Anthamatten bis alla Ultraks
Secondo successo, dopo quello del 2015, per lo svizzero Martin Anthamatten (che è anche race-ambassador della gara) alla Matterhorn Ultraks, tappa del circuito Migu Skyrunner World Series. Anthamatten sabato ha regolato i conti in 5h00’24’’, lasciando intoccato il record di Marco De Gasperi di 4h42’31’’. Sul podio, nell’ordine, Marc casal Mir e Genis Zapater. Tra le donne successo della spagnola Virginia Perez in 5h56’06’’ seguita dalle connazionali Laia Andreu e Mujika Mayi. La gara di 49 km e 3.600 m D+ ha visto al via 767 concorrenti in arrivo da 36 Paesi.
Kilian Jornet padrone del Kima
Kilian Jornet si riprende il record al Trofeo Kima. Il catalano vince per la quarta volta la Grande Corsa sul Sentiero Roma eguagliando il primato di successi di Mario Poletti e lo fa con il nuovo best crono della gara: 6h09’19”.
La pioggia della vigilia, un violento abbassamento delle temperature, un forte vento da nord e i primi fiocchi di neve in quota hanno messo a serio rischio il regolare svolgimento della prova, tappa della Migu Run Skyrunner World Series. Alle prime luci dell’alba il cielo terso portava con sé la temutissima insidia ghiaccio sui valichi più alti. Sicurezza, prima di tutto. Il direttore gara Matteo Colzada e il suo staff hanno controllato i vari punti critici posticipando lo start di un’ora e mezza, prima di dare il definitivo ok. Alle 8.30 show time con tantissimo pubblico in quota e gli atleti più forti subito davanti a dettare i tempi al resto della ciurma. Da affrontare 52 tecnicissimi chilometri con sette passi alpini tutti sopra i 2500 metri. Kilian Jornet era dato come super favorito dei pronostici. Già vincitore di questa gara e detentore del record prima che il nepalese Bhim Gurung glielo soffiasse (6h10’44”), la stella del Team Salomon ha innestato il turbo portandosi in fuga lo scialpinista transalpino Alexis Sevennec. I due hanno corso spalla-spalla sino alla discesa finale, una vera picchiata di 2000 metri che da Passo Barbacan li portava sino all’abitato di San Martino.
Qui Jornet ha sferrato un attacco vincente che gli ha permesso di tagliare il traguardo tra due ali di folla con il tempo record di 6h09’19”. Alla finish line di Filorera applausi a scena aperta anche per il secondo classificato, uno stratosferico Alexis Sevennec (6h11’59”). Sul podio con loro anche lo spagnolo Pere Aurell Bove in 6h20’50”. Hanno trovato un posto nella top ten di giornata anche André Jonsson, Léo Viret, Petter Engdahl, Andy Simonds, Cristian Minoggio, Cody Lind e Samuel Equy.
Al femminile, nessun record. Il tempo da battere resta il 7h36’21” fatto segnare nel 2016 dalla spagnola Nuria Picas. Con l’attesissima svedese Emelie Forsberg fuori dai giochi per una forma fisica non ottimale che l’ha portata ad alzare bandiera bianca, la gara si è vissuta su continui capovolgimenti di fronti. Sulla prima scesa verso la Bocchetta Roma, Ragna Debats ha provato a afre la differenza. Nella traversata in quota Hilary Gerardi ha però innestato le ridotte. Sul finale la sudafricana Robyn Owen ha provato a insediare la sua leadership, ma la Gerardi è rientrata di prepotenza e vinto in 7h37’29”. Secondo posto per Owen in 7h39’01”, mentre terza si è piazzata la nepalese Mira Rai che al termine di una strepitosa rimonta ha chiuso in 7h41’46”. Seguono nell’ordine l’americana Brittany Petterson e Martina Valmassoi.
Esercito al lavoro
Concluso un nuovo raduno della squadra di ski-alp del Centro Sportivo Esercito.
«Siamo rimasti in caserma a Courmayeur - spiega ‘Lillo’ Invernizzi - con un programma di lavoro fatto di corsa, bicicletta, palestra e ski-roll. Niente neve. Squadra al completo, solo Damiano Lenzi ci ha raggiunto un giorno dopo per un problema di congestione. Voleva fare il Kima, ma non era in condizione: credo che sarà comunque in gara con Eydallin allo Stellina, mentre Davide Magnini andrà al K2, il vertical da 2000 metri di dislivello a Trento sino al Bondone».
Ma come sarà organizzato il programma del CS Esercito, visto che due tecnici, Trento e Reichegger, sono entrati nello staff della Nazionale?
«Il programma di raduni come Esercito - ancora ‘Lillo’ - ce l’abbiamo, tanto che a metà settembre ne faremo un altro. Di solito è quello del mare, ma in caserma a Chiavari sono in corso dei lavori e non sanno se possono ospitarci. In ogni caso il periodo è confermato, decideremo nei prossimi giorni solo dove. Poi mi confronterò con la direzione agonistica azzurra: è ovvio che se ci saranno raduni della Nazionale, dove il blocco è composto da atleti dell’Esercito, non andremo in concomitanza, ma faremo un programma di lavoro coordinato. Poi verranno le gare e come sempre sarò di supporto alla squadra agli Italiani e in Coppa Italia».
Franco Michieli, muoversi nell’invisibile
Sperimentare la permanenza nella montagna. Comincia da questa esigenza l’avventura di Franco Michieli con i suoi viaggi. Classe 1962, nato a Milano, ma con una nonna di Agordo, fin dall’infanzia fa delle Alpi la sua seconda casa. Vive la sua prima esperienza significativa come viaggiatore subito dopo l’esame di maturità. Appena finito l’orale parte per attraversare tutto l’arco alpino, da mare a mare, da Ventimiglia fino a Trieste, accompagnato da otto amici che si alternano lungo il tragitto. «Sono contento di aver celebrato un momento così simbolico come l’esame di maturità facendo qualcosa che ha caratterizzato poi tutto il resto della mia vita - dice -. Già da allora la dimensione che volevo esplorare era la durata, per capire cosa succede stando in ambiente alpino per un lungo periodo, 24 ore su 24, il più possibile a contatto con la natura». Da quel momento ha preso avvio una serie infinita di viaggi che hanno portato Franco ad attraversare alcune delle aree più incontaminate e disabitate del pianeta, dalle Alpi alle Ande, alle sconfinate regioni della penisola scandinava. In questo lungo percorso conoscitivo ha abbandonato via via tutto ciò che è superfluo, liberandosi anche degli strumenti tecnologici che oggi il senso comune considera necessari per imprese di questo tipo, in uno sfiorare di perdersi che l’ha portato a ritrovarsi con una consapevolezza più piena di se stesso e della relazione ancestrale che lega l’uomo alle molteplici forme di vita sulla terra.
Arriva così nel 1998 alla decisione di attraversare senza l’ausilio di nessuna strumentazione tecnica la regione Sapmi, «il vero nome del territorio che viene normalmente indicato col termine in realtà dispregiativo di Lapponia», ci tiene a precisare. Niente orologio, niente telefono, niente GPS, strumenti di comunicazione o carta geografica, soltanto la propria esperienza, il proprio senso dell’orientamento e le risorse che sono insite dentro ognuno di noi. «Era già da un po’ che stavo pensando a questa svolta e quando ho realmente deciso di metterla in pratica avevo alle spalle numerosi viaggi, tra cui uno in Norvegia a 23 anni e uno in Islanda nel 1991 dove avevo sviluppato la mia capacità di cavarmela e di orientarmi in autonomia». Insieme ad Andrea Matteotti, suo amico da sempre e già compagno anche della prima traversata delle Alpi dopo la maturità, si incammina all’interno di un vastissimo territorio disabitato, grande come tutta l’Italia Settentrionale, da Trieste ad Aosta. Davanti hanno solo tre strade e tre piccoli villaggi; tutto il resto sono percorsi da inventare. «Il terreno ideale per testare questo modo di viaggiare il più possibile libero da ogni condizionamento».
Si trovano da subito a loro agio: 30 chilometri al giorno, con zaino pesante e senza sentieri, praticamente lo stesso itinerario che avrebbero compiuto utilizzando le carte geografiche. La decisione presa è quella giusta, sarà questa la strada da seguire anche per i viaggi futuri. «Ovviamente non si improvvisa niente - commenta Franco spiegandoci la sua tecnica - bisogna partire dalle mappe mentali, quelle che tutti noi inconsapevolmente ci facciamo per orientarci nel nostro quotidiano, ma anche per sognare, ed estenderle su una scala più ampia. Dobbiamo capire le geometrie geografiche che caratterizzano il territorio che vogliamo esplorare: come sono disposte le coste, come è orientata la terra rispetto ai punti cardinali, se ci sono catene montuose, laghi, fiumi, come si alternano e verso quale direzione scorrono. Per avere queste informazioni basterà prendere un atlante oppure basarsi su un racconto attendibile di chi c’è già stato. Prima di partire dovremo imparare anche a utilizzare il sole come bussola naturale, a capire la direzione che indica il soffio del vento, a prevedere il cambiamento del tempo. Sono tutte capacità che oggi sembrano fuori dalla nostra portata perché atrofizzate dall’uso massiccio della tecnologia, mentre in realtà sono insite dentro di noi perché facevano già parte del normale bagaglio di conoscenze dell’uomo arcaico. Dobbiamo solo risvegliarle.
Tutto sta nel saper cogliere i segnali. L’apparire per un minuto del sole in una giornata di nebbia fitta può indicare la direzione giusta da seguire. Basta avere pazienza, una scorta di viveri sufficiente e un buon sacco a pelo. In questo modo anche una giornata difficile dove sembravano non esserci più punti di riferimento può trasformarsi in un evento straordinario, perché scopriamo di saperci muovere nell’invisibilità». Quello che colpisce è il senso di fiducia in se stessi e nella natura che questo modo di porsi trasmette, una capacità di fidarsi e di affidarsi che non ha bisogno di essere ostentata ma che ti tocca dentro per la sua totale trasparenza e autenticità. Ascoltandolo mi viene spontanea una domanda: Ma non ti sei mai sentito perso? «Paradossalmente i momenti di maggior spaesamento li ho vissuti al ritorno dai miei primi viaggi, rientrando a Milano. Pativo il distacco forzato da quell’ambiente ancestrale che ci fa riscoprire una parte antica e sopita di noi, per calarmi di nuovo nell’ambiente artificiale della città con i ritmi irragionevoli e innaturali imposti dalla società. Anche quando sei in natura capitano i giorni in cui non sai più dove ti trovi, ma con l’esperienza impari a non spaventarti, ad aspettare con calma e pazienza, perché sai che prima o poi la strada giusta in qualche modo si trova, oppure è lei che trova te». Certo, per abbracciare questo modo di viaggiare occorre stravolgere i principi che comunemente diamo per scontati: il bisogno di avere una meta e la necessità di usare tutti gli strumenti disponibili per raggiungerla nel più breve tempo possibile, e a ogni costo. Nella filosofia di Michieli non c’è nessuna meta obbligata, si tratta di entrare in una relazione rispettosa con il territorio che si percorre, l’unica conquista è quella di raggiungere un equilibrio col divenire della natura in quel luogo, di trovare un percorso che sia in armonia con la possibilità di vivere e di restare in vita in quell’ambiente. Per farlo dobbiamo essere disposti ad attendere, a fermarci, a cambiare strada a seconda del variare delle condizioni.
Ma l’esplorazione della geografia fisica e di quella interiore che Michieli ha portato avanti nella sua ricerca durante tutti questi anni non è solo silenzio e contemplazione, è anche racconto e condivisione. «Sì sono due aspetti della stessa esperienza. C’è il viaggio con il suo bisogno di silenzio per entrare in contatto con l’intensità delle rivelazioni che fa vivere, e c’è la necessità di raccontarlo, trascorso un tempo sufficiente per metabolizzarlo, perché è solo condividendolo che si ridona al fluire degli eventi quello che si è imparato, trasformandolo in una conoscenza comune. Anzi lo stare così tanto immersi nella natura diventa la base per una nuova comunicazione umana, radicata nella concretezza dell’esperienza, mentre oggi, nell’epoca della virtualità, la maggior parte della parole che utilizziamo rischia di essere astratta e svuotata di contenuti, prestandosi quindi a strumentalizzazioni, fraintendimenti e conflitti». Michieli ha declinato la sua esigenza di raccontare il viaggio in molti modi: con le conferenze, i libri e i documentari, con i corsi per le aspiranti Guide alpine in Sudamerica sulle Ande, con i seminari dell’associazione Movimento Lentoo con altri enti e con i viaggi d’autore in collaborazione con la Compagnia dei Cammini.
Anche il suo ultimo libro Andare per silenzi riflette proprio su questi temi, sul compenetrarsi di solitudine e compagnia nel rapporto con le montagne e con la natura, e di come da questo rapporto nasca una forma di spiritualità primordiale, capace di superare le barriere artificiose che spesso costruiamo. «Viaggiando tanto ho imparato che le nostre vere radici non sono quelle culturali date da pochi secoli di storia, ma sono quelle naturali, molto più antiche e profonde. Io penso all’umanità come a un grande albero millenario. Le diverse culture sono i rami tutti diversi che nascono però da un medesimo fusto che rappresenta il nostro cammino evolutivo e affonda le radici in un’origine comune. Soltanto partendo da qui si può capire chi siamo davvero, per non sentirsi più soli ma parte di una totalità più grande di noi. Questo è quello che più di tutto mi hanno insegnato i miei viaggi, tutte le volte che ho provato la gioia di sentire che la mia casa erano le montagne aperte che mi stavano intorno. Ed è un motivo sufficiente per continuare a viaggiare, almeno fino a quando avrò davanti un altro orizzonte sconosciuto da esplorare».
Damiano Lenzi: sotto, a tutta
Non vuol sentire parlare di stagione del riscatto, Damiano Lenzi. «Ho avuto un problema fisico nell’ultima annata - spiega il campione ossolano, dal ritiro del Centro Sportivo esercito a Courmayeur - una infiammazione alla schiena: ho provato a tener duro, ma alla fine è stato meglio fermarsi e ripartire. La situazione adesso è ok, sono pronto per la nuova stagione. Stagione che partirà con le prime prove di Coppa del Mondo a gennaio: meglio così, avrò modo di ritrovare la condizione ideale con più tempo».
Ma già adesso sei bello ‘tirato’.
«Alla fine sono rimasto fermo per quasi tre mesi. Quando sono tornato da viaggio di nozze, ho iniziato subito ad allenarmi duramente. La stagione delle due ruote è saltata, e allora ho puntato tutto sulla corsa: ha fatto qualche gara, avrei voluto fare anche il Kima, ma ne farò altre nei prossimi mesi per mettere benzina nel motore».
C’è anche la nuova ‘avventura’ con Dynafit.
«Il materiale è ottimo, sono molto soddisfatto. Sono pronto a portare la mia esperienza anche nello sviluppo: lo scarpone lo conosco, aspetto la neve per portare le mie indicazioni sul nuovo sci da gara».
Obiettivi?
«Adesso penso soprattutto ad allenarmi. La stagione è impegnativa, con Mondiali, Coppa del Mondo, le classiche. Ripeto, in questo momento per me il pensiero principale è quello di arrivare competitivo a gennaio, poi vedremo».
Domenica è il giorno del Trofeo Kima. Parte la sfida a Kilian
Trofeo Kima, ci siamo. Non è solo una gara delle Migu Run Skyrunner Extreme Series, è la sky per eccellenza in Italia. Una gara nata da un’idea della Guida alpina Pierangelo Marchetti e poi concretizzata da sua sorella Ilde, con il supporto di un gruppo di validi amici nella primavera del 1995, il Kima è da sempre considerato il non plus ultra dello skyrunning. Perché è gara mitica? Basta sfogliare l’albo d’oro nel quale spiccano Fabio Meraldi, Mario Poletti, Cheto Biavaschi, Mauro Gatta, Paolo Gotti, Bhim Gurung e Kilian Jornet solo per citare alcuni dei grandi campioni che qui hanno contribuito a rendere celebre il loro nome. Al femminile Morena Paieri, Gloriana Pellissier, Corinne Favre, Emanuela Brizio, Nuria Picas e Kesie Enman la dicono lunga su quanto questa competizione sia prestigiosa.
FAVORITI - 300 atleti ammessi e ovviamente pettorali rapidamente sold out. Riflettori puntati su Kilian Jornet Burgada che punta a riprendersi il record del percorso. Avrà da difendersi dalla pattuglia dei suoi connazionali Pere Aurell, Pau Bartolo, Alfredo Gil Garcia, dai tanti francesi, partendo dagli ski-alper Alexis Sévennec, Leo Viret o Samuel Equy. Oppure il tedesco Florian Reichert, lo svedese Petter Engdahl, il britannico Ricky Lightfoot o il sudafricano Christiaan Greyling. In casa Italia attesa per Cristian Minoggio, e ancora William Boffelli, Stefano Butti, Luca Carrara, Erik Gianola, Nicola Giovanelli.
Ancora più serrata si annuncia la sfida rosa. Emelie Forsberg e Hillary Gerardi in primis, oltre a Ragna Debats, Mira Rai, Malene Haukøy alcune delle atlete straniere più accreditate, ma attenzione alle azzurre con Martina Valmassoi, Chiara Giovando, Cristiana Follador, Maddalena Mognetti o Lucia Moraschinelli.
SICUREZZA - Trofeo Kima non è solo agonismo. Sabato pomeriggio alle 14 si parlerà di tecnologie al servizio dell’uomo e della montagna. Presso il centro polifunzionale della montagna a Filorera il comitato organizzatore della manifestazione in collaborazione con Regione Lombardia, ha promosso una tavola rotonda aperta a organizzatori, atleti e fruitori della montagna. Al tavolo dei relatori Antonio Rossi (sottosegretario regionale con delega ai grandi eventi sportivi), Massimo Sertori (assessore regionale agli Enti Locali, Montagne e Piccoli Comuni), Marino Giacometti (presidente ISF e del Comitato organizzatore del Trofeo Kima), Lorenzo Bertolini (Sete Track), Fabrizio Pina (presidente del Collegio Guide Alpine di Lombardia) e Gianfranco Comi (Presidente Regionale del Cnsas).
Prendendo spunto dal Kima che da quest’anno imporrà un materiale obbligatorio ad ogni singolo atleta e fornirà ad ogni concorrente un gps fornito dalla società valtellinese Sete Track al fine di monitorare in tempo reale l’andamento della gara. L’idea è quella di utilizzare il volano sportivo per lanciare un messaggio a istituzioni e semplici fruitori della montagna: in quota leggeri sì, ma in sicurezza. Alcune tecnologie attuali, estese dal mondo gare a quelle dell’alpinismo e trekking potrebbero infatti ridurre non poco i tempi di intervento in caso di soccorso. Tale tavola rotonda farà incontrare i diretti interlocutori e proverà a compiere un primo step verso l’abbattimento del digital divide e l’implementazione delle infrastrutture tecnologiche al servizio di chi vive in montagna o di chi la frequenta.
Non solo, seguendo le orme dello scialpinismo race, che ha sdoganato all’uso comune l’utilizzo del kit sicurezza pala/artva/sonda, il comitato organizzatore ha imposto un materiale minimo che verrà controllato in partenza e arrivo. Sul Sentiero Roma si correrà con scarpe da trail running, calzini, fuseaux ¾ oppure fuseaux sopra il ginocchio indossati con gambale, guanti, giacca antivento e telo termico al seguito, t-shirt o maglia tecnica sotto il pettorale. Ogni atleta dovrà inoltre presentarsi in partenza con una riserva d’acqua di 1 litro (borraccia a collo largo o camel bag).
PERCORSO - Il tracciato ovviamente non cambia: 52 km di sviluppo, 8.400 metri di dislivello totale e sette passi tutti sopra i 2500 (quota massima passo Cameraccio a 2.950 metru). Bocchetta Roma, Cameraccio, Camerozzo, Barbacan, valichi alpini da nominare con rispetto. Grazie all’esperienza maturata nelle ultime edizioni e tenendo conto dei consigli utili ottenuti dagli atleti i cancelli orari sono stati uniformati e ritoccati. Anche in questo caso l’aspetto sicurezza di atleti e dei volontari disseminati lungo il tracciato ha inciso non poco sul risultato finale, ma in base ai test effettuati, le barriere sono risultate alla portata di molti skyrunner. Il tempo massimo per concludere la gara sarà di 11 ore. Saranno disposti cancelli orari alla Bocchetta Roma (3h15’), al Rifugio Allievi (6h) e al Rifugio Gianetti (8h). Una grande sfida quella di domenica, preceduta sabato da Kima Trail Running e MiniKima con due tracciati da 14 e 6 km.
Cape Wrath, into the wild
Alcuni lo definiscono il cammino più duro del Regno Unito, titolo conteso con la leggendaria Dragon’s Back, del Galles. Due sentieri diametralmente opposti che affrontano la natura più incontaminata ed autentica dell’Isola Britannica. Avendo già affrontato i 320 chilometri del Galles, correndo sulla schiena del dragone, la Dragon’s Back, non potevo sottrarmi dal confronto con l’altro osso duro di Sua Maestà la Regina Elisabetta: il cammino di Cape Wrath. Questa curiosità e desiderio di affrontare una nuova sfida mi hanno portato, lasciato il Galles nel 2017, a mettere nella lista delle cose da fare il cammino per raggiungere il punto più a Nord-Est del Regno Unito: il leggendario faro di Cape Wrath. L’intero tracciatosi snoda ufficialmente lungo 14 tappe, 400 chilometri e circa 14.000 metri di dislivello. Si parte da Fort Williams, una cittadina turistica ben collegata via treno e bus a Glasgow ed Edimburgo, e si arriva sul promontorio del fiordo di Cape Wrath. Non facciamoci però ingannare da questi numeri, perché hanno un significato completamente diverso da quello che potrebbero assumere sul Continente: qui sono le condizioni del terreno e ambientali a costituire il grosso della sfida. Basti pensare che nemmeno i Romani osarono spingersi alla conquista di queste terre, costruendo i valli di Adriano e Antonino ben più a Sud per proteggere il meridione dell’isola: una terra che nel corso dei millenni è rimasta pressoché immutata, e questo si legge dal fatto che le tracce umane, ancora oggi, sono veramente pochissime.
L’aspetto principale del Cape Wrath è proprio questo: la solitudine e la vastità degli spazi. Miglia e miglia senza centri urbani e senza alcun supporto, talvolta qualche timida strada e i segni della pastorizia. Boschi di betulla e altre latifoglie, intervallati da chilometri di brughiera e prati verdissimi. Il tutto declinato in ripide ma brevi salite che portano da un colle all’altro, da un fiordo a un altopiano. Dimentichiamoci le ascese di anche mille metri continui delle nostre Alpi: qui è un incessante alternarsi di incontri tra terra e acqua in un gioco di elementi dove l’erba verdissima dei climi umidi si affaccia su lunghe lingue di mare che si addentrano anche per dieci chilometri nella terra ferma. Il correre su questi morbidi sentieri, intervallati da roccia scura e colorati dal giallo vivido delle ginestre autoctone, è un’esperienza inebriante, che fa dimenticare il durissimo prezzo in termini di fatica e adattamento da pagare per raggiungere queste terre. Si vive la Scozia da cartolina, toccando laghi e ruderi che sembrano svelare da un momento all’altro qualche mostro lacustre come Nessie oppure il viadotto di Harry Potter, dove gli appassionati della serie percepiranno ancora di più la magia di una terra in cui il tempo si è congelato. I primi 180 chilometri sono caratterizzati da un maggior dislivello, con ripide salite e discese tra laghi, torrenti, maestose cascate e passaggi sulle spiagge dell’Oceano, per poi risalire di colpo in quota, ma sempre su altitudini massime tra i 500 e i 900 metri. Un paesaggio di primordiale bellezza che fa percepire la forza e lo spirito dei popoli della Caledonia. Questo spirito autentico e primordiale non è minimamente intaccato dal fatto che il Cape Wrath Trail è un percorso mitico e tra il più noti nel mondo. Il motivo è semplice: in pochi possono permettersi di affrontare la brutalità della Scozia.
Non ci sono marca via, se non per piccoli tratti, ed è assai difficile compierne una singola sezione, in quanto da una tappa all’altra gli spostamenti su strada possono essere molto dispendiosi di tempo e denaro, quasi a dire: se sei in ballo devi ballare. Non si tratta quindi di una versione nordica del Cammino di Santiago e tanto meno di una edizione scozzese del GR20. Qui il concetto di tappa non coincide necessariamente con la presenza di un rifugio, di una cittadina o un supporto esterno. La tappa rappresenta il massimo dei chilometri percorribili ogni giorno. In Scozia con il meteo non si scherza: è indispensabile essere preparati a bruschi cali di temperatura con piogge ininterrotte per giorni, o giornate caldissime dove il sole brucia quanto in alta montagna. L’aspetto positivo è la latitudine: a fine maggio il buio scende attorno alle 23 e c’è luce già alle 4. Alcune guide al Cape Wrath Trail dividono il percorso in 20 tappe, con una media di circa 20 chilometri al giorno, altre scendono a 14, accorpando la parte centrale del percorso in tratti più lunghi. Personalmente trovo corretto questo approccio, in quanto effettivamente ci sono delle sezioni, nella parte centrale, decisamente più scorrevoli e su sentieri ben visibili e compatti. Tratti che nell’economia generale dell’impresa bilanciano bene il grande impegno del dover attraversare sezioni umide o con traccia non visibile. Un altro approccio è quello di iscriversi alla gara a tappe, in 8 giorni con una media di 50 chilometri al giorno: la Cape Wrath Ultra. Diciamolo subito: non è una cosa per turisti. Organizzazione impeccabile ma decisamente rigida nell’applicazione delle regole e dallo stile militare. Ed è stata questa la mia scelta, decisione che nulla ha tolto allo spirito dell’impresa, ma che mi ha consentito di condensare i tempi, alleggerendo notevolmente lo zaino e dandomi la certezza di trovare un pasto caldo e una tenda montata (ma non sempre asciutta) a fine giornata.
Nel corso degli 8 giorni della Cape Wrath ho incontrato solo 4 coppie di escursionisti che stavano affrontando l’intero cammino, e il motivo è proprio perché bisogna avere una grande preparazione e resistenza per trovarsi a camminare per tutto il giorno sotto la pioggia, senza nessun rifugio o punto di appoggio; per poi arrivare a notte a dover piantare la tenda sotto la pioggia su una superficie bagnata, andare a dormire bagnati e svegliarsi la mattina ancora più infreddoliti e bagnati e riprendere in queste condizioni. Credetemi, almeno due giorni di questo calvario vi toccheranno, ma gli altri, con il sole e la bellezza dei paesaggi, ve li faranno subito dimenticare. Raramente mi trovo a consigliare di acquistare un prodotto o scegliere di affrontare un percorso con la versione organizzata o stile gara rispetto a quella autonoma, anzi nella maggior parte dei casi lo considero un’eresia. In questo caso no. Affrontare questi 400 chilometri in gara non è per nulla una cosa scontata, e vi assicuro che tra navigazione con carta e bussola e un’accoglienza a fine giornata molto essenziale ma efficiente, nulla dello spirito dell’avventura andrà perduto. Sta di fatto che si trova un’organizzazione che almenosi accolla l’onere della tenda e dei pasti a fine giornata e che consente nei giorni di maltempo di ridurre il disagio, permettendo di trascorrere delle notti quasi umane. Resta però il duro risveglio in cui si devono indossare vestiti e scarpe bagnate e fredde del giorno prima.
Ed è qui la grande sida di questo cammino, una sfida che ha tre variabili sconosciute a noi europei del Sud. La prima riguarda il terreno. Bisogna essere preparati ad avere i piedi sempre bagnati, anche in caso di bel tempo. In quattrocento chilometri si devono guadare quasi 100 corsi d’acqua, alcuni anche fino ad altezza della vita, e attraversare di continuo tratti umidi, dove si sprofonda come nella neve fresca. La parola chiave e da imparare è boggy, ovvero quel tappeto erboso o di bassa vegetazione dove nella migliore delle ipotesi fa ploc plocal nostro passaggio e nella peggiore delle ipotesi ci fa sprofondare fino al ginocchio. È una costante di tutto il cammino. I piedi non saranno mai asciutti, statene certi. La seconda riguarda i midge. Sono dei moscerini infami, di dimensioni di gran lunga inferiore alle nostre zanzare e che si muovono in sciami di migliaia. Verso sera o la mattina presto si levano da terra e attaccano ogni centimetro di pelle esposta. Non a caso uno degli elementi fondamentali per le escursioni è la rete protettiva, che deve essere per midgee non per mosquito(zanzare o mosche) in quanto ha una maglia molto più sottile, tanto da sembrare un collant. Credetemi: alle ore del tramonto, in certe zone, potrebbe essere difficile stare all’aperto senza coprirsi il viso con questo strumento, molti indossano anche guanti e pantaloni lunghi. Peggio ancora se gli infami moschini entrano nella tenda. La terza grande variabile è la navigazione: non basta seguire una traccia GPS ma è necessario leggere la carta e fare delle valutazioni sulla conformazione del territorio e scegliere volta per volta il passaggio migliore, laddove non ci sono sentieri. Una vallata con la traccia GPS e la mappa dove si è condotti a costeggiare un torrente sulla destra per poi risalire e valicare un passo non è cosa semplice come appare: se il torrente ha poca acqua potrebbe essere più veloce usarlo come sentiero, piuttosto che affrontare chilometri di pantano in saliscendi. Oppure potrebbe aver senso stare sulla sinistra su quell’invitante tappeto verde… sempre che non si sprofondi fino al ginocchio. Insomma, la lettura della carta, associata al GPS e alla valutazione continua del terreno, è fondamentale. Il bello dell’avventura e della scoperta.
Dopo giorni di pioggia martellante, un freddo che entra nelle ossa, l’ultimo si arriva finalmente all’agognato faro di Cape Wrath. Qui si trova un piccolo caffè, proprio dentro il faro. Il complesso è poi collegato da una strada militare che in 10 chilometri porta a un barchino che attraversa il fiordo. Un servizio che viene fatto due volte al giorno da una navetta e un barcaiolo della comunità locale. Ed è qui che si ricominciano a vedere i pochi turisti: un elemento piacevole dopo tanti giorni in compagnia di pecore scozzesi e cervi: finalmente rivediamo le capre a due zampe!
Cape Wrath
Periodo migliore: maggio-giugno
Attrezzatura necessaria: tenda, sacco a pelo 3 stagioni, sacco da bivacco, materassino, abbigliamento adatto all’escursionismo in aprile sulle Alpi, poncho, guanti e berretto, almeno due cambi completi, repellente per insetti (zecche e moscerini), zanzariera per il volto a maglia fine. Cibo per due giorni.
Siti web:
www.walkhighlands.co.uk/cape-wrath-trail.shtml- Riassume il cammino in un numero di tappe accessibile anche ai camminatori meno veloci.
capewrathtrailguide.org - Guida online e cartacea sul Cape Wrath Trail
www.capewrathultra.com - Affrontare il Cape Wrath Trail in versione gara, ad anni alterni.
Ortles + Tre Cime + Grossglockner, uguale North3
«Seguire le orme di uomini che più di vent'anni fa immaginavano il futuro dell'alpinismo è una sfida in sé: ciò che queste persone hanno fatto è semplicemente difficile da credere. Ma il nostro obiettivo non è solo un tributo, una sorta di seconda edizione: vogliamo spingere oltre i nostri limiti. Vogliamo costruire un dialogo alla pari con i nostri precursori e stabilire un nuovo punto di riferimento per l'alpinismo ibrido del futuro». Queste le premesse dalle quali nasce il progetto North3 di Simon Gietl e Vittorio Messini, concatenare in bici e salire le tre cime nord fi Ortles, Tre Cime di Lavaredo e Grossglockner. Una sfida vinta, o quasi, della quale parliamo in esclusiva su Skialper 119 di agosto-settembre.
IL PRECEDENTE -Fine estate 1991. Hans Kammerlander e Hans-Peter Eisendle hanno concepito una nuova sfida, ibrida e progressiva, sulle loro montagne di casa: scalare in un'unica giornata le pareti Nord dell'Ortles e della Cima Grande di Lavaredo, coprendo con le loro biciclette la distanza tra le due montagne (246 km) by fair means. Quello che è nato più o meno come un gioco è diventato la pietra miliare di un nuovo modo di concepire le attività in montagna.
Primavera 2018. Simon Gietl e Vittorio Messini prendono il testimone e sfidano il risultato, aggiungendo una terza parete Nord, quella del Grossglockner, e altri 117 chilometri in bicicletta. Questa avventura non è solo la celebrazione di un modo ibrido, pulito e sostenibile di vivere la montagna, né solo un'impresa, e neppure un dialogo con una pagina di storia e il suo spirito: l'intera avventura è stata anche l'occasione per raccogliere donazioni per Südtirol Hilft, un'organizzazione benefica per le persone in situazioni di grave emergenza.
In Svizzera c'è già il calendario delle gare della prossima stagione
Il club alpino svizzero ha già definito il calendario delle gare - almeno di quelle dei campionati svizzeri e della coppa CAS - per la prossima stagione. Si parte nel fine settimana dell’Epifania con la Rothwaldrace, valida subito per l’assegnazione dei titoli elvetici: sabato 5 gennaio l’individual, domenica 6 la sprint. La Barlouka's Race a Veysonnaz del 12 gennaio vale per l’assegnazione degli ‘scudetti’ nel vertical. Poi cinque prove di Coppa: il 26 gennaio la Torgon Skialpi (individual), il 10 febbraio il Trophée des Gastlosen (squadre), il 16 febbraio il Chnorz Morx (individuale), dal 1 marzo la Diablerets 3D a squadre, sino alla Ovronnalpski del 31 marzo, ancora a squadre. Finale il 7 aprile con il campionato svizzero a squadre con il Trophées du Muveran.
Trekking al fronte
«La Guerra Bianca. Un nome affascinante. E quell’aggettivo, bianca, evoca un non so che di candido e pulito. Eppure 100 anni fa, nei luoghi che fecero da scenario alpino alla Prima Guerra Mondiale, quel biancofece più morti del nemico. Perché qui, nelle prime linee di confine, ad ammazzare furono la neve e il freddo. Prima ancora che la pallottola del soldato austro-ungarico. E pure quella, a dirla tutta, non mancava. Ma nella stagione più fredda, negli anni di guerra tra le nevi del Parco Nazionale dello Stelvio e dell’Adamello, l’esercito aveva a che fare non con uno ma con due nemici: l’uomo e anche l’ambiente ostile. A vederlo oggi, il comprensorio Pontedilegno-Tonale, con le sue numerose attrazioni turistiche, sembra un angolo di paradiso. Passo Paradiso, con l’omonima cabinovia, per alcuni rappresentò invece l’inferno». Comincia così l’articolo di Tatiana Bertera sul Giro dei Forti e il Sentiero dei Fiori, due interessanti itinerari escursionistici alla ricerca di tracce della guerra combattuta su questi monti.
SENTIERO DEI FIORI - Percorrere il Sentiero dei Fiori, un itinerario attrezzato che si snoda in quota, sulle creste tra il Passo del Castellaccio e il Passo di Lago Scuro e sui ghiaioni sottostanti, significa camminare nella storia. Tra un sasso e l’altro si può trovare davvero di tutto: dal filo spinato ai pallini di piombo degli ordigni bellici, dal legno usato per costruire le baracche dei soldati ai pezzi di stoffa delle divise. Materiale conservato nel ghiaccio e che ora, con il ritiro del limite delle nevi, riemerge. Da non perdere le due spettacolari passerelle metalliche il cui attraversamento è senza dubbio uno dei momenti più emozionanti del tracciato, lunghe rispettivamente 75 e 55 metri.
GIRO DEI FORTI -Se la quota del Sentiero dei Fiori è un po’ troppo impegnativa, oppure se si desidera affrontare un itinerario più rilassante ma comunque molto interessante, è possibile visitare alcuni resti del complesso sistema di fortificazioni realizzate dagli austriaci al confine italiano presso Passo Tonale. Uno degli itinerari, per i più sportivi affrontabile anche sulle due ruote gommate, porta alla scoperta di Forte Mero e Forte Zaccarana, realizzati ai primi del Novecento, già in sentore di guerra.
Mai più senza acqua
Quattro luglio, ore 9, appuntamento a Cesara, non lontano da Omegna, sopra il Lago d’Orta, terreno di allenamento abituale di Giulio Ornati del team Salomon, uno dei più forti ultra trailer in circolazione. Giulio è puntualissimo, pronto per il suo allenamento mattutino, ma oggi sarà un po’ un fuori programma perché gli abbiamo chiesto di portarci con lui a fare un giro panoramico con vista Lago d’Orta. L’occasione per scoprire un angolo tra i più belli del Nord Italia di corsa, dove tra l’altro passa il percorso lungo dell’UTLO-Ultra Trail Lago d’Orta, quello da 120 km, in programma dal 19 al 21 ottobre. Un allenamento, un giro, per vedere sul campo come un atleta top del suo livello si idrata nei giorni più caldi e trarne qualche utile consiglio per il trail runner medio, quello che… si ritrova ad avere sempre sete. Ne parliamo su Skialper di agosto-settembre.
BERE - L’idratazione è un aspetto fondamentale, spesso trascurato e che invece può incidere in maniera importante sulle prestazioni e sul nostro stato di salute. Si dice che si può sopravvivere settimane senza mangiare ma al massimo qualche giorno senza bere… Oltre ai consigli di Giulio abbiamo chiesto un parere al medico, il dottor Alessandro Da Ponte.
Terminillo, storia di un'evasione possibile
15 luglio 2017, Roma, quattro amici in un bar bollente; l'aria è irrespirabile, fa un caldo che si muore, l'unico panorama il viale trafficato di fronte alla stazione. Il piano: Roma Tiburtina ore cinque e cinquantacinque, autobus Roma-Rieti. Se tutto procede, dovremmo arrivare alle sette e trenta alla stazione Morrone di Rieti. Ore sette e cinquantacinque, autobus Rieti- Pian de’ Valli (piccolo paese alla base del Terminillo, posto a circa 1.600 metri di quota). Da li è fatta, arriveremo sul Terminillo e al Monte Elefante, la nostra vetta di libertà! Nasce da questo idea il servizio che pubblichiamo sul numero di agosto-settembre di Skialper, un’idea per una veloce fuga a due passi da Roma. Naturalmente a piedi…
NEI BOSCHI DEI CARBONAI - L’itinerario proposto, che tocca il Monte Elefante, si snoda in parte nella foresta un tempo tagliata dai carbonai, uomini che dai villaggi partivano per le foreste rimanendovi anche mesi per produrre quello che è stato per centinaia di anni l'oro nero dell'Appennino, che forniva calore ed energia alle città: il carbone di legna. L’escursione è anche una scusa per scoprire Micigliano, un grazioso piccolo comune di circa 130 abitanti a quota 925 metri.