architettura e pochi altri. Nessuno, compresi i proprietari, ha mai pensato di trasformarlo in qualcos’altro, come se fosse un gesto inconscio della valle per rimanere pura il più a lungo possibile da un turismo fatto di grandi numeri e rumore di motori. Quel rumore che in questi giorni ho sentito poche volte. 

Per informazioni sullo scialpinismo in Alto Adige 

www.suedtirol.info/it/esperienze/inverno/sci-alpinismo