Michele Graglia, oltre le ultra
«Visto che il corpo può portarti solo fino a un certo punto, secondo me, se esiste una ricetta per il successo per arrivare in fondo, la si trova in qualità non fisiche. Bisogna allenare la pazienza, il rispetto e la gratitudine: la corsa ultra richiede tempo e perseveranza. Dobbiamo sviluppare un senso di gioia verso l'idea di passare un'intera mattinata o addirittura un giorno a correre nella natura, spesso soli con i nostri pensieri, e naturalmente anche con i calzini sporchi. Non dovremmo mai avere fretta, ma goderci semplicemente il viaggio». Scrive così l’ultra-runner Michele Graglia su Skialper di giugno-luglio in un articolo nel quale dispensa ai lettori i suoi consigli per correre sulle lunghe distanze, dall’alimentazione alla testa.
Ligure, classe 1983, fotomodello (si mormora fosse soprannominato ‘the abs’, con riferimento ai suoi addominali), Michele Graglia rimane folgorato dalla lettura del libro Ultramarathon Man di Dean Karnazes e abbandona i riflettori per cambiare stile di vita. Ora è insegnante di yoga a Malibu, in California, e l’ultra running è la sua filosofia di vita. Nel 2018 ha vinto la Badwater, una gara di oltre 200 km nella Valle della Morte, mentre nel 2016 ha trionfato nel gelo della Yukon Arctic Ultra 100.
Giovedì prossimo, alle 20,30 all’Alexander Hall di Cortina d’Ampezzo, nell'ambito della La Sportiva Lavaredo Ultra Trail, Graglia parlerà di ultra insieme ad Anton Krupicka e allo scrittore Folco Terzani.
L’articolo completo di Michele Graglia è stato pubblicato su Skialper 124 di giugno-luglio.
Essere Matteo Eydallin
Destinazione Gap, a Montmaur, il buen retiro di Matteo Eydallin. Lì, in mezzo al verde, con due cavalli, un mulo, una pecora, due cani. E la fidanzata. Che è veterinaria. La sua vacanza. Per uno che detesta la folla, difficile immaginarlo in spiaggia ad agosto. In fondo c’è tutto quello che serve: strade giuste per pedalare, con la corsia dedicata ai ciclisti, e soprattutto la falesia di Céüse. Siamo stati a trovare il veterano della nazionale azzurra e su Skialper 124 di giugno-luglio pubblichiamo un’ampia intervista a Eyda. Intanto, ecco qualche piccola anticipazione.
Il segreto della longevità agonistica
«Ho sempre cercato di fare quello che mi piaceva nella fase della preparazione. Non mi sono mai imposto troppe regole: al mattino esco in bici perché mi piace pedalare con gli amici, nel pomeriggio cammino quasi un’ora per arrivare ad arrampicare e lì poi mi concentro sui miei progetti. Non sto troppo a pensare: devo fare tot metri di dislivello, altrimenti rimango indietro, ma li metto insieme come voglio io. Forse è un auto-inganno, per farmi piacere le cose. Forse chissà, allenandomi di più avrei vinto di più, ma sarei rimasto competitivo per meno tempo. Non lo so e non mi interessa: per me ha funzionato così e continuo così, senza tanti sbattimenti. Perché cambiare? Mi alleno ancora volentieri, ma pedalando e scalando. Credo che anche il corpo e la mente ne abbiano un beneficio».
La tecnica
«Lavoro sulla tecnica che ti porta a sciare veloce in gara o comunque a risparmiare energie per affrontare la salita successiva senza avere le gambe fuse anche dalla discesa. Vado in tutte le condizioni, nebbia, crosta, polvere, marmo, sempre con gli sci da gara: solo così trovi le sensazioni e gli equilibri giusti. Credo che lo skialp non sia metri di dislivello in pista e cardio, ma sensibilità e lettura delle linee in discesa: per questo secondo me le gare in pista non sono vere gare».
L’intervista completa a Matteo Eydallin è stata pubblicata su Skialper 124 di giugno-luglio.
Tour de La Meije, 4 giorni au refuge
Il tour della Meije, giro classico del massiccio. Quattro giorni La Bérarde to La Bérarde: nel mezzo tutti i rifugi e i loro gestori che accolgono alpinisti e scialpinisti in queste vallate remote. Naturalmente con le pelli ai piedi. «Nei viaggi, oltre ai chilometri, al dislivello e alle discese, sono le persone che si incontrano, spesso per la prima volta, a caratterizzare la linea del percorso – scrive Andrea Bormida su Skialper -. Le impressioni che riceviamo da questi incontri diventano un tutt’uno con quelle del nostro movimento, creando l’esperienza. In questo caso abbiamo avuto l’occasione di condividere il rifugio quasi sempre con i soli rifugisti, complice la poca gente in giro e le previsioni non così definite». Il giro della Meije è soprattutto un passare da un rifugio all’altro, ma si tratta di rifugi e rifugisti che hanno ancora un’anima, come Sandrine del Refuge du Promontoire, Jeff del Refuge de l’Aigle, Sabine (da provare la sua torta ai cavoli!) del Refuge Villar d’Arène o Seb del Refuge Chamossière o ancora Fanny del refuge Adèle Planchard.
Il Tour de la Meije è uno dei più classici delle Hautes Alpes, in Francia, e in quattro giorni si superano circa 4.500 metri D+. Ne parliamo su Skialper 124 di giugno-luglio.
Rotta per casa di Zeus
Spiagge senza fine, oliveti, mare cristallino, valli selvagge, baie e siti archeologici. Così viene ricordata Creta nel 99 per cento dei casi. Ma Creta è molto di più. Nel cuore dell’isola del padre di Minosse, Zeus, sorge una distesa di neve che permette di soddisfare il piacere di sciare in un luogo davvero esotico. L’arrivo di scialpinisti stranieri da queste parti è un avvenimento e i locali, nel vederci giungere bardate di Primaloft e Gore-Tex, hanno scosso il capo e si sono lasciati sfuggire qualche occhiataccia. Però, appena arrivati, le sinuose montagne del Lefka Ori nell’ovest e i rilievi dell’Ida nel centro dell’isola fanno aumentare i battiti di qualsiasi scialpinista.
Quando atterriamo a Chania, una città con porto nel nord-ovest dell’isola, il sole sta già calando dietro le montagne e la notte si avvicina. Blu, nero e grigio sono i colori dominanti che ci hanno accompagnato durante il viaggio da Atene verso Chania, e sfumano verso l’ibisco e il colore notturno del mare. Già al recupero bagagli notiamo che gli isolani non sono così stupiti di vedere, sul nastro trasportatore, in mezzo ai loro bagagli, due sacche di sci. Fuori dall’aeroporto troviamo ad aspettarci la nostra guida George, che ci accompagnerà durante il tour, e gli autisti Nikos e Vangelis. Qui l’aria non sa d’inverno. Una brezza tiepida arriva dal mare, l’odore di primavera… il pensiero di trovarci, tra un paio d’ore, nella neve, sembra un’utopia. La fame si fa sentire, ma dobbiamo passare ancora un’ora nella nostra Mercedes Classe-V percorrendo una strada di montagna verso Omalos, mentre la radio ci fa compagnia con una musica greca a ritmo di chitarra. Purtroppo, a causa del buio, non abbiamo la possibilità di apprezzare l’ambiente che ci circonda mentre proseguiamo, ma la sorpresa, a 900 metri, è la neve, assieme al ghiaccio, che si può scorgere solamente lungo le curve. CI muoviamo tutti insieme, finché Nikos spegne il motore davanti a una casetta con le luci accese. Cariche di tutta la nostra attrezzatura, entriamo in quello che sarà il nostro alloggio per la prima notte qui a Creta. In un piccolo camino scricchiola un fuocherello, mentre il proprietario e sua moglie guardano la televisione, dove passano le notizie del telegiornale. Al nostro arrivo ci aspettano il sorriso del locandiere e il primo Raki, una tipica grappa greca. Zuppa di verdura, carne di agnello, insalata con feta, tsatsiki, riso in foglie di cavolo e yogurt con miele ci danno la forza per i prossimi giorni. George, la nostra guida, ci spiega dettagliatamente il tour che faremo. Il primo giorno e il secondo attraverseremo il Lefka Ori: circa 40 chilometri e 3.300 metri di dislivello con pernottamento in un bivacco. Alla parola bivacco tutte e cinque sgraniamo gli occhi. Durante la preparazione al tour nessuno aveva mai pronunciato questa parola. Ci avevano chiesto di portare un sacco a pelo e viveri solamente per la giornata. Il sacco a pelo, per i greci, è un sacco-lenzuolo idoneo a temperature fra gli 0 e i 5 gradi: siamo inquiete, per il tour erano stati previsti solo sacchi-lenzuolo sottili. Inquietudine aumentata dal fatto che nessuno sapeva che bisognava portare con sé una scorta di acqua per ben due giorni. Non c’era speranza per i nostri zaini da 28-30 litri (la guida ne aveva uno da 70). Massimo un litro e mezzo di liquidi, ma non di più. Una notte in un riparo di sassi, senza acqua e con un sacco lenzuolo? La presentazione ha portato decisamente scompiglio e agitazione. Ancora un sorso di Raki e poi a letto, a pianificare cosa mettere nello zaino da 28 litri. L’aria fredda della camera veniva riscaldata da un impianto di riscaldamento crepitante. Ma non si può dire che fosse calda quella camera. Le lenzuola erano sicuramente troppo fini, però con un paio di coperte e non si pativa così tanto il freddo.
