Monaco di Baviera, Ispo 2018. Ormai da qualche anno, se vai all’Ispo, vedi freeride ovunque. Non c’è marchio, non c’è padiglione in cui almeno una delle foto utilizzate negli stand non ritragga uno sciatore immerso nella polvere con un completo colorato addosso. Qua e là product manager impacciati che parlano di rocker e sci larghi a clienti che li ascoltano annuendo, ignorando il fatto che fino a ieri per loro lo sciatore di riferimento era Alberto Tomba, mica Shane McConkey. I più ribelli, al massimo, tifavano Bode Miller.

Nei comprensori la scena non cambia molto: appena nevica spuntano sciatori che in settimana si fanno la barba ogni mattina prima di andare in ufficio e che nel weekend, da un paio di stagioni, girano a bordo pista con le braghe larghe e i twin tip rubati ai figli ululando steep and deep, ma alla fine le tracce che lasciano sono le stesse serpentine che si facevano già negli ’80. Tutti che fanno i freerider, ma pochi in fondo accetterebbero di esserlo per davvero. A tanti, invece, del destino del freeride frega poco o niente, il suo spirito può essere sacrificato in nome di qualche like sui social.

SCKREEECH. Freniamo tutti un attimo, per favore. Consumatori, brand, addetti ai lavori, anche noi giornali. Intendo proprio tutti. Che se si continua così il freeride muore per davvero. Abbiamo perso la bussola, ci siamo dimenticati quali sono le cose che contano quando si va a sciare. Abbiamo cominciato a preoccuparci più degli abbinamenti tra gusci e pantaloni piuttosto che di come arrivare a quel pendio rimasto vergine dopo l’ultima nevicata. O a imparare a memoria le geometrie degli sci che usciranno fra cinque anni, scordandoci che quelli dell’anno scorso vanno ancora benissimo e un paio nuovo costa almeno quanto lo skipass stagionale di una qualunque località. Tranquilli, ci sono anche io tra di voi, ci si fa compagnia nello smarrimento causato dalle insidie del marketing e dall’ansia da follower su Instagram, che se alla domenica sera non si pubblica una foto di deep powder abbiamo sprecato il weekend e potevamo anche starcene a casa.

A fine febbraio ho deciso di curarmi. La meta del mio rehab era una valle nell’Ovest, dove il freeride esiste da più di vent’anni e non è stato inventato ieri da un marketing manager di una multinazionale, dove lo sci libero non lo si pratica, lo si vive in tutti i suoi eccessi e i sacrifici che ti richiede. Dove tra l’essere e l’apparire si sceglie lo sciare, e se la neve è bella magari al lavoro ci si va un’altra volta, pazienza se il conto in banca a fine mese piange. Così sono andato a disintossicarmi a Gressoney da Zeo e i suoi amici, alla Baitella.

The Baitella State of Mind

La storia della Baitella è legata strettamente a quella di Zeo, che a Ondro Lommato, la frazione nella quale si trova, ci arrivò nel 1994. All’epoca frequentatore dell’ambiente dei centri sociali, il milanese Zeo si innamorò del posto e assieme agli amici cominciò poco alla volta a trasformarla in una specie di casa comune, dove trascorrere l’inverno e ospitare chi passava di qua per sciare. È impossibile tenere la conta di chi ha soggiornato nel corso degli anni, magari risvegliandosi con la testa che rimbombava dopo una serata di bisboccia. La leggenda della Baitella si è accresciuta quando il proprietario, inconsapevolmente, si è ritrovato a ricoprire anche il ruolo di local di riferimento dei rider stranieri che venivano a filmare ski movie sul Monte Rosa, innamorandosi a loro volta della Valle del Lys. Appena dopo la porta di ingresso c’è un muro sul quale gli ospiti lasciano una dedica, seria quanto basta. In alto a destra ci sono quelle di Chris Bentchetler, di Sean e Callum Pettit (ski you later, ha scritto), quella di Eric Pollard che ha anche disegnato uno dei suoi alberi, gli stessi presenti sulle serigrafie dei Line Skis, quando era stato qui per alcune scene di After the Sky Fall. E poi ci sono quelle della troupe di DPS, che qui ha filmato il cortometraggio Reverie in condizioni nevose da antologia. Gli amici italiani, poco più in là sullo stucco bianco, gli hanno detto ciano firmandosi come Riders de noartri.

© Federico Ravassard

La Baitella è stata per me il posto giusto da cui ricominciare la disintossicazione. Se dovessi pensare a quali sono i valori del freeride, ammesso che li si possa definire tali, beh, tanti di questi li ritrovo in Zeo. La condivisione, prima di tutto: condividere con qualcuno le proprie idee e i propri luoghi. Portare i nuovi amici nei propri secret spot, sperando che poi l’ubicazione di questi ultimi venga divulgata solo ai più meritevoli (a proposito: in questo reportage non troverete i nomi delle discese fotografate, sarebbe troppo facile leggerle su un giornale e andare a ripeterle dopo una nevicata. Mi spiace, ma i local mi hanno detto che sanno dove abita la mia famiglia…). Ma anche la consapevolezza dell’ambiente che ci circonda, l’essere consci che le Alpi non sono messe bene, e che tutti dovremmo impegnarci un pochetto per preservarle. Perlomeno per permettere ai nostri figli di provare l’ebbrezza della powder nei boschi sotto i 2.000 metri, ecco. E, soprattutto, l’essere presi bene. Che è una forma più forte dell’essere entusiasti, senza sfociare tuttavia nell’essere ossessionati. Essere presi bene significa fare l’ultima pellata partendo alle cinque del pomeriggio, per il semplice godere della luce e della neve, e non perché bisogna accumulare dislivello a tutti i costi. E poi magari, i giorni in cui fa brutto, starsene a poltrire a casa senza sentirsi in colpa, lasciando gli ossessionati a perdersi nella nebbia al posto nostro.

Ho poi conosciuto l’ecosistema di Gressoney del quale Zeo fa parte: una tribù eterogenea di indigeni della Valle del Lys della quale fanno parte Maestri, Guide, aspiranti Guide, fotografi di montagna, ma anche amatori che nella vita fanno tutt’altro. Età indefinita, dai venti agli over sessanta. Se li vedi da fuori non lo diresti neanche che passano le giornate a sciare insieme: qualcuno gira con padelloni da 120 millimetri sotto il piede, altri con degli assi che avranno sì e no quindici anni e oggi andrebbero bene per le gare. Abbigliamento, idem: si va da un estremo all’altro, dal tutone alla tutina. Ad accomunarli, però, sono le scelte che hanno fatto per arrivare fin qui, tutte mirate al poter trascorrere il maggior tempo possibile in montagna, rinunciando magari ai lussi di una vita e di un lavoro normali in cambio del potersi svegliare col Monte Rosa fuori dalla finestra. Era qui che volevo arrivare: il freeride non è una pratica e nemmeno un modo di vestirsi o di sciare. Il freeride è un percorso di vita.

  1. Weissmatten

Spesso trascurata a favore degli impianti di Gressoney La Trinité, quest’area dispone di una sola seggiovia biposto e, apparentemente. di pochi pendii accessibili dalla cima. Ma basta aver voglia di mettere le pelli anche solo per pochi minuti che si sblocca un mondo fatto di ripidi lariceti, riparati dalla folla che gira a Punta Jolanda, decisamente più frequentata. Prima regola del freeride, cercare sempre il pendio vergine, giusto?

© Federico Ravassard
  1. Il trasformista Andrea Gallo

Climber, fotografo, pioniere giornalista, sciatore-autore, videomaker della scena rap italiana: Andrea Gallo è stato ed è tutto questo. Negli anni ’80 Andrea fu uno dei più forti arrampicatori italiani, autore delle prime salite di pietre miliari del freeclimbing sparse tra Piemonte e Liguria. Basti pensare che la sua Hyaena, gradata solo 8b+, fa notizia ancora adesso quando viene ripetuta. Fu poi uno dei primi a credere nel paradiso outdoor di Finale Ligure, contribuendo attivamente al suo sviluppo e aprendo il primo negozio di attrezzatura da montagna in quella che era una cittadina della riviera ligure. Poi tornò su nelle montagne di casa, a Gressoney, dove partecipò alla stesura della prima guida di freeride della zona, Polvere Rosa. Come il serpente dell’Eden, Andrea continuò a tentare il resto del mondo rompendo gli schemi. Intramontabile lo speciale Freerider che curò per la rivista Alp nel 1999, dove scrisse delle attività libere dagli schemi che in futuro sarebbero state catalizzatrici dello stantio mondo della montagna: in quel numero si parlava di bouldering, di skibum a Chamonix, di drytooling e, ovviamente, di Gressoney.

© Federico Ravassard
  1. Una Malfatta ben fatta

Il Vallone della Malfatta è una delle discese più conosciute che da Punta Indren scendono sul lato valsesiano del Monte Rosa. Solitamente vi si accede tramite un canale che richiede una calata, o perlomeno di essere disarrampicato. Solitamente. Con Zeo e il Camicia l’abbiamo sciato in tutto il suo splendore, accedendoci sci ai piedi e lasciando le nostre firme nello zucchero, in una giornata in cui il cielo era quello che gli americani – che hanno un neologismo cool per qualsiasi cosa – definirebbero bluebird. Discese classiche come questa in queste condizioni richiedono essenzialmente un requisito: essere lì, in settimana, dopo una nevicata e alla prima funivia… tutto il resto sono chiacchiere da bar.

© Federico Ravassard
  1. Il Circo Barnum al Lago del Gabiet

Più si è, meglio è. Un giorno ci siamo ritrovati a pellare dalla diga del Gabiet in undici, in una bolgia colorata con poche idee in testa ma molto chiare: trovare abbastanza pendii immacolati per tutti. In testa il solitario Camicia, che non solo voleva battere tutta la traccia da solo, ma respingeva anche chi si offriva di dare il cambio a questo intagliatore che un giorno, da solo e per sfizio, aveva pellato per 5.100 metri di dislivello. Dietro, a seguire, il carrozzone del Circo Barnum: il più giovane era il ventunenne rasta Mattia, che per l’occasione aveva un paio di Dynafit al posto dei twin-tip da park; il più, ehm, saggio era Paolo, ormai in pensione. Gente che aveva fatto il Mezzalama mischiata ad altri che in salita facevano le pause a suon di sigarette e vin brulé, mischiata ad altri ancora che le pause non le facevano proprio perché erano i giorni di Burian e la temperatura a dir poco tonica. Chiedetelo a Zeo, che si è dovuto far prestare un phon al bar per scaldare le pelli ghiacciate.

© Federico Ravassard
  1. Sciare la luce

È successo anche di partire per l’ultima pellata all’ora in cui il sole stava per scomparire, salendo con il filo dell’ombra che seguiva poco più a valle. Faceva così freddo che i cristalli di neve non si legavano l’uno all’altro, ma rimanevano lì, sospesi nell’aria a luccicare come polvere d’oro. Davanti a me a battere la traccia c’erano il Camicia e i fratelli Thedy, dietro Zeo e Mattia. Con me era rimasto Francio, che saliva con calma trascinandosi dietro scarponi da pista e sci da 124 mm al centro. Abbiamo spellato proprio mentre il sole stava calando, il primo a danzare nella luce è stato il Camicia, mentre Francio si gustava una sigaretta rollata a meno venti.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 117

© Federico Ravassard