Merillas, mille metri in discesa in 9 minuti e 34 secondi
Un nuovo record del mondo: da 2.388 a 1.388 metri, 2.2 km, in 9 minuti e 34 secondi. Di corsa, con un po' di neve. È quello che ha fatto segnare il trail runner spagnolo Manu Merillas a metà febbraio. Va ricordato, come ha fatto Kilian dopo il suo ultimo record, quello del dislivello superato in 24 ore, che anche in questo caso non si tratta di un primato ufficiale in quanto non effettuato su un percorso identico e nelle stesse condizioni. Merillas è sceso dalla Pena Ubina, montagna abituale dei suoi allenamenti. L'unico record simile di cui si sappia è quello di Raul Criado di 11'36'' fatto registrare nel 2017 su un percorso estivo di 3.1 km. Merillas era attrezzato con casco e piccozza. Classe 1991, con risultati importanti fino al 2015 (secondo al Kima, all'Ice Trail Tarentaise e al Matterhorn Ultraks), Merillas è stato fermo per quasi due anni a causa del morbo di Haglund, una malformazione del calcagno.

Caroline Face, 2.000 metri di ghiaccio
Nove settembre 1991. Mentre il sole sta sorgendo dal Pacifico, il Monte Tasman, seconda cima più alta delle Alpi Neozelandesi, vede per la prima volta sulla sua sommità un uomo, con un paio di sci. È partito a notte fonda dalla Pioneers Hut, piccolo bivacco arroccato su poche rocce che fuoriescono dal Franz Josef Glacier. Il Tasman non ha una via normale, tutti i suoi versanti sono tormentati da creste e seraccate. Sul versante ovest c'è una debolezza, un canale, percorso da una via di ghiaccio: la Stevenson-Dick. Con le continue nevicate dell'estate australe il canale di ghiaccio è coperto di neve, fatta eccezione per un'enorme cornice sull'uscita. Dopo aver sciato la cresta sommitale con una doppia, lo sciatore entra nel canale. In breve percorre i suoi 600 metri a 50°. È la prima discesa con gli sci dalla cima del Tasman, una delle prime di questo genere in Nuova Zelanda: ci vorranno ancora un paio d'anni prima che francesi e altri scoprano il potenziale di questo luogo. Lo sciatore della Stevenson-Dick è Mauro Rumez di Trieste, sciisticamente nato e cresciuto sulle Alpi Giulie. Mauro allora aveva 28 anni.
Due mesi più tardi, nel dicembre del '91, a soli due anni e mezzo, mettevo per la prima volta degli sci ai piedi, proprio sulle Alpi Giulie. Una volta iniziato con lo scialpinismo e poi con qualche discesa più ripida, Mauro Rumez è stato il mio mito di adolescente, insieme a Marco Siffredi. Mauro è stato il pioniere di un certo genere di linee sulle Alpi Giulie: per anni e ancora oggi le sue tracce sono per me un esempio da seguire. La prima spedizione extraeuropea di Rumez, seguita da una seconda a cinque anni di distanza, è stata sulle Alpi Neozelandesi, nel settembre '91. In quel viaggio riuscì in due prime discese, così come anche nel '96.
La Nuova Zelanda è stata la destinazione numero uno che ho appuntato nella mia lista dei desideri di sciatore. Ha un grosso difetto però: è dall'altra parte del mondo… Mi è sempre sembrata lontana, forse troppo lontana. Mi pareva lontana persino alla sola idea di andarci. Sapevo però che era questione di tempo: prima o poi ci sarei andato, dovevo solo aspettare l’occasione giusta. E infine è arrivata. Forse è solo un caso, ma mi si è presentata proprio a 28 anni. A fine primavera dello scorso anno un amico, Ross Hewitt, mi ha messo la pulce nell'orecchio con la proposta di aspettare l'estate per vedere se nell'emisfero sud avrebbe nevicato a sufficienza per garantire la copertura su quello che, senza dirlo, sapevamo essere il nostro grande obiettivo. Con noi ci sarebbe stato anche Tom Grant. Ross e Tom erano già stati sulle Alpi Neozelandesi nell'autunno del 2015. Quella volta erano riusciti in un paio di prime discese trovando condizioni eccezionali, ma mai abbastanza buone per la Caroline Face.