Il giorno successivo, al risveglio, appare davanti ai nostri occhi la montagna imbiancata, il Lefka Ori. Pochi alberelli dispersi per la piana di Omalos, mentre tutto il resto è bianco, con le cime delle montagne facilmente riconoscibili. Il cielo è di un blu brillante che, insieme al sole, preannuncia che durante la giornata non soffriremo il freddo. Nel punto più a nord della gola di Samaria, lunga ben 17 chilometri (una delle più lunghe d’Europa), inizia il nostro tour. In estate questo luogo è colmo di bus e turisti, ma oggi neanche un’anima. Una vegetazione minima, spazi incredibili e, dopo alcuni metri, già i primi scorci del Mar Libico nella parte sud dell’isola. Le pendici settentrionali del Lefka Ori brillano di sfumature argentate, come se fossero davvero ricoperte d’argento. Ma in realtà è semplicemente neve sotto il sole. Dopo la discesa, ecco il primo stop al rifugio Kalergi (l’unico aperto e gestito) sulle pendici del Lefka Ori. Ci si sente come Bambi, che senza alcun appoggio e continuando a ruzzolare, a stenti, si trascina fino alla terrazza del rifugio. La vista dalla gola di Samaria è bellissima. Il profumo del the greco alle erbe ci conquista e ci fa andare avanti. Il gestore del rifugio si meraviglia, non capita tutti i giorni di vedere passare degli scialpinisti. Solamente nove local con gli sci frequentano i versanti del Lefka Ori, gli isolani passano tempo tra i monti solamente in estate. Riempiamo le nostre borracce ancora una volta e poi ci dirigiamo verso la cima Melidaou, direzione rifugio Katsiveli, dove pernotteremo. Di croci sulle cime delle montagne, qui a Creta, neanche l’ombra, di tanto in tanto fiancheggiamo qualche cappella. Dopo tante salite ghiacciate, discese nel firn e lunghe traversate il primo giorno è già arrivato al termine. Non siamo ancora arrivate alla nostra meta che il sole è già tramontato. Accendiamo le frontali e, passo dopo passo, ci avviciniamo al rifugio. Alla domanda ‘quanto dista ancora?’, la risposta è sempre stata, nelle ultime due ore, ‘not far anymore’. Le forze iniziano a calare, il freddo a farsi sentire. La voglia diminuisce, lo zaino fa male e la gola è secca, lo stomaco borbotta. Otto ore di cammino e, grazie alla luce della frontale, eccoci arrivate al riparo. Nikos, un amico della nostra guida, ci aspetta insieme a una fumante tazza di the alla cannella ed erbe sul tavolo. Su un piccolo fornello a gas c’è una padella nella quale bolle la zuppa di verdura. Anche la temperatura nella stanza è aumentata di 10 gradi. Festeggiamo Nikos e l’incredibile spirito di ospitalità greco. Al peggio ci siamo adattate e alla fine abbiamo dimenticato la faticaccia e la nostra bocca ha preso una piacevole piega all’insù. Quando Niko ha preparato gli spaghetti al ragù, la serata è diventata un vero e proprio trionfo. Tre coperte per ognuna di noi, una borsa dell’acqua calda e un piccolo posticino per dormire hanno fatto di quella notte la più calda delle cinque passate a Creta.
Anche il secondo giorno inizia con un cielo limpido, benché all’orizzonte s’intraveda un banco di nubi e nebbia accompagnato da una brezza fresca che sembra dirigersi verso il nostro rifugio. E infatti, poco dopo, la nebbia ci avvolge. Ancora una volta c’è il the, le borracce vengono riempite, si mangia un panino con burro e marmellata accompagnato da un espresso ed eccoci pronte ad aprire la porta… che la nebbia si è dileguata. Cielo azzurro e un mare di nuvole sotto di noi. Quattrocento metri ci separano dalla cima del Svourichti e, dopo un’altra salita, arriviamo in cima anche al Mikros Trocharis, a 2.410 metri, la seconda cima più alta della zona del Lefka Ori. Il vento soffia e la nebbia si aggira attorno alla vetta. Ma durante la fantastica discesa in firn abbiamo di nuovo un’ottima visibilità. Dopo un breve stop per il ristoro, ecco che ci dirigiamo verso l’ultima salita, la cima Fanari. Sono già tre ore buone da quando siamo ripartite e questa salita ci ha rubato parecchie forze. Fossimo state sulle Alpi, non avrei mai fatto un percorso del genere, avrei avuto troppa paura delle valanghe. Ma qui a Creta la consistenza della neve è ben diversa e unica. Non c’è pericolo valanghe, anche se le temperature superano i dieci gradi e il sole bacia i pendii delle montagne. La copertura nevosa è così ben composta che, racconta la nostra guida, dai suoi tempi (ha iniziato nel 1996), ha visto solamente due valanghe. Per noi è difficile da credere, ma meglio così.
Il sole sta nuovamente calando e la valle che dobbiamo percorrere è già all’ombra. Questo significa che il terreno è nuovamente ghiacciato. Appena il sole cala, il firn scompare e così ci dirigiamo verso il Niato Plateau. E qui vorrei soffermarmi sulla nostra discesa nel firn. Un pendio ripido, cupo e vasto: il sogno di ogni sciatore. Dal Niato Plateau si prosegue lentamente verso Askifou. Arriva di nuovo l’oscurità e le frontali devono fare il loro lavoro. Il piano era che Nikos e Vangelis sarebbero dovuti venire a prenderci a 1.300 metri con la nostra Mercedes, ma è un inverno molto nevoso, perciò dobbiamo scendere fino a 1.000 metri con gli sci ai piedi.
Askifou ci saluta con i belati delle pecore in sottofondo e offrendoci la cena in una tipica locanda del posto. Attorno a due tavoli si sono raccolti gli uomini del luogo e ci fissano, o meglio, fissano la televisione sul muro. Fegato di agnello, patate, riso, insalata greca, lenticchie e una birra fresca sono pronti per noi. Per dolce ci aspetta il Raki e i famosi Bavlak (una sfoglia ripiena di noci, imbevuta nel miele). Sembra un garage: una stanza con un piccolo bar e quattro tavoli. Un paio di vecchi quadri addobbano la parete. Una piccola televisione è l’intrattenimento principale del luogo. Non c’è nient’altro qui, tutto ridotto al minimo. Dopo cena ci aspettano due ore di auto nell’oscurità, tra le strade di montagna e l’autostrada verso Anogia. L’entrata del nostro alloggio è molto accogliente, un’aria calda ci accoglie, assieme ai biscotti. La locandiera è molto zelante. Le camere di nuovo troppo fredde. Ci danno ancora solo delle lenzuola e il camino è spento già da parecchio tempo. Anche qui siamo gli unici ospiti, solamente a colazione vediamo altri avventori. C’è sempre il tipico formaggio di capra Misithra (la consistenza è quella della ricotta), da mangiare con pane e miele. La stanza dove mangiamo ha il profumo di salvia e rosmarino, un odore un po’ troppo forte per i miei gusti. La locandiera è così emozionata che parla senza sosta.
Saliamo in macchina e ci indirizziamo verso Psiloritis (Monte Ida). Le pecore, alberi di limone e di arancio costeggiano la strada. Pini e cipressi sono visibili lungo il percorso. Presto però arriviamo in mezzo alla neve e lasciamo la macchina in favore di sci e pelli, pronte per partire alla volta del Migero Plateau e del Monte Kourouna. Ci sono diverse salite e molte discese in firn, verso sud e verso nord. Lo sguardo corre verso il mare cretese a nord e il Mar Libico a sud. Un caldo incredibile ci accompagna durante la salita e i nostri visi diventano rossi e nemmeno la migliore delle creme solari è utile. Psiloritis è nota come il luogo di nascita di Zeus. Nella cava di Ideon Andro si manifestò sotto forma di toro bianco e, accoppiandosi con la principessa fenicia Europa, diede vita a Minosse. Un’ultima lunga discesa in firn cancella la faticaccia fatta in questi giorni, i piedi gonfi e le spalle doloranti.
Dopo l’ultima escursione siamo stati ospiti di Andreas, un prete, in un posto così isolato che ci ha fatto scoprire un nuovo mondo, fatto di tradizione e accoglienza e abbiamo conosciuto gli uomini del posto, che sono anche scialpinisti. Proprio domenica il comitato organizzatore della Pierra Creta. La gara di skialp locale, si è incontrato casa di Papa Andreas. Il prete ci guida lungo le mura sassose, facendoci scoprire come si fa il formaggio Misithra e ci fa assaggiare quello che produce lui. Fuori Papa Andreas aveva precedentemente messo sul grill la carne di agnello, pronta per noi. La piccola comunità di scialpinisti ci ha fatte subito sentire parte del gruppo e così abbiamo passato una bella serata in compagnia. Abbiamo cantato, ballato, suonato la chitarra, bevuto vino e Raki e raccontato le nostre avventure tra le montagne. I local sono curiosi, ci hanno chiesto informazioni sulla tecnica sciistica, apprezzando il nostro abbigliamento tecnico e moderno e ci hanno raccontato di alcuni camp per giovani, durante i quali cercano di avvicinarli alla montagna. Sono così fieri di loro stessi e delle loro vette.
L’ultimo giorno del nostro viaggio abbandoniamo con difficoltà il letto (l’accoglienza greca ci ha procurato qualche effetto collaterale) Vogliamo conoscere anche l’altro lato di Creta, lontano dalle montagne, ma sempre con un occhio rivolto al gigante bianco dell’isola. Ci dirigiamo verso Chania, verso il mare. I prati diventano sempre più verdi, gli alberi di limone e arance sono sempre più rigogliosi. I fiori sbocciano, l’aria diventa più calda, l’odore di estate si disperde nell’aria. Vasi d’argilla, cipressi e oliveti costeggiano la strada. Gli uomini giocano a carte e bevono caffè. Ci fermiamo in un paesino di vasai, osservando il lavoro delle donne. Al porto di Chania possiamo finalmente toglierci le scarpe e mettere i piedi nell’acqua, sollievo per i nostri dolori. Abbiamo anche fatto un salto nel mare. L’aria è carica di sale, il pesce, le palme, i vecchi lampioni e, sullo sfondo, le bianche pendici del Lefka Ori creano un’atmosfera magnifica. Ancora una volta George ci porta a cena. Insalata greca con avocado e noci, riso indiano, paprika con yogurt, involtini di verdura, finocchio, spinaci e un’altra bottiglia di vino. La fine perfetta di un viaggio in un altro, fantastico, esotico, mondo.
Questo articolo è stato pubblicato su Skialper 111. Info qui
C’era una volta il west
Monaco di Baviera, Ispo 2018. Ormai da qualche anno, se vai all’Ispo, vedi freeride ovunque. Non c’è marchio, non c’è padiglione in cui almeno una delle foto utilizzate negli stand non ritragga uno sciatore immerso nella polvere con un completo colorato addosso. Qua e là product manager impacciati che parlano di rocker e sci larghi a clienti che li ascoltano annuendo, ignorando il fatto che fino a ieri per loro lo sciatore di riferimento era Alberto Tomba, mica Shane McConkey. I più ribelli, al massimo, tifavano Bode Miller. Nei comprensori la scena non cambia molto: appena nevica spuntano sciatori che in settimana si fanno la barba ogni mattina prima di andare in ufficio e che nel weekend, da un paio di stagioni, girano a bordo pista con le braghe larghe e i twin tip rubati ai figli ululando steep and deep, ma alla fine le tracce che lasciano sono le stesse serpentine che si facevano già negli ’80. Tutti che fanno i freerider, ma pochi in fondo accetterebbero di esserlo per davvero. A tanti, invece, del destino del freeride frega poco o niente, il suo spirito può essere sacrificato in nome di qualche like sui social. SCKREEECH. Freniamo tutti un attimo, per favore. Consumatori, brand, addetti ai lavori, anche noi giornali. Intendo proprio tutti. Che se si continua così il freeride muore per davvero. Abbiamo perso la bussola, ci siamo dimenticati quali sono le cose che contano quando si va a sciare. Abbiamo cominciato a preoccuparci più degli abbinamenti tra gusci e pantaloni piuttosto che di come arrivare a quel pendio rimasto vergine dopo l’ultima nevicata. O a imparare a memoria le geometrie degli sci che usciranno fra cinque anni, scordandoci che quelli dell’anno scorso vanno ancora benissimo e un paio nuovo costa almeno quanto lo skipass stagionale di una qualunque località. Tranquilli, ci sono anche io tra di voi, ci si fa compagnia nello smarrimento causato dalle insidie del marketing e dall’ansia da follower su Instagram, che se alla domenica sera non si pubblica una foto di deep powder abbiamo sprecato il weekend e potevamo anche starcene a casa. A fine febbraio ho deciso di curarmi. La meta del mio rehab era una valle nell’Ovest, dove il freeride esiste da più di vent’anni e non è stato inventato ieri da un marketing manager di una multinazionale, dove lo sci libero non lo si pratica, lo si vive in tutti i suoi eccessi e i sacrifici che ti richiede. Dove tra l’essere e l’apparire si sceglie lo sciare, e se la neve è bella magari al lavoro ci si va un’altra volta, pazienza se il conto in banca a fine mese piange. Così sono andato a disintossicarmi a Gressoney da Zeo e i suoi amici, alla Baitella.
The Baitella State of Mind
La storia della Baitella è legata strettamente a quella di Zeo, che a Ondro Lommato, la frazione nella quale si trova, ci arrivò nel 1994. All’epoca frequentatore dell’ambiente dei centri sociali, il milanese Zeo si innamorò del posto e assieme agli amici cominciò poco alla volta a trasformarla in una specie di casa comune, dove trascorrere l’inverno e ospitare chi passava di qua per sciare. È impossibile tenere la conta di chi ha soggiornato nel corso degli anni, magari risvegliandosi con la testa che rimbombava dopo una serata di bisboccia. La leggenda della Baitella si è accresciuta quando il proprietario, inconsapevolmente, si è ritrovato a ricoprire anche il ruolo di localdi riferimento dei rider stranieri che venivano a filmare ski movie sul Monte Rosa, innamorandosi a loro volta della Valle del Lys. Appena dopo la porta di ingresso c’è un muro sul quale gli ospiti lasciano una dedica, seria quanto basta. In alto a destra ci sono quelle di Chris Bentchetler, di Sean e Callum Pettit (ski you later, ha scritto), quella di Eric Pollard che ha anche disegnato uno dei suoi alberi, gli stessi presenti sulle serigrafie dei Line Skis, quando era stato qui per alcune scene di After the Sky Fall. E poi ci sono quelle della troupe di DPS, che qui ha filmato il cortometraggio Reverie in condizioni nevose da antologia. Gli amici italiani, poco più in là sullo stucco bianco, gli hanno detto ciano firmandosi come Riders de noartri. La Baitella è stata per me il posto giusto da cui ricominciare la disintossicazione. Se dovessi pensare a quali sono i valori del freeride, ammesso che li si possa definire tali, beh, tanti di questi li ritrovo in Zeo. La condivisione, prima di tutto: condividere con qualcuno le proprie idee e i propri luoghi. Portare i nuovi amici nei propri secret spot, sperando che poi l’ubicazione di questi ultimi venga divulgata solo ai più meritevoli (a proposito: in questo reportage non troverete i nomi delle discese fotografate, sarebbe troppo facile leggerle su un giornale e andare a ripeterle dopo una nevicata. Mi spiace, ma i local mi hanno detto che sanno dove abita la mia famiglia…). Ma anche la consapevolezza dell’ambiente che ci circonda, l’essere consci che le Alpi non sono messe bene, e che tutti dovremmo impegnarci un pochetto per preservarle. Perlomeno per permettere ai nostri figli di provare l’ebbrezza della powder nei boschi sotto i 2.000 metri, ecco. E, soprattutto, l’essere presi bene. Che è una forma più forte dell’essere entusiasti, senza sfociare tuttavia nell’essere ossessionati. Essere presi bene significa fare l’ultima pellata partendo alle cinque del pomeriggio, per il semplice godere della luce e della neve, e non perché bisogna accumulare dislivello a tutti i costi. E poi magari, i giorni in cui fa brutto, starsene a poltrire a casa senza sentirsi in colpa, lasciando gli ossessionati a perdersi nella nebbia al posto nostro. Ho poi conosciuto l’ecosistema di Gressoney del quale Zeo fa parte: una tribùeterogenea di indigeni della Valle del Lys della quale fanno parte Maestri, Guide, aspiranti Guide, fotografi di montagna, ma anche amatori che nella vita fanno tutt’altro. Età indefinita, dai venti agli over sessanta. Se li vedi da fuori non lo diresti neanche che passano le giornate a sciare insieme: qualcuno gira con padelloni da 120 millimetri sotto il piede, altri con degli assi che avranno sì e no quindici anni e oggi andrebbero bene per le gare. Abbigliamento, idem: si va da un estremo all’altro, dal tutone alla tutina. Ad accomunarli, però, sono le scelte che hanno fatto per arrivare fin qui, tutte mirate al poter trascorrere il maggior tempo possibile in montagna, rinunciando magari ai lussi di una vita e di un lavoro normali in cambio del potersi svegliare col Monte Rosa fuori dalla finestra. Era qui che volevo arrivare: il freeride non è una pratica e nemmeno un modo di vestirsi o di sciare. Il freeride è un percorso di vita.
Weissmatten
Spesso trascurata a favore degli impianti di Gressoney La Trinité, quest’area dispone di una sola seggiovia biposto e, apparentemente. di pochi pendii accessibili dalla cima. Ma basta aver voglia di mettere le pelli anche solo per pochi minuti che si sblocca un mondo fatto di ripidi lariceti, riparati dalla folla che gira a Punta Jolanda, decisamente più frequentata. Prima regola del freeride, cercare sempre il pendio vergine, giusto?
Il trasformista Andrea Gallo
Climber, fotografo, pioniere giornalista, sciatore-autore, videomaker della scena rap italiana: Andrea Gallo è stato ed è tutto questo. Negli anni ’80 Andrea fu uno dei più forti arrampicatori italiani, autore delle prime salite di pietre miliari del freeclimbing sparse tra Piemonte e Liguria. Basti pensare che la sua Hyaena, gradata solo8b+, fa notizia ancora adesso quando viene ripetuta. Fu poi uno dei primi a credere nel paradiso outdoor di Finale Ligure, contribuendo attivamente al suo sviluppo e aprendo il primo negozio di attrezzatura da montagna in quella che era una cittadina della riviera ligure. Poi tornò su nelle montagne di casa, a Gressoney, dove partecipò alla stesura della prima guida di freeride della zona, Polvere Rosa. Come il serpente dell’Eden, Andrea continuò a tentare il resto del mondo rompendo gli schemi. Intramontabile lo speciale Freeriderc he curò per la rivista Alp nel 1999, dove scrisse delle attività libere dagli schemi che in futuro sarebbero state catalizzatrici dello stantio mondo della montagna: in quel numero si parlava di bouldering, di skibum a Chamonix, di drytooling e, ovviamente, di Gressoney.
Una Malfatta ben fatta
Il Vallone della Malfatta è una delle discese più conosciute che da Punta Indren scendono sul lato valsesiano del Monte Rosa. Solitamente vi si accede tramite un canale che richiede una calata, o perlomeno di essere disarrampicato. Solitamente. Con Zeo e il Camicia l’abbiamo sciato in tutto il suo splendore, accedendoci sci ai piedi e lasciando le nostre firme nello zucchero, in una giornata in cui il cielo era quello che gli americani - che hanno un neologismo cool per qualsiasi cosa - definirebbero bluebird. Discese classiche come questa in queste condizioni richiedono essenzialmente un requisito: essere lì, in settimana, dopo una nevicata e alla prima funivia… tutto il resto sono chiacchiere da bar.
Il Circo Barnum al Lago del Labiet
Più si è, meglio è. Un giorno ci siamo ritrovati a pellare dalla diga del Labiet in undici, in una bolgia colorata con poche idee in testa ma molto chiare: trovare abbastanza pendii immacolati per tutti. In testa il solitario Camicia, che non solo voleva battere tutta la traccia da solo, ma respingeva anche chi si offriva di dare il cambio a questo intagliatore che un giorno, da solo e per sfizio, aveva pellato per 5.100 metri di dislivello. Dietro, a seguire, il carrozzone del Circo Barnum: il più giovane era il ventunenne rasta Mattia, che per l’occasione aveva un paio di Dynafit al posto dei twin-tip da park; il più, ehm, saggio era Paolo, ormai in pensione. Gente che aveva fatto il Mezzalama mischiata ad altri che in salita facevano le pause a suon di sigarette e vin brulé, mischiata ad altri ancora che le pause non le facevano proprio perché erano i giorni di Burian e la temperatura a dir poco tonica. Chiedetelo a Zeo, che si è dovuto far prestare un phon al bar per scaldare le pelli ghiacciate.
Sciare la luce
È successo anche di partire per l’ultima pellata all’ora in cui il sole stava per scomparire, salendo con il filo dell’ombra che seguiva poco più a valle. Faceva così freddo che i cristalli di neve non si legavano l’uno all’altro, ma rimanevano lì, sospesi nell’aria a luccicare come polvere d’oro. Davanti a me a battere la traccia c’erano il Camicia e i fratelli Thedy, dietro Zeo e Mattia. Con me era rimasto Francio, che saliva con calma trascinandosi dietro scarponi da pista e sci da 124 mm al centro. Abbiamo spellato proprio mentre il sole stava calando, il primo a danzare nella luce è stato il Camicia, mentre Francio si gustava una sigaretta rollata a meno venti.
Questo articolo è stato pubblicato su Skialper 117, info qui.
Fast is the new trendy
«Esiste forse uno stile più logico ed elegante del partire dal fondovalle, scalare una o più montagne e tornare al punto di partenza con il minimo materiale indispensabile, in un solo, rapido, assalto? In questo stile la velocità rappresenta ovviamente una componente essenziale: senza di essa non sarebbe possibile fare cosi tanto dislivello. Senza di essa non si avrebbe la sensazione di cavalcare le montagne. Pur condividendo la ricerca della rapidità, gli approcci a questo tipo di salite sono molto differenti a seconda che si parta dal lato trail running oppure da quello alpinistico. A creare confusione, al di là delle basi culturali, è proprio la disciplina in sé: per la metà del tempo si corre su sentieri, per lʼaltra metà si scalano vie alpine. Nella prima parte della giornata si starebbe quindi bene in scarpette, pantaloncini e canotta; nella seconda ramponi, piccozze e friend diventano fondamentali per la riuscita». Scrive così Denis Trento a proposito delle salite alpinistiche in velocità. Una valutazione filosofica sull’andare veloci, con tanto di excursus storico, per introdurre le uscite fast & light realizzate la scorsa estate in compagnia di Robert Antonioli. Uscite veloci, sì, ma con tutta l’attrezzatura necessaria. «Come Guida alpina non posso prescindere dallʼavere con me attrezzatura alpinistica adeguata e di autosoccorso, con qualche piccolo adeguamento magari sul materiale delle talloniere dei ramponi o sui millimetri della corda».
Denis Trento e Robert Antonioli la scorsa estate hanno salito l’Innominata al Monte Bianco, hanno percorso la cresta di Rochefort e traversato le Grandes Jorasses e toccato Lyskamm, colle del Lys, punta Dufour e punta Zumstein nel gruppo del Monte Rosa.
L’articolo completo è su Skialper 124 di giugno-luglio.
Via Valais, la haute route del trail
«La nostra esperienza, le chiacchiere con altri appassionati di trail, l’analisi delle mappe e le foto aeree ci hanno convinto subito: il Vallese avrebbe potuto avere i migliori itinerari di trail running al mondo, con singletrack tra grandi panorami e salite e discese epiche. Il paesaggio è unico e l’aria pulita invita a lasciare correre le braccia lungo il corpo e forzare il passo. L'unico inconveniente è che ogni volta che giri un angolo, ti trovi davanti un nuovo spettacolo della natura e ti viene voglia di fermarti a contemplarlo. Tutti questi ingredienti rendevano il cantone svizzero il luogo ideale per dare forma al nostro sogno: un lungo trail di più giorni». Scrive così Kim Strom a proposito della Via Valais: 225 chilometri e 14.000 metri di dislivello positivo ai piedi delle montagne più spettacolari d’Europa, da Verbier a Zermatt. Un itineraio nato unendo sentieri già esistenti e dopo un’a lunga e attenta ricognizione in più fasi.
Lungo l’itinerario si incontrano alcune delle montagne più spettacolari delle Alpi, a partire dal Cervino. Lo Schöllijoch, invece, prevede una discesa esposta con corde e scale per raggiungere i resti di un piccolo ghiacciaio con ghiaccio vecchio e senza crepacci. Lungo la via si incontra anche il ponte sospeso Charles Kuonen, il più lungo del mondo di questo tipo, con i suoi 494 metri e si corre nei luoghi della mitica gara Sierre-Zinal e tutto il percorso è diviso in nove tappe.
L’articolo completo sulla Via Valais è su Skialper 124 di giugno-luglio.
La Dream Line di Hilaree Nelson e Jim Morrison
Il 30 settembre 2018 Hilaree Nelson e il compagno Jim Morrison hanno chiuso un’annata di sci ripido sugli ottomila da ricordare, sciando integralmente il Lhotse (8.516 m) dalla vetta, lungo quello stretto canale a lungo bramato da tanti, la Dream Line. Un’impresa di livello dopo quella di Bargiel al K2, portata a termine in cinque settimane totali. «Quando siamo arrivati in vetta con tutta quella neve e ci siamo resi conto che avremmo potuto sciare la Dream Line dall’inizio, senza calarci tra le rocce, è stato bellissimo, un momento che ricorderò per sempre: eravamo nervosi, ma appena abbiamo messo gli sci l’eccitazione ha preso il sopravvento» dice Hilaree Nelson, 45 anni, che nel 2018 ha preso il posto, dopo 26 anni, di Conrad Anker come capitano del Global Athlete Team di The North Face.
La Nelson aveva già sciato nel 2013 la parete Ovest del Papsura (6.440 m), anche soprannominato in maniera poco rassicurante Peak of Evil (picco del male), una linea difficile di un’estetica ineccepibile che ripercorreva in parte l’ascensione neozelandese del 1991. Non c’è dubbio però che la Dream Line del Lhotse rimarrà per sempre legata al suo nome e a quello di Jim Morrison. «Tutta la discesa, compresa la Face, fino al campo 2, è di circa 2.100 metri di dislivello, e ha preso circa quattro ore, ma la maggior parte del tempo l’ha richiesto la sezione del Couloir – dice ancora Hilaree - Siamo stati vicini perché era la parte più impegnativa, l’ampia parete sottostante l’avevamo già provata nella fase di acclimatamento e lì ci siamo allontanati un po’ e abbiamo gustato la discesa. Sciare con Jim, compagno anche nella vita, mi dà una grande fiducia».
L’articolo completo è su Skialper 124 di giugno-luglio.
Seguendo le orme del lupo
Tra le Alpi Marittime in Italia e il massiccio del Mercantour in Francia si snoda la linea di un confine aperto. In un mondo dove oggi stanno sorgendo troppi muri, il limite amministrativo tra i due Stati del vecchio continente in questa zona di splendide montagne non intende dividere, ma favorire il passaggio di uomini (senza mezzi motorizzati) e di animali. A stringere in un grande abbraccio la porzione più occidentale della catena alpina ha contribuito l’istituzione di due grandi aree naturali protette, che collaborano da tempo in modo efficace attraverso specifici protocolli d’intesa. Si tratta del Parco Naturale Alpi Marittime sul versante italiano settentrionale (istituito nel 1995) e del Parc National du Mercantour su quello meridionale francese (fondato nel 1979). Gli spazi selvaggi che si estendono all’interno dei due parchi coprono una superficie complessiva di quasi mille chilometri quadrati e, grazie all’integrità naturale, sono frequentati da numerose specie faunistiche. In parallelo si è affermata modalità di turismo rispettosa dell’ambiente, attenta ai valori della natura ma anche ad altri motivi di interesse di questo territorio che, sul lato italiano che ricade nella Provincia Granda di Cuneo, riguardano ad esempio le spettacolari strade militari e i sentieri utilizzati per raggiungere i luoghi di caccia frequentati un tempo da Re Vittorio Emanuele II.
L’abbandono dell’attività di caccia da parte della famiglia reale e l’istituzione delle aree naturali protette hanno progressivamente favorito la crescita numerica di molte specie animali. Nel Parco Naturale Alpi Marittime oggi si possono contare circa 4.000 camosci e 500 stambecchi, ai quali si aggiungono caprioli, cinghiali, cervi e mufloni. Tra gli uccelli spiccano le presenze della coturnice, del fagiano di monte e della pernice bianca, oltre a quelle dell’aquila reale (10 coppie) e del maestoso gipeto. Gli aspetti naturalistici si completano con circa 1.800 piante superiori (oltre il 30 per cento del totale della flora italiana), e dieci endemismi vegetali ad areale ristretto, che si possono osservare solo sulle Alpi Marittime. Numeri e specie già rilevanti, ma ai quali va aggiunta anche la straordinaria presenza del lupo (Canis lupus), animale di fondamentale importanza ecologica. L’ufficialità del suo ritorno porta la data del 24 dicembre 1989 quando, a seguito di osservazioni dirette effettuate da operatori del Parco Naturale delle Alpi Marittime e del Parco Nazionale del Mercantour, è stata accertata la presenza di alcuni lupi a cavallo della frontiera tra Italia e Francia.
L’aumento delle prede e delle superfici forestali hanno costituito le principali condizioni ambientali che hanno richiamato gradualmente fin qui alcuni esemplari di lupo provenienti dall’Appennino, dando vita a un processo di colonizzazione spontanea che ha favorito il ritorno del grande predatore. Il confine tra i due parchi è quindi zona di transito per questo animale e, da alcuni anni, anche di un affascinante percorso escursionistico che si snoda all’interno delle valli e delle montagne che frequenta. L’itinerario si chiama Trekking del Lupo e lungo il percorso si trovano diversi rifugi e punti di appoggio in quota per il ristoro e il pernottamento. In otto tappe si può compiere a piedi l’intero viaggio mantenendo ritmi che consentono di osservare con calma paesaggio, flora e fauna, ma i più allenati possono anche dimezzare i tempi escursionistici e percorrerlo in tre-quattro tappe.
Si cammina in buona parte su sentieri ed ex strade reali di caccia dal fondo selciato, ma non mancano passaggi su pietre e massi (e talvolta anche neve) caratteristici degli ambienti alpini, che rendono più indicato l’utilizzo dello scarpone a quello delle scarpette da trail o di scarpe basse da hiking. Si superano spesso i 2.000 metri, pertanto la stagione estiva fino all’inizio dell’autunno rappresenta il periodo ideale per organizzarne una vacanza a passo lento o veloce sulle orme del lupo. La parte iniziale del trekking non richiede eccessivo impegno. Da San Giacomo d’Entracque si percorre il Vallone del Gesso della Barra passando dai boschi del fondovalle ai pascoli e alle rocce distribuiti alle quote più elevate. Il vispo torrente, la marmotte e camosci accompagnano fino al rifugio Soria-Ellena. Il giorno successivo il cammino riprende ancora in salita, ora più ripida e faticosa. L’ampia e storica traccia si sviluppa in direzione sud fino al Colle di Finestra (2.471 m, stambecchi in zona) e poi, in territorio francese, raggiunge il Pas de Ladres (2.448 m). Il Lac de Trecolpas allieta la prima parte di discesa in direzione del Refuge de Cougourde, mentre la seconda, accanto al torrente, percorre ambienti alpestri rilassanti che accompagnano a Le Boréon.
Il cammino riprende nei pressi del lago di Boréon in direzione nord per raggiungere il Colle di Ciriegia (2.543 m), dove sono stati osservati i primi lupi nel 1989. La salita richiede impegno fin da subito nel Vallon du Cavalet e non è da sottovalutare nemmeno la lunga e a tratti tecnica discesa che dal colle riconduce in Italia, con ampie visuali sul Monte Argentera (3.297 m) e sulle sue sorelle a corredo del cammino fino al Rifugio Elena (1.834 m). La tappa che segue costituisce ancora un viaggio nella natura (zone umide e laghetti) ma anche nella storia, con tratti da percorrere su strade reali e altri su opere viarie risalenti alla Grande Guerra. Oltre il Colletto di Valasco (2.429) si prosegue lungo la Val Morta e poi si risale al rifugio Questa (2.388 m), affacciato sul lago delle Portette.
Il Vallone e il Pian del Valasco sono gli elementi che caratterizzano principalmente la sezione successiva che si conclude alla borgata di Terme di Valdieri. Da qui una passerella in legno conduce all’imbocco del vallone di Lourousa. La zona è un paradiso per gli escursionisti ma anche per alpinisti e arrampicatori. Il canalone di Lourousa fino al Colletto Coolidge rappresenta una logica, ambita e impegnativa linea su neve da percorrere all’inizio dell’estate (difficoltà AD, 3-4 ore e 950 metri di dislivello dal bivacco Varrone), mentre il vicino Corno Stella (3.262 m) ha visto all’opera sulle sue pareti nord-est e sud-ovest alpinisti del calibro di Allain, Grassi, Kosterlitz, Ravaschietto e Berhault. Dopo la sosta al rifugio Morelli-Buzzi (zona frequentata anche da numerosi stambecchi) si riparte alla volta del vicino Colle del Chiapous (2.526 m), dal quale si scende nell’omonimo vallone fino alla grande diga del Chiotas (1.980 m) e da qui in breve al Rifugio Genova-Figari (2.013 m), prossimo al bel lago alpino naturale Brocan.
La tappa conclusiva del trekking del Lupo raggiunge nel suo ultimo tratto di salita il Colle di Fenestrelle (2.643 m). In questa zona si osservano due piccoli laghi effimeri e uno stupendo panorama sul Monte Gelas attorno al quale, sui ghiacciai più meridionali della catena alpina, e a poche decine di chilometri in linea d’aria dalle famose località turistiche balneari della Costa Azzurra, si sviluppano interessanti itinerari scialpinistici. La discesa, dalla pendenza graduale, supera il Piano del Praiet e conduce, lungo il tratto percorso all’inizio del trekking nel Vallone del Gesso della Barra, di nuovo a San Giacomo di Entracque. Un’avvertenza: il nome dato al trekking non deve indurre a credere che gli esemplari di lupo siano facilmente osservabili. La possibilità di vedere direttamente questo animale è piuttosto remota e la sua presenza è riferita a segni (impronte, tracce, escrementi, peli e resti delle sue prede) di non semplice interpretazione. Però rimane immutato il fascino di attraversare le montagne gradite dal grande carnivoro e pensare che mentre stiamo camminando, magari, ci stia osservando.
Il Trekking del Lupo ha una lunghezza complessiva di circa 75 chilometri e può essere suddiviso in 8 tappe.
TAPPA 1. Da Cuneo si percorre la SP22 fino a raggiungere Entracque, dove in località Casermette si può visitare il Centro Faunistico Uomini e Lupi. Sul sito del comune (www.comune.entracque.cn.it), nell’area tematica ‘guida turistica’, sono disponibili le indicazioni su alloggi e strutture ricettive. Con l’auto ci si porta a San Giacomo d’Entracque (1.213 m), dove si parte a piedi per il rifugio Soria-Ellena (1.840 m) [totali: 627 m D+, 2h30’]
TAPPA 2. Dal rifugio Soria-Ellena (1.840 m) a Le Boréon (1.460 m) attraverso il Colle di Finestra (2.471 m), il Pas des Ladres (2.448 m) e il Lac de Trecolpas (2.150 m) [totali: 900 m D+, 1.100 m D-, 6h] - nota: la tappa si può spezzare in due con una piccola variante al Refuge de la Cougourde (2.110 m).
TAPPA 3. Da Le Boréon (1.460 m), dove si può visitare il Centro faunistico Alpha Loup, si parte alla volta del rifugio Regina Elena (1.834 m), passando dal Col de Cerise/Colle di Ciriegia (2.543 m) [totali: 1.070 m D+, 700 m D-, 5h30’]
TAPPA 4. Dal rifugio Regina Elena (1.834 m) al rifugio Questa (2.388 m) attraverso il Colletto di Valasco (2.429 m) [totali: 850 m D+, 300 m D-, 4h]
TAPPA 5. Dal rifugio Questa (2.388 m) a Terme di Valdieri (1.368 m) passando per il rifugio Vallone di Valasco (1.763 m) [totali: 250 m D+, 1.270 m D-, 3h]
TAPPA 6. da Terme di Valdieri (1.368 m) al rifugio Morelli-Buzzi (2.351 m) [totali: 1.080 m D+, 100 m D-, 3h]
TAPPA 7. Dal rifugio Morelli-Buzzi (2.351 m) al rifugio Genova-Figari (2.015 m) transitando dal Colle del Chiapous (2.526 m) [totali: 300 m D+, 640 m D-, 2h30’]
TAPPA 8. Dal rifugio Genova-Figari (2.015 m) a San Giacomo di Entracque (1.213 m) passando per il Colle di Fenestrelle (2.463 m). Possibile visita alla seconda struttura del Centro Faunistico Uomini e Lupi, collocata nel paese in Piazza Giustizia e Libertà [totali: 460 m D+, 1.265 m D-, 5h]
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 112, INFO QUI
La via del confine pacifico
«I confini sono un catalogo di ipotesi. Ad esempio, più che demarcazioni lineari, sono passi, creste, frastagli, onde. Sono percorsi, tracce e sentieri. Prima che geografie, sono storie, racconti e immagini» Il pensiero di Gian Luca Favetto, scrittore e giornalista torinese, corrisponde con la mia idea di confine e da questa percezione mentale, che nasce da un dato fisico, ha inizio il nostro viaggio.
L’idea è semplice. Vorrei camminare lungo i versanti nord e sud delle Vette Feltrine, al margine della linea di confine che per quasi 400 anni ha diviso due Stati, la Repubblica di Venezia dal Tirolo: oggi confine tra due regioni, il Trentino e il Veneto, e le due province di Trento e Belluno. Un confine pacifico, che segue in gran parte il profilo di cime che superano i 2.000 metri che, a dispetto dell’idea di dividere, ha sempre unito le vallate. Le labbra del tempo raccontano di passaggi di pastori, contrabbandieri, cacciatori, viaggiatori e rivoltosi, in una mescolanza di commerci, lingue, matrimoni e idee. E non c’è viaggio che non attraversi un confine, dunque partiamo. Le Vette Feltrine sono il gruppo più meridionale delle Dolomiti, si trovano nella zona sud-occidentale della provincia di Belluno. A sud dominano la vallata Feltrina, a nord costituiscono una barriera naturale sulla Valle di Primiero e se non ci fosse la stretta gola dello Schenèr, ad unirla alla pianura veneta, anche la storia del Primiero sarebbe un’altra cosa.
Per tutto il Medioevo il Feltrino e il Primiero sono stati uniti sotto il controllo del vescovo conte di Feltre. Con il dominio dei Duchi d'Austria il Primiero venne consegnato nel 1401 ai Conti Welsperg. A sud, oltre la gola dello Schenèr, nel 1404 la storia di Feltre prende una piega diversa, in seguito alla sua spontanea consegna alla Serenissima Repubblica di Venezia, e il Feltrino diventa terra di confine. Il piccolo gruppo di amici che mi accompagna si è dato appuntamento a Feltre. Giacomo e Laura sono due local e in parte conoscono i luoghi che visiteremo. Giacomo fa la guida escursionistica ed è un fotografo naturalista, recentemente ha pubblicato un bel libro sulla fauna delle Dolomiti Bellunesi. Laura è fisioterapista, la sua passione è stare il più possibile all’aria aperta, meglio se in alta quota e in tutte le stagioni. Federico invece arriva da Torino e come fotografo di Skialper avrà il compito di raccontare con le immagini il nostro cammino.
Partiamo verso il Primiero. Arrivati a Pontét spiego che qui c’era la dogana tra l'Impero austro-ungarico e il Regno d'Italia e l’albergo accanto alla strada era l’ufficio doganale austriaco. Entriamo nella gola dello Schenèr, la strada sfiora la riva del lago e poco dopo esce in vista della conca di Primiero. Seguiamo il corso del torrente Cismón fino a una rotatoria con al centro una lontra gigante in ferro. Penso a come le rotatorie da semplici collinette siano diventate luoghi d’arte contemporanea, un luogo di libertà per sindaci, architetti e artisti. Qui giriamo a destra verso la Val Noana. La strada si stringe e divide il poco spazio disponibile con il torrente. Sale tortuosa dentro un profondo canyon, a tratti in galleria. Sopra la gola, sulla nostra destra, incombono i versanti settentrionali delle Vette Feltrine e alla sommità di essi corre il confine pacifico.
I giganti della Val Noana
Prima di giungere alla testata della valle giriamo a destra verso malga Val Stua di Sopra; ci fermiamo alla Casina forestale del Comune di Mezzano dove ci aspetta Silvano Doff Sotta. Quando si dice un nome e un destino, Silvano (ovvero l’uomo dei boschi o delle selve) ne è l’esempio. Da 39 anni è il custode forestale dei boschi del Comune di Mezzano e, come la maggior parte dei boschi trentini, anche questi sono di proprietà delle comunità locali che li amministrano da secoli tramite sistemi di regole. Chiediamo a Silvano di mostrarci qualcuno dei suoi gioielli: gli abeti giganti della Val Noana. Prima di raggiungere i grandi patriarchi della foresta, Silvano tira fuori alcune mappe e tabelle e ci mostra i segni adottati a indicare i confini comunali e le particelle forestali. In questo caso i confini sono al servizio delle comunità. «In questa foresta» ci dice «vivono numerosi alberi di grandi dimensioni, abeti, tassi e faggi, alti diverse decine di metri, che si sviluppano all'interno di boschi maestosi in tempi relativamente brevi. Ciò è dovuto al clima particolarmente favorevole e a una storia che non ha mai visto uno sfruttamento eccessivo». Potremmo rimanere tutta la giornata ad ascoltare Silvano parlare della ‘sua’ foresta, ma è ora di mettersi in cammino. La parte superiore della valle, dopo il lago, si divide in altri due bacini, da una parte il Rio Giasinozza e dall'altra il Rio Nèva che seguiremo fino al rifugio Boz. Il paesaggio si addolcisce e nella foresta si celano insospettabili oasi a prato e pascolo punteggiate di fienili, stalle e abitazioni temporanee.
Mamma, quando andiamo al mare?
Per raggiungere il rifugio Boz abbiamo ben tre possibilità: il sentiero 748 che passa per il Col San Piero, il sentiero 727 che coincide con la rotabile che termina a casera Nèva Seconda e la variante 727/A, nota anche come sentiero dei Pinteri (dei bottai), che risale la sinistra orografica del Rio Nèva. Conosco bene le tre vie di accesso e ogni opzione ha la sua attrattiva, dipende solo dal tempo a disposizione. Considerato che siamo un po’ ritardo e il sole picchia forte, propongo ai miei compagni di seguire la rotabile fino a casera Nèva Seconda dove potremmo conoscere i malghesi Ruggero e Linda. La strada s’inerpica decisa e in breve la foresta è alle nostre spalle. Dinanzi a noi ora abbiamo i dolci pascoli di Nèva e le pareti del Sass de Mura che sbucano dal verde della mugheta. È una giornata calda e afosa, il sudore inzuppa i vestiti e secca la gola. La mulattiera dopo un’ampia curva termina dinanzi casera Nèva Seconda (1.741 m) che molti chiamano ancora Nèva austriaca o tedesca, per distinguerla da Nèva italiana che sta poche centinaia di metri più in là, oltre il confine che per secoli ha diviso questi pascoli tra il Veneto e l’Austria. La casera è cinta da un filo elettrico per impedire al bestiame di avvicinarsi all’abitazione. Dentro il recinto due bambini giocano in una piccola piscina gonfiabile riempita con pochi centimetri d’acqua. Arriva a farci visita il cane pastore, due abbaiate stanche e poi si ritira al fresco sul pavimento in pietra. Linda ha 31 anni, cappelli cortissimi e biondi, è la mamma di Mirco e Anna i bambini che sgambettano nella piscina. Ci saluta con gentilezza e un bel sorriso, in mano ha il secchio per l’allattamento dei vitelli. Lei e suo marito Ruggero da cinque anni conducono questa malga che è di proprietà del Comune di Mezzano. Hanno in custodia 60 manze, 40 vacche con vitelli, 8 mucche da latte, 25 cavalli e 50 pecore. Da giugno a settembre questa è la loro casa. «Ogni anno, con due bambini piccoli, lasciare la nostra casa a Lamon per venire qui in montagna è sempre complicato» mi dice Linda. «Dobbiamo aspettare che Anna finisca la scuola e intanto trasferire quanto necessario per avviare l’alpeggio». Ruggero ha 42 anni, quando non è in malga fa il boscaiolo. «Qui io sono l’operaio e Linda è il capo. È lei la titolare del contratto di lavoro» mi dice sorridendo. «Ciò che amo di più di questo lavoro è il grande senso di libertà che mi dà vivere qui. Ogni giorno ci sono tantissime cose da fare, ma ci sono anche tanti piccoli momenti per noi e i bambini» e i suoi occhi corrono a cercare quelli di Linda. Federico con discrezione chiede se può scattare qualche foto dentro casa. La cosa pare non disturbarli. Ruggero ci accompagna perfino nel sottotetto dove c’è la loro camera da letto. Quello che vedo è commovente: in mezzo alla stanza ci sono tre letti e un lettino, tutti attaccati ‘vicini-vicini’. Sembra una favola, la notte in montagna stretti uno all’altro non fa più paura. Mirco ora è in braccio alla mamma che lo asciuga e gli cambia i vestiti fradici. Dico a Linda che i suoi figli sono due bambini fortunati e da adulti ricorderanno le estati qui in malga come uno dei momenti più belli della loro vita. «Anch’io penso questo, ma trovare il giusto equilibrio non è facile» mi dice Linda. «Qui non ci sono bambini e Anna, che ora ha 9 anni, spesso si sente sola. Qualche giorno fa è venuta a trovarla una sua amica, di ritorno dal mare. Alla sera Anna mi ha detto: mamma e noi quando andiamo al mare?».
Una moltitudine di lingue e nazioni
Prima di arrivare al rifugio Boz avverto i miei compagni che stiamo per attraversare il vecchio confine di Stato. Gli indico un cippo in pietra che ha inciso su un lato la V di Veneto e sul lato opposto la T di Tirolo. Dico che è uno degli undici segni posti nel 1782 per sanare una controversia confinaria fra l’Austria e la Repubblica di Venezia. La pretesa dell’Austria era di portare il confine sulle cime che fanno da spartiacque naturale, invece Venezia, carte alla mano, sosteneva che fin dal medioevo la conca di Nèva era feudo del Vescovo di Feltre. Il tutto si concluse con un compromesso politico. Venne individuata una linea artificiale, indicata da cippi in pietra e da segni scolpiti nelle rocce. La prima ad accorgersi del nostro arrivo è Neva, il border collie di Daniele e Ginetta. La stagione è appena iniziata e non ci sono molti escursionisti in giro, anche se le prenotazioni non mancano. «Da quando l’Unesco ha riconosciuto le Dolomiti Patrimonio dell’Umanità, abbiamo visto crescere il passaggio di stranieri un po’ da tutto il mondo: israeliani non mancano mai, ma spesso sono coreani, neozelandesi, canadesi, americani e anche brasiliani. Arrivano dopo giorni di cammino lungo l’Alta Via n. 2 o l’Alta Via Europa 2 che parte da Innsbruck» mi dice Daniele. «Invece sono calati gli italiani e i tedeschi che avevano hanno fatto la fortuna delle alte vie» Considero questo aspetto cosmopolita del rifugio come un fatto interessante, ma anche una stranezza della globalizzazione: luoghi rimasti per secoli al margine diventano improvvisamente centro, ma rimangono sempre terra di confine per le lingue che si parlano. Ginetta ritorna in cucina a preparare l’impasto per le torte. «Con il cambiamento climatico è cambiata anche la vita qui al rifugio» mi dice. «Le stagioni si sono allungate e siamo spesso aperti anche fuori stagione» Da 35 anni lei e suo marito gestiscono il Boz, nato nel 1970 come bivacco. «Chi è cambiato sono le persone che arrivano qui. Un tempo il rifugio era un punto di partenza verso altri luoghi, per escursioni o arrampicate, ora è un punto di arrivo, soprattutto per mangiare. Così dai semplici piatti dei primi anni siamo passati a una cucina più ricca, che richiede però maggior impegno».
I contrabbandieri del Passo Finestra
Meno di mezz’ora di cammino separa il Passo Finestra dal rifugio Boz. In prossimità del passo invito i miei compagni a seguirmi in una breve deviazione. Pochi metri e siamo dinanzi al vecchio passo: el ‘bus de finestra’, com’era chiamato questo stretto intaglio tra due pareti di roccia. Racconto che qui è passata la storia dei rapporti tra montanari di diverse vallate. C'erano i pastori che conducevano gli armenti al pascolo. Ma anche i contrabbandieri, in particolare di tabacco, che entravano di nascosto nel territorio della Repubblica di Venezia carichi di merce acquistata a prezzi più bassi in Tirolo. Un passaggio difficilmente controllabile, dove le milizie arrivavano raramente. Mentre racconto la storia di questi luoghi veniamo raggiunti dai primi raggi del sole e anche le pareti di Dolomia del Sass de Mura si accendono dei colori del mattino. Il percorso che ci attende oggi è abbastanza lungo e articolato, almeno sei ore di cammino. Non ci sono grandi dislivelli da superare, tuttavia la fatica a fine giornata si farà sentire. Per raggiungere il rifugio Dal Piaz cammineremo sulla via aperta dai militari italiani negli anni 1916-17, quando costruirono la Linea Gialla, la linea arretrata di fortificazioni, baluardo in caso di sfondamento della prima linea. Mentre cammino osservo il sentiero ben scavato nella roccia, tagliare il ripido pendio con regolarità, avvicinarsi ove possibile alla linea di cresta per ispezionare le valli nemiche. Rimango sempre affascinato dall’abilità del genio militare nel costruire sentieri e mulattiere che da cent’anni facilitano le nostre escursioni. In prossimità della salita al Sasso Scàrnia il sentiero si restringe in un’esile cresta, sospesa sull’abisso sopra la Val Noana e la Val Canzói. Poi s’impenna, prosegue sullo spigolo roccioso inciso da alcuni gradini. È un punto davvero suggestivo e Federico scatta in avanti a fotografare. La salita termina sulla spalla sotto la cima del Sasso Scàrnia. Il panorama è qualcosa di grandioso e selvaggio. Montagne conosciute e sconosciute, luoghi lontani e vicini. La percezione è di una natura selvaggia ma umana. La vita selvatica che ci ha fatto da preludio sopravvive con noi. Laura, agile e veloce, ci precede nella discesa lungo la balza inclinata di rocce che ci riporta tra i mughi. Dalla Busa de Ramézza fino al Passo Piétena cammineremo dentro la Riserva Integrale: un’area che racchiude i più elevati valori biologici e merita la massima tutela. Non a caso queste montagne dal 1990 sono una delle perle del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi. Un breve tratto sul versante nord e all’improvviso ci appare la misteriosa Piaza del Diàol. Non è facile capire cosa sia successo. È un pendio disseminato di macigni e sfasciumi rocciosi, con al centro una ‘piazza’ erbosa sgombera da massi che la tradizione vuole sia un luogo di convegno di streghe. Ora anche Giacomo si è messo a fotografare, la sua attenzione è soprattutto rivolta alla fauna. Un branco di giovani mufloni con le madri ci ha appena tagliato la strada. Giunti sul Passo Piétena abbiamo davanti a noi alcuni dei circhi glaciali più spettacolari delle Vétte, veri giardini botanici dove le specie più delicate hanno trovato un rifugio. Nel fondo di queste buse si aprono vasti pianori d'alta quota interrotti da fenditure e avvallamenti di natura carsica, circondati da bianchissimi ghiaioni. Indico ai miei compagni un accumulo di pietre poco lontano da noi. «Da lì, il 29 settembre 1944, il partigiano Paride Brunetti ‘Bruno’, con l’unica mitragliatrice a disposizione, cercò di arrestare l’avanzata dei tedeschi che erano qui per un rastrellamento. Insieme al comandante Bruno c’era anche un altro personaggio leggendario, il maggiore Bill Tilman, un ufficiale inglese inviato dagli alleati per sostenere le formazioni partigiane. Tilman all’epoca era un alpinista famoso, aveva salito il Nanda Devi (7.816 m) senza ossigeno, la cima più alta, fino ad allora, raggiunta dall’uomo».
La focaccia di Mirco ed Erika
La mulattiera sale dolcemente verso l’ultimo passo di questa lunga traversata: il Passo Vette Grandi. Pochi metri più in basso ed ecco il rifugio Dal Piàz, l’ultimo anche per chi percorre l’Alta Via delle Dolomiti n. 2. Il sogno di Mirco ed Erika era di aprire un agriturismo, poi è arrivata l’occasione di gestire un rifugio e sono qui da quattro anni. «Siamo soddisfatti della nostra scelta e vogliamo continuare, però la carenza d’acqua molte volte mette a dura prova il nostro coraggio» mi dice Erika. La natura carsica delle Vette non aiuta il rifugio Dal Piaz e l’acqua spesso non basta nemmeno per la cucina. Marito e moglie ogni giorno, a turno, scendono a valle. Mille metri in discesa e il giorno dopo altrettanti in salita. Scendono per stare, almeno alla sera, con le loro bambine e liberare un po’ le nonne dall’impegno. «Ho provato a tenerle qui, ma sono ancora troppo piccole» mi dice Erika. Intanto sul tavolo del rifugio è arrivata la specialità di Mirco: la focaccia Dal Piaz. Nessuno si aspetterebbe di trovare qui questa bontà. Mirco ci racconta che volevano creare una pietanza per caratterizzare il rifugio. Con sua moglie ha seguito un corso di pizzaiolo ed è nata la focaccia: un impasto da lasciare lievitare tre giorni, non rotonda come una pizza ma di forma allungata, da mangiare in più persone su un unico tagliere. Come a condividere le fatiche della montagna e i piaceri della gola.
Il Pavióne, la più bella piramide erbosa delle Dolomiti
«Il mattino ha l'oro in bocca» ci dice Mirco mentre ci prepariamo a lasciare il rifugio. Federico mi chiede cosa significa. «Intende dire che è meglio sfruttare le ore del mattino per realizzare i nostri progetti. D’estate qui sulle Vette il forte riscaldamento dell’aria alle basse quote produce sovente nebbie che avvolgono per molte ore le cime, quindi è meglio muoversi!». Le nebbie non ci hanno ancora raggiunto, le vediamo avanzare e ritirarsi sotto di noi mentre camminiamo sui crinali erbosi che ci portano verso il Pavióne. Sono verdi e lunghissimi crinali che collegano cime arrotondate e smussate dal tempo, lo sguardo può spaziare su entrambi i versanti e seguire il sottile filo che unisce le cime. Percorrere la creste del Coston delle Vette Grandi e del Col di Luna è un’esperienza indimenticabile. La vetta del Pavióne, il punto più altro del nostro cammino, ci appare all’improvviso. Non c’è più nulla da salire solo un orizzonte sconfinato di cime da osservare, un panorama a 360° che ci lascia incantati. Lo spettacolo delle Pale di San Martino, dei Lagorai, il reticolo dei paesi del Primiero, le Dolomiti Agordine e Bellunesi, i monti dell’Alpago, la Val Belluna, l'altopiano dei Setti Comuni,le Prealpi e più lontano il luccichio della laguna di Venezia. Rimaniamo alcuni minuti in silenzio, sdraiati sui prati ancora umidi di rugiada, con lo sguardo nel cielo a incrociare le traiettorie dei rondoni alpini.
La discesa a valle
Dalla vetta scendiamo verso il Passo Pavióne, all’estremità occidentale delle Vette. Il nostro cammino ora prosegue a nord verso l’Alpe Vederna. Scendiamo lungo delle balze rocciose fino a incontrare il bosco di abeti e larici. Il sentiero sistemato di recente ci dice che abbiamo superato il confine regionale. Da malga Agneròla non seguiamo la strada forestale ma il sentiero nel bosco, più diretto, che termina proprio al rifugio Vederna. Una sosta veloce al rifugio, appena il tempo per bere qualcosa e far conoscenza con i gestori Roberto e Mirella. La strada è ancora lunga. Giriamo ad est verso il Piàn Grant, la zona pianeggiante dell'Alpe Vederna, da sempre un'importante fonte di fieno per la popolazione di Imèr. Ora ci attendono un paio di ore di cammino lungo la strada forestale che taglia tutti i versanti settentrionali delle Vette e che ci riporta al punto di partenza. Ritroviamo i profumi di resina e di terra umida, le erbe rigogliose del sottobosco e infine gli abeti giganti di Silvano. Vedo che ognuno di noi, di tanto in tanto, alza lo sguardo oltre le chiome degli abeti, verso le cime, come a cercare l’indefinito confine. Siamo fatti di confini, bisogna solo farli stare bene dentro di noi.
La via del confine pacifico fa parte dell'Altavia delle Dolomiti Bellunesi
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 113: INFO QUI
Storia (e fascino) dello sci di raid nelle Alpi
1888. Fridtjof Nansen e compagni attraversano la Groenlandia con gli sci. È l’inizio di un’era, quella dello sci di montagna moderno, che trova nei grandi raid più che nella conquista delle cime la forma di espressione più pura e più completa. Si tratta della scoperta dello sci avventura e delle sensazioni profonde del viaggiare con gli sci. In altre parole è la scoperta dello Ski Spirit, ossia di una dimensione dello sci che interessa anche e soprattutto le sfere dello spirito.
1897. Wilhelm Paulcke e compagni, emuli di Nansen, attraversano le Alpi Bernesi. Una traversata in pieno inverno folle per quei tempi ma vissuta con grande gioia e descritta con uno stile ironico e moderno dal grande Paulcke, denominato il Nansen del Centro Europa per la sua devozione al telemark. Da quel momento tutti i grandi sciatori di montagna alpini vedono nelle traversate, ossia nello scoprire cosa c’è dietro un colle, il significato ultimo dello sciare. Ci provano un po’ tutti, fra la conquista di una vetta e l’altra. Da Paul Preuss a Marcel Kurz, da Arnold Lunn a Ottorino Mezzalama. Ma è Léon Zwingelstein, lo sciatore vagabondo per eccellenza degli anni trenta, ad effettuare per primo, da solo e senza alcun aiuto esterno, dal primo febbraio al primo maggio 1933, un favoloso raid da Nizza al Tirolo, con ritorno sempre in sci fino a Briga in Svizzera. Una performance unica, con tutto nello zaino compresa una rudimentale tenda cucita con le sue mani. Una performance mai più ripetuta. E sarebbe andato oltre Briga Léon Zwingelstein, sarebbe ritornato in sci fino alla sua Grenoble, se ci fosse stata ancora neve!
Dopo Zwingelstein, un precursore in grande anticipo sui tempi, bisogna aspettare il primo dopo guerra per annoverare altre grandi traversate sulle Alpi. Nel 1956 due gruppi, il primo capeggiato da Alberto Righini con Bruno e Catullo Detassis e il secondo da Walter Bonatti, partono a quattro giorni di distanza uno dall’altro da Tarvisio, rispettivamente il 10 e il 14 marzo. Entrambi, a differenza di Zwingelstein, sono seguiti da un’automobile di appoggio per i rifornimenti. La meta è il Col di Nava in Piemonte, che raggiungono insieme il 18 maggio, ossia 66 giorni dalla partenza (quattro in più per il gruppo Righini-Detassis). Stranamente nel celebre capitolo del libro Le mie montagne di Bonatti, interamente dedicato a questa grande traversata, non si fa cenno al gruppo di Righini-Detassis, quasi fosse un gruppo di fantasmi, e non si dice che l’ideatore della traversata era stato Alberto Righini, che aveva infatti invitato Bonatti a parteciparvi... Comunque sia, i due gruppi decidono, cammin facendo, con un accordo scritto e firmato da tutti, di effettuare insieme tutta la seconda parte della traversata, dal Colle del Teodulo al Col di Nava. Questo accordo di pace fra i due gruppi è il primo segnale che il tarlo dell’agonismo, ossia di voler primeggiare a tutti i costi sugli altri, è arrivato anche nello sci di raid, guastandone la purezza.
Nove anni dopo Detassis e Bonatti, nel 1965, un’altra grande Guida, lo svizzero Denis Bertholet, fondatore della Ecole du Ski Fantastique di Verbier, ha la brillante idea di unire con gli sci, insieme ad altre tre Guide (un italiano, un francese e uno svizzero) le due città olimpiche di Innsbruck 1964 e di Grenoble 1968. Grande è stato l’effetto mediatico di questa traversata, soprattutto grazie al film girato da Bertholet, non solo Guida e Maestro di sci, ma anche cineasta professionista, vincitore del Premio UIAA al Festival di Trento nel 1969. Denis si è portato sulle spalle per tutto il percorso del raid una pesante cinepresa da 16 mm, cosa impensabile per i moderni atleti dei raid di velocità. Il film di Bertholet, Traversée Innsbruck-Grenoble à ski, è visibile gratuitamente nel sito internet della Médiathèque di Martigny. Pochi anni dopo, nel 1970, assistiamo alla tribolata traversata in solitaria di un altro francese, Jean Marc Bois, che, partito il 30 gennaio da St. Etienne-de-Tinée nelle Alpi Marittime, riesce a raggiungere Bad Gastein, nel Tirolo Orientale, il 25 aprile: una traversata funestata da brutto tempo e valanghe dall’inizio alla fine, che ha reso l’impresa di Bois davvero epica. L’anno successivo, il 1971, un gruppo di cinque austriaci, fra i quali la Guida alpina Klaus Hoi, compiono, con sci da fondo escursionistico e scarponi di cuoio, la traversata più lunga, da Vienna a Nizza, fruendo di un mezzo di appoggio. Durante il percorso di 1.917 km, con un dislivello totale di 85.000 metri, scalano anche cime importanti, impiegando complessivamente 41 giorni: una prestazione sportiva di indubbio valore.
C’è però anche chi, con tre amici, anziché cercare l’exploit, effettua l’intera traversata da est a ovest, a tappe, in tre anni (1975,1976,1977), privilegiando il piacere di sciare e cogliendo l’occasione di testare nuovi materiali. Ideatore di questa gioiosa traversata a tappe è il vulcanico e geniale Angelo Piana, inventore dei primi scarponi in plastica per scialpinismo, i San Marco Raid, e dei leggendari sci Explorer della Roy. Nel 1977 ha anche luogo una delle più belle, a parere di chi scrive, traversate delle Alpi: è quella di Bernard e Hubert Odier, da Mallnitz in Austria alla spiaggia di Mentone in Costa Azzurra. In tre mesi esatti, dal 18 febbraio al18 maggio, senza utilizzare il cronometro e senza auto di appoggio, lungo un itinerario diretto ed elegante. I fratelli Odier hanno scritto sulla loro traversata un magnifico libro, tradotto in italiano con il titolo Tutte le Alpi in sci. Questo libro è ancora oggi una vera Bibbia per lo sciatore alpino errante, che non cerca l’exploit a tutti i costi ma un rapporto vero con la montagna e i suoi abitanti. Come Zwingelstein, come Bois e forse tanti altri che non hanno fatto sapere nulla sulle loro traversate. Il volume è diviso in 17 capitoli che sono altrettanti inviti a conoscere separatamente i diversi massicci toccati dagli Odier nel loro raid.
Arriviamo quindi alla traversata delle Guide alpine Paolino Tassi e Mauro Girardi del 1996, effettuata con l’attrezzatura da telemark e con la tenda, per evitare di scendere in basso per dormire. L’idea era di seguire l’itinerario dei fratelli Odier ma i due partono con zaini troppo pesanti e cammin facendo decidono di alleggerirsi, dando alla traversata un’impronta più godereccia, privilegiando le belle sciate in diverse stazioni, facendosi un punto di onore di utilizzare gli impianti quando possibile, eliminando alcune tappe poco sciistiche e usufruendo di un pulmino di appoggio. Nulla di male, hanno fatto benissimo, non avevano bisogno di dimostrare la loro bravura a nessuno. La mancanza di neve ha fatto concludere la loro traversata nella valle di Névache in Delfinato, togliendo a Paolino e Mauro il privilegio di percorrere le Alpi Marittime, vero Paradiso dello sci. L’ultima grande traversata delle Alpi, prima del Red Bull Der Lange Weg del 2018, è quella in solitaria del piemontese Paolo Rabbia. Partito da Forcella della Lavina, in Friuli, il 29 dicembre 2008, Rabbia arriva sulle piste di Garessio, in Piemonte, il 28 febbraio 2009. Una performance eccezionale, da solo in 62 giorni, ma soprattutto la prima traversata completa delle Alpi in pieno inverno. Con lo stesso stile veloce Rabbia ha effettuato la traversata integrale dei Pirenei nel 2014, sempre in pieno inverno, dal Mediterraneo all’Atlantico in 29 giorni. Tanto di cappello!
La ricerca dell’exploit a tutti i costi è però sempre più evidente nelle traversate delle Alpi con gli sci. Il tarlo già presente nella traversata di Bonatti ha lavorato parecchio. L’ultima Red Bull, sulle tracce della sopra citata Vienna-Nizza del 1971 ne è l’esempio più eclatante: l’obiettivo principale, raggiunto, è stato quello di diminuire il numero di giorni necessari per effettuare il raid, trasformandolo così di fatto in un rally competitivo. Lo spirito del raid però non è questo. Trasformare un raid in una gara significa non averne capito l’essenza. Come scrisse il grande fotografo e scrittore Jean-Pierre Bonfort (andate a vedere il suo sito web!) in un vecchio articolo su Montagnes Magazine, lo spirito del raid in sci è «passare la giornata camminando, vedere il sole tramontare e preparare il nido... poi, leggeri, senza zaino e senza duvet, salire lassù fino in cima al pendio, fino a quel colle. Flessibilità ci vuole, soprattutto flessibilità. Nei programmi e nella propria testa. Bisogna lasciar decidere alla neve». Ci sono certamente ancora scialpinisti che si mettono sulle tracce degli Zwing, dei Bois, degli Odier, dei Bonfort, magari senza far sapere nulla: ad essi va tutta la nostra stima.
AL DI LÀ DELLE ALPI - Lo sci di raid si è sviluppato moltissimo, complice la facilità dei trasporti, sulle montagne bianche del mondo. Raid è quindi diventato sinonimo di viaggio con gli sci. Il gioco consiste nel mettersi sulle tracce (sia chiaro senza alcuna ambizione di fare meglio!) di un Marc Breuil nei Pirenei, in Terra di Baffin, nelle Alpi di Stauning, in Karakorum. Oppure di un Mario Casella, dopo aver letto il suo prezioso volume Nero-Bianco-Nero sulla traversata del Caucaso, dal Mar Caspio al Mar Nero. Oppure procurarsi (con qualche difficoltà) i due volumi di Michel Parmentier, lo sciatore errante per eccellenza, a cui dobbiamo l’idea di straordinari raid sulle montagne che si affacciano sul Mediterraneo. Oppure ancora mettersi sulle tracce della Guida alpina Pierre Neyret, autore di Hautes Vallées du Pakistan e ripetere, magari insieme a lui, la più ardita traversata in sci del Karakorum. Che è poi quella fatta da Breuil e compagni nel 1990, a sua volta sulle orme di Eric Shipton e di Bill Tilman, che aprirono (a piedi) questo fantastico itinerario nel 1937 e 1939. Il gioco finale è senza dubbio quello di chiudere il cerchio, di ritornare alle origini dello sci di raid, percorrendo la traversata di Nansen in Groenlandia. Pensiamo che uno sci di raid di questo tipo, senza camper ed equipe di appoggio, senza ossessioni cronometriche, senza sponsor da soddisfare, senza programmi troppo definiti, sia ancora possibile e non sia affatto superato dai tempi. Basta leggere e lasciar lavorare, nella giusta direzione, la fantasia.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 118, INFO QUI
Il libro
Giorgio Daidola ha pubblicato per la nostra casa editrice Sciatori di montagna (208 pp, 19 euro). Dodici ritratti di padri dello scialpinismo, da Wilhelm Paulcke, il primo ad attraversare con gli sci l’Oberland Bernese, a Michel Parmentier, l’inventore dei moderni viaggi con gli sci. E poi Lunn e Mezzalama, Castiglione, Gobbi. INFO SU SCIATORI DI MONTAGNA QUI
Camaleonte Markus Eder
Dopo la vittoria al Freeride World Tour è indubbiamente lo sciatore del momento. Skialper ha intervistato Markus Eder sul numero 110 (puoi ordinarlo qui), ecco cosa ci aveva detto.
«Non c’è un granché dietro a quello che facciamo e con queste parole inglesi proviamo un po’ a venderlo». Ha risposto così, come un consumato frequentatore di talk show, a una raffica di «slidare un half-pipe, jibbare, tricks, kickers, twin tip» sparatagli addosso da Gigi Marzullo su invito di Fabio Fazio alla trasmissione Che Fuori Tempo Che fa, su Rai Tre, a dicembre. E pensare che Markus Eder, il futuro del freeride e del freestyle, l’unico italiano nel gotha dei park e delle run nella powder, a dire il vero uno dei pochissimi in assoluto al top in entrambe le discipline (e nei powder movie), davanti a una telecamera e ai giornalisti non si trova tanto a suo agio. «Non ero molto tranquillo, avevo paura di fare qualche errore di italiano» ha confessato a freddo. È sempre lui, il ragazzino terribile che faceva gare di sci alpino e che voleva essere capo di se stesso, senza ricevere ordini da un allenatore, che ha scelto il freestyle a 14 anni perché gli piaceva saltare e aveva iniziato a non vincere più tra i pali. E lo stesso che, quando il manager Franz Perini gli ha proposto i primi contratti con gli sponsor, ha voluto parlare in inglese per capire meglio «cose per me molto importanti». Markus Eder, nato a Brunico, ma residente in Valle Aurina, classe 1990, è uno sciatore completo. Nel 2010 si presenta al Nine Knights, con i più forti freestyler del mondo, e vince Big Air & Best Jibber. L’anno dopo Franz Perini lo iscrive al Red Bull Line Catcher, con il gotha del freeride. Non ci crede, non capisce come possa andare a confrontarsi con i big del freeride, lui che arriva dai park e dalla neve dura. Alla fine arriva secondo. «Se ci penso, dico che rimane ancora la mia gara più grande di sempre». Intanto nel 2013 vince la tappa italiana del Freeride World Tour, a Courmayeur. Markus Eder ha fatto il viaggio di Candide Thovex, dal freestyle al freeride, ma anche quello di Kilian Jornet, dalla natura addomesticata delle gare al grande outdoor, quello per esempio dei film nei quali è protagonista sci ai piedi, come Ruin & Rose di MPS Films. Ha sdoganato parole come big mountain e backflip da Fazio come Kilian ha portato il trail e le imprese di Summits of my Life al grande pubblico. Markus è lo skier globale italiano, adulato da Red Bull, con l’inglese come lingua ufficiale sui suoi canali social e quasi il doppio dei follower di Jérémie Heitz su Instagram. Ed è sempre più interessato allo skialp…
Markus, cominciamo con il capire chi sei: un freestyler o un freerider?
«Un freeskier, il termine giusto per definire chi come me fa tutto: freestyle, freeride, scialpinismo».
Giusto, scialpinismo. Qualche tempo fa dicevi che l’andare piano non faceva per te e che dovere camminare tanto per raggiungere le discese non ti piaceva…
«Quando ero piccolo la fatica non mi piaceva, ora inizio ad apprezzarla sempre di più. Quest’anno ho fatto 5-6 gite con i miei genitori e naturalmente sono più lento di loro, perché ho sci larghi e scarponi da freeride, ma l’apprezzo sempre di più».
Il park e la neve fresca sono due cose diverse, se dovessi scegliere?
«Credo che, con le giuste condizioni, oggi non avrei dubbio: neve fresca».
Hai scelto di competere ad alto livello nel freestyle e nel freeride, non è sicuramente facile, perché?
«È vero, oggi c’è sempre più specializzazione: chi punta alle Olimpiadi lavora solo nei park, altri sulla neve fresca, io faccio tutto perché sono così, mi piace saltare nei park e farmi una bella run in neve fresca, magari anche una gita scialpinistica. E poi, a differenza di chi fa solo powder, sono molto flessibile e posso sempre allenarmi».
Che cosa ha portato il freestyle nel freeride? Si può dire che il livello fuoripista è salito grazie ai trick fatti nei park come è avvenuto nell’arrampicata sportiva con le palestre?
«Sì, mi sembra un paragone giusto, se provi centinaia di volte i salti nei park, quando magari fuori non ci sono le condizioni, metti le basi per salire di livello nel freeride, impari i trick che ti servono nella neve fresca e poi atterrare sul duro aiuta ad avere la giusta sensibilità per atterrare anche sul soffice della neve fresca».
Sembra difficile da dire, perché il livello è altissimo, ma qual è la prossima frontiera del freeride?
«Jérémie Heitz ha sicuramente ridefinito gli standard della velocità e del big mountain, però si pensa sempre che non ci sia più nulla di nuovo da inventare e invece ogni anno si vede qualcosa di importante. Sicuramente il mio stile è diverso da quello di Heitz, io vado più piano e vedo la montagna come un parco giochi».
Non credi che avere sciato tra i pali ti abbia dato la tecnica di base per salire di livello?
«È probabile, ma quando sei al top ogni gradino in più è sempre difficile, come perdere qualche centesimo tra i pali. Come nello sci alpino o nello scialpinismo, all’inizio della stagione ti senti in forma, ma non sai come andrai realmente, o come andranno gli altri».
Nel film, Ruin & Rose, hai sciato anche sulle dune del deserto, vero?
«Sì, in Namibia, ma non è stato affatto facile come pensavo. Abbiamo anche contattato un tedesco che vive là e detiene il record di velocità con gli sci sulla sabbia per avere dei consigli però, quando abbiamo trovato un salto che sulla neve sarebbe stato perfetto, mi sono impiantato proprio sul dente e per riuscire a saltare abbiamo dovuto provare e riprovare».
Sciare in un film e fare una gara è decisamente diverso…
«Sì, io poi sono competitivo e mi piace vincere, ma nei film trovi quel senso di libertà, puoi sciare tutta una montagna e non solo una linea, hai l’elicottero a tua disposizione…».
I film stanno diventando un terzo lavoro…
«Sì, quest’anno infatti farò una sola gara, la Red Bull Cold Rush, dove ci sono salti in neve fresca, freeride e alpinismo. Però mi piacerebbe provare a fare il circuito Freeride World Tour seriamente, non solo un paio di tappe come in passato, è il mio obiettivo per la prossima stagione».
Facebook o Instagram?
«Instagram, mi piace essere up to date e so subito cosa succede dall’altra parte del mondo, per esempio se ha nevicato in Canada».
Il freeride è un’attività con una componente di rischio che non può essere sottovalutata, come ti rapporti con il rischio di valanga?
«Non mi piace rischiare a caso, se faccio un trick o un salto particolare e so che posso cadere, voglio essere sicuro che non ci siano sassi. Quando filmiamo in Alaska cerchiamo di non fermarci nei piani ma di avere sempre vie di fuga per non essere inghiottiti dalle valanghe. Rischio sì, ma con un piano b, senza usare la testa non ha senso. Queste situazioni ti insegnano ad apprezzare la vita e capire cosa ti piace di più».
Come cambia il concetto di sicurezza quando sei da solo e quando giri un film?
«Molto, quando vado con un amico ci muoviamo rischiando il meno possibile, anche perché dobbiamo considerare che se succede qualcosa non è facile venire a recuperarci velocemente, con un team come quello di MPS Films cambia perché ci sono 10-12 persone, Guide alpine, elicottero».
Sei mai rimasto coinvolto in una valanga o hai vissuto un incidente da vicino?
«Fortunatamente no e spero che non mi succeda. Qualche volta, specialmente in Alaska, dove sai che non c’è nessuno sotto, quando le condizioni sono rischiose proviamo a fare partire le cornici, provocando delle piccole valanghe».
Il tuo programma prevede anche un allenamento nelle tecniche di autosoccorso?
«Ne faccio un paio all’anno, di solito uno al Freeride World Tour e quando giriamo i film, ma non sono sicuro che mi verrebbe tanto facile agire in una situazione di pericolo: tra la teoria e la realtà c’è tanto spazio ed emozione e adrenalina giocano brutti scherzi. Per questo dico sempre ai miei amici che si sentono sicuri quando hanno artva, pala e sonda di allenarsi a usarli, tanto. La gente, quando vede i miei film, pensa che sia matto, ma spesso quando si va a fare skialp da noi ci si muove più in pericolo».
Usi sistematicamente un airbag da valanga?
«Sempre quando giro i film, faccio backountry vicino agli impianti o nel Freeride World Tour, per lo scialpinismo ancora no perché è troppo pesante. Per fortuna non ho mai dovuto aprirlo».
Che messaggio lanceresti a chi come te passa dal park alla neve fresca?
«Oltre a quello di portare sempre con sé l’artva e tutta l’attrezzatura tradizionale da autosoccorso in valanga, di tornare indietro se non ci si sente al cento per cento sicuri, non è mai una decisione sbagliata».