Dobratsch, la montagna di tutti
Quello che in Italia molto spesso non si ha il coraggio di fare, di solito viene fatto all’estero. Sembra una banalità, ma non lo è. E questa volta non bisogna andare troppo lontano. Basta arrivare in Friuli, raggiungere Tarvisio, passare il confine e fermarsi in Carinzia. A pochi chilometri da Villach c’è un monte, il Dobratsch. Fino al 2001 skilift e seggiovie portavano sciatori e vacanzieri in quota e il Monte Dobratsch era una delle tante stazioni sciistiche alpine, «poi le istituzioni locali hanno capito che non era più conveniente mantenere in piedi gli impianti di risalita. I costi di gestione erano troppo alti e i passaggi annuali erano crollati dal milione del 1991/1992 ai 100.000 del 2000/2001» racconta Alex Kleinegger, 33 anni, project manager del NaturPark Dobratsch.
Sì, avete capito bene, parco naturale. In quattro e quattr’otto gli impianti sono stati smontati, venduti a una compagnia russa, che tra l’altro li sta ancora utilizzando in una qualche sperduta località degli Urali, e il Dobratsch è diventato il primo parco naturale della Carinzia. Una decisione dovuta in primis alla sostenibilità economica, ma non solo. «Dal Dobratsch proviene l’acqua potabile che utilizza tutta l’area circostante, compresa Villach - continua Alex - Per mantenere delle piste di qualità e un innevamento costante si era arrivati al punto di dover creare un bacino idrico per la neve programmata, ma si è deciso di non mettere a rischio una risorsa come l’acqua». Ora questo monte, sotto la cui cima, a 2.150 metri, si trova la chiesa più alta d’Europa, è diventato una meta turistica ancora più famosa di quando gli impianti di risalita erano in funzione. Non ci sono più i pistaioli ma sono decine, in un giorno infrasettimanale qualsiasi, gli scialpinisti che salgono i quasi 1.200 metri di dislivello che separano il parcheggio di Heiligengeist dalla Gipfelhaus, il nuovissimo rifugio sulla cima del Dobratsch. Anche qui l’inverno non è stato generoso, di neve per essere fine febbraio ce n’è poca, e la salita, per lo più lungo quelle che una volta erano le vecchie piste, a questo giro è spesso su ghiaccio vivo. Ma Theresa, una scialpinista locale e maestra di sci, salendo al rifugio Rosstratten a quota 1.773 metri, mi assicura che quando c’è polvere il Dobratsch è un piccolo paradiso, anche per la quasi totale assenza di rischio valanghe data la sua conformazione. Non posso che fidarmi, mangiandomi le mani a sentire le pelli che non tengono. I coltelli? Ovviamente in macchina al caldo nel parcheggio.
Scialpinisti, ma non solo. Il Dobratsch con la chiusura degli impianti è diventato, a detta di Alex, la montagna di tutti. Una strada, a pagamento, arriva di fronte al Rosstratten, e dalle macchine scendono fondisti (c’è una pista di fondo), ciaspolatori, semplici escursionisti e famiglie intere disposte a farsi quasi 500 metri di dislivello trainando una slitta per poter poi scendere dalla cima, o quasi. In Piemonte si direbbe, forse con un po’ di puzza sotto il naso, una situazione un po’ da merenderos, e forse lo è. Ma è indubbio che decidere di eliminare degli impianti sciistici, che sia per motivi di sostenibilità economica o di sostenibilità ambientale, o entrambi come in questo caso, per lasciare spazio a un turismo più slow, più variegato, e forse anche più popolare, è stata una scommessa vincente. Una scommessa vincente che, come spesso succede, ha anche dei risvolti, seppur in minima parte, negativi: il continuo aumento dei visitatori ha portato a un incremento della sporcizia, di cartacce e rifiuti lasciati lungo i sentieri e sulla neve, e le migliaia di macchine che ogni anno salgono fino a 1.700 metri, per Alex «dovrebbero essere di meno, ma il gestore della strada è un privato e non ha interesse a ridurre il numero delle auto che pagano 15 euro di ticket». Problemi che a guardare tanti comprensori italiani e la loro ostinazione ad andare avanti con un modello di business che non funziona più fanno, sinceramente, un po’ sorridere.
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Hélias Milleroux: «mi piace stare in montagna»
Eppure sono abbastanza allenato! È la frase che mi rimbomba in testa. Accompagna il ritmo delle pulsazioni. Bam! Bam! Bam! Eppure sono abbastanza allenato. Eppure sono abbastanza allenato. Eppure sono abbast…
In anni di montagna ho imparato a riconoscere alcuni segnali che il mio corpo inequivocabilmente mi invia in certe situazioni. Quando sento quel suono sordo di quando il cuore mi pulsa in testa è perché sto tirando. Il cervello dice alle gambe di andare a tutta, i muscoli e i polmoni sono leggermente meno d’accordo. In altre parole mi stanno tirando il collo! Non mi piace la cosa, non concepisco le gare in montagna, ma non mi piace la posizione di chi le sta prendendo: testa bassa e pedalare.
La risalita del Col des Flambeaux, seppur con i suoi soli 200 metri, spesso occupa, per chi si è cimentato con un qualche itinerario del versante italiano del Monte Bianco, un posto d’onore nel girone delle sofferenze alpinistiche. La giornata in fondo è finita, la modiva cala: mi son sempre detto che uno soffre in quella risalita per una pura questione psicologica, ci si sente già in funivia. Eppure oggi è diverso, siamo solo andati a fare un giro per scattare un po’ di foto, niente sbatta, relax, eppure la corda è bella tesa, anche più di come urlano le diverse Guide presenti sul percorso ai loro clienti barcollanti. Manco sudo per il freddo e sono al gancio. Una decina di metri dietro di me Federico parla poco, non penso sia concentrato per qualche foto: al gancio anche lui. Con i guanti non riesco neanche a prendere il cellulare in tasca: cardiologia non è nei preferiti e mi costerebbe una fermata che non mi posso permettere. La fatica sta cedendo il posto allo stordimento, sta per iniziare un personale Goa party, i contorni delle montagne intorno stanno diventando curvi e colorati, alcune spirali si diffondono bizzarre probabilmente dalle giacche fluo di altri alpinisti, un mix tra un film di Tim Burton e un rave. A un certo punto il flow cambia, tutto sta andando più piano, i colori tornano a essere quelli ordinari: la corda è meno tesa. Confuso alzo la testa, guardo avanti e lo vedo, Hélias, un braccio quasi fuori uso per una caduta in un crepaccio con un cliente la settimana prima; mi sorride e mi chiede: Do you have a cigarette, please?.
Forse sono ancora nel film di Tim, o forse è semplicemente così andare in montagna dietro a un Piolet d’Or. Insieme a Frédéric Degoulet e Benjamin Guigonnet, Hélias Millerioux è stato infatti insignito della più prestigiosa onorificenza del mondo alpinistico nel 2018 in seguito alla loro nuova linea sulla parete Sud del Nuptse: 2.200 metri di ghiaccio e roccia, terreno tecnico a oltre 7.000 metri. Se si sbircia tra i criteri di selezione per le salite che ambiscono al Piolet d’Or come seconda voce si trova: spirit of exploration. Spirito di esplorazione. Non siamo stupiti.
Abbiamo pensato di incontrare Hélias proprio perché è uno dei pochi alpinisti a tutto tondo sulla piazza a incarnare in toto la ricerca di avventura nel senso più romantico del termine. Trentadue anni, parigino, Guida alpina, che sia legato su una parete di misto o con gli sci, ha un modo preciso di vivere il mondo della montagna, all’inseguimento di esperienze il cui esito è incerto o inaspettato, ma proprio per questo pieno di fascino. Un avventuriero. Il classico tipo che se ti dice esco a prendere un pacchetto di sigarette, probabilmente ha già lo zaino pronto in macchina!
Ciao Hélias! Come nelle altre nostre interviste, partiamo dal principio, raccontaci chi sei, da dove arriva la tua famiglia…
«Guarda, famiglia normalissima, parigina. Con loro ho sempre fatto escursioni. Ho una sorella e un fratello che non posso certo definire grandi appassionati di montagna. Quando ho scoperto la montagna, ho poi passato la maggior parte della mia giovinezza a Fontainebleau, proprio come nella classica tradizione della scuola parigina, a partire da Pierre Allain e il Groupe de Bleau per intenderci».
Dove nasce la tua passione per la montagna? O forse è meglio dire per l’avventura? Spiando le tue imprese e le foto dei viaggi pare proprio che tu sia attratto dall’esplorare, dallo stare in montagna?
«Una volta scoperta la montagna da ragazzino, ho iniziato a desiderare di fare la Guida, perché lo vedevo come il modo per potere starci il più tempo possibile. Oggi ci trascorro più di 200 giorni l’anno, di cui almeno 70 per lavoro. Se penso a cosa mi ha portato a scalare, penso che sia legato a quando con mio padre - avrò avuto 11 anni - camminavo in montagna o su qualche ghiacciaio, ma senza raggiungere delle vere cime. Ritengo che sia stato quel senso di frustrazione legato alla volontà disattesa di raggiungere una cima durante quelle escursioni. Volevo essere sul punto più alto, guardare sull’altro versante. A 16 anni ho poi iniziato a frequentare dei camp estivi organizzati dalle federazioni alpinistiche francesi per i giovani. Da lì poi è partito tutto».
Hai un curriculum spaventoso: alpinismo, sci, ghiaccio, falesia e difficoltà, c’è una preferenza?
«Sinceramente no. Mi piace tutto, variare, è lo stare in montagna stesso che mi piace, non mi importa facendo cosa. A dire il vero mi sono avvicinato allo sci in montagna solo quando ho intrapreso il percorso per diventare Guida alpina: gli assi mi permettevano di essere veloce in inverno e primavera. Potevo utilizzarli per compiere quelle salite che a volte avevo tralasciato perché poco tecniche. Il terreno classico per intenderci. E poi a volte quei lenzuoli di neve si possono pure scendere!».
Con gli sci hai compiuto discese di tutto rispetto – il Nant Blanc all’Aiguille Verte per esempio – cosa ti piace di quel tipo di discese?
«Quando ho iniziato con lo sci su quel tipo di terreno ripido e tecnico ero un follower: non avevo esperienza, seguivo gente più esperta e abituata a quelle discese. Così ho imparato. Ci tengo a dire che non amo la definizione steep ski, mi piace parlare di sci di montagna, nel quale si possono incontrare terreni più o meno difficili. Per me non è un problema se durante una discesa devo mettere via gli sci e scendere con mezzi alpinistici, come per il Nant Blanc ad esempio. Non lo nascondo, vivo sempre un’esperienza e valuto i miei limiti».
Lo sci anche per spostarsi in alta quota: il viaggio in Pakistan di cui parla il movie Zabardast, il tentativo al Nanga Parbat. Pensi che sia il futuro, visto anche l’incremento di exploit degli ultimi due anni, dal K2 al Lothse e al Nanga Parbat?
«Penso che sugli ottomila lo sci sia un mezzo quasi ideale, specie per accorciare i tempi di discesa. Se farò altri ottomila, come al Nanga Parbat (nel 2016, dal versante Diamir in sci da 7.800 metri, ma in cima a piedi in un secondo attacco alla vetta) penso che me li porterò. Sono i mezzi giusti per muoversi sulla neve su terreno non troppo tecnico. A 4.500 o a 7.500 sciare è uguale da un punto di vista tecnico, ma ci si deve fermare molte più volte per respirare. Scendi più lento, ma io mi ritrovo con il mio stile che non è quello dei grandi curvoni supersonici. Penso che una sfida realistica per la prossima generazione di sciatori siano i 14 ottomila con gli sci!».
Sei un alpinista e sciatore completo? C’è stata una volta che avresti voluto avere gli sci o magari viceversa?
«Sì, sul Gasherbrum II per la discesa mi avrebbero fatto davvero comodo. Non uso materiale ultra leggero, ma avrei pagato volentieri il prezzo del peso in salita».
A proposito di sci, il Mount Logan di quest’anno?
«Dopo il Nuptse ero davvero stanco. È stato un progetto che mi ha impegnato per anni. Nel 2017 ho anche assistito al tragico incidente di un membro del team Scott per una caduta di pietre nel Couloir Angelique. È stato un anno duro. Avevo fatto un sacco di cose. Mi sentivo contento ma non felice, e c’è una bella differenza! L’idea del Mount Logan, 5.959 metri, in Yukon, mi frullava in testa fin da prima: volevo un’avventura. È la montagna più alta del Canada, la seconda in Nord America dopo il Denali, ed è molto vicina al confine con l’Alaska. Nel corso di un’altra spedizione avevo visto quel fiume di ghiaccio: volevo risalirlo, scalare, sciare. Qualcosa di divertente e allo stesso tempo avventuroso. Per il Logan avevamo una mappa, un punto di inizio e uno di fine: il resto spettava a noi! Alla partenza eravamo io, Thomas Delfino, Alexandre Marchesseau e Grégory Douillard, una guida fluviale, visto che volevano tornare scendendo il fiume sul lato opposto della montagna fino al mare e su una canoa fino ad allora avevo passato solo un pomeriggio in vita mia. Abbiamo deciso di partire dal Malaspina Glacier dopo essere atterrati a Yukutat. Piccolo aneddoto: il secondo giorno uno sciamano locale è venuto per scacciare gli spiriti cattivi che aleggiavano su di noi: pare che il giorno prima ci fosse stata una curiosa coincidenza tra il canto di un uccello e l’abbaiare di un cane, segno di grande sventura, o almeno qualcosa del genere. È un ghiacciaio enorme, guarda questo punto sulla cartina, sembra stretto: beh, saranno dieci chilometri!».
Altri spazi!
«Assolutamente, siamo partiti con una slitta e zaini da 35 chili per ciascuno con l’idea di stare fuori più di un mese e mezzo. Avevamo programmato otto giorni fino al campo base, ma ne abbiamo impiegati il doppio. Siamo arrivati in un punto dove il ghiacciaio, largo quasi 15 chilometri, era insuperabile, un dedalo di crepacci che con le nostre slitte trainate a sci ci avrebbe richiesto troppo tempo e altrettanti rischi. Siamo riusciti a superarlo risalendo delle montagne sui suoi fianchi: sulla mappa erano definite hill, colline. Ma ci sono voluti due giorni».
Poi siete arrivati al campo base, quanto vi siete fermati e che via avete scelto per la cima?
«Ci siamo riposati un giorno, per noi i veri giorni di riposo dovevano essere quelli con tempo bello. Con il brutto, la neve e la pioggia, in alta quota non ti riposi davvero, devi sempre fare qualcosa: spalare, evitare che entri acqua, sei teso e il clima uggioso porta a pensare e alla fine non ci si riposa. Con il sole invece ci si rilassa davvero e così abbiamo fatto. Abbiamo deciso di salire e provare a sciare la Cresta Est del Mount Logan: ci abbiamo impiegato dieci giorni ed essere lenti ma continuare a salire anche con tempo non ottimale è stata una delle chiavi del successo. L’altra è stata la decisione di costruire sempre delle grotte nella neve per i bivacchi. In cave fa più caldo, non c’è il pericolo che il vento te la rovini e sei protetto dai pericoli: è stato vincente e, una volta rodati, ci impiegavamo solo un paio d’ore a costruirla con delle buone pale in alluminio! Una volta in cima, siamo scesi per l’itinerario di salita. Una cresta prima immensa e poi un filo che s’insinua in una parete di seracchi. L’ho percorsa tutta in sci a eccezione di due sezioni troppo affilate, per un totale di trecento metri lineari. Abbiamo spezzato la discesa su due giorni. Incredibile sciare nello stretto tecnico su una montagna tanto enorme!».
Poi c’è stata la discesa del fiume sul lato opposto, fino di nuovo all’oceano…
«Esatto, ma prima di raggiungere il fiume abbiamo dovuto percorrere di nuovo con le pelli l’immenso ghiacciaio sul lato opposto del Mont Logan per giorni. A quel punto abbiamo depositato parte del materiale che non ci serviva più sull’aereo e abbiamo iniziato a navigare un fiume non impetuoso ma immenso, completamente immersi nella wilderness dell’Alaska e dello Yukon. Alla fine questa che temevamo si è rivelata la parte più facile».
Invece per la spedizione in Pakistan, nel Karakorum, di Zabardast eri la guida ingaggiata per accompagnare i membri o hai partecipato anche alla creazione del progetto?
«L’idea qui era di Thomas Delfino, un ragazzo splendido, sempre motivato per le avventure. L’ho conosciuto allora e poi mi ha accompagnato quest’anno al Logan. Sono stato ingaggiato dalla produzione del film come Guida, ma ho chiesto di venir aiutato da Yannik Graziani visto che la crew era di otto persone. Alla fine siamo diventati un gruppo, non c’erano più distinzioni e quello che mi piace del film è che ha raccontato questo spirito, così come si sono vissuti i diversi momenti della spedizione».
Ogni anno fai diverse spedizioni: quali sono le tre cose che non devono mancare nelle tue avventure?.
«Mi piace esplorare le montagne e per me una buona spedizione deve avere tre ingredienti: uno, buoni amici, perché per me è una vacanza;
due, deve essere un viaggio prima di tutto. E se hai fortuna e tutto è andato per il verso giusto, si riesce realizzare anche qualche obiettivo;
tre, l’estetica. Un aspetto non legato alla difficoltà, ma alla bellezza in sé della linea. Prima non nascondo di essermi concentrato solo sui numeri, ma mi sono accorto che si perde tutto il resto.
Le grosse montagne sono meravigliose, mi attraggono proprio perché richiedono più tempo, più energie».
Domanda semplice, ma sempre difficile per un alpinista: una montagna che vorresti scalare. E una che vorresti sciare.
«Certamente il K2, che è nei prossimi imminenti progetti, oppure anche il Masherbrum, ce ne sono molte in realtà che mi piacerebbe salire. Invece con gli sci vorrei ripercorrere una linea che ho salito alcuni anni fa: la parete Sud del Monte St. Elias, sempre al confine tra Yukon e Alaska. Quando si è giovani come me adesso, si ha più tempo, quindi meglio dedicarsi a grandi montagne. Per esempio, in Patagonia mi piacerebbe andare, ma… tra un po’ di anni».
Come organizzi le tue spedizioni, sei maniacale o lasci qualcosa al caso?
«Non lascio molto al caso, non ce lo si può permettere per questo genere di spedizioni. Penso di essere abbastanza maniacale. Spesso si commettono degli errori nella fase organizzativa che capisci poi sul campo. Ma sbagliando s’impara tanto. Basti pensare al cibo, o al materiale da impiegare. Poi durante la spedizione cerchi di gestire le diverse situazioni».
Proponi anche ai tuoi clienti questa visione di alpinismo?
«Mi è capitato, ma solo con quelli che conosco meglio e con cui ho un rapporto di estrema fiducia. Son sincero, non mi trovo molto a mio agio. In spedizione, specie ad alta quota, ci sono molti più rischi. Mi basta pensare al mio incidente della scorsa settimana quando sono caduto nel crepaccio alla base della normale per il Mont Blanc du Tacul con il cliente che è rimasto fuori. Un incidente banale di questo tipo potrebbe avere ben altre conseguenze su alcune montagne del mondo. Poi quando ci si ingaggia davvero devi pensare a te stesso e non è facile gestire i clienti».
E invece qui sulle Alpi ci sono posti dove trovi ancora l’avventura?
«È sempre più difficile, ma ad esempio un massiccio come quello degli Écrins ha ancora molto da offrire. Specie in inverno sono diverse le vie dure dove puoi rimanere solo per chilometri».
Last but not least: durante la tua carriera alpinistica ti sei mai ispirato a qualcuno?
«Mi sento di risponderti di no. Se scali con l’idea di un mentore davanti a te che ti guida nelle scelte, non lo stai facendo nel modo giusto. Perché non lo stai facendo davvero per te stesso. Ed è quello che conta, specie se vuoi vivere la tua personale avventura!».
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Alla ricerca del cristallo perfetto
«Non sono cattiva, è che mi disegnano così» dice Jessica, avvenente moglie di Roger Rabbit. Mi è capitato più volte, circumnavigando il mondo con gli sci, d'incontrare paesi e villaggi che vengono dipinti dagli organi d'informazione in maniera del tutto contraddittoria con la realtà. La fame di potere dell'uomo lo porta a fare guerre e creare tensioni in luoghi dove le popolazioni vorrebbero ritrovare il sorriso e venir dipinte in maniera più positiva.
Figuriamoci in Siberia, regione russa che va dai monti Urali alla Kamchakta, terra del freddo e dei Gulag, ma anche dei monaci della Buriazia, della Transiberiana e dei monti Altai. Già, i monti Altai… In un’intervista sul libro Uomini & Neve avevo letto che sui monti Altai in novembre si trova il cristallo perfetto. Chi si è lanciato in una simile dichiarazione è Taro Tamai, surfer e snowboarder giapponese che in una delle sue esplorazioni nevose ha colto l'opportunità di essere nel posto giusto al momento giusto.
Cartina in mano, uno dei posti della terra più lontani dal mare, dove nevica e fa freddo, è proprio la zona dei monti Altai. Taro parlava della Mongolia, nel mese di novembre, con il rischio di rimaner bloccato fino a primavera. Cristallo perfetto in novembre? Temperatura media -30 gradi, boschi, neve che si alza con un soffio? Non si può resistere bisogna andare! Proviamoci, ma dalla parte russa che ha strade in più, un minimo di organizzazione e qualche impianto di risalita per sgranchirsi le gambe dopo l'estate.
L'impatto con il clima all'uscita dall'aereo a Novokuznetsk è proprio un impatto! Pietrificati, montiamo su un pulmino guidato da un autoctono: il freddo è tale che lo sterzo quasi non gira. Arriviamo a Seregesh, gli impianti girano, ma le nostre gambe no. È talmente freddo che sembra di avere le gambe di vetro, mi sento disconnesso dagli sci e dalla neve, come se avessi la febbre, ma non sono io quello caldo, è fuori da me che fa freddo! Dopo la sgranchita e il primo contatto con il cristallo perfetto il viaggio continua nel cuore dei monti Altai e, per raggiungere il mitico villaggio di Luzhba, ci tocca un trasferimento a bordo della ferrovia suburbana. Il percorso dalla cittadina di Mezdurecensk è surreale: questa piccola linea ferroviaria collega una miniera di carbone alla cittadina da dove siamo partiti. I treni che la percorrono sono pesantissimi e il nostro convoglio trasporta gli operai che seguono la manutenzione continua che questa linea necessita, trasportando con loro enormi attrezzi ferrosi che non so come riescano a maneggiare con quelle temperature.
A guardare fuori dal finestrino sembra sembra un posto normale, ci sono bambini che salgono e scendono, scuole, signore che vendono ciambelle alle stazioni un po' come in campagna su un treno di terza classe. Lo sbarco a Luzhba riporta alla realtà delle cose: fa talmente freddo che le ciglia si aggrovigliano tra loro. Cristiano corre inutilmente per scaldarsi, Pasti si mette la maschera da sci e perde la parola, Martino quasi perde un’unghia per scattare foto.Michele mi affianca con la barba che sembra un cono gelato al contrario e mi dice: «hei uomo!». Io mi guardo attorno, sono la Guida alla ricerca del cristallo perfetto, ma vorrei essere un bagnino con una piadina su un pedalò. Mi faccio coraggio, raggiungiamo la casetta, che per fortuna è calda, e sorseggiamo una buona zuppa che Alexey ci ha preparato. Siamo i primi ospiti della stagione, le montagne intorno a noi sono piccole, nessuna traccia. Però non usciamo… ci vuole una bella motivazione. Il sole si alza, ma cambia ben poco, il mercurio del termometro si è ritirato sotto il minimo.
Per non sentirsi ancora più impotenti patiamo a esplorare la zona. Dimitri e Grigory ci spiegano i segreti delle montagne, battere traccia è una libidine: la neve è talmente leggera che si sposta con lo sguardo. Sarò mica diventato il Mosè delle nevi? In discesa guardo Giacomo e il Furla, sembrano sottomarini mentre Martino scompare urlando. Ogni discesa viene ripetuta due o tre volte per linee diverse, alla fine fine sono sempre più di mille metri al giorno. A un certo punto del nostro soggiorno si presenta un fronte ‘caldo’: la temperatura sale fino ai -20 e nevica! Fiocca con questo freddo? Sì! E il cristallo perfetto diventa pure abbondante. Io mi sento un po' meno Mose' e batter traccia diventa un tantino più difficile. Mi scordo del colore dei miei sci e raggiungo il record negativo di due ore per 250 metri di dislivello, neanche in Himalaya! Ma la sensazione dì sciare dentro tutta quella neve, accarezzati in ogni poro dalla fata bianca è qualche cosa di indescrivibile, è come essere avvolti nella seta. Fare il bagno con tanta schiuma fa passare qualsiasi fatica e freddo.
Mentre scrivo queste righe l'inverno è quasi finito. È stato un inverno balordo questo sulle Alpi e in Dolomiti. Quelle sciate siberiane hanno sconvolto tutti i gradi di paragone con le altre. Qualche giorno fa ho incontrato in un bar a Mestia Grygori, eravamo entrambi a cercare cristalli in Svanezia, Georgia, ma ci siamo dati appuntamento per il prossimo autunno: chi viene?
Un viaggio sui Monti Altai richiede una buona dose di sopportazione del freddo. Non basta coprirsi bene, se siete freddolosi meglio evitare. Oltre ai vestiti ci vuole anche del grasso di foca da mettere sulla pelle. Il freddo è accentuato anche dal vento, sempre presente nell’area. Bisogna mettere in conto circa 11 giorni, con due di trasferimenti. Si vola su Mosca e Novokuznetsk. I pernottamenti sono in hotel o strutture simili, con un buon livello di calore e la cucina locale, con prevalenza di carne e pesce di fiume e qualche rara verdura. A Seregesh ci sono anche degli impianti di risalita e la località è famosa perché ospita il più grande raduno al mondo di bikini sugli sci.
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Avventure kirghize
Mi capita spesso di sorvolare il planisfero con l’occhio satellitare di Google. Durante queste perlustrazioni mi spingo avanti il più possibile, ma l‘immagine zoomata dall’occhio virtuale presto diventa sfocata. Oltre può proseguire solo l’immaginazione, addentrandosi tra le pieghe della terra, fantasticando su posti remoti e misteriosi. Lascio alla fantasia il compito di appagare la curiosità e ricercare tutti gli stimoli che la tecnologia non può raggiungere, stimoli che solo viaggiando fisicamente si possono percepire e che danno la possibilità di arricchirsi di sensazioni ed emozioni nuove. Il viaggio per me è ispirazione e libertà totale di muoversi, lasciando che sia la natura con cui si entra in armonia a determinare la rotta da seguire.
Il Kirghizistan è un’ispirazione che vale un viaggio. Volevo controllare con i miei occhi questo posto selvaggio dalla bellezza leggendaria. A sedurmi è stato il Tien Shan, un sistema di valli che si sviluppa a Sud del lago Issyk-kul e che si snoda tra montagne in gran parte inesplorate. Per un viaggio in autonomia di questo tipo è fondamentale cercare di stabilire un piano da seguire raccogliendo il maggior numero di informazioni e basandosi sulla propria esperienza. Fortunatamente le condizioni meteorologiche ci hanno permesso di portare a segno il piano che avevo in testa, ossia quello di inoltrarci qualche giorno nella natura selvaggia ed esplorare la solitaria valle del fiume Burkhan in compagnia di mio padre, che non era mai stato fuori dall’Europa. Con lui ho iniziato a fare alpinismo e con lui ho coltivato la passione per la montagna. Ci tenevo a realizzare questo sogno insieme. In una decina di giorni abbiamo dormito sotto cieli stellati, in tenda, in yurte o in case abbandonate. Abbiamo raggiunto sei cime inesplorate di cui cinque sopra i quattromila metri, abbiamo sciato, guadato fiumi gelidi, fatto il bagno in un centro termale abbandonato, abbiamo visto aquile, marmotte, yak, stambecchi, cammelli, abbiamo pescato, interagito con pastori che mai prima avevano visto volti occidentali e abbiamo scoperto i diversi tratti di una civiltà lontana che solo in piccola parte ho potuto comprendere.
Le uniche informazioni riguardanti la morfologia del territorio della zona che sono riuscito a raccogliere prima di partire erano vecchie tavole militari russe in scala 1:100.000 e curve di livello digitali a 25 metri. Qualche informazione fondamentale è contenuta nel report Mountaineering regions of Kyrgyzstan, redatto da Vladimir Komissarov, presidente del Club Alpino del Khirghizistan, che mi ha confermato che nella zona interessata quasi tutte le cime risultavano inesplorate. L’ampia valle del fiume Burkhan si estende a una quota di circa 2.800 metri e i punti di accesso sono principalmente due, situati a Ovest, oltre ai passi coperti di neve che superano i quattromila metri sul versante orientale. Una via di accesso è quella che sale dal crocevia del paese di Kochkor, con una strada sterrata che corre a lungo in una vallata incantevole, fino a un passo a 3.100 metri, per poi riabbassarsi dolcemente all’entrata della valle. L’altra via è quella che si svolge tortuosa attraverso le gole che conducono fino al paese di Naryn. In entrambi i casi l’accesso è lungo e in caso di cattivo tempo non sarebbe sicuramente percorribile.
Il mio più grande dubbio prima di partire riguardava l’ipotetica quota del manto nevoso. Dovevo individuare la giusta finestra in cui la neve fosse abbastanza alta per accedere alla valle, ma non troppo per riuscire a raggiungere alcune cime e sciarle.Ipotizzando che il periodo più adatto fosse quello delle vacanze pasquali, siamo atterrati a Bishkek il 13 di aprile scorso. Ci siamo fermati in città giusto il tempo di racimolare le provviste necessarie e, dopo aver recuperato un fuoristrada e un po' di attrezzatura da campeggio, ci siamo messi subito in viaggio. Dopo una sosta a Kochkor per fare il pieno di carburante, siamo ripartiti subito verso l’imbocco della valle. Quella del fiume Burkhan è una valle che da Ovest si sviluppa verso Est per quasi cento chilometri. Totalmente inaccessibile in inverno per via della neve, rinasce lentamente con l’arrivo dell’estate quando le greggi di yak tornano a popolare gli jailoo più alti (pascoli estivi). A circa un terzo del suo sviluppo la valle si divide: un ramo più ampio prosegue in direzione Est fino al Pereval Arabel dove incrocia la strada che dalle gole di Barskoon conduce verso le imponenti miniere d’oro di Kumtor (campo di allenamento del cosmonauta Jurij Gagarin). Un secondo ramo piega invece verso Nord e poi verso Est lungo una stretta valle dove scorre il fiume Jil-Suu e conduce all’alto passo Tosor, permettendo un collegamento con la regione dell’Issyk-Kul meridionale. Le due valli isolano tre le loro braccia il massiccio montuoso dell’Uchemchek.
C’è una sola strada sterrata che però dopo il ponte sul fiume all’altezza della biforcazione con la valle del Jil-Suu si perde nel nulla. Rimangono alcune tracce di pneumatici delle Lada o degli UAZ dei pastori che in estate raggiungono gli jailoo più alti.Guidando in direzione della valle, abbiamo superato alcuni piccoli villaggi e incrociato gli sguardi dei pastori e cacciatori che ci scrutavano stupiti in sella ai loro cavalli, accompagnati dai fedeli Taigan. Le chiazze di neve diventavano sempre più frequenti man mano che si saliva di quota e in alcuni punti arrivavano a invadere la strada fangosa. Con molta attenzione abbiamo proseguito e, al calar della notte, siamo arrivati allo scollinamento, al cospetto della solitaria valle del fiume Burkhan. Qui abbiamo piazzato il campo, preparo la cena e in brave ci siamo infilati nei nostri sacchi a pelo.
L’indomani la giornata era stupenda ed eravamo ansiosi di mettere gli sci ai piedi, ma ci siamo accorti subito che l’approccio alle montagne non era dei più facili. Gli spazi sono immensi, le montagne si erigono distanti dal fondovalle dove corre la strada. A Sud la neve era sciolta dal sole, anche a quote elevate, mentre a Nord era molto abbondante, ma spesso per raggiungere i versanti settentrionali gli avvicinamenti erano lunghi e complicati. La mattina il terreno gelato dalla notte consente di muoversi con la macchina lungo le praterie. Il pomeriggio diventa molto più complicato. Con il calore diurno diventa tutto morbido e fangoso, i ruscelli accrescono la loro portata e i numerosi coni valanghivi con l’innalzarsi delle temperature rischiano di sfondarsi sotto il peso dell’auto. Un altro problema è che, prima di raggiungere il fondovalle, i pendii di numerose cime si infilano in profonde forre che in alcuni casi non è possibile risalire.
Ci è voluta tanta attenzione nella valutazione degli itinerari, sapendo che non erano consentiti errori di valutazione: essere soccorsi in quelle zone sarebbe stato impossibile. Tutte le sere era fondamentale l’appuntamento telefonico con il mio amico Andrea Migliano del rifugio Acque Minerali in Valle Orco. Dopo aver controllato le tabelle meteo, con una rapida telefonata satellitare mi aggiornava sulle previsioni meteo. Come prima gita abbiamo optato per una cima proprio all’ingresso della valle, vicino all’area dell’Urochishche Irisu. Ci siamo avvicinati il più possibile con l’auto, abbiamo guadato un fiume e risalito un crinale che ci ha portato fino a una cresta e, senza troppe difficoltà, alla cima. In realtà la neve accumulata era molta e, appena ci siamo tolti gli sci, ci siamo accorti della difficoltà nel procedere. Faticando più del previsto siamo riusciti comunque a raggiungere la vetta a quota 4.094 metri (Angera Too). La discesa in neve polverosa lungo il canale Nord è stata spaziale!
Come seconda tappa abbiamo deciso di inoltrarci nella valle del fiume Jil-Suu dove, dopo pochi chilometri, ci siamo imbattuti in un vecchio centro termale abbandonato, probabilmente costruito durante i lavori della strada per il passo Tosor. Le grandi vasche erano vuote e la spettrale struttura principale portava i segni di un conflitto armato. Però abbiamo deciso di farne la nostra casa per la notte e ci siamo accorti che in uno sgabuzzino isolato a un centinaio di metri a monte c’era ancora una vasca con acqua calda sorgiva. Così ci siamo concessi un paio di birre a mollo nella vasca prima di andare a dormire. Al mattino abbiamo provato ad addentrarci nella valle, ma le numerose valanghe cadute sulla strada ci hanno fatto tornare sui nostri passi. Avendo individuato un sistema di cime a corona della testa occidentale del massiccio dell’Uchemchek, abbiamo deciso di provare a raggiungerne qualcuna. L’accesso più rapido era tramite una stretta gola che dalla mappa russa sembrava aprirsi poi in un ampio pendio rivolto a Ovest. Siamo riusciti a raggiungere un paio cime, Choku Giorgio (4.136 m) e Choku Bona (4.117 m), ma abbiamo dovuto rientrare velocemente a causa del rapido rialzo termico. In serata purtroppo sono arrivate anche brutte notizie dagli aggiornamenti meteo di Andrea: rischiare di rimanere bloccati nella valle non era un’opzione percorribile e così ci siamo diretti al paese di Naryn dove abbiamo pernottato. Avremmo voluto andare a vedere il lago Songkol ma una frana sulla strada ce l’ha impedito, però dopo un consulto con Andrea e confortati dalle previsioni meteo, siamo ritornati nella valle del Burkhan. Così la sera dopo eravamo nuovamente allo scollinamento, ma nel bel mezzo di una bufera. Un tempo da lupi. Proprio in queste condizioni mi è sembrato di scorgere la forma di quello che sembrava davvero essere un lupo. Sapevo di essere nei territori dove vive lo schivo leopardo delle nevi, dei lupi però non avevo notizia. Di certo non ci siamo fermati a controllare e siamo riusciti a raggiungere la valle e passare una notte tranquilla anche se un po' bagnata.
Le grandi nevicate e l’innalzamento delle temperature hanno condizionato il nostro approccio alla montagna il giorno seguente. Dopo esserci infilati in una stretta valle e aver camminato per una decina di chilometri, iniziava finalmente la neve, ma ben presto ci siamo accorti che le condizioni del manto nevoso erano pessime e siamo rientrati. Tornati all’auto, abbiamo risaliamo la valle del fiume Burkhan fino alle pendici della cima più alta della parte occidentale dell’Uchemchek dove abbiamo individuato una possibile linea di salita da Sud. Passata la notte, la mattina seguente ci siamo inerpicati lungo i ripidi pendii erbosi fino a raggiungere la neve. La rotta che avevamo ipotizzato tracciandola sul GPS si è rivelata praticabile e senza intoppi abbiamo raggiunto la vetta a 4.254 metri (Lambda Peak) passando prima da una punta minore a quota 4.196 metri (Choku Max). Proseguendo lungo la valle abbiamo deciso di esplorare l'altro versante, quello a Sud. Alla sveglia ci è toccato subito il guado del Burkhan la cui acqua gelida ci arrivava quasi fino alla vita. La camminata prima di calzare gli sci è stata piuttosto lunga. Le temperature erano alte e, raggiunta una cima a 3.950 metri (ChokuLato) che ci ha regalato una vista pazzesca su tutte le montagne circostanti, abbiamo deciso di fare dietrofront. È stata la nostra ultima avventura con gli sci perché la sera il consueto aggiornamento meteo non ha lasciato spazio a dubbi: brutto tempo per tanti giorni. Così abbiamo attraversato spazi sconfinati, ammirando montagne senza nome in ogni direzione, tra dirupi, gole, paesaggi desertici, vallate boscose, colline erosive con sfumature cangianti a perdita d'occhio. Abbiamo visitato la sponda meridionale del lago Issyk-kul e Karakol, pernottando in accoglienti case locali e yurte particolarmente apprezzate da mio padre che prima di quest’anno non aveva mai dormito in una tenda. Abbiamo anche avuto modo di apprezzare la birra locale e il cibo, che ha superato di gran lunga le nostre aspettative per varietà e qualità. Abbiamo apprezzato di meno la polizia locale che, con strane multe per il superamento di ancor più strani limiti di velocità, ci ha alleggerito dei Som rimasti nei portafogli prima del volo di rientro.
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François D’Haene, in vino veritas
È di questi giorni la notizia che François D'Haene ritornerà all'UTMB nel 2020. Noi siamo andati a trovarlo a casa sua dopo l'ultima, indimenticabile, vittoria nel 2017, davanti a Kilian Jornet. L'articolo è stato pubblicato sul numero 115 di Skialper.
Non è vero, ma ci credo. Oppure, se volete, non ci credo, ma è vero. A volte le coincidenze sono solo coincidenze, ma nel caso di François D’Haene potrebbero non esserlo e c’è un sottile filo magico che lega i suoi successi a un luogo: Domaine du Germain, comune di St.-Julien-en-Beaujolais, dipartimento del Rodano. Dopotutto ci troviamo a pochi chilometri da Lione, che con Torino e Praga forma un noto triangolo dell’esoterismo. La terra rossa argillosa di queste colline famose per il loro vino allegro e fruttato sembra avere avuto un magnetismo positivo sulla vita e la carriera sportiva del più forte ultra-trailer del mondo. François e la moglie Carline hanno completamente cambiato le loro vite nel 2012 quando hanno messo tra parentesi le precedenti occupazioni per prendere in affitto le vigne della famiglia di Carline. Da fisioterapista e vignaiolo. Da atleta di buon livello a trail runner più forte del mondo. Guarda caso Il 2012 è il primo dei cinque anni magici. Cinque - altro legame esoterico - come i tralci di ogni vigna di Gamay che possono essere potati ogni anno secondo il contratto di affitto firmato da François e Carline. Prima una bella carriera, con il terzo posto alla CCC del 2006, il podio sfiorato a La Reunion e ai Templiers, il secondo posto alla TNF Australia. Risultati che ognuno di noi farebbe carte false per ottenere, per carità. Ma manca quel numero - uno - nelle gare che contano veramente. Sei uno tra i tanti. Poi improvvisamente nel 2012 arriva la vittoria all’Ice Trail Tarentaise e all’UTMB, il secondo posto all’Endurance Challenge 50 in California, nel 2013 la vittoria alla 80 km du Mont Blanc e alla Diagonale des Fous, nel 2014 il trittico Mt Fuji, UTMB e Diagonale, nel 2016 ancora la Diagonale e la Hong Kong 100, nel 2017 Madeira, Maxi Race d’Annecy e soprattutto l’UTMB dei record, quella che lo consacra, se ci fosse stato ancora bisogno di una prova, come il più forte ultra-trailer del mondo. Di sempre. Questo paesino di 800 abitanti, questo domaine con le case di pietra rossa e le vigne basse sembra essere il primo segreto dei successi di Dr Jekyll & Mr. D’Haene. Chi lo ha frequentato nei giorni di gara ha conosciuto Dr Jekyll. Di poche parole, quasi altero, quasi burbero. Non è uno dei simpaticoni della tribù del trail, vive nel suo mondo. Si dice che questa primavera, a Madeira, non sapesse che aspetto avesse Pau Capell che doveva tenere d’occhio perché era uno degli avversari più pericolosi. Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo au calme, al domaine, ha conosciuto il vero Mr. D’Haene: molto ospitale, simpatico, spontaneo, semplice e con due valori sopra a tutti: la famiglia e la condivisione. Condivisione delle esperienze e dei piaceri della vita con gli amici. Quegli stessi amici che lo hanno accompagnato nel record del GR 20 o sul John Muir Trail e che vengono ad aiutarlo a vendemmiare. Chi lo conosce bene dice che Mourinho non è tanto diverso: burbero fuori, amico in famiglia e con la squadra. Forse sono le virtù dei vincenti.
Giovedì 9 novembre, ore 10 in punto. In una uggiosa mattina autunnale passiamo Lione e lasciamo l’autostrada per spingerci verso le colline. Superiamo un paesino che sembra uscito da una cartolina, con una mairie mignon ma impeccabile nel suo abito, con tre bandiere tricolori a sventolare. Imbocchiamo una stradina di campagna. Il cartello dice Domaine du Germain. Tutto intorno solo vigne basse, con le foglie gialle e rosse. Ci sono quattro o cinque casette di pietra rossiccia. Nessun citofono, nessun cognome. Proviamo a salire su una stretta e lunga scala. Suoniamo il campanello. Si apre una porticina e, chinando il capo, esce un gigante. «Bonjour François».
La prima domanda è d’obbligo, che bottiglia hai aperto per festeggiare la vittoria all’UTMB?
«Tutte».
L’UTMB 2017 ti ha cambiato la vita. C’è un prima e un dopo?
«Sicuramente, sono più conosciuto. Nei giorni scorsi ero ospite a Grenoble Montagne e hanno dovuto aggiungere 400 sedie. Qui in paese però non è cambiato molto. Mi conoscono tutti e si sono sempre interessati ai risultati alle gare. Con tanta passione. C’è gente che non sa cosa sia la corsa e il trail, ma ha seguito ora per ora l’UTMB e quando mi incontra, magari seduta sul trattore, mi fa cento domande».
Al Domaine c’è tanta pace, un’atmosfera molto diversa dalle gare, come vivi questo contrasto?
«Sono solo alcuni giorni o ore, poi torno qui, fa parte del gioco. In tanti mi chiedono informazioni o autografi, ma trovo che oggi ci sia soprattutto questa mania del selfie, li vedo tutti pronti con quel braccio allungato, sorridenti».
E poi non sempre c’è la folla e la pressione dell’UTMB…
«Alle gare con poca gente le persone hanno più tempo per chiederti un selfie e parlare, c’è meno frenesia, nel bene ma anche nel male, preferisco l’UTMB. Però quello che trovo difficile da accettare è la superficialità. Da fuori sembra tutto facile, diventa tutto banale. Tra l’UTMB e la Diagonale des Fous mi ha chiamato Xavier Thévénard. Voleva chiedermi come mi ero trovato a fare la Diagonale dopo l’UTMB perché non si sentiva in forma, voleva capire se aveva senso per un top provare due cento miglia così vicine a fine stagione. Poi è andata come è andata e ho sentito gente dire che ha accettato l’invito solo per farsi una vacanza. Ma come si può pensare che uno come lui che ha scritto la storia dell’UTMB abbia bisogno di questi espedienti per andare a farsi una vacanza?».
Jim Walmsley all’UTMB scappava via e poi vi aspettava ai posti di rifornimento, è vero?
«Sì, arrivava magari con tre minuti di vantaggio, sulle discese andava a tutta e poi voleva ripartire con noi per non tirare da solo. Forse questa strategia lo ha un po’ prosciugato, ma in realtà credo che si sia davvero trattenuto, secondo me è solo una questione di tempo, e non di chilometri, fino a 12-13 ore conosce bene il suo fisico e le sue reazioni, oltre no».
Mentre parliamo attorno all’isola della grande cucina di casa, François ci offre un caffè. Non sarà come quello italiano però. Invece nella tazzona c’è una miscela piacevole, certo non nelle piccole quantità di un espresso. L’ho presa negli Stati Uniti, ha un retrogusto di cacao.
Sei settimane dopo l’UTMB hai fatto registrare il record sul John Muir Trail, uno dei trekking più popolari degli Stati Uniti. Come hai potuto recuperare così in fretta?
«Impossibile recuperare così velocemente, infatti la stanchezza si è fatta sentire, però le avventure come il John Muir o il GR20 in Corsica me le scelgo attentamente, sono qualcosa di diverso da una gara. Non mi interessa il record fine a se stesso, ma correre in posti magici con i miei amici e condividere una bella esperienza con la famiglia. Infatti a farmi da pacer c’erano quattro amici una volta e cinque l’altra. L’orologio lo guardo solo alla fine, al John Muir ero abbastanza tranquillo perché avevo dodici ore di vantaggio».
Più duro il GR20 o il John Muir?
«GR 20, in 31 ore ho fatto 180 chilometri, il meteo era variabile, i tempi di riferimento nelle varie sezioni non erano affidabili. Al John Muir provi altre sensazioni, la solitudine, il caldo del giorno in contrasto con il freddo della notte. Penso di avere attraversato una sola strada in più di 300 chilometri. A volte ti ritrovi a pensare che è meglio non forzare troppo perché se ti fai male dovrai comunque camminare 30 ore per trovare qualcuno, non ci sono rifugi. Di giorno, anche a quote sopra i 3.000 metri, si stava bene in maglietta, la sera faceva meno cinque. Finché corri non lo senti, ma se ti vuoi fermare a dormire è dura, ecco perché, quel poco che ho dormito, l’ho fatto soprattutto di giorno. E la notte è lunga, perché il buio durava 13 ore».
Dormire. All’UTMB non si chiude occhio, su 300 chilometri e oltre sì. Che strategia hai usato?
«Mi sono fermato 12 ore circa, ma in totale non ho chiuso occhio più di 3 ore. La testa viene invasa dai pensieri: quanto manca, mi faranno male le gambe? Una volta ho provato a dormire di notte: mi avevano acceso un fuoco, ero ben coperto, ma era impossibile per il freddo. Il John Muir mi ha fatto pensare. Le cento miglia, almeno per il mio corpo, sono una barriera accettabile, ho trovato un buon equilibrio arrivando a farne due o tre a stagione. Oltre credo che la mancanza di sonno sia un fattore importante da tenere in considerazione. Dopo una UTMB ci vogliono mesi per recuperare, ma dopo un Tor? Forse avrebbe senso, oltre una certa distanza, stabilire delle pause obbligate per fare dormire gli atleti top, diciamo tre da un’ora. Quando partecipi ai raid è così».
Non c’è dubbio che i fisici reagiscano in parte in maniera diversa e anche il recupero cambia da persona a persona.
«A volte è importante liberare la testa. Me ne sono reso conto dopo l’UTMB. Finita la gara ho festeggiato per qualche giorno e poi, già la settimana dopo, qui abbiamo vendemmiato. Non ho avuto modo di pensare quanto ero stanco o se mi facevano male le gambe, c’era da lavorare, da correre, in un altro senso. E dopo una settimana stavo bene».
Dopo queste considerazioni arriva la seconda domanda d’obbligo. Che poi sono due domande: farai l’UTMB 2018? E il Tor des Géants?
«No, non sarò a Chamonix, non l’anno prossimo, è una delle poche decisioni già prese per il calendario 2018. Non escludo di tornarci, ma non subito. Il Tor? Una volta nella vita lo voglio fare, ma ora è molto difficile perché capita proprio nei giorni della vendemmia».
Il calendario quando lo decidi? Come fai a trovare le motivazioni dopo avere vinto tanto?
«L’autunno è la stagione della riflessione, ci sto pensando proprio ora e di solito lo rendo pubblico a metà dicembre. Mi aiuta molto cambiare, correre in posti diversi. L’anno scorso ho inserito la Maxi Race di Annecy perché era vicino a casa e potevo allenarmi con Michel Lanne, volevo fare la Lavaredo Ultra Trail perché non conosco le Dolomiti, ma purtroppo ho dovuto rinunciare per un infortunio. Poi Madeira, un altro posto nuovo e con una densità di atleti forti al via che è stata inferiore solo all’UTMB. L’UTMB? Volevo tornarci dopo qualche anno e poi quando ho visto che c’erano tutti quei top al via ho pensato che difficilmente ci sarebbe stata ancora una gara così».
E i record?
«Cerco luoghi e itinerari particolari, ma non necessariamente famosi: il prossimo potrebbe proprio essere un sentiero da inventare, dove non sono già stati registrati fastest known time».
Hai già qualche idea?
«No, dopo la Corsica ci ho impiegato sei mesi per avere la testa libera di pensare a un’altra avventura. Non è semplice: bisogna badare alla logistica, a chi verrà con te, a quando andare. Pesa tutto sulle mie spalle».
Hai corso poco in America, ci andrai quest’anno?
«Forse la Hardrock, ma non so, in America non hai la certezza di riuscire ad avere il pettorale e poi magari ti ritrovi a correre con pochi atleti top».
I cavalli nel motore non mancano, hai mai fatto un pensierino alla Marathon des Sables?
«Una volta mi ero anche iscritto, poi non sono potuto andare. No, però ora non credo che ci andrò più, in quel periodo voglio sciare e poi è ben diverso da un trail tradizionale, in effetti è un po’ un unicum nel calendario ITRA».
François scalpita dalla voglia di mostrarci il Domaine. Abbiamo tre ettari e mezzo di vigne qui e uno a 40 minuti di auto, dopo ve le faccio vedere aveva detto accogliendoci. La nostra giornata prosegue dunque passeggiando tra i bassi filari di Gamay. Passeggiando, non correndo. Vedi, qui sopra produciamo La Germaine, un Beaujolais Village leggero e fruttato, lì sotto il Calvaire, più complesso, dai profumi intensi di frutta e più tanninico. Vedrai quando li degusteremo, sono diversi, eppure le vigne sono a pochi metri una dall’altra. Ma ci sono anche altri fattori da tenere in considerazione. Il primo lo produciamo con una macerazione veloce, il secondo invece rimane di più nella cisterna di fermentazione in cemento. François si inerpica su per i dolci declivi di questo angolo di Beuajolais. Ci vuole mostrare le vette più alte della regione, dove spesso va ad allenarsi. Qualche sparuto grappolo non è stato tolto durante la vendemmia. Gli acini sono piccoli e scuri, potrebbero anche essere dei grandi mirtilli. François ne strappa uno e lo schiaccia tra le dita. Dentro il succo è chiaro, volendo si potrebbe anche fare del vino bianco, ma noi produciamo giusto un rosè estivo. Questo vitigno si chiama Gamay ed è il principale della regione del Beaujolais. le viti sono basse, i grappoli e gli acini piccoli, non è certo uva da tavola.
In quanti siete al domaine?
«Due, io e Carline».
Come fate, non avete una formazione legata alla viticoltura?
«Ci siamo subito appassionati, amiamo il buon vino, Carline, dopo che siamo arrivati al Domaine, ha fatto studi enologici e all’inizio ci ha aiutato Laurent Gobet, il vecchio vignaiolo del Germain».
Solo due, il lavoro non manca…
«Sì, oltre alla vendemmia bisogna prendersi cura delle viti e poi vinificare. Guarda questo filare: qui ho già potato cinque tralci, da contratto ne possiamo tagliare solo cinque all’anno e siamo in due a farlo sui quasi cinque ettari del Domaine».
Come è la tua giornata tipo, quando trovi il tempo di allenarti?
«Non ho una giornata tipo. Nessuna è uguale all’altra. Quando carico vado a correre su queste colline, faccio un’ora e mezza, due ore, posso pestare solo sterrato e prati e arrivo a 700 metri di dislivello, poi una volta la settimana e nel week end salgo in montagna e allungo, anche cinque, sei ore. Ma non c’è una regola, a volte corro la mattina, altre il pomeriggio, salgo in montagna il mercoledì oppure un altro giorno. Anche nella scelta dei percorsi cerco di variare».
Corri da solo?
«Quasi mai, ho un bel giro di amici runner».
Ascolti musica?
«No».
Che cosa vuol dire correre?
«Prendere aria, stare nella natura».
Usi il cardiofrequenzimetro?
«No, guardo solo distanza, tempo e dislivello».
Conosci i tuoi parametri?
«Solo altezza e peso, uno e novantadue e 70-75 chili, piede 10 e mezzo, non mi è mai interessato sapere altro».
In questa stagione corri?
«Molto poco, giusto per il piacere di farlo quando ne ho voglia. Poi in inverno mi alleno soprattutto con lo scialpinismo e lo sci di fondo, non mi dispiace anche la bici».
Giusto, l’anno scorso alla Pierra Menta sei arrivato undicesimo. Ti piace pellare?
«Molto, quest’anno abbiamo preso una casa proprio vicino a dove si corre la Pierra, vorremo andarci nei fine settimana ma anche due o tre mesi durante l’inverno. Ho sempre sognato di svegliarmi con la neve attorno e stiamo organizzandoci per mandare i bimbi a scuola lassù».
Quante Pierra Menta hai fatto?
«Undici. Tutte con Alexis Traub, mio cognato, come le altre gare in coppia. Ho anche pellato qualche volta con Laetitia Roux. È buffo, abbiamo fatto entrambi la stessa scuola di fisioterapia e ora nessuno dei due fa il fisioterapista. E Matteo Eydallin, sta ancora vicino a Gap? Da quelle parti ho anche io dei parenti».
Per le cronache, Alexis Traub non è ‘solo’ il cognato di D’Haene, ma è stato anche nazionale francese di corsa campestre e di corsa in montagna. Un ambiente, quello della corsa campestre, che ha frequentato anche François.
Come hai scoperto il trail?
«Ho fatto atletica da sette a 17 anni, ma quel modo di interpretare la corsa mi stava stretto, nel trail ho trovato subito la libertà».
Come si fa a diventare François D’Haene, voglio dire, hai fatto trail per diventare il più forte al mondo, avevi un programma e delle idee ben precise?
«No, passo dopo passo. Quando ho iniziato a correre fuori le gare lunghe non esistevano quasi, facevo 20-30 chilometri. Poi ho cominciato a provare i 70 chilometri e mi sono reso conto che dopo qualche ora, quando gli altri erano cotti, davo il mio meglio. Anche quando sono entrato nel Team Salomon, mi sono detto: vediamo, passo dopo passo, io continuo ad andare per la mia strada».
Quando hai capito che potevi diventare forte?
«Anche questo passo dopo passo, la prima pietra è stata la vittoria nel 2006 al Tour des Glaciers de la Savoie, i famosi 70 chilometri».
Si avvicina l’ora di pranzo e, prima di portarci in paese, da Chez Audrey, l’unico bar-ristorante di Saint-Julien, François ci scorta in cantina. Carline ha preparato una verticale di Beaujolais del Domaine. Inutile dire che, a digiuno, è stata peggio di un ultra-trail. E naturalmente ha vinto François. Abbiamo potuto apprezzare i diversi aromi e le diverse densità. Già, proprio quella densità che François ha utilizzato per descrivere l’alto numero di atleti top al via. Dopo pranzo abbiamo fatto un altro salto a casa D’Haene. Una scusa per curiosare nella cantina privata.
Bevi anche birra?
«Certo, eccola qui, dopo le gare non so resistere».
Hai qualche vino italiano?
«Guarda queste due bottiglie, sono italiane, sono buone? Credo che me le abbia regalate Marco De Gasperi».
Sono due vini di Valtellina, uno un Sassella. In un angolo scorgo una lastra di marmo con il profilo della Corsica e dei nomi incisi. È un ricordo del GR20, me lo ha regalato un runner locale e ci sono i nomi e i tempi di tutti quelli che hanno fatto il record.
Dove tieni coppe, medaglie e trofei, ce li fai vedere?
«Eh sono un po’ sparsi, dai miei, dai parenti».
E l’ultima UTMB, ce l’avrai il trofeo? Ma poi, in cosa consiste?
«Sì quello dovrei averlo, aspetta che lo cerco».
Traffica in cantina, ma niente. Ci spostiamo nel locale vicino. Qui facciamo la vendemmia. Di solito si svolge in una settimana. All’inizio prendevamo delle persone che pagavamo alla giornata, ma poi abbiamo pensato che doveva essere un momento per condividere le cose belle della vita e vengono i nostri amici. Una quarantina di persone per finire tutto in tre-quattro giorni. La buttiamo sul divertimento, con vari giochi goliardici e premi. Sulle pareti ci sono ancora il regolamento e la classifica dell’ultima vendemmia. Finalmente François tira fuori da un ripostiglio il trofeo dell’UTMB 2017. Diavolo d’un François, ha vinto la gara del secolo e la coppa la tiene nascosta, quasi si è dimenticato dove l’ha messa. Dopotutto la sua ricetta del successo è proprio questa: semplicità, lavoro, uno stile normale, non monastico come quella di tanti pro, tanta varietà nel suo menù, dalla scelta dell’allenamento a quella della gara, famiglia, condivisione. E un buon bicchiere di vino rosso. Ci ha confessato che anche il giorno prima dell’UTMB non se l’è fatto mancare. In vino veritas.
Miti e riti
Se non fosse già stata assegnato tempo fa a Julien Chorier, che nella vita è veramente ingegnere, l’appellativo ingénieur sarebbe stato perfetto per François D’Haene, che è uno dei trail runner più precisi e flemmatici. All’ultima UTMB agli uomini dell’assistenza Salomon ha consegnato un foglietto con la lista di quello che voleva trovare pronto a ogni stazione di rifornimento. In tutte le gare a un certo punto si mette una maglia tecnica Salomon di qualche anno fa, con delle grandi tasche davanti e la vestibilità attillata. Ne ha due o tre esemplari. Mi trovo bene perché non lascia grinze e per questo non diventa mai umida e non prendi freddo. Proverbiale anche il suo scatto felino quando arriva l’alba. Guarda caso le sue vittorie più belle iniziano tutte con una notte in gruppo e la fuga con il sorgere del sole. Prima dell’ultima UTMB ha confessato di non amare correre da solo nella notte. In allenamento mi piace, ma una notte interamente da solo sulle montagne non la auguro a nessuno: a me è successo sul Monte Fuji, cento chilometri da solo…
A ogni gara il suo vino
Abbiamo giocato ad abbinare tre vini del Domaine du Germain a tre gare vinte da François. Lui si è prestato molto volentieri. «La Germaine è l’UTMB, quello che ti aspetti dal trail classico, senza sorprese: montagne, salite, discese, boschi, pascoli, panorami alpini. Il Calvaire lo paragonerei alla Diagonale des Fous, non è un vino e non è una gara facile, tanti saliscendi, salite ripide, sbalzi climatici, un calvario. Il Moulin-à-Vent è un’altra cosa, è più complesso, con un invecchiamento di 18 mesi accompagna carni in umido e formaggi nelle cene con gli amici, come l’avventura al John Muir Trail o al GR20». François realizza ogni due anni un cartone speciale con tre bottiglie dei migliori millesimati dedicate a tre vittorie. Al Domaine du Germain produce circa 14.000 bottiglie all’anno su un totale di poco meno di cinque ettari di vigne. I suoi vini possono essere acquistati online: domainedugermain.com
Neve: sempre meno, sempre più in alto
Le informazioni che arrivano attraverso i mass media parlano di climate change e di aumenti medi delle temperature annue. Guardando nello specifico alla neve e all’innevamento, qual è la fotografia della situazione attuale rispetto al passato?
«Il manto nevoso è estremamente sensibile ai cambiamenti climatici. Quando le temperature aumentano, la neve cade più frequentemente sotto forma di pioggia oppure quella già caduta fonde con maggiore frequenza e rapidità. Tutto questo può causare variazioni a livello di estensione, spessore e densità del manto nevoso. Per poter quantificare questi cambiamenti e classificare correttamente i singoli inverni con poca o tanta neve, è importante disporre di serie pluriennali di misure. Ad esempio uno studio dell’ARPA Piemonte pubblicato nel 2013 ha evidenziato nelle Alpi Piemontesi nel periodo 1961-2010 una generale riduzione delle precipitazioni nevose, particolarmente accentuata alle quote inferiori ai 2.000 metri. Sempre nello stesso periodo lo studio ha evidenziato una diminuzione dello spessore medio stagionale del manto nevoso, più accentuato nelle ultime decadi. Anche la durata della copertura nevosa ha mostrato trend negativi in tutte le stazioni analizzate, più accentuati nelle stazioni alle quote prossime ai 1.500 metri».
E in altri continenti la situazione è simile?
«Uno studio recente di Beniston e colleghi, pubblicato sulla rivista internazionale The Cryosphere, ha evidenziato come la riduzione dello spessore del manto nevoso e della sua permanenza al suolo sia un fenomeno che sta interessando in maniera generalizzata tutte le Alpi europee, in particolare sotto i 2.000 metri di quota. Anche in questo caso le cause sono riconducibili alla prevalenza di eventi piovosi rispetto a quelli nevosi, così come all’incremento della velocità di fusione del manto nevoso, entrambi i fenomeni causati dall’aumento delle temperature nel corso dell’inverno e della primavera».
Fatta la fotografia della situazione attuale, quali sono le proiezioni per il futuro?
«Lo stesso articolo pubblicato da Beniston e colleghi nel 2018 riporta come numerosi studi scientifici siano concordi nel prevedere sulle Alpi a quote intorno ai 1.500 metri una riduzione dell’equivalente in acqua del manto nevoso (un parametro che dipende dallo spessore e dalla densità della neve) compreso fra l’80 e il 90% entro la fine di questo secolo. Le stesse simulazioni indicano un ritardo nell’accumulo del manto nevoso di due-quattro settimane e un anticipo della fusione primaverile di cinque-dieci settimane rispetto alla media registrata nel periodo 1992-2012, sempre a 1.500 metri di quota. Per le quote al di sopra dei 3.000 metri è invece attesa una riduzione dell’equivalente in acqua del manto nevoso di circa il 10%, anche nel caso di scenari che prevedano un incremento delle precipitazioni nel corso dell’inverno. Questi scenari climatici implicano anche l’assenza di un manto nevoso permanente alle quote più elevate nelle Alpi, con importanti ripercussioni sulla dinamica dei ghiacciai».
Si parla di aumenti medi della temperatura annua, un valore spesso incomprensibile ai più. Quanto questi dati sono direttamente collegabili all’innevamento? Esistono studi e tabelle specifiche?
«Uno studio di Valt e colleghi pubblicato nel 2008 sulla rivista Neve e Valanghe afferma che il limite della neve sicura per le attività sciistiche (criterio dei 100 giorni con più di 30 cm di neve al suolo) è confinato in Italia ad una quota prossima ai 1.500 metri. In un sistema climatico in riscaldamento, è stato stimato che la linea della neve sicura sia destinata ad aumentare di 150 m di quota ogni grado di aumento della temperatura media e sulla base di questa analisi vengono effettuate le valutazioni sulle stazioni sciistiche che saranno a rischio nel futuro, sia per la minor presenza di neve naturale che per la difficoltà di produrre neve programmata. Uno studio di Abegg e colleghi pubblicato nel 2007 all’interno di una ricerca dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sul turismo invernale, ha evidenziato come con un aumento di 1°C di temperatura nel 2050 in Italia il numero di comprensori sciistici in grado di garantire il limite della neve sicura si ridurrebbe del 12%, mentre con un aumento di temperatura di 2°C la percentuale salirebbe al 27%».
Qual è l’aspetto più evidente dei cambiamenti in corso che uno studioso come Michele Freppaz osserva?
«La mia famiglia è originaria di Gaby, un paese valdostano situato a 1.000 metri di quota. Negli anni ’70 la neve era una presenza ricorrente nel periodo invernale, ricordo magnifiche giornate di sci nei prati dietro casa. Si saliva a scaletta e si scendeva lungo pendii accuratamente preparati da noi bambini, con tracciati a diversa difficoltà. Ricordo anche una manovia a offerta libera. Oggi ciò non è praticamente più possibile e anche la pista di fondo viene aperta decisamente di rado. Se devo fare un confronto con un passato ancora più lontano, mi piace spesso citare un episodio legato all’attività dell’illustre climatologo e glaciologo Umberto Monterin. Nel suo contributo al Manualetto di Istruzioni Scientifiche per Alpinisti del CAI, pubblicato nel 1934, lo studioso invitava i frequentatori della montagna a svolgere la raccolta di dati meteorologici, con una strategia che oggi definiremmo di citizen science. In particolare suggeriva che l’alpinista che avesse avuto occasione di osservare pioggia al di sopra dei 3.500 metri durante la stagione estiva avesse cura di prenderne nota e di darne comunicazione. Oggi probabilmente dovrebbe invitare gli alpinisti a segnalare episodi piovosi sopra i 4.000 metri di quota, in quanto alle quote inferiori questi fenomeni sono ormai molto frequenti».
Quali effetti avranno i cambiamenti climatici o stanno già avendo sulle valanghe?
«Gli studi che hanno trattato la frequenza e le caratteristiche delle valanghe nel passato, tra i quali ad esempio quello di Pielmeier e colleghi, presentato all’ISSW di Grenoble nel 2013, hanno evidenziato come nel corso degli ultimi decenni la frequenza di valanghe di neve umida sia aumentata, anche in pieno inverno (dicembre-febbraio), con particolare riferimento alle valanghe di fondo per scivolamento (glide-snow avalanches). La tendenza all’aumento della frequenza di valanghe di neve umida dovrebbe continuare anche in futuro, in particolare alle quote più elevate e all’inizio della stagione invernale.
I vecchi dicevano che sotto la neve c’è il pane. Quale funzione ha la neve, a parte renderci tutti felici e darci l’occasione di scivolare a valle?
«Il manto nevoso che si deposita nel corso dell’inverno, se di sufficiente spessore e non troppo denso, è un ottimo isolante termico. Maggiore è il contenuto d’aria al suo interno, maggiore è la sua capacità di mantenere al caldo il suolo sottostante, indipendentemente dalla temperatura dell’aria. Nei pressi della stazione di ricerca dell’Istituto Scientifico Angelo Mosso, a una quota di 2.901 metri nel massiccio del Monte Rosa, nel corso dell’inverno se è presente uno strato di neve di almeno 80 centimetri, la temperatura del suolo rimane prossima agli 0° C, anche se quella dell’aria scende a -25° C. Se il manto nevoso non è di sufficiente spessore, il suolo non viene adeguatamente protetto e può andare incontro a fenomeni di congelamento, con effetti sul ciclo degli elementi nutritivi del suolo e sulla vitalità degli apparati delle radici. La neve è inoltre un ottimo sensore della qualità dell’ambiente, in grado di incorporare specie chimiche nel corso della precipitazione, ma anche una volta che si deposita al suolo. Ne corso della fusione primaverile il rilascio delle sostanze che sono state inglobate non avviene con gradualità ma nei primi giorni del disgelo arriva al suolo un’acqua di fusione estremamente concentrata, in base a un fenomeno conosciuto come ionic pulse. Evidentemente le specie vegetali hanno interesse a sfruttare questi nutrienti e per questo spesso iniziano la ripresa vegetativa quando ancora sono coperte dalla neve, in modo da poter sfruttare questa fertilizzazione naturale. I processi all’interfaccia suolo/neve sono fondamentali per capire l’ecologia delle aree montane, e solo un approccio interdisciplinare è in grado di comprenderne a fondo i fenomeni. Non è facile, ma solo l’unione di due discipline quali la nivologia (la scienza della neve) e la pedologia (la scienza del suolo) permette di indagare con successo i delicati equilibri che caratterizzano le aree stagionalmente coperte dal manto nevoso».
Ci sono evidenze di problematiche nel comportamento della fauna legate a quelli relative all’innevamento?
«Numerosi studi hanno evidenziato come cambiamenti nella durata e spessore del manto nevoso possano avere un significativo effetto sugli ecosistemi alpini. Negli ambienti di tundra alpina un ritardo nell’accumulo di neve in tardo autunno può determinare congelamenti del suolo in grado di alterare il ciclo degli elementi nutritivi anche nell’estate successiva. Una fusione anticipata del manto nevoso in primavera può indurre una ripresa vegetativa anticipata tale da alterare la sincronizzazione fra la disponibilità di foraggio e l’attività degli erbivori».
La ricerca in quota
La rete LTER Italia (www.lteritalia.it) è un insieme di siti di ricerca nei quali si conducono ricerche ecologiche su scala pluridecennale. In Italia sono ben 25 i siti e ci sono altre 26 reti nazionali a livello europeo con oltre 400 siti di ricerca, 40 quelle sui cinque continenti. Michele Freppaz è responsabile scientifico LTER Istituto Mosso, nel massiccio del Monte Rosa. Fulcro del sito di ricerca è lo storico Istituto Scientifico Angelo Mosso, a 2.901 metri di quota, al confine fra i comuni di Alagna Valsesia e Gressoney La Trinité. Di proprietà dell’Università di Torino, i laboratori scientifici al Col d’Olen furono inaugurati nel 1907, quando apparve ormai evidente che la capanna Regina Margherita, come centro di ricerca d’alta quota era diventato insufficiente alle sempre più numerose richieste di utilizzo da parte della comunità scientifica internazionale. L’Istituto Mosso, realizzato in soli tre anni, superava per grandiosità, per numero e disposizione di ambienti, per ricchezza di arredamento scientifico tutti quelli che al tempo sorgevano sulle Alpi e su altre catene montuose d’Europa e d’America. Era il primo laboratorio d’alta quota che provvedeva una sistemazione confortevole a studiosi di svariate discipline: medicina, biologia, botanica, geologia, glaciologia e meteorologia. L’attività di ricerca è attualmente condotta da differenti gruppi di ricerca con particolare interesse allo studio delle caratteristiche della neve e dei suoli e vegetazione d’alta quota.
I giorni della neve
«Da tempo mi chiedevo come fare per comunicare al meglio e al di fuori della cerchia degli studiosi o appassionati le mie ricerche: la neve, i suoli d’alta quota, i ghiacciai, i cambiamenti climatici, mi domandavo, potevano diventare una narrazione accessibile a tutti, magari avvincente e capace di coinvolgere anche persone che fin lì non si erano mai interessate a certi temi?». Nasce da questa esigenza I giorni della neve (192 pagine, Dea Planeta 13,60 euro), il romanzo scritto da Michele Freppaz con Francesco Casolo. «C'erano le atmosfere di certi luoghi e una serie di storie che potevano essere raccontate come quella di figure pionieristiche come Angelo Mosso e Umberto Monterin, le cui vite erano state di per sé stesse un romanzo - continua Freppaz -. Ci pensavo senza sapere bene da che parte girarmi; organizzavo conferenze e incontri con la sensazione di potere e dovere fare di più. Poi un giorno di un paio d’anni fa a Gressoney ho conosciuto uno scrittore, Francesco Casolo che già aveva lavorato su storie legate alla montagna e, fra una gita all’Istituto Mosso e una al ghiacciaio del Lys, abbiamo deciso di provarci. Cercando di unire il piacere del raccontare alla divulgazione scientifica, l’incanto di uno sguardo che va a posarsi su un ghiacciaio con il rigore dei dati che ne raccontano l'evoluzione».
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La nuova vita di sci e snowboard? Occhiali da sole e yurte
Che fine fanno sci e scarponi usati? Purtroppo nella maggior parte dei casi finiscono in discarica o nei termovalorizzatori. Il problema principale per i primi è legato alla difficoltà di separare le varie parti assemblate, mentre gli scarponi, pur essendo di materiale plastico, si perdono nelle decine di plastiche e non tutte vengono riciclate. Va meglio per i bastoni dove la parte in alluminio trova nuova vita nel riciclo. Però ci sono alcuni esempi interessanti di recupero dei materiali utilizzati. Due ragazzi italiani hanno aperto una start-up in Austria che realizza occhiali da sole e da vista a partire dalla serigrafia degli snowboard. Uptitude è nata in una soffitta del Trentino quando Ermanno Zanella ha pensato che sarebbe stato un peccato buttare tutti quegli sci e snowboard in discarica e si è costruito una montatura per i suoi occhiali. Poi l’incontro con Filippo Irdi, shaper in Austria, e l’idea di industrializzare quell’idea. La voce si sparge in fretta: un po’ con l’aiuto di Burton, un po’ di qualche amico, Filippo ed Ermanno vengono sommersi di snowboard. Le parti laterali sono utilizzate per le montature, quella centrale per realizzare portachiavi, punta e coda per gli espositori da negozio e Uptitude produce anche cover per smartphone con la stessa origine. Come nel maiale… non si butta via nulla. Un altro esempio di valorizzazione degli sci viene dalla Francia. Qui la Tri-Vallées di Albertville dal 2006 raccoglie sci e snowboard dai negozi e dalle piattaforme ecologiche di Savoia, Alta Savoia e Isère per recuperare ferro e alluminio e combustibile solido per i cementifici. Ne parliamo nel portfolio, all’inizio di questo numero. Un’altra case history interessante in chiave riciclabilità è quella dell’italiana Kastelaar che produce sci in legno certificato FSC (Forest Stewardship Council), marchio che identifica oggetti contenenti legno proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile, facilmente riparabili e al 95% riciclabili. E le scarpe da running? Esosport separa la suola dalla tomaia generando materia prima seconda che viene donata e utilizzata per la creazione di pavimentazione per i parchi giochi e per le piste di atletica (per informazioni sui punti raccolta: www.esosport.it). Questi sono tutti esempi virtuosi di recupero dei materiali o di riciclo, ma esistono esempi di riutilizzo, il fine più nobile? Per quanto riguarda i bastoni da sci, ci sono alcune piattaforme ecologiche, soprattutto in Austria, che li distribuiscono ai contadini e ai pastori che li impiegano come pali nelle recinzioni. Gli sci trovano spesso nuova vita in panchine e porta-abiti. Negli Stati Uniti Green Mountain Ski Furniture (www.recycledskis.com) realizza curiose sdraio, apribottiglia e casette per gli uccelli con gli amati legni. Qualche anno fa nell’ambito del progetto Architecture for refugees, Resilience Shelter Project di Marco Imperadori, professore di Progettazione e Innovazione Tecnologica al Politecnico di Milano, si era arrivati a realizzare un modulo abitativo per situazioni di emergenza simile a una yurta, la famosa tenda mongola, utilizzando 130 sci. Il progetto europeo transfrontaliero INTESE, che coinvolge l’area italo-francese del Monviso, prevede la reintroduzione degli sci e scarponi usati attraverso una rete di centri del riuso in aree distanti dalle stazioni sciistiche per non interferire con i mercati locali, ma aumentare la possibilità di accesso agli sport invernali anche per le persone meno abbienti.
Le 4 R dei rifiuti
Riduzione: cioè produrre meno rifiuti (utilizzando più a lungo sci, scarponi e abbigliamento, ma anche preferendo prodotti con imballaggi meno invasivi e riciclabili)
Riutilizzo: il prodotto trova un nuovo impiego (è il caso dei bastoni utilizzati come recinzione o di sci e scarponi donati per essere ancora usati per sciare)
Recupero: valorizzazione del rifiuto per ricavare materia seconda o energia (è il caso degli occhiali con montature a partire dalle serigrafie degli snowboard)
Riciclo: il materiale che non serve più al suo scopo viene trasformato (come le bottiglie di PET che danno vita ai pile)
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Scialpinismo (r)etico
Un passo, un altro, bastoncini in sincro, bastoncini che reggono tutto il tuo peso, le braccia stanche, le gambe dure. Il respiro, il solo suono del tuo respiro e delle pelli che si aggrappano all’elemento bianco e candido che ti riempie di gioia infantile e che allo stesso tempo cela i mostri della tua mente. Pensi di potercela fare? Le gambe, in loro risiedono saggezza e consapevolezza, ma il più delle volte non sei capace di ascoltare ciò che provano a sussurrarti. Sarà che sei impegnata a sentire il suono del tuo respiro e non puoi permetterti di perdere il ritmo. Prima o poi spezzerò il fiato, prima o poi i muscoli si scalderanno. Il cuore batte all’impazzata e non sai più se è perché stai sputando sangue o se sei emozionata come una quindicenne imbarazzata e tremolante di fronte al ragazzo dei suoi sogni.
I tuoi gesti sono pesati, misurati, calibrati al dettaglio. Gesti che ancora non sono automatici e che richiedono la tua massima concentrazione. Batti il pendio, stacca gli sci. Metti il casco, leva le pelli.
Non una volta che le riattacchi dritte sulla plastica. Non una. Chiudi gli scarponi: troppo lenti, troppo stretti. Zaino in spalla, sci ai piedi. Inspira, espira. Vai. Sei qui per questo.
Butti le punte verso il basso e in momento tutto scompare: il dolore, la preoccupazione di non farcela, la paura. Senti le lamine rompere la neve sottile, fai una curva, poi un’altra, prendi velocità. Forse troppa? Non importa: stai planando. Sei la neve, sei una pernice, sei un gipeto.
Quattro. Quattro dannate curve e tutta la fatica non ha più senso, o forse ha finalmente senso. So perché sono qui. Come ci sono arrivata?
L’inverno è alle porte e mi chiedo come farò a trascorrere i prossimi mesi in furgone. Potrei installare un riscaldamento ma non ne ho molta voglia. Altro gasolio nell’atmosfera, oltre tutto quello che d’estate mi porta in giro tra passi alpini con salite in prima. Il mio stile di vita, per quanto semplice ed essenziale, richiede molto all’ambiente e sento di dover fare una pausa per restituire qualcosa a questo mondo.
Quest’estate sono andata a trovare i miei nonni nella casa di montagna di famiglia. Dopo cena tornavo a dormire nel furgone che avevo parcheggiato in giardino, chiudevo il portellone e tutto quello che c’era fuori svaniva per un’intera notte. Ero improvvisamente a casa con Ombra appallottolato a terra sul tappetino e mio padre che era venuto a trovarmi. Parlavamo, giocavamo a backgammon. Io perdevo il più delle volte e cercavo di rosicare il meno possibile.
Una mattina mia nonna, incuriosita come tutti dalla mia vita, mi chiese dove avrei preso casa l’inverno seguente. Bella domanda, non saprei - Beh, mica vorrai far dormire il tuo cane al freddo?
Così, grazie a questa simpatica considerazione di nonna Angela, avevo un’altra ragione per parcheggiare il furgone per qualche mese. Meno gasolio nell’atmosfera, più caldo per il povero Ombra.
Le mie priorità si sono subito delineate: quattro mura isolate dalla civiltà (non si può certo passare dalla vita in furgone alla vita in condominio), sciare ogni giorno e provare in punta di piedi a creare meno danni possibili al nostro pianeta. Ma nessuno ha la palla di vetro e ogni anno non sappiamo se la neve arriverà, quando arriverà e soprattutto dove. Chi vive come me, nomade della neve, ogni stagione invernale fa una scommessa e ne accetta le conseguenze. Prende la cartina delle Alpi, studia altitudini e statistiche, punta un dito e parte. Il mio furgone resterà coccolato dal clima tiepido del centro Italia, assopito per qualche mese. Io, invece, mi dirigo verso mete più frizzanti. Arrivo a Santa Caterina Valfurva il primo dicembre, alle porte dell’inverno meteorologico. Apro le porte della baita che mi, ci ospiterà per i prossimi mesi. È piccola, accogliente, perfetta sostituta della mia casa a quattro ruote.
Spesso mi viene chiesto se mi farò lo skipass stagionale. No. Questo sarà l’inverno del non chiedere niente alla natura. Sarà l’inverno in cui mi modello alla sua volontà. Sarà l’inverno del cuore gonfio e delle gambe stanche. Ha senso passare un inverno in una località sciistica senza usare gli impianti di risalita? Forse no, ma penso lo abbia per me.
I primi mesi sono quelli del vento e della difficoltà. Faccio fatica a riprendere confidenza con gli sci e sicuramente un po’ di ore in pista velocizzerebbero il processo. Ma questo è anche l’inverno della pazienza e del lasciare che le cose avvengano con i loro tempi. Arriverà anche la neve, ti sentirai più confidente. Aspetta. Vogliamo tutto e subito. Lavoriamo tutta la settimana come dei matti e il week-end prendiamo le nostre auto cariche di sci e bisogno di evadere e ci dirigiamo verso il resort più vicino. Abbiamo solo quei giorni per sciare e se la neve non c’è, poco importa: la compriamo. Proviamo anche a comprare il tempo, tutto il tempo che impiegheremmo per salire con i nostri mezzi, viaggiando su eco-mostri che un giorno, quando farà troppo caldo anche solo per sparare, resteranno dove sono. Una ferita che non può più essere rimarginata.
Ammetto che sia bello poter fare 20 run in fresca senza dover batter traccia per ore, godendosi solo la discesa e sono certa che non posso chiedere a tutti di provare come me a trascorrere un inverno secondo i ritmi della natura. Il tempo, quello no che non lo possiamo comprare. Sarò una scrittrice scannata, un’eterna principiante, ma ho un cuore gonfio e del tempo da investire sulle mie gambe. Ho salito tanti metri quanti ne ho sciati. Alcuni li ho solo scesi. Incapace per il dolore di impostare una curva decente. Ho pellato piano, in silenzio, attenta al respiro della natura. Ho visto le aquile volarmi vicino, ho visto Ombra annusare l’aria e rizzare le orecchie attento al movimento dei branchi di camosci.
Ho pellato veloce, a volte, e riso insieme agli amici. Ho visto Ombra sparire correndo in mezzo alla neve fresca, l’ho sentito piangere per la fatica e mugugnare dalla gioia pura del semplice andare veloce verso il basso.
Ora sento i rumori di una primavera che arriva precoce e che sta sciogliendo la neve che ho spalato intorno alla baita. Vorrei chiedere alla natura di rallentare un attimo e aspettarmi. Ma non posso, non voglio, questo è l’inverno che dedico a lei. E alle mie gambe. Quattro. Quelle quattro dannate curve mi hanno restituito già tutto. Quattro curve tracciate su una tela immacolata. La luce del tramonto che colora il pendio. La neve fresca che ti innalza dal suolo. Stai planando. Sei tu, i tuoi sci, ma improvvisamente sei anche la neve e la luce e l’aria che ti sposta i capelli.
Il tempo non esiste più.
Il fondo valle nemmeno si vede.
La fatica è un ricordo lontano.
Non avevi bisogni di dare un senso al tuo inverno. Ma l’hai appena trovato.
Pensavi di restituire qualcosa alla natura ma anche questa volta è più quello che hai preso che quello che hai dato. In fondo cosa sono due gocce di sudore e un po’ di lacrime?
Non so dove sarò il prossimo inverno. Non so se sarò migliorata tecnicamente, né so se farò un po’ meno fatica in salita. So che non investirò i miei soldi in uno skipass stagionale. Certo è che le mie scelte non cambieranno lo stato delle cose. Verranno costruite nuove seggiovie, nuove funivie che portano dritte verso il cielo. Voleranno nel cielo elicotteri che vomiteranno turisti inconsapevoli su cime selvagge.
Ma io ho il mio tempo. E le mie gambe.
E questo basta.
Der Lange Weg
Primo aprile 2018. Pasqua. Nel tranquillo borgo di Trafoi tutto tace. Si sente solo il rimbombo dei passi degli scarponi sull’asfalto. Un rumore sordo, che risuona tra le case e le vie deserte di questo quieto villaggio altoatesino. Sono cinque rintocchi, uno dietro l’altro, regolari. Sono cinque scialpinisti, quattro uomini e una donna. Arrivano da lontano e sono diretti lontano. Vogliono salire allo Stelvio e hanno 80 chilometri di camminata con gli sci e gli zaini in spalla nelle gambe. Trovano un albergo, il Bellavista. Entrano per chiedere informazioni. Un signore sui 70 anni sta mangiando insieme alla famiglia e ai nipoti. È il proprietario dell’hotel ma, come se niente fosse, interrompe il pranzo pasquale, esce e si dilunga a spiegare la strada a questa insolita comitiva di scialpinisti. Quel signore all’anagrafe fa Gustav Thoeni ed è proprio lui, il campionissimo della Valanga Azzurra. I cinque scialpinisti non sono degli skialper qualunque. Si chiamano Philipp Reiter, Mark e Janelle Smiley, Bernard Hug e David Wallmann. Sono i cinque superstiti dei sette partiti il 17 marzo alle porte di Vienna alla volta di Nizza per la grande traversata delle Alpi, un’impresa riuscita solo nel 1971 a quattro austriaci. E l’obiettivo è proprio quello di arrivare almeno in quattro a Vienna e battere il tempo di Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher. La traversata più mediatica della storia dello skialp, non a caso con la regia di Red Bull. Un’impresa della quale si è parlato molto. E non sono mancate le polemiche.
Il modo migliore per capire che cosa è stata Der Lange Weg e che cosa lascerà è di guardarla con gli occhi dei protagonisti, di quei quattro uomini e quella donna che hanno macinato 1.721 chilometri e 89.644 metri di dislivello in 37 giorni (contro i 41 degli austriaci nel 1971) ovvero 375,08 ore in movimento. Per esempio quelli di Philipp Reiter, scialpinista e trail runner tedesco classe 1991. Il modo migliore per capire che cosa significhino queste spaventose cifre è di farlo a ritroso, a rebours, visto che il nostro viaggio parte da Nizza, dove Philipp si è tuffato nel mare con sci e scarponi.
«Sono passate tre settimane ormai dall’arrivo e lo stomaco si è allargato, ho sempre tanta fame ma, a differenza di quando eravamo in moto 15 ore al giorno, ora il peso aumenta. Per qualche giorno mi sembrava di essere un elefante quando mi muovevo, ero gonfio perché il corpo tratteneva troppi liquidi. Sto andando in bici e corrocchiando, non posso dire di non avere le gambe, ma manca la velocità. Dopo un’impresa del genere si pensa al recupero fisico, ma c’è un recupero mentale che è altrettanto importante. Per un inverno ti sei concentrato su quell’obiettivo. Poi per quasi quaranta giorni hai fatto sempre e solo quello: alzarti alle due di mattina, da tre a quattromila metri di dislivello al giorno, decine di chilometri. La giornata scorre nella routine della fatica, resa ogni giorno diversa da tanti imprevisti. Ma non hai altri pensieri, altre occupazioni. E ora? Bisogna tornare a pensare a se stessi, al lavoro, agli amici, cambiano completamente le prospettive e tutto quello per cui hai lavorato finisce in un secondo».
Philipp parla ansimando, mentre ha lo smartphone all’orecchio sta tracciando il percorso di un trail, tanto per continuare a muoversi. Ma non gli manca la lucidità per andare nelle profondità di Der Lange Weg, oltre i titoli dei media e i video promo di Red Bull.
«Nessuno di noi, quando siamo partiti, aveva realmente idea di che cosa avremmo dovuto affrontare, del fatto che andare da Vienna a Nizza in così poco tempo significa essere in moto anche quindici ore al giorno, percorrere fino a 4.500 metri di dislivello positivo con qualsiasi condizione meteo. E prendersi dei rischi. Perché il ragionamento non è quale percorso fare e come adattarsi alle condizioni meteo, ma in certe situazioni puoi solo decidere se prenderti quei rischi vale la pena. Se devi passare da una valle all’altra e c’è solo quel valico non hai molte alternative. La prima settimana è stata la più difficile. Ci siamo allenati solo un giorno insieme, a gennaio. Io conoscevo solo un paio di compagni. Abbiamo affrontato condizioni meteo molto difficili e in quei momenti viene fuori il nostro io più profondo, nelle situazioni estreme si vede chi sei veramente e non è sempre un fatto positivo. Poi però dopo i primi dieci giorni possiamo dire di essere diventati un vero team. E abbiamo dato il giusto valore all’impresa di Klaus Hoi e compagni. Quando ti trovi nel white out con il vento a cento chilometri all’ora capisci che chi ha vissuto queste stesse situazioni quasi cinquanta anni fa lo ha fatto senza GPS, attrezzatura e abbigliamento hi-tech».
Prendersi dei rischi. Quelli che non ha voluto prendersi la trail runner catalana Nùria Picas, che pure passa per una dura e ha lasciato il gruppo dopo 550 chilometri e 32.000 metri di dislivello positivo. «Ovunque andiamo ci sono grandi carichi di neve, è un anno meravigliosamente eccezionale, ma non sono disposta ad assumermi rischi maggiori di quelli che abbiamo già corso in questa settimana appena passata – ha scritto in un post su Facebook -. A casa ad aspettarmi ho i miei figli, la mia famiglia e gli amici e molte avventure che spero di condividere con tutti voi. Lo faccio perché penso che la vita sia uno sport meraviglioso!».
Trentasette giorni ad alzarsi alle due del mattino per evitare la neve molle e il rischio di distacchi, poi giù veloci al camper per mangiare e dormire qualche ora. Una vita con ritmi militareschi. Cosa rimane nella mente di chi a Nizza ci è arrivato?
«Due insegnamenti. Non bisogna fermarsi mai, fino al traguardo, nonostante i tanti imprevisti. Bisogna continuare a muoversi e guardare avanti. Non bisogna essere soli, è impossibile. È un’impresa che puoi fare in compagnia, perché oggi capita la mia giornata no e domani la tua e ci si aiuta. C’è un altro pensiero che mi ha accompagnato a lungo: se sia possibile immaginare una Der Lange Weg a piedi, in velocità. E sono arrivato alla conclusione che sarebbe molto più difficile. Perché con gli sci guadagni tempo in discesa e solleciti meno le articolazioni. E perché quando fai scialpinismo lo stomaco non è così delicato come quando corri. Non potrei mai mangiare una salsiccia prima di un trail, durante una scialpinistica sì». E se lo dice uno che ha portato a termine due volte la Gore-Tex Transalpine Run, andando anche sul podio, bisogna credergli.
Ci sono curiosità che vanno oltre le vette raggiunte e i metri di dislivello. E sono sulla vita di tutti i giorni alla Der Lange Weg. Quello, insomma, che non sta scritto nei comunicati stampa. «A parte tre notti in hotel, una in rifugio e una nel locale invernale di un rifugio, abbiamo sempre dormito nei camper. Eravamo in sette e dormivamo in tre diversi camper. La maggiore difficoltà è stata quella di doversi alzare sempre nel cuore della notte, alle due. Anche se sei stanco non riesci ad andare a letto tanto presto e poi non sei in una casa dove puoi oscurare bene le finestre. Lo spazio a disposizione in camper non è tanto e soprattutto i vestiti non ritornano perfettamente asciutti, rimane sempre un po’ di umidità».
Kilian Jornet ama gratificarsi con gli orsetti gommosi della Haribo nei momenti più difficili di una gara ultra-trail. E di momenti difficili in 1.721 chilometri ce ne sono stati tanti. L’orsetto di gomma (o la coperta di Linus…) di Philipp è una parola composta da cinque lettere, che si scrive uguale in tutto il mondo: pizza. E c’è una vecchia conoscenza di Skialper nel ruolo di pizzaiolo: «Avevamo proprio voglia di una pizza perché eravamo entrati in Italia, ma non potevamo permetterci di passare a casa di Manfred a mangiarla, così lui l’ha impastata e cotta a casa sua e ce l’ha portata il giorno dopo in quota». Lui è Manfred Reichegger, il senatore della nazionale italiana di scialpinismo da poco ritiratosi, che ha fatto da guida al gruppo nella sua valle Aurina, aiutando Philipp e compagni non poco nella nebbia».
Già, il cibo, croce e delizia in ogni gruppo che si rispetti. «Avevamo un cuoco, un ex tagliatore di legna che cucinava grasso, molto grasso. Ma andava bene perché bruciavamo tanto. Il suo compito era difficilissimo perché doveva preparare il cibo all’aperto, per una ventina di persone, inclusi autisti, operatori cinematografici, persone di servizio e, soprattutto, non sapeva mai quando arrivavamo perché era difficile calcolare i tempi con precisione. E quando arrivavamo avevamo fame, molta fame. Così i barattoli di Nutella e le noccioline sono andati a ruba. E durante le gite non ho mai mangiato tanti sandwich come in quei giorni».
Un lungo viaggio è fatto di tanti ricordi che la mente elabora meglio a distanza di qualche settimana o mese. Ce ne sono di belli e di brutti.
«Non posso dire di avere fatte delle belle sciate. Più che altro ci siamo spostati con gli sci, in velocità. Però quando siamo arrivati in Valle Aurina, dopo una giornata lunghissima, ci siamo goduti una discesa al tramonto sulla neve polverosa arancione. A Zermatt una bellissima alba ci ha subito avvolti mentre salivamo verso il Cervino, poi sul ghiacciaio si respirava un’atmosfera strana, durante una gita non ho mai visto così pochi scialpinisti in giro, eravamo praticamente soli a battere traccia, in quota e con il vento contro. Il meteo è cambiato velocemente e ci siamo ritrovati nella nebbia con raffiche a cento chilometri all’ora che ci spostavano indietro di cinque metri. Piedi e vestiti erano fradici. Quando siamo riusciti ad arrivare al bivacco a 3.700 metri ci siamo resi conto di essere dei sopravvissuti. In quel momento, quando nel video che ho caricato sulla mia pagina Facebook si vede entrare dalla porta uno dei mie compagni, la sua espressione parla più di mille parole. Ce l’avevamo fatta ed era l’unica cosa importante, poi avremmo pensato a come tornare indietro».
Già, tornare indietro. Come al Monte Bianco. «Eravamo a cento metri di dislivello dalla vetta, immersi nel white out. I nasi e le guance di alcuni erano bianchi, in cresta non si vedeva nulla e per cercare la strada abbiamo fatto partire un lastrone, non aveva senso rischiare. Per salire sul Monte Bianco abbiamo preso una Guida: ce n’erano solo tre o quattro disposte a portarci in un solo giorno però volevano 1.500 euro e per noi era troppo. Allora l’organizzatore Helmut Putz ha deciso di pagare lui la Guida perché voleva che arrivassimo in vetta. È finita che abbiamo dovuto letteralmente tirarla perché non riusciva a tenere il nostro ritmo e aspettarla continuamente. Alla fine voleva 1.200 euro perché non eravamo arrivati in vetta, ma un collega l’ha convinta a non farsi pagare per il buon nome della categoria».
Quando vai sul Monte Bianco con un cliente normale sai che hai margine, quando vai con chi attraversa le Alpi in 37 giorni no. Ecco un’altra lezione di Der Lange Weg.
Der Lange Weg
La lunga strada. Come quella che nel 1971 gli austriaci Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher hanno portato a termine, da Reichenau an der Rax, in Austria, vicino a Vienna, a Contes, una località vicino Nizza, in 41 giorni. A distanza di quasi 50 anni l’altoatesina Tamara Lunger, il tedesco Philipp Reiter, lo svizzero Bernard Hug, la catalana Nùria Picas, l’austriaco David Wallmann e gli statunitensi Janelle e Mike Smiley, marito e moglie, avevano l’obiettivo di arrivare almeno in quattro e in meno di 41 giorni. Non si può dire che le due imprese siano sovrapponibili e che il record sia stato battuto, anche se il tempo è nettamente inferiore: 41 giorni. Il percorso, che doveva essere uguale, tranne qualche tratto iniziale, è stato invece ridotto a 1.721 invece dei 1.917 previsti (con 85.000 metri D+, che sono diventati 89.644 nell’impresa odierna) a causa delle avverse condizioni meteo che hanno obbligato a tagliare alcuni tratti e saltare alcune vette (sono comunque stati raggiunti Grossglockner e Punta Dufour). Tamara Lunger ha abbandonato dopo la tappa 21 a causa di un infortunio, che l’aveva anche costretta a usufruire del bonus di 64 chilometri percorsi in auto, bonus pensato perché anche nel 1971 i protagonisti avevano percorso 64 km in auto. Non ha concluso il percorso anche Nùria Picas. La partenza è avvenuta il 17 marzo e l’arrivo il 22 aprile.
L’attrezzatura
Che cosa si usa per percorrere quasi 2.000 chilometri sulle Alpi? Philipp Reiter aveva due paia di sci, un Salomon Minim e un S/Lab X Alp. Il secondo, però, è rimasto nel camper. «Per il tipo di impresa conta più avere qualche grammo in meno da trascinare in salita che uno sci che faccia risparmiare energie in discesa» dice Philipp. Lo scarpone era uno Scarpa Alien, l’attacco ATK Trofeo e le pelli Geko con silicone. «Ne avevo anche una di scorta nello zaino, ma non l’ho mai usata, con la neve primaverile le Gecko sono ottime». Rotture? Zero, solo lo sci di Hug durante l’attraversamento di una valanga, ma niente di grave. E l’abbigliamento? Intimo in lana Merinos che ha doti antibatteriche naturali, strato termico e guscio.
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Stian Hagen, i miei primi 40 anni
Stian Hagen è uno dei pro skier più anziani ancora in attività. Insieme a leggende come Mike Douglas e Chris Davenport fa parte di questo mondo da più di un ventennio e non sembra avere nessuna intenzione di rallentare. Stian Hagen è lo ski bum che non ha mai rinunciato al suo sogno. È arrivato la prima volta a Chamonix con i suoi genitori, Unn e Finn Hagen, quando aveva 12 anni.
«Era estate e facevamo hiking. Ero totalmente rapito dalle montagne ma allora praticavo prevalentemente salto con gli sci e sci di fondo e quindi il free skiing non faceva in alcun modo parte della mia vita».
Stian torna a Chamonix a 19 anni con gli amici per una settimana bianca e, questa volta, l’impatto è dirompente. L'inverno successivo carica i bagagli nella sua Fiat ridotta male e guida fino a Chamonix per la prima stagione invernale da ski bum nella valle.
«I primi anni ho vissuto in una tenda all’Argentière per alcun mesi ogni inverno; sciavo tutti i giorni e conducevo una vita molto semplice. Mi alzavo la mattina, raggiungevo gli impianti e disegnavo curve con chi incontravo in montagna. La maggior parte delle persone aveva a mala pena un telefono prima dell'avvento dei social media quindi tutto era molto più spontaneo».
«Sono molto grato per le esperienze vissute e per il modo in cui le ho vissute. È stato fantastico vivere le prime stagioni invernali esclusivamente per me stesso, senza alcuna pressione degli sponsor, dei social media o di chiunque altro; potermi concentrare sullo sci e lavorare sui miei progressi».
Stian sciava tanto, ogni giorno, diventando sempre più bravo. Molto bravo. Era un telemarker quando arrivò a Chamonix ma già alla seconda stagione passò a sci e scarponi tradizionali. Si rese conto subito che l’attrezzatura per il telemark non gli avrebbe permesso di migliorare il suo modo di sciare e di affrontare le linee di ripido che aveva iniziato a frequentare. Una decisione saggia, visto come sono andate le cose. A quel tempo era una delle poche persone che sciavano sulle discese classiche del ripido nel massiccio del Monte Bianco come Mallory, Gervasutti e Colouir Jager.
«Oggi sciare sulla faccia nord dell’Anguille di Midi o su qualsiasi altra classica discesa ripida non rappresenta più una grande sfida per le persone. È spaventoso come tutto sia cambiato nel corso degli anni. Non fa per me, non mi interessa rischiare che qualcuno mi piombi addosso».
Stian parla spesso del tempo di esposizione: se ti trovi in montagna per molto tempo, sei dentro un elemento pericoloso che non può essere controllato.
«È importante sentirsi a proprio agio nel dire di no ed essere orgogliosi di aver preso una decisione prudente, essere tornati indietro o avere scelto un percorso più sicuro».
«15 anni fa, ero completamente selvaggio, non c'è dubbio al riguardo. Ho corso molti rischi, cercando di mettermi in mostra e di farmi un nome. Tipico per un ragazzo sui 20 anni, credo. Non ero totalmente al sicuro e cercavo l'adrenalina».
L’industria dello sci ha vissuto alcuni momenti difficili durante gli anni Novanta, all'ombra dello snowboard che esplodeva, attirando tutta l'attenzione. Però, proprio mentre Stian iniziava a imporsi come uno degli sciatori più completi della valle di Chamonix, il boom del free skiing stava per decollare. E improvvisamente tutti i marchi hanno riscoperto l’enorme potenziale degli sci in versione freeride.
«Fu del tutto fortuito per me, non avevo mai pianificato o immaginato di diventare uno sciatore professionista, è accaduto per caso. Sono stato molto fortunato e ne ho approfittato. Oggi sembra che i bambini abbiano già un piano a 12 anni e che sappiano esattamente quello che vogliono».
Nel corso di più di 10 anni, Stian è stato il protagonista di alcuni film per la Matchstick Productions e per altri produttori. Era, ed è ancora, l'unico sciatore big mountain norvegese star del cinema off piste. Per più di 20 anni è stato uno degli sciatori preferiti da alcuni dei migliori fotografi di sci e non si contano le riviste in tutto il mondo che hanno realizzato copertine con lui. È ancora un freeskier, ma in questa fase della sua vita lavora più come consulente e come sviluppatore di prodotti per i marchi che rappresenta.
«Mi sono sempre interessato all’attrezzatura, quindi avere la possibilità di lavorare con alcune delle aziende leader nel settore dello sci per sviluppare nuovi prodotti è sia divertente che appagante».
Forse è stata solo una transizione naturale in una lunga carriera, ma probabilmente anche la famiglia ha avuto la sua parte in questa scelta. Stian ha incontrato sua moglie Andrea Binning già nel 1999 quando è venuta a Chamonix per trascorrere un inverno ai piedi del Monte Bianco. Anche lei era una pro skier e la coppia ha condiviso tante avventure in montagna per molti anni. Andrea ha deciso di abbandonare la vita da sciatrice professionista sei anni fa, dopo la nascita del figlio Aksel. Adesso la coppia ha anche una figlia, Camilla, di tre anni.
«Il mio atteggiamento verso le montagne e il rischio è gradualmente cambiato. Quando vedi morire amici e persone nella tua comunità, ovviamente, diventi sempre più consapevole. Con i bambini e la famiglia che ti aspettano la cosa più importante alla fine della giornata è tornare a casa tutto intero».
A un certo punto Stian decise di provare a diventare Guida alpina, principalmente perché un suo amico si era iscritto al corso.
«Era un po’ un piano di riserva, qualcosa da fare dopo la carriera da sciatore. Non avrei mai pensato che sarei stato in grado di continuare a essere un pro skier dopo i 30 anni e sicuramente non dopo i 40. Fortunatamente ho continuato a fare lo sciatore professionista quindi, sinceramente, non ho lavorato molto come Guida». (ride)
«Però è bello avere il patentino in tasca. Sarà sempre possibile guadagnarsi da vivere facendo la Guida alpina qui a Chamonix. Avere questa possibilità mi ha dato una sicurezza in più per continuare nella mia carriera come sciatore, specialmente ora che abbiamo due figli. Posso sempre passare a fare la Guida se qualcosa dovesse andare storto e continuare a mantenere la mia famiglia».
Stian ha certamente fatto buon uso della sua formazione come Guida alpina quando ha aperto la Jotunheimen Haute Route qualche anno fa. È una Haute Route che attraversa il massiccio più alto della Norvegia, toccando i punti più alti al Galdhøpiggen (2.469 m) e al Glittertind (2.465 m). Il percorso collega sei stazioni di montagna, misura 77 chilometri e 7.208 metri di dislivello positivo. Fu durante un viaggio sulla catena dell’Atlante, in Marocco, che Stian e un amico ebbero l'idea della Jotunheimen Haute Route.
«Ci siamo resi conto che la Norvegia, nonostante le enormi opportunità per lo scialpinismo, non aveva un tour che collegasse le nostre vette più alte. Era davvero giunto il momento di fare qualcosa, così abbiamo progettato un giro di prova e ha subito funzionato perché c’erano già i rifugi necessari tra una tappa e l’altra».
La Jotunheimen Haute Route è diventata velocemente una haute route di successo e, dopo quasi cinque anni, migliaia di persone la percorrono ogni inverno. Due anni fa Stian ha scritto anche una guida per la casa editrice Fri Flyt che ovviamente ha contribuito a fare conoscere il percorso e a renderlo ancora più famoso.
Stian, che ora ha 42 anni, si sta destreggiando tra il ruolo di pro skier e uomo di famiglia. E non immagina di modificare la propria vita ma di andare avanti nello stesso modo.
«Mi piace davvero trovarmi nel punto dove mi trovo ora e tra cinque anni penso che starò esattamente qui. Mi diverte partecipare allo sviluppo di un prodotto, testare i prodotti e, ovviamente, tutto ciò che riguarda lo sci. Penso che le aziende abbiano capito che hanno bisogno di diversi personaggi come ambasciatori, quindi anche una vecchia carretta come me potrà ancora avere un posto nell'industria dello sci».
Originario di Oslo, classe 1974, con un passato come atleta giovanile nel salto con gli sci e nel fondo, Stian è stato una delle leggende del freeski e dello sci ripido quando in pochi affrontavano i couloir più ripidi del Monte Bianco. Ha anche partecipato per un paio di anni al Freeride World Tour, ma si è subito trovato più a suo agio come star dei film off piste di case produttrici del calibro di Matchstick Productions o Warren Miller.
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C’era una volta il west
Monaco di Baviera, Ispo 2018. Ormai da qualche anno, se vai all’Ispo, vedi freeride ovunque. Non c’è marchio, non c’è padiglione in cui almeno una delle foto utilizzate negli stand non ritragga uno sciatore immerso nella polvere con un completo colorato addosso. Qua e là product manager impacciati che parlano di rocker e sci larghi a clienti che li ascoltano annuendo, ignorando il fatto che fino a ieri per loro lo sciatore di riferimento era Alberto Tomba, mica Shane McConkey. I più ribelli, al massimo, tifavano Bode Miller.
Nei comprensori la scena non cambia molto: appena nevica spuntano sciatori che in settimana si fanno la barba ogni mattina prima di andare in ufficio e che nel weekend, da un paio di stagioni, girano a bordo pista con le braghe larghe e i twin tip rubati ai figli ululando steep and deep, ma alla fine le tracce che lasciano sono le stesse serpentine che si facevano già negli ’80. Tutti che fanno i freerider, ma pochi in fondo accetterebbero di esserlo per davvero. A tanti, invece, del destino del freeride frega poco o niente, il suo spirito può essere sacrificato in nome di qualche like sui social.
SCKREEECH. Freniamo tutti un attimo, per favore. Consumatori, brand, addetti ai lavori, anche noi giornali. Intendo proprio tutti. Che se si continua così il freeride muore per davvero. Abbiamo perso la bussola, ci siamo dimenticati quali sono le cose che contano quando si va a sciare. Abbiamo cominciato a preoccuparci più degli abbinamenti tra gusci e pantaloni piuttosto che di come arrivare a quel pendio rimasto vergine dopo l’ultima nevicata. O a imparare a memoria le geometrie degli sci che usciranno fra cinque anni, scordandoci che quelli dell’anno scorso vanno ancora benissimo e un paio nuovo costa almeno quanto lo skipass stagionale di una qualunque località. Tranquilli, ci sono anche io tra di voi, ci si fa compagnia nello smarrimento causato dalle insidie del marketing e dall’ansia da follower su Instagram, che se alla domenica sera non si pubblica una foto di deep powder abbiamo sprecato il weekend e potevamo anche starcene a casa.
A fine febbraio ho deciso di curarmi. La meta del mio rehab era una valle nell’Ovest, dove il freeride esiste da più di vent’anni e non è stato inventato ieri da un marketing manager di una multinazionale, dove lo sci libero non lo si pratica, lo si vive in tutti i suoi eccessi e i sacrifici che ti richiede. Dove tra l’essere e l’apparire si sceglie lo sciare, e se la neve è bella magari al lavoro ci si va un’altra volta, pazienza se il conto in banca a fine mese piange. Così sono andato a disintossicarmi a Gressoney da Zeo e i suoi amici, alla Baitella.
The Baitella State of Mind
La storia della Baitella è legata strettamente a quella di Zeo, che a Ondro Lommato, la frazione nella quale si trova, ci arrivò nel 1994. All’epoca frequentatore dell’ambiente dei centri sociali, il milanese Zeo si innamorò del posto e assieme agli amici cominciò poco alla volta a trasformarla in una specie di casa comune, dove trascorrere l’inverno e ospitare chi passava di qua per sciare. È impossibile tenere la conta di chi ha soggiornato nel corso degli anni, magari risvegliandosi con la testa che rimbombava dopo una serata di bisboccia. La leggenda della Baitella si è accresciuta quando il proprietario, inconsapevolmente, si è ritrovato a ricoprire anche il ruolo di local di riferimento dei rider stranieri che venivano a filmare ski movie sul Monte Rosa, innamorandosi a loro volta della Valle del Lys. Appena dopo la porta di ingresso c’è un muro sul quale gli ospiti lasciano una dedica, seria quanto basta. In alto a destra ci sono quelle di Chris Bentchetler, di Sean e Callum Pettit (ski you later, ha scritto), quella di Eric Pollard che ha anche disegnato uno dei suoi alberi, gli stessi presenti sulle serigrafie dei Line Skis, quando era stato qui per alcune scene di After the Sky Fall. E poi ci sono quelle della troupe di DPS, che qui ha filmato il cortometraggio Reverie in condizioni nevose da antologia. Gli amici italiani, poco più in là sullo stucco bianco, gli hanno detto ciano firmandosi come Riders de noartri.
La Baitella è stata per me il posto giusto da cui ricominciare la disintossicazione. Se dovessi pensare a quali sono i valori del freeride, ammesso che li si possa definire tali, beh, tanti di questi li ritrovo in Zeo. La condivisione, prima di tutto: condividere con qualcuno le proprie idee e i propri luoghi. Portare i nuovi amici nei propri secret spot, sperando che poi l’ubicazione di questi ultimi venga divulgata solo ai più meritevoli (a proposito: in questo reportage non troverete i nomi delle discese fotografate, sarebbe troppo facile leggerle su un giornale e andare a ripeterle dopo una nevicata. Mi spiace, ma i local mi hanno detto che sanno dove abita la mia famiglia…). Ma anche la consapevolezza dell’ambiente che ci circonda, l’essere consci che le Alpi non sono messe bene, e che tutti dovremmo impegnarci un pochetto per preservarle. Perlomeno per permettere ai nostri figli di provare l’ebbrezza della powder nei boschi sotto i 2.000 metri, ecco. E, soprattutto, l’essere presi bene. Che è una forma più forte dell’essere entusiasti, senza sfociare tuttavia nell’essere ossessionati. Essere presi bene significa fare l’ultima pellata partendo alle cinque del pomeriggio, per il semplice godere della luce e della neve, e non perché bisogna accumulare dislivello a tutti i costi. E poi magari, i giorni in cui fa brutto, starsene a poltrire a casa senza sentirsi in colpa, lasciando gli ossessionati a perdersi nella nebbia al posto nostro.
Ho poi conosciuto l’ecosistema di Gressoney del quale Zeo fa parte: una tribù eterogenea di indigeni della Valle del Lys della quale fanno parte Maestri, Guide, aspiranti Guide, fotografi di montagna, ma anche amatori che nella vita fanno tutt’altro. Età indefinita, dai venti agli over sessanta. Se li vedi da fuori non lo diresti neanche che passano le giornate a sciare insieme: qualcuno gira con padelloni da 120 millimetri sotto il piede, altri con degli assi che avranno sì e no quindici anni e oggi andrebbero bene per le gare. Abbigliamento, idem: si va da un estremo all’altro, dal tutone alla tutina. Ad accomunarli, però, sono le scelte che hanno fatto per arrivare fin qui, tutte mirate al poter trascorrere il maggior tempo possibile in montagna, rinunciando magari ai lussi di una vita e di un lavoro normali in cambio del potersi svegliare col Monte Rosa fuori dalla finestra. Era qui che volevo arrivare: il freeride non è una pratica e nemmeno un modo di vestirsi o di sciare. Il freeride è un percorso di vita.
- Weissmatten
Spesso trascurata a favore degli impianti di Gressoney La Trinité, quest’area dispone di una sola seggiovia biposto e, apparentemente. di pochi pendii accessibili dalla cima. Ma basta aver voglia di mettere le pelli anche solo per pochi minuti che si sblocca un mondo fatto di ripidi lariceti, riparati dalla folla che gira a Punta Jolanda, decisamente più frequentata. Prima regola del freeride, cercare sempre il pendio vergine, giusto?
- Il trasformista Andrea Gallo
Climber, fotografo, pioniere giornalista, sciatore-autore, videomaker della scena rap italiana: Andrea Gallo è stato ed è tutto questo. Negli anni ’80 Andrea fu uno dei più forti arrampicatori italiani, autore delle prime salite di pietre miliari del freeclimbing sparse tra Piemonte e Liguria. Basti pensare che la sua Hyaena, gradata solo 8b+, fa notizia ancora adesso quando viene ripetuta. Fu poi uno dei primi a credere nel paradiso outdoor di Finale Ligure, contribuendo attivamente al suo sviluppo e aprendo il primo negozio di attrezzatura da montagna in quella che era una cittadina della riviera ligure. Poi tornò su nelle montagne di casa, a Gressoney, dove partecipò alla stesura della prima guida di freeride della zona, Polvere Rosa. Come il serpente dell’Eden, Andrea continuò a tentare il resto del mondo rompendo gli schemi. Intramontabile lo speciale Freerider che curò per la rivista Alp nel 1999, dove scrisse delle attività libere dagli schemi che in futuro sarebbero state catalizzatrici dello stantio mondo della montagna: in quel numero si parlava di bouldering, di skibum a Chamonix, di drytooling e, ovviamente, di Gressoney.
- Una Malfatta ben fatta
Il Vallone della Malfatta è una delle discese più conosciute che da Punta Indren scendono sul lato valsesiano del Monte Rosa. Solitamente vi si accede tramite un canale che richiede una calata, o perlomeno di essere disarrampicato. Solitamente. Con Zeo e il Camicia l’abbiamo sciato in tutto il suo splendore, accedendoci sci ai piedi e lasciando le nostre firme nello zucchero, in una giornata in cui il cielo era quello che gli americani - che hanno un neologismo cool per qualsiasi cosa - definirebbero bluebird. Discese classiche come questa in queste condizioni richiedono essenzialmente un requisito: essere lì, in settimana, dopo una nevicata e alla prima funivia… tutto il resto sono chiacchiere da bar.
- Il Circo Barnum al Lago del Gabiet
Più si è, meglio è. Un giorno ci siamo ritrovati a pellare dalla diga del Gabiet in undici, in una bolgia colorata con poche idee in testa ma molto chiare: trovare abbastanza pendii immacolati per tutti. In testa il solitario Camicia, che non solo voleva battere tutta la traccia da solo, ma respingeva anche chi si offriva di dare il cambio a questo intagliatore che un giorno, da solo e per sfizio, aveva pellato per 5.100 metri di dislivello. Dietro, a seguire, il carrozzone del Circo Barnum: il più giovane era il ventunenne rasta Mattia, che per l’occasione aveva un paio di Dynafit al posto dei twin-tip da park; il più, ehm, saggio era Paolo, ormai in pensione. Gente che aveva fatto il Mezzalama mischiata ad altri che in salita facevano le pause a suon di sigarette e vin brulé, mischiata ad altri ancora che le pause non le facevano proprio perché erano i giorni di Burian e la temperatura a dir poco tonica. Chiedetelo a Zeo, che si è dovuto far prestare un phon al bar per scaldare le pelli ghiacciate.
- Sciare la luce
È successo anche di partire per l’ultima pellata all’ora in cui il sole stava per scomparire, salendo con il filo dell’ombra che seguiva poco più a valle. Faceva così freddo che i cristalli di neve non si legavano l’uno all’altro, ma rimanevano lì, sospesi nell’aria a luccicare come polvere d’oro. Davanti a me a battere la traccia c’erano il Camicia e i fratelli Thedy, dietro Zeo e Mattia. Con me era rimasto Francio, che saliva con calma trascinandosi dietro scarponi da pista e sci da 124 mm al centro. Abbiamo spellato proprio mentre il sole stava calando, il primo a danzare nella luce è stato il Camicia, mentre Francio si gustava una sigaretta rollata a meno venti.
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Arnold Lunn, una vita per lo sci
L'evoluzione dello sci, dall'inizio del Novecento fino allo sviluppo dello sci di massa, ha avuto nell'inglese Arnold Lunn il suo massimo artefice. Lunn ci ha lasciato una mole di libri e di saggi sullo sci (e non solo: parecchie sono le sue opere di pensiero e di filosofia) di grande importanza. Inoltre, gli annuari del The British Ski Year Book, di cui è stato direttore dal 1920 al 1971, sono una fonte imprescindibile di informazioni per chi si interessa alla storia dello sci moderno. È anche stato il direttore di The Alpine Ski Club Annual dal 1908 al 1912. I suoi scritti coprono un arco temporale di oltre sessanta anni e riflettono i grandi cambiamenti avvenuti nello sci dalla fine dell'Ottocento al 1974, anno in cui ci lasciò, a ottantasei anni. Lunn giocò anche un ruolo molto fondamentale in questi cambiamenti: l'evoluzione dello sci risulta infatti intimamente collegata a quella del suo pensiero. Viene soprattutto ricordato per il forte contributo che ha dato al discesismo competitivo, con l'invenzione dello slalom speciale e dell'Arlberg Kandahar, la mitica gara di combinata fra discesa libera e slalom che fino agli anni Settanta ha rappresentato il trofeo più prestigioso per uno sciatore alpino. Noi vogliamo però ricordarlo anche come grande sciatore di montagna. È davvero peculiare che, mentre si batteva per fare della discesa e dello slalom una disciplina olimpica, sia stato anche un appassionato cultore dell'alpinismo con gli sci, con numerosissime imprese da inserire nell'albo d'oro dello scialpinismo: basti citare la prima all’Eiger (3.970 m) e al Dom de Mischabel (4.545 m). Si può dire che Lunn iniziò a sciare facendo scialpinismo e continuò a farlo ad altissimo livello per tutta la sua lunga vita.
Scialpinismo e gare di sci alpino rappresentano due mondi che, salvo eccezioni, risultano oggi piuttosto distanti. Ma per Lunn non era affatto così. Egli era uno sciatore completo, amava ogni cosa dello sci, salvo indignarsi di fronte alla piega consumistica assunta dallo sci di massa e non condividere le tendenze dell'agonismo negli ultimi anni della sua intensa vita. Peculiare, direi unica, rimane la sua capacità di essere stato l'appassionato artefice dello sviluppo di due modi di vivere lo sci che con il tempo si sono distanziati sempre di più uno dall'altro. Ricordando le principali tappe della sua lunga vita vediamo di capire il segreto di questa felice sintesi.
Dall’India a Mürren
Arnold Lunn nasce a Madras in India nel 1888, il padre Henry è medico e pastore metodista. Rientrato in Inghilterra nel 1892 con la famiglia, Henry organizza a Grindelwald in Svizzera un incontro fra pastori metodisti, anglicani e non conformisti per tentare un'utopistica unificazione. Ovviamente non risolve nulla ma scopre le sue indubbie doti di organizzatore di viaggi. Abbandona quindi la professione di medico e costituisce la Sir Henry Lunn Ltd, un'agenzia specializzata nell'offrire agli inglesi facoltosi soggiorni nelle prime stazioni invernali svizzere, da Adelboden a Wengen, da Montana a Mürren. Nel 1905 crea la Public Schools Alpine Sports Club, che sarebbe diventata la più importante agenzia specializzata nelle vacanze invernali della Svizzera. Lo sci è una novità che interessa i ricchi inglesi e Henry, che non è uno sciatore, ha subito grande successo. Il figlio Arnold inizia a sciare a dieci anni, a Chamonix. Nasce spontanea in lui una grande passione per la montagna e per lo sci che non lo abbandonerà più per tutta la vita. Studente a Oxford, a venti anni fonda l'Alpine Ski Club, del quale il celebre alpinista e critico d’arte Martin William Conway fu il primo presidente. Neppure un grave infortunio a 21 anni durante un'arrampicata in Galles, in cui rischia di perdere una gamba, che rimarrà per sempre più corta dell'altra, mette fine alla sua passione per lo sci. Appena cade la neve in autunno, Arnold si trasferisce a Mürren per rimanerci fino a tarda primavera. La meravigliosa stazione dell'Oberland Bernese in cui si arriva, come a Wengen, solo con il treno a cremagliera, diventa la sua patria adottiva. A Mürren la Henry Lunn Ltd acquista il prestigioso Hotel des Alpes, diventato poi Palace Hotel. La camera numero 4 diventa il celebre ufficio, caotico e disordinato, di Arnold. In esso si svolgono le storiche riunioni che danno vita allo sci moderno.
Nel 1911 Arnold Lunn si reca a Montana (1.500 m), una stazione di sci del Vallese, su invito di Frederick Roberts, conte di Kandahar e Waterford, famoso vincitore della battaglia di Qandahār in Afghanistan e vice-presidente del Public Schools Alpine Sports Club, per collaborare al primo Roberts of Kandahar, la gara di discesa su terreno non battuto da lui inventata. Una gara di ben 1.500 metri di dislivello, con una parte di salita all'inizio per attraversare la Weisshornlücke (2.852 m) e il Rezlipass (2.830 m). Particolare da non sottovalutare: il punto di partenza, il rifugio Wildstrubel (2.791 m), viene raggiunto dai concorrenti in sei ore, il giorno prima della gara. Dieci membri del Public Schools sopra menzionato partecipano alla gara, vince Cecil Hopkinson in 61 minuti: è la prima volta che si misura il tempo in una gara di questo tipo. Lunn si rende subito conto del fascino e dell'importanza di una sfida così completa, antesignana di quelle attuali di freeride, e ottiene di effettuare il Roberts of Kandahar a Mürren nei successivi tre anni, immediatamente prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. Lunn intervalla l'attività di promotore dello sci in Svizzera e ideatore di nuove gare con un'attività scialpinistica di prim'ordine. Nel febbraio 1908 compie, senza guide, insieme a Cecil Hilton Wybergh, anche lui membro del Public Schools Alpine Sports Club, un raid in sci di quattro giorni da Montana a Villars, attraverso i massicci del Wildstrubel e dei Diablerets. Sono anni in cui si tracciano con grande entusiasmo nuove grandi traversate con gli sci, come la Chamonix-Zermatt ad opera della guida Joseph Ravanel, nel gennaio 1909, con altre tre guide e due clienti. Lunn non è certo da meno e dal 2 al 7 gennaio 1912 effettua una grande traversata delle Alpi Bernesi da Kandersteg a Meiringen. Sono con lui il famoso professor François-Frédéric Roget (compagno delle prime gite di un altro grande: Marcel Kurz...) e tre portatori: Arnold Schmid, Christian Gyger e ‘Adolf’. Per quest'ultimo Lunn non scrive il cognome: nella sua relazione The Oberland from End to End sul The Alpine Ski Club Annual lo descrive come «il peggiore sciatore (ski-runner) e il peggiore portatore che ho avuto la sfortuna di incontrare». Per completezza aggiungiamo che Theodor Lalbermatten ha portato lo zaino del prof. Roget da Kippel al rifugio sopra Lótschenlücke, oggi chiamato capanna Hollandia.
Nel 1910 Arnold Lunn pubblica il primo volume di The Alpine Ski Club Guides: The Bernese Oberland, il massiccio da lui prediletto in cui ritornerà a più riprese. Il magistrale resoconto di Lunn di un'altra traversata primaverile dell'Oberland, dallo Jungfraujoch (già servito dalla ferrovia, dal 1912) a Meiringen, viene pubblicato nel libro Alpinismo invernale di Marcel Kurz. Lunn e Kurz, i due grandi dell'età d'oro e d'argento dello scialpinismo, si conoscono e si stimano, ma il caso vuole che non riescano mai a fare una gita o una traversata insieme. Nel 1913 Arnold Lunn pubblica Ski-ing, in cui introduce nelle gare di discesa il divieto di frenare con i bastoncini. Erano i tempi in cui nei punti difficili si preferiva spesso cadere anziché frenare. Per questo Vivien Caulfield, autore di How to Ski and How Not To del 1910 aveva inventato le gare no-fall, in cui vinceva chi riusciva a cadere meno! Come ricorda Daniel Anker su Der Schneehase-Jahrbuch des Schweizerischen Akademischen Skiclubs vol 37, 2002-2007, in quegli anni, oltre a Lunn e Caulfeild, diedero una notevole spinta allo sviluppo dello sci Rickmers con il suo Ski-ing for Beginners and Mountaineers (1910) e Richardson con The Ski-Runner (1910).
Sempre nel 1913 Arnold Lunn sposa Mabel Northcote. Bella, dolce, elegante, Mabel non è un’alpinista ma si innamora presto dello sci. Inizia una bella vita di coppia nella montagna bianca, un lungo viaggio durante il quale nascono i loro tre figli: Peter, Jaqueta e John. Mabel è di fede anglicana, lui è agnostico ma non rimarrà tale per tutta la vita. Nel 1916 Lunn fa conoscenza con un ragazzo di Mürren di quattordici anni che scia velocissimo a telemark, lasciando sulla neve tracce perfette. Si chiama Walter Amstutz ed è destinato a diventare uno dei suoi più cari amici e uno dei più famosi sciatori di tutti i tempi. Ideatore del Kl (chilometro lanciato, oggi speed skiing o sci di velocità), Amstutz va anche ricordato per l’invenzione delle famose lunghe molle che, collegando la parte posteriore dello scarpone allo sci, permettono di controllare meglio il tallone: le famose Amstutz-Feder o molle Amstutz. Il 18 giugno 1917, insieme alla guida Josef Knubel, Lunn compie la sua scialpinistica capolavoro arrivando, sci ai piedi, sul Dom de Mischabel (4.545 m), la cima più alta che si trova integralmente in Svizzera. Ancora oggi il Dom rappresenta uno dei traguardi più ambiti per gli scialpinisti di alto livello.
Nel 1921, un anno dopo aver effettuato, sempre con la guida Knubel, le prime scialpinistiche al Weisshorn (4.506 m, lasciando gli sci alla base delle rocce della cresta a 3.450 m) e al Brunegghorn (3.833 m), Lunn pubblica uno dei suoi libri più belli e innovativi: Alpine Skiing at All Heights and Seasons. Si tratta di un'analisi dello sci nelle quattro stagioni, con la primavera che primeggia sulle altre, come epoca ideale per lo sci. Il terzo capitolo, Spring Ski-ing, è un piccolo capolavoro di fondamentale importanza per chi considera lo sci qualcosa più di uno sport. Sempre nel 1921, a dimostrazione dell'eclettismo di Lunn, escono i primi articoli e disegni sul suo slalom, come gara di destrezza e velocità fra un ostacolo e l'altro. Prima di allora Mathias Zdarsky aveva già organizzato, nel 1905, una gara con passaggi obbligati sul Muckenkogel di Lilienfeld in Austria: l'obiettivo in quel caso non era il mantenimento della velocità ma la sua riduzione. Il primo slalom moderno ha luogo a Mürren nel 1922 e un articolo di Lunn su The British Year Book ne sottolinea la filosofia e il successo. Nel 1923 Mabel fonda il Ladies Ski Club, destinato a esercitare una grande influenza nello sviluppo dello sci femminile e a portare la squadra inglese a dominare in tutte le gare dell’epoca. Il 18 maggio 1924, come reazione alla prima Olimpiade invernale di Chamonix in cui sono presenti solo le discipline nordiche, Lunn fonda il Kandahar Ski Club e organizza la prima gara internazionale di discesa e slalom. Nella stessa stagione sale con Amstutz, Richardet e Amacher l'Eiger (3.970 m), portando gli sci fino allo Nördliches Eigerjoch (3.607 m). È la sua ultima scialpinistica importante, a trentasei anni di età.
Nel 1927 Hannes Schneider, inventore della tecnica dell'Arlberg e fantasioso interprete dei film di sci di Arnold Fanck, invita Lunn a St. Anton: nasce così fra i due un'amicizia e un sodalizio importante che porta all'invenzione dell'Arlberg-Kandahar. Si tratta di una gara di discesa libera e di un successivo slalom in cui l'ordine di partenza riflette la classifica della discesa: in questo modo è possibile, sommando i tempi, individuare nella combinata lo sciatore più completo. Sempre nel 1927 Lunn pubblica la sua prima monumentale History of Ski-ing, una insostituibile fonte di informazioni sulla storia dello sci. Nel 1928 viene organizzata a St. Moritz la seconda Olimpiade invernale, sempre aperta alle sole discipline nordiche. E Lunn e Schneider inventano a St. Anton il primo Arlberg Kandahar, che assume subito il ruolo di maggiore competizione internazionale per le discipline alpine. L’Arlberg Kandahar viene disputato ogni anno dal 1928 al 1970, salvo l'interruzione durante la Seconda Guerra Mondiale, in stazioni diverse: St. Anton, Chamonix, Garmisch-Partenkirchen, Sestriere. All'inizio degli anni Trenta la continua ricerca spirituale di Lunn, che si ritrova nelle sue opere The Flight from Reason (1930) e Difficulties (1932), lo porta ad abbracciare la fede cattolica. La sua prima passione rimane lo sci: sulla copertina della traduzione italiana di Now I see, Ora ci vedo, pubblicata dai salesiani della Sei nel 1937, c’è lui che imbraccia gli sci come una croce.
Grazie alle sue battaglie, la discesa e lo slalom sono finalmente accolti ai Giochi Olimpici del 1936 a Garmisch-Partenkirchen. Siamo però in piena epoca nazista. Lunn partecipa ai giochi come referente per lo slalom e suo figlio Peter è capitano della squadra britannica. Nessuno dei due prende parte alla cerimonia di apertura e al banchetto offerto da Hitler. Nel 1939 Lunn riesce a far raggiungere gli Stati Uniti a Hannes Schneider e famiglia, dopo l'incarcerazione di quest'ultimo senza una chiara motivazione, sostanzialmente perché inviso ai maestri di sci nazisti. Lo fa fingendo di accettare un ricatto: possibilità di espatriare per Schneider e famiglia in contropartita al mantenimento dell'Arlberg-Kandahar a St. Anton. Schneider riesce a partire ma l'Arlberg Kandahar ritornerà a St. Anton con lui solo nel dopoguerra, nel 1949. Nel 1952 Lunn pubblica The Story of Ski-ing una versione aggiornata e parecchio rivista rispetto a quella del 1927. Nel libro cambia idea su molti punti. Prima di tutto sulla tecnica di discesa. Nello stesso anno, per i suoi meriti nel mondo dello sci, viene nominato baronetto. Nel 1959 muore Lady Mable. Due anni dopo Lunn si risposa con la sua segretaria Phyllis Holt-Needham, assistant editor del British Ski Year Book, che non è una grande sciatrice. Era stata Mabel a presentarla ad Arnold e ad affermare che sarebbe stata la persona adatta per prendere un giorno il suo posto nella vita del marito... Nel 1969 Arnold Lunn pubblica la sua ultima opera sullo sci: si tratta di The Kandahar Story: a Tribute on the Occasion of Mürren's Sixtieth Skiing Season. Un tributo alla grande gara da lui ideata e a Mürren, sua patria adottiva. Muore a Londra nel 1974, a ottantasei anni. Il suo ultimo scritto è una poesia che parla della fede, della gioia di sciare e dell'immensa bellezza delle montagne. La traduzione in tedesco dell'amico Walter Amstutz viene affissa nel porticato della chiesa di Mürren.
La storia dello sci secondo Arnold Lunn
La storia dello sci nelle Alpi a suo parere si può dividere in quattro fasi:
- l'età dei pionieri 1890-1896
- l'età d'oro 1897-1917
- l'età d'argento 1918-1927
- l'età moderna 1928-1970
La prima è quella delle imprese di fine Ottocento, dalle prime traversate di Christophe Iselin e Conan Doyle con i fratelli Branger, fino alla salita all'Oberalpstock di Wilhelm Paulcke. L'età d'oro si apre con la traversata nell'Oberland Bernese di Paulcke e si chiude con la salita con gli sci fino in cima al Dom de Mischabel dello stesso Lunn. Durante questo periodo Lunn è un fervido sostenitore dello sci norvegese, ossia del telemark, del quale il grande interprete sulle Alpi è senza dubbio Wilhelm Paulcke. Lunn si schiera inizialmente con lui nella querelle con Zdarsky, che con la sua tecnica di Lilienfield propone uno sci più facile da apprendere e più adatto ai terreni alpini ma molto meno elegante. Già nel 1905 si notano però tentativi di creare una tecnica ibrida, con un'attrezzatura che permette di sciare sia secondo la tecnica di Lilienfield che a telemark, quando le condizioni di neve e il pendio si adattano alla sciata norvegese. Una felice sintesi dei due modi di sciare si ritrova nel testo Der alpine Skilauf del 1910, dell'ufficiale dell'esercito austriaco Georg Bilgeri. Con il tempo anche Lunn, già difensore della tecnica norvegese, cambia parzialmente idea e in The Story of Ski-ing del 1952 considera «magistrale» la sintesi di Bilgeri da cui nasce lo sci alpino. Ne segue quindi l'evoluzione che lo porta alla tecnica dell'Arlberg dell'amico Schneider: i suoi talloni sono quasi bloccati per ogni tipo di curva e di neve. Questo cambiamento in Lunn non deve stupire. È giustificato dalla lunghezza dell'arco temporale di riferimento e dalla forte evoluzione che lo contraddistingue.
L'età d'argento è segnata dal successo delle opere di Marcel Kurz e dello stesso Lunn. Di fondamentale importanza per fare il punto sullo sci di quegli anni sono i volumi Alpinisme hivernal del primo e Alpine Ski-ing at All Heights and Seasons e History of Ski-ing del secondo. Si può notare una perfetta sintonia in molte parti delle due opere. Il periodo d'argento si chiude con l'incontro fra Lunn e Schneider, che con la tecnica dell'Arlberg e i perfetti cristiania sembra avere definitivamente messo in cantina il telemark sulle Alpi. Nei film interpretati da Schneider, da Wunder des Schneeschuhs a Caccia alla volpe in Engadina, da La montagna sacra a L'ebbrezza bianca a fianco di Leni Riefensthal, Schneider mette in evidenza l'eleganza della sua tecnica dell'Arlberg a talloni bloccati. Egli peraltro non considera superato lo sci norvegese, ne riconosce gli aspetti estetici e si limita ad affermare che il suo cristiania si adatta a qualsiasi situazione. L'età moderna secondo Lunn si apre e si chiude con l'Arlberg-Kandahar, la gara perfetta che solo i grandi sciatori completi possono aspirare a vincere. Nell'età moderna lo scialpinismo si apre ai percorsi tecnici e al ripido: con riferimento al suo Oberland, Lunn ricorda la traversata dello Jungfraujoch con discesa sulla Wengernalp del 1939 e quella dell'Eigerjoch con discesa sulla Scheidegg del 1951. Senza dimenticare il raggiungimento con gli sci del Colle di Meade (7.160 m) in Karakorum da parte di Romilly Lisle Holdsworth nel 1931, record di altitudine dell'epoca.
L'età moderna rappresenta per Lunn un lungo periodo felice di soddisfazioni. Ciò non significa però che in questi anni della maturità, proprio lui non si renda conto che lo sci, accanto ai successi sia nel campo della competizione che nello scialpinismo, non stia correndo grossi rischi, con scelte di fondo che lui non condivide. La presa di distanze rispetto allo sci moderno, ossia alla sua stessa creatura, non è solo degli ultimi anni della sua lunga vita. Già nel 1941, in un simposio in cui si parlava di nuovi impianti di risalita, dice che ogni invenzione «dalle automobili alle teleferiche, rompe la barriera che ancora ci protegge dagli orrori della civilizzazione omologata». Lo storico Andrew Denning, nella sua approfondita ricerca Skiing into Modernity del 2015 interpreta le critiche e il pessimismo di Lunn sul futuro dello sci come «lamento di una élite che dallo sci ha avuto molto». Lunn farebbe insomma parte di quella esigua schiera di pionieri «saccenti ed entusiasti» che dovevano allo sci la loro celebrità. Sarà pure così ma non si può non essere d'accordo con Lunn quando afferma, nella sua autobiografia pubblicata nel 1941, che «lo sci è passato attraverso un ciclo spengleriano. È iniziato come cultura e contatto con la natura (...) sciavamo su nevi modellate solo dagli eventi naturali, dal sole, dal vento, da gelo e dal disgelo (...) oggi lottiamo in teleferiche gremite come i ghetti della civiltà metropolitana e la superficie su cui sciamo è dura e artificiale quasi come le pavimentazioni cittadine che nascondono la terra gentile». Frasi del genere, pronunciate oltre settanta anni fa da un uomo che amava profondamente lo sci, hanno il peso di una triste profezia...
Nel 1943 Lunn arriva a dichiarare che gli impianti minano il piacere di sciare. Se la prende anche con la specializzazione e il professionismo che interessa sempre di più il mondo delle gare, con gli atleti che sciano undici mesi all'anno, con le competizioni sempre più veloci e pericolose e sempre più distanti dal pubblico. In un'ultima intervista, rilasciata a Massimo di Marco per la rivista Sciare nel 1971, afferma senza mezzi termini che l'epoca dello sci che sta vivendo non gli piace. Pur dovendo molto del suo successo allo sviluppo dello sci e delle gare non manca di manifestare il pessimismo circa il rapporto fra sci e montagna. La sua negatività è legata in parte all'aver dovuto accettare la fine dell'Arlberg-Kandahar nella originale formula in cui era stato concepito, perché incompatibile con la Coppa del Mondo La sua passione a 360 gradi per il mondo bianco, dal grande scialpinismo alle gare intese come grandi feste dello sci, rimane genuina fino all'ultimo. Davvero un bell’esempio di un grande dello sci, sul quale val la pena meditare.