La Caroline Face è stata l'ultimo problema alpinistico neozelandese negli anni '70 e, con l'avvento dello sci su grandi pareti, nell’ultimo decennio una delle più grandi linee al mondo rimasta da sciare. Era stata addirittura inserita in una top ten di discese ancora da realizzare, insieme alla sud del Denali (poi scesa da Andreas Fransson), al K2 e altre ancora. Nella storia dei diversi tentativi alla Caroline Face ne figura perfino uno di un team Redbull con un milione e mezzo di euro di budget e guide pagate per fissare più di 1.500 metri di fisse sulla cresta est. Inutile dire che sulla parete non venne fatta nemmeno una curva. L'ultimo tentativo, quello di Andreas Fransson e Magnus Kastengren nel 2013, terminò al Porter con la fatale caduta di Magnus, senza la quale probabilmente i due avrebbero sciato l'intera parete. Il grande problema della Caroline Face non è tanto la pendenza, comunque per gran parte della discesa intorno ai 50°, quanto la dimensione della parete: duemila metri di ghiaccio tormentati da seracchi pensili qua e là. Per non parlare delle condizioni: la Nuova Zelanda non è certo nota per il clima mite e, per quanto riguarda il vento, la punta massima registrata in cima all'Aoraki/Mount Cook è di oltre 250 km/h. Senza contare i pericoli oggettivi di una parete simile.
Come promesso, con Ross e Tom ci risentiamo a metà settembre. In tutto l'emisfero meridionale ha nevicato tantissimo. Sembra essere l'ideale per il nostro viaggio in Nuova Zelanda, ma purtroppo a Ross è uscita un'ernia e non potrà fare parte del gruppo. A Tom e me si aggregherà invece Ben Briggs. Con Ben non avevo mai sciato. Insieme abbiamo poi stabilito di esserci probabilmente incontrati in qualche bar a Chamonix, ma non ne siamo così sicuri. Decidiamo di trovarci a Christchurch, nell'isola del sud, il 20 ottobre. Per risparmiare sul volo, ne scelgo uno un po' sfigato: quattro scali, di cui uno da sedici ore. Parto il 17 ottobre da Lubiana, per atterrare infine in Nuova Zelanda a mezzanotte passata del 20. Nonostante le nevicate abbondanti dell'estate australe, le foto più recenti che avevo visto della Caroline Face non erano così rassicuranti. Sapevo però che sarebbe bastata una nevicata primaverile a cambiare la situazione a nostro favore. In ogni caso i dubbi sulla riuscita erano parecchi: non sciavo da fine maggio, non ero certo di quanto fossi allenato e la parete sembrava effettivamente troppo grande e complessa per andare realmente in condizione. Fortunatamente però il feeling con i miei due compagni è stato ottimo fin dall'inizio.

I primi tre giorni sulla west coast sono stati flagellati da piogge torrenziali. Una volta raggiunto il Mount Cook village, ai piedi dell'Aoraki, però, ci si è presentata una finestra di bel tempo. Il piano fin da subito era quello di volare al Plateau Hut sotto al Cook, il prima possibile, per valutare le condizioni generali e della Caroline Face in particolare. La zona offre comunque parecchie discese interessanti. Se le condizioni della Caroline non fossero state ideali, avremmo avuto altre tre settimane per sperare che cambiasse qualcosa. Già dal sopralluogo in elicottero la nostra linea sembrava in ottime condizioni e, cosa ancor più importante, il seracco a metà parete non era un muro strapiombante di cento metri, come appariva dalle foto di Tom del 2015, bensì una rampa che finiva su un muro arrotondato.
Ci eravamo portati provviste per una decina di giorni, in modo da avere la possibilità di aspettare il momento perfetto. Ogni sera alle 19 venivano trasmesse via radio le previsioni meteo per il giorno successivo. La sera del 26 ottobre, terzo giorno per noi al Plateau Hut, le previsioni davano tempo ideale, senza né vento né nuvole, e temperature relativamente basse. Nonostante i 40 centimetri di nuova neve del giorno precedente, abbiamo deciso che era il momento di partire. Fin da subito, nell'ottica di una discesa più pulita e lineare possibile, avevamo stabilito di entrare in parete calandoci dal Porter Col, il che ci avrebbe permesso di evitare le sezioni di ghiaccio blu nella parte superiore della Clit Route, via che corre esattamente a centro parete. Ci eravamo ripromessi infatti di non sciare la parete a tutti i costi: volevamo una discesa pulita e condizioni ideali. Una linea di questo tipo si merita un'etica rigorosa. Non ci interessava portare a termine una discesa con una serie infinita di doppie, come si è visto fare negli ultimi tempi. All'alba del 27 ottobre ci siamo ritrovati a battere traccia nella neve, a tratti fino ben oltre la vita, per raggiungere la cresta est che ci avrebbe condotto fin sotto la cima mediana dell'Aoraki/Mount Cook. Dopo sette ore e mezza di sforzi, finalmente siamo sbucati in cresta. La cosa bizzarra è stata ritrovarsi su una montagna di 3.700 metri, avere l'oceano a meno di dieci chilometri in linea d'aria e al di là dei ghiacciai vedere la foresta pluviale.

Come stabilito, raggiunto il Porter Col è stato compito mio attrezzare le abalakov per le due doppie da cinquanta metri che ci hanno depositato sulla neve. E qui è avvenuta la magia. La neve di due giorni prima e delle settimane precedenti si era appiccicata per bene un po' dappertutto, mentre il forte vento non era riuscito a intaccarne la superficie. Caroline era rimasta protetta dai venti oceanici e si è presentata sotto i nostri sci nel suo miglior abito: bianco, candido e leggero. Calate comprese, abbiamo impiegato poco meno di un’ora e mezza per sciare i quasi duemila metri di parete. Al seracco mediano ce la siamo cavata con appena quaranta metri di doppia, sciandovi letteralmente dentro. Da lì in giù è stata una corsa contro il tempo per evitare i crolli che iniziavano a farsi sentire, causa le temperature in rialzo. Una volta alla base, ci aspettavano 500 metri di ripellata e, dopo una breve discesa, un altro centinaio per portare il totale della salita a più di 2.200. Non facevo un dislivello simile con gli sci da maggio. Paradossalmente, ad appena una settimana dall'arrivo in Nuova Zelanda, siamo riusciti in quello che era il grande obiettivo del nostro viaggio. L'isola di giada, però, ci ha subito ricordato, al ritorno in bivacco, che il meteo sulle sue montagne è inclemente: ci sarebbe stato ancora un giorno di bel tempo e poi una settimana di brutto. Abbiamo deciso così di scendere dal Plateau Hut a bordo di un aeroplanino sgangherato e aspettare il ritorno del bello a suon di pinte e fish'n'chips.
Uno dei primi giorni dopo il mio arrivo in Nuova Zelanda, mentre facevo colazione ancora frastornato dal jet lag, Ben mi aveva messo davanti agli occhi una vecchia fotografia di una montagna: nel mezzo, una linea sinuosa e sensuale. Era la Zig Zag Route, che solca la Malte Brun, montagna piuttosto prominente che, essendo la più alta, dà il nome a un sottogruppo di fronte al Cook. Tornati dall'Aoraki, alla prossima finestra di bel tempo sarebbe stato il momento per il nostro obiettivo successivo. Diametralmente opposta rispetto alla discesa della Caroline Face, la Zig Zag è stata una sciata molto più simile a quelle a cui sono abituato sulle Alpi: niente seracchi sopra la testa pronti a ucciderti, ma un bel vuoto sotto gli sci grazie a grandi salti di roccia. Effettivamente si tratta più di una via di misto/ neve, ma anche qui le condizioni hanno giocato a nostro favore con neve soffice aggrappata a ghiaccio e roccia. Una volta in più mi sono convinto che in fondo allo zaino è sempre bene mettere una fettina di culo. Ormai verso la fine del nostro viaggio, almeno per quanto riguardava il tempo che potevamo spendere sulle montagne, e non volendo passare agli occhi dei neozelandesi per delle euro-pussy ma per dei veri alpinisti, per uscire dal ghiacciaio Tasman ai piedi del Malte Brun abbiamo deciso di non sfruttare mezzi meccanici e ci siamo caricati in spalla tutta la nostra attrezzatura per 22 chilometri di ghiacciaio detritico e morene-killer. Una piacevole passeggiata di quasi undici ore, durante le quali mi sono ripetutamente domandato per quale assurdo motivo avessimo voluto risparmiare 90 euro a testa di elicottero.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 116, uscito a gennaio 2018. Se non vuoi perderti nessuna delle storie di Skialper e riceverlo direttamente a casa tua puoi abbonarti qui.

La banda del Wayback
«Mi hanno sempre chiesto il mio feedback, ma per lo sviluppo della nuova linea Wayback siamo stati coinvolti molto prima - esordisce Francesco Tremolada, Guida alpina in Val Badia - Ci abbiamo messo due anni solo per identificare le esigenze specifiche dei diversi tipi di utilizzatori. Poi abbiamo combinato queste esigenze con la nostra idea di come lo scialpinismo classico possa essere spinto verso la prestazione senza aggiungere peso e mantenendo quel feeling K2 tanto apprezzato». Dietro alle scelte aziendali ci sono obiettivi di mercato, non potrebbe essere diversamente, ma a volte ci sono anche degli uomini. Ed è quello che è successo nel momento in cui in K2 hanno deciso di mettere mano alla linea Wayback. Operazione non facile, perché da quando nel 2005 è stato lanciato lo sci Shuksan e successivamente con la linea di accessori Backside è stata creata un’opzione molto caratterizzata nello ski touring e nel freeride touring, con attrezzi dall’inconfondibile stile di sciata. Insomma, il feeling K2 non doveva essere sacrificato sull’altare del peso, ma l’obiettivo dichiarato era di alleggerire le strutture.
Ed è così che, fedeli al motto aziendale la passione guida l’innovazione, al quartier generale di Seattle hanno pensato di coinvolgere in tutto il processo di sviluppo dei nuovi prodotti (fatto raro) quattro Guide alpine attive nelle località più simboliche del mondo per skialp e freeride, quattro professionisti con almeno 150 giornate sugli sci a stagione, buona parte con i clienti. «Ho lavorato allo sviluppo dei Wayback per tre anni, ma avrei approvato solo uno sci potente che sciasse bene come quelli che avevo già usato - dice Hans Solmssen, che dal 1983 ha messo casa a Verbier - Però volevo anche uno sci spaventosamente leggero. Ho sciato con Cody, un ingegnere K2, un buon numero di giornate sulle Alpi, in ogni condizione di neve e con ogni attrezzo di altri marchi, cercando la perfetta combinazione. Siamo ritornati sui nostri passi tante volte e abbiamo fatto molte modifiche, ma alla fine ne è valsa la pena». Probabilmente sì, visto che Wayback 88 ha vinto l’ambito award Ski of the Year 2019 nella sezione ski touring della nostra Buyer’s Guide e Wayback 106 è nella Selectionnella sezione freetouring. «Il focus della nuova costruzione sta nell’utilizzo di legni leggeri come la Paulownia o la Balsa, con inserimento molto accurato di laminati compositi in fibra di carbonio o vetro, senza rinunciare all’inserto in titanal sotto il piede - dice Guido Valota, responsabile tecnico della nostra Buyer’s Guide - questo ha permesso una netta riduzione del peso, una performance sciistica realmente all-terrain, e una speciale manovrabilità nelle nevi difficili. La grande agilità caratteristica dei nuovi Wayback non compromette il grip sul fondo e la lamina è tutta giù al lavoro. Si passa con facilità disarmante su tutti i fondi». Yes we can. Sì, si può avere uno sci perfetto per sciare, ma anche per salire.
Gilles Sierro
Aka gillesleskieur, ha 39 anni e vive in una piccola comunità alpina nel Vallese svizzero, Hérémence. Guida alpina UIAGM da dieci anni, ha al suo attivo diverse prime discese di ripido. Cosa rende gli sci K2 particolari? «K2 non è salito sul carro del vincitore quando lo scialpinismo è diventato così popolare, perché faceva già parte dell’eredità e dello spirito aziendale. Chiunque lavora in azienda, dall’impiegato del marketing all’ingegnere, pratica scialpinismo. E il prodotto lo racconta. Quando facciamo un brainstorming su un nuovo approccio o prodotto, non devi spiegare i concetti due volte. Parliamo la stessa lingua. K2 guida - come noi Guide alpine - e gli altri seguono». Quali erano le tue aspettative per Wayback 80 e il 106 e come le hanno esaudite gli ingegneri K2? «Volevo proprio uno sci per i lunghi traguardi, davvero agile durante la salita, ma che ispirasse sempre sicurezza sui terreni più esposti. Quindi non proprio lo sci più leggero possibile, ma quello meno pesante con le migliori prestazioni in discesa. Con Wayback 80 ci siamo. Il suo peso piuma è semplicemente incredibile. È difficile credere che questo sci sia la prima incursione di K2 in questa categoria light touring. Wayback 106 è il mio sci per tutti i giorni, un attrezzo ben bilanciato di cui mi posso fidare su quasi tutti i terreni. Volevo uno sci simile al leggendario Coomba, ma con migliori sensazioni di divertimento senza perdere di vista le prestazioni. Il nuovo design tip/tail e il laminato T3 TI Spyne hanno proprio questa funzione. Nelle misure più lunghe il gap è ancora più evidente: è alla pari con i migliori sci da freeride sul mercato, ma pesa meno».

Hans Solmssen
Nato a Waimea, nelle Hawaii, sessantenne, dal 1983 chiama Verbier, in Svizzera, casa. Guida alpina dal 1961, oltre allo sci ama il wave kitesurf, le grandi barche a vela, la bici da strada, la mountain bike e arrampicare. Cosa rende gli sci K2 particolari? «Sono sempre stati non solo concreti e affidabili, ma anche divertenti da sciare: danno tante risposte brillanti, senza essere mai troppo rigidi e fastidiosi per le ginocchia». Quali erano le tue aspettative per Wayback 88 e 96 e come le hanno esaudite gli ingegneri K2? «Sia Wayback 88 che 96 sono gli attrezzi che uso a Verbier quasi tutto l'inverno. In primavera di solito scio sull'88 per la sua polivalenza su tutti i tipi di neve, da quella ghiacciata del mattino alla pappa pomeridiana. Nel cuore dell'inverno so che il 96 mi fa galleggiare in tutto quello che il cielo ci ha concesso durante la notte. Entrambi sono leggeri e mi permettono di non avere problemi quando ho un cliente veloce e disposto a fare un paio di migliaia di metri di dislivello. Light non vuol dire non resistenti: vanno sempre bene, anche dopo settimane e settimane di uso intensivo».

Miles Smart
Trentottenne, statunitense, Guida UIAGM dal 2004, vive a Chamonix. Dopo avere fatto esperienza arrampicando nello Yosemite, ha trascorso anni sciando con Doug Coombs a La Grave prima di stabilirsi definitivamente ai piedi del Monte Bianco dove dirige gli Steep Camps. Cosa rende gli sci K2 particolari? «Sono sci divertenti, versatili e dalla reazione prevedibile, pensati dalle Guide per grandi prestazioni scialpinistiche». Quali erano le tue aspettative per i nuovi Wayback 88 e 96 e come le hanno esaudite gli ingegneri K2? «Il nuovo Wayback 88 è un deciso passo avanti rispetto alla vecchia versione. È più leggero, ma più solido al piede, inoltre ha un raggio più lungo combinato con un profilo rocker raffinato, che lo rende più stabile, prevedibile e divertente da sciare. Per i lunghi tour nelle Alpi occidentali probabilmente il miglior rapporto peso/prestazioni! Il nuovo 96 garantisce ancora più controllo del suo predecessore, che era famoso per questa dote: è divertente e giocoso ma pesa decisamente meno».

Francesco Tremolada
Quarantottenne, nato a Padova, risiede a Corvara in Alta Badia, nel cuore delle Dolomiti. Ha iniziato a lavorare come Guida 20 anni fa e oggi vive esclusivamente portando i clienti in montagna. È appassionato di fotografia, in particolare della fotografia di viaggio e ha già collaborato con Skialper. Cosa rende gli sci K2 particolari? «C'è qualcosa di speciale che tutti proviamo, ma è difficile esprimerlo a parole. Provi un nuovo modello e dopo un paio di giri ti sembra di sciare con un vecchio amico...». Quali erano le tue aspettative per i nuovi Wayback 88 e 96 e come le hanno esaudite gli ingegneri K2? «Nell'ultima stagione abbiamo avuto ottime condizioni di neve, con molti giorni di polvere perfetta. Ho quasi sempre sciato con Wayback 106. Grazie alla sua leggerezza, la salita è stata quasi un piacere. Ben presto mi sono reso conto che il mio amato 88 l’avrei utilizzato solo per le classiche escursioni più lunghe o in condizioni di neve primaverile. Anche per il freeride con impianti sono semplicemente fantastici, perché durante le brevi salite si beneficia del peso ridotto, mentre le prestazioni in discesa sono così buone che i miei modelli da freeride più pesanti sono rimasti in cantina. Il Wayback 96 è la mia arma preferita quando la salita è lunga e la discesa ripida e tecnica. In queste condizioni fa valere la sua versatilità e potenza. Probabilmente è il modello top Wayback, perché funziona alla grande in qualsiasi condizione ed è incredibilmente leggero».

La famiglia Wayback
WAYBACK 80 è la risposta K2 al trend light touring: solo 967 grammi nella misura 163 cm. Sciancratura 113- 80-100 mm, raggio 18 m, è disponibile nelle misure 163, 170 e 177 cm. Prezzo: 749,95 euro.
WAYBACK 88 è un modello ski touring moderno e pesa 1.212 gr nella misura 167 cm. Sciancratura 121-88-109 mm, raggio 18 m, è disponibile lungo 160, 167, 174 e 181 cm. Prezzo: 584,95 euro.
WAYBACK 96 è l’alternativa ski touring più larga. Pesa 1.325 gr nella misura 170 cm e ha sciancratura di 128- 96-115 mm. Disponibile in lunghezza 170, 177 e 184 cm. Prezzo: 639,95 euro.
WAYBACK 106 è un puro freeride touring: raggio 22 m e peso 1.550 gr nella misura 179 cm. La sciancratura è 136-106-124 mm e le lunghezze disponibili 172, 179 e 186 cm. Prezzo: 694,95 euro.

Kilian, ecco come si superano 24.000 metri di dislivello in 24 ore
C’è qualcosa di fuori dall’ordinario, come sempre nelle imprese di Kilian Jornet, anche nell’ultima, vale a dire i 23.486 metri di dislivello superato in 24 ore con gli sci ai piedi nei giorni scorsi, nella località sciistica di Tusten, in Norvegia. È naturalmente straordinario quello che ha fatto, ma questo è scontato. L’impresa non era annunciata e sembra che anche nell’entourage Salomon il progetto fosse conosciuto solo a pochi livelli. Quello che ogni volta riesce a sorprenderti è che a poche ore dal record siamo bombardati da una miriade di dati e curiosità. Tanto spirito libero, geniale e creativo, sui monti, tanto meticoloso nel registrare tutto, ma soprattutto nel comunicarlo. È anche per questo che è uno dei pochi personaggi della scena outdoor ad avere un ufficio stampa personale e oltre 800.000 follower su Facebook e poco meno su Instagram. Ma la straordinarietà sta nell’ordinarietà di quello che scrive… Un preciso diario di 24 ore da paura, dalla partenza da casa al riposo del fine settimana, con il puntiglio del dettaglio e della curiosità e anche tanta semplicità, oserei direi umiltà, una dote rara ai nostri tempi. Kilian per primo, e subito, chiarisce che il suo non ha la pretesa di essere un record perché non esiste uno standard uniforme nelle imprese (simili) di chi l’ha preceduto: cambiano quota, percorsi, pendenze. Insomma, un po’ tutto. Vale però la pena di ricordare che solo qualche mese fa Lars Erik Skjervheim si era fermato a 20.993 metri… E allora vediamoli questi numeri.

PERCORSO - Partenza a quota 116 metri, pendenze prima del 12%, poi del 26,22%, poi, dopo i primi 316 metri di dislivello, si andava fuoripista con pendenze anche del 30% e tratti corti in piano. Arrivo a 673 metri. All’inizio c’era (poca) neve fresca, quindi ha dovuto ance batter traccia. In totale due giri, uno lungo da 4,4 km e 550 m di dislivello e uno da 3,6 e 428 metri. 23.486 metri e 200,4 km percorsi, dati leggermente corretti rispetto a quello di Strava utilizzando topografia dettagliata.
RITMO - Nelle prime 6 ore Kilian ha dovuto badare soprattutto a conservare le forze e non andare troppo veloce, una media di 1.100 m/h, calcolando anche i tempi di discesa e i cambi pelle. Di notte, dopo sette ore, ha scelto l’anello corto. Da 8.000 a 13.000 metri il ritmo passa a 1.000 m/h, da 13.000 a 16.000 scende a 900 e il sonno si fa sentire, in due giri, quando il timer segna 16 ore, arriva a 820 e 802 metri. Si ferma 10 minuti, sale a 900 metri e poi scende a 828, si ferma ancora, 12 minuti. Le ultime 4 ore sono al ritmo di 950 metri e alla fine la media sarà 978,6 m/h, con un massimo di 1.222 e minimo di 802. Tolta la discesa e i cambi pelle, la media è di 1.065 m/h. Vale a dire il 64,1% della Vo2 max e dei suoi più veloci 1.000 metri, 36 minuti. Uno standard simile ad altre imprese 24 ore (58,5% nel record della mezza maratona e 68% in quello ciclistico).
CALORIE - Obiettivo di 250 ora, dati finali 5.500-6.000. Cosa ha mangiato? Gel e jellies, però anche tanta pizza, un po’ di pasta, un caffè, una cioccolata…
MOTIVAZIONE - Si è rivelata fondamentale, soprattutto la notte, la compagnia. Poi tanti piccoli obiettivi a corto e massimo medio termine: ‘arrivare alla fine del tratto più ripido’, ‘mi mancano due giuri per raggiungere i 20.000 metri’. La massima visualizzazione è stata relativa alle sei ore successive, non di più.
RIPOSO - Doccia, qualche snack, poi una cena con riso, verdura, insalata, pane e formaggio, nove ore di sonno, il giorno dopo 30 minuti di bici… Da lunedì la solita routine. Muscoli stanchi, ma niente di più, qualche fastidio ai piedi, passato velocemente.
MATERIALI - Sci Salomon Minim con attacchi e scarponi Gignoux. Ne aveva più paia, ma non ha mai fatto cambio. Pelli Pomoca Race Pro / Grip.
E poi? E poi la velocità massima in discesa è stata di 115 km, per 9 ore c’è stata luce e per 15 buio, 20h,02’41’’ in salita e 3h22’44’’ in discesa. Dimenticavamo, il suo GOS Suunto era in modalità ‘best’ e alla fine aveva ancora il 10% di carica.

On-line il calendario delle gare outdoor running 2019
Ecco il nostro calendario dell’outdoor running per il 2019 da oggi on-line sul sito di Skialper. Lo trovate nella colonna di destra oppure cliccando sul menu a tendina sotto la testata (oltre che sul link all'inizio di testo articolo). Abbiamo inserito i circuiti internazionali, quelli italiani, tante prove dalle Valle d’Aosta alla Sicilia. Ovviamente è un cantiere aperto: delle oltre 500 manifestazioni che avevano messo in calendario nel 2018, ne mancano ancora quasi 200. Di molte, anche di ‘peso’ (come Limone Extreme, K3 o Matterhorn Cervino X Trail, solo per citarne alcune) non abbiamo trovato ancora la data ufficiale del 2019, di altre dobbiamo controllare tutti i dati. Nelle prossime settimane cercheremo di completarlo e come sempre abbiamo bisogno anche di voi, organizzatori, atleti o appassionati: segnalateci errori, imprecisioni, gare da aggiungere. Come fare lo sapete, nel caso la mail è luca.giaccone@mulatero.it
Non sono un eroe, è stato un bel gioco
Mi chiamo Zen, anche se il mio nome è Jeet Kune Do della Maschera di Ferro. Sì, ho il pedigree, sono un pastore belga Malinois nato tre anni fa a Bricherasio, in provincia di Torino. Quando avevo sessanta giorni mi sono trasferito con il mio padrone Seba a Pontechianale in alta Valle Varaita, nel Cuneese; quassù di neve ce n’è sempre tanta. E a me piace giocare nella neve. Seba mi ha insegnato un gioco nuovo, cercare le persone sotto la neve. E se le trovo, mi dà un manicotto per giocare, una cosa che mi diverte tantissimo. A qualche mio amico danno una pallina o un wurstel, io preferisco il manicotto. Certo, non è stato facile trovare le persone: c’è voluto tempo e tanta pazienza, ma alla fine ce l’ho fatta. Io sono un po’ miope, come tutti i cani, ma in compenso il mio fiuto funziona eccome. Prima mi hanno fatto le radiografie per vedere se le mie zampette erano in ordine, poi ho dovuto fare due esami insieme a Seba per vedere se ero capace, e li abbiamo superati entrambi: posso andare a cercare le persone sia d’estate che in inverno.
Tecnicamente, dicono quelli del CNSAS, sono bivalente, ovvero abilitato alla ricerca in valanga e in superficie. Quasi sempre quando arriva la chiamata partiamo con l’elicottero. Quando ero piccolo Seba mi portava vicino a quel bestione di ferro, vedevo girare le pale, sentivo il rumore del motore e così non ho avuto paura quando sono salito sopra con lui la prima volta. Sono sempre insieme a Seba. Andiamo a correre, ma sulla neve è meglio in salita. Una volta in discesa andavo troppo forte e mi sono fatto male: così mi ha portato dal veterinario che mi ha fatto una cosa che si chiama tecarterapia e mi è passato il dolore. Ma dal veterinario ci vado spesso: mi dice cosa e quanto devo mangiare per stare in forma, ogni anno mi fa una visita completa come fossi un atleta.

Diventando grande è stato più facile scavare nella neve. Seba e i suoi amici mi fanno sempre degli scherzetti per mettermi in difficoltà. Scavano delle tane dove si nascondono e spesso le creano con il gatto delle nevi per non darmi indicazioni con i loro odori. Cercano di farmi sbagliare, lasciando loro tracce un po’ ovunque,mettono altre persone intorno per confondermi, ma quando Seba mi grida cerca! io parto diretto sull’obiettivo, annuso e scavo. Abbaio per chiamare Seba. Siamo una bella squadra insieme. Lui sugli sci è forte, faceva l’allenatore, anche di una ragazza che adesso è andata alle Olimpiadi, continua a insegnare sci, va in neve fresca e scala. Ed è volontario nel Soccorso Alpino.
Martedì 6 marzo ero di turno con Seba alla base dell’elisoccorso: è scattato un allarme, c’era una persona sotto una valanga. Mi ha messo l’imbrago e la pettorina con dentro una piastrina che si chiama Recco, e siamo partiti con un medico e un infermiere. Mi ha detto cerca! E sono volato a razzo in un punto preciso, ho scavato nel posto giusto, Seba mi ha dato una mano a estrarlo dalla neve. Abbiamo avuto la fortuna di trovarlo vivo. Dicono che erano tanti anni che un cane non salvava una persona sotto una valanga. Mi sono divertito: è stato un bel gioco, non sono mica un eroe. Quella volta Seba non mi ha dato il manicotto, ma era felice, si vedeva nei suoi occhi. L’ho capito ed ero felice anche io. Quella è la sua vita, il suo stile di vita con me.

La storia di Zen che avete letto è quella di un cane che ha recuperato davvero una persona sotto una valanga. E Seba è Sebastiano Faraudo, il suo conduttore che fa parte del gruppo delle unità cinofile da valanga del Soccorso Alpino e Speleologico del Piemonte, della quattordicesima delegazione, la Monviso. Martedì 6 marzo Zen e Sebastiano erano di turno alla base elisoccorso dell’aeroporto di Levaldigi, in provincia di Cuneo, dove, durante il periodo invernale, oltre a medico, infermiere, pilota, tecnico verricellista e tecnico di soccorso alpino, c’è sempre un’unità cinofila, pronta ad intervenire in caso di valanga. Scattato l’allarme, la centrale operativa di Torino ha disposto l’invio in quota dell’elisoccorso. Seba e Zen hanno raggiungere il monte Viridio, nella zona di Castelmagno in Valle Grana. Zen con il fiuto, Seba con l’utilizzo dell’Artva, hanno ritrovato vivo uno scialpinista che era rimasto sotto la valanga per oltre tre ore. Un lavoro prezioso quello delle unità cinofile, fatto di sacrifici e costanti esercitazioni. Fatto da persone che amano il loro animale. Abbiamo colto quest'occasione per mettere in luce l'importanza del lavoro dei cani e dei loro conduttori, a volte un po' trascurato, ma fondamentale per la sicurezza di chi frequenta la montagna.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 117, uscito ad aprile 2018. Se non vuoi perderti nessuna delle storie di Skialper e riceverlo direttamente a casa tua puoi abbonarti qui.

Niente Cina per l’Italia
Niente Cina per l’Italia: la nazionale azzurra non sarà al via della tappa di Coppa del Mondo a Jilin, dove sono previste tre gare (individual, sprint e vertical), dal 20 al 22 febbraio. Una trasferta lunga e costosa: così la Fisi ha deciso di puntare sui Mondiali e sulle altre tappe sulle Alpi. Una scelta già fatta anche dalla Svizzera: una decisione, però, tecnica e non di budget, per presentarsi al meglio nei Mondiali di casa. In casa Francia ancora qualche dubbio, anche se non ci sono ancora comunicazioni ufficiali: di sicuro Sevennec ed Equy difficilmente partiranno per la Cina visto che sono iscritti alla Trancavallo (che si conclude domenica a Tambre, mentre le prima gara di Coppa in Cina è già mercoledì).
Ad una settimana dalla gare al momento sul sito della ISMF risultano iscritti Anton Palzer, Marc Pinsach Rubirola, Nahia Quincoces Altuna ed la junior russa Ekaterina Osichkina.
La traversata dell'amicizia
Quando una traversata con gli sci si trasforma in un viaggio nella storia e nella memoria. Un modo per ricordare quel papà mai conosciuto, la cui impresa ha saputo scavalcare le barriere del tempo e arrivare fino ad oggi. A tentare la traversata completa delle Orobie di Angelo Gherardi non è stato infatti solamente il figlio Alessandro (di Zogno), accompagnato dall’amico Simone Moro, ma anche un’altra cordata bergamasca e addirittura, qualche anno fa, uno scialpinista francese. Da Ornica fino a Carona in Valtellina, su e giù per i giganti delle Orobie, macinando una media di 2.500-3.000 metri di dislivello e su distanze che si aggirano attorno ai 30 chilometri quotidiani. E se i primi, la cordata dell’amicizia formata da Moro e da Gherardi (così hanno voluto definirsi dal momento che l’impresa è conosciuta con il nome di traversata dell’amicizia) devono ancora portare a termine l’ultima tappa, la seconda cordata ci è invece riuscita, pur con qualche difficoltà. Si tratta della coppia di bergamaschi Maurizio Panseri e Marco Cardullo, partiti il 21 aprile addirittura dalla riva del lago di Como (dall’imbarcadero di Varenna, per la precisione). Hanno così allungato il tracciato dell’originale traversata compiuta da papà Gherardi nel 1971 e poi nel 1974 arrivando fino a Carona in Valtellina e nelle loro intenzioni future c’è quella di arrivare fino a Corteno Golgi, in Valle Camonica.
Ma andiamo con ordine perché i fatti sono tanti e si intrecciano in una storia che fonde in un’unica, affascinante narrazione le gesta sportive dell’alpinista con quelle dell’uomo tenero di cuore, il desiderio di avventura con quello di ricordare e condividere, il vecchio con il nuovo e infine il passato con il presente. Il tutto parte da un post scritto da Simone Moro sulla sua pagina Facebook in data 30 marzo. «Non cercavamo record, non c’era nulla di nuovo, nessuna volontà di stabilire una salita record né di strabiliare nessuno. Volevamo solo regalarci un viaggio scialpinistico forse poco ordinario tra le montagne di casa, le Alpi Orobie. Abbiamo così deciso di ripercorrere a modo nostro la traccia e l’idea di Angelo Gherardi, papà di Alessandro detto Geko, che nel 1971 realizzò la prima traversata scialpinistica delle Orobie. E proprio Alessandro è stato il compagno di quattro giorni di silenzioso e selvaggio viaggio con sci da alpinismo e zaino in spalla da Ornica al Rifugio Mambretti».
Le montagne belle e selvagge si possono trovare anche a due passi da casa, come è solito ricordare Hervè Barmasse, senza bisogno di volare all’altro capo del mondo. Certo, viene da pensare, facile parlare di montagne belle quando di casa stai sotto al Cervino… Ma è altrettanto vero che l’amante della montagna, il vero esploratore, non si ferma alle apparenze ma va oltre, dove magari non arrivano strade e neppure impianti di risalita, dove soprattutto nella stagione invernale la natura riserva spettacoli inimmaginabili. E Angelo Gherardi, papà adottivo di Alessandro, primo istruttore di scialpinismo del CAI di Bergamo venuto a mancare quando egli era ancora piccolissimo proprio sulle montagne di casa, lo aveva capito bene. Nel 1971 aveva compiuto, insieme ad alcuni amici, tra cui Franco Maestrini, la traversata dell’arco orobico da Ornica alla Valle Belviso e, nel 1974, quella partendo dalla Val Biandino (Valsassina) e arrivando a Carona, in Valtellina. Insieme, quella seconda volta, al francese Jean Paul Zuanon, già capo spedizione in imprese alpinistiche sulle Ande oppure in Pamir e conosciuto dal bergamasco in occasione di un rally in Adamello. Una traversata - riportano fonti autorevoli della stampa locale - compiuta nella più assoluta solitudine ma che ebbe risonanza notevole nell’ambiente bergamasco. Però, oltre che un valido alpinista, Angelo (a cui è intitolato il rifugio Gherardi ai Piani dell’Alben) era anche un uomo di cuore. Tra il 1971 e il 1974 adotta un bambino e una bambina. Il maschio è, appunto, Alessandro. Papà Angelo muore in un incidente alpinistico sul Corno Stella quando Alessandro ha solamente un anno o poco più e il bambino cresce nel mito di questo padre tanto buono nel carattere quanto bravo a livello alpinistico. Dopo la morte di Angelo pare che solamente Maestriniabbia rifatto la traversata, forse proprio in ricordo dell’amico.Gli anni trascorrono e i figli di Angelo crescono. Alessandro oggi è unvalido arrampicatore, canoista e scialpinista.

Da anni era stimolatodall’idea di ripetere la traversata del padre. Detto, fatto. E con un partnerd’eccezione.«Avevo solo quattro giorni consecutivi di tempo libero da poter dedicarea questo viaggio sulle nevi e tra le vette di casa, perché la recente spedizione che ho compiuto in Siberia ha generato tante attività e appuntamenti che mi hanno riempito le settimane e i prossimi mesi di incontri, ma non volevo mancare alla personale volontà di partire e alla promessa che avevo fatto all’amico Alessandro di essergli a fianco. Così invece di perdere tempo e anni a dire prima o poi lo facciamo oppure piacerebbe anche a me però, che sono le frasi che per anni hanno ripetuto a Geko, ho invece preso la decisone, preparato il materiale e mi sono presentato puntuale a casa di Alessandro, a Zogno, alle 7 in punto del 25 marzo per dirigerci a Ornica» riporta Moro. Nella prima occasione, con zaini e materiale pesante e senza alcun supporto logistico (le fonti storiche parlano di 20/25 chili di materiale a testa) Angelo Gherardi aveva impiegato nove giorni, mentre nel 1974, insieme al francese, i giorni si erano già ridotti. Simone e Alessandro, che però si sono fermati al Mambretti, sono stati sulla neve per quattro giornate.«Abbiamo voluto fare tappe doppie rispetto a quelle di papà Angelo solo perché materiali, preparazione e il mio tempo limitato lo permettevanoe imponevano. Dai 2.500 ai 3.000 metri di dislivello al giorno, almeno quattro o cinque salite e cambi pelle per ogni tappa e tanta serenità nel cuore. Siamo rimasti stupiti dalla bellezza e della gioia che abbiamo respirato lungo tutto il percorso. Non sono mancati gli incontri con altri scialpinisti in alcuni punti della traversata, abbiamo pernottato al Rifugio San Marco, all’hotel K2 a Foppolo, alla baita di Cigola e bevuto il caffè al Mambretti come chiusura della nostra personale traccia. Ci riproponiamo di terminare il viaggio con l’ultima tappa che ci porterà a Carona di Valtellina il prossimo anno, visto che il meteo non è più stato favorevole. Per narrare questa nostra esperienza ho chiesto a turno ad alcuni amici fotografi di venire lungo il percorso a scattare qualche immagine per meglio esaltare la bellezza delle opportunità verticali ed escursionistiche del nostro territorio».
Una bella storia con lieto fine, ma non è tutto qui. Il 21 aprile e nei giorni seguenti l’itinerario è stato ripercorso da Maurizio Panseri e Marco Cardullo, con il sostegno dell’amico Alberto Valtellina per quanto riguarda la logistica e non senza qualche, piccolo, inconveniente. Panseri, alpinista conosciuto e affermato in bergamasca, conosceva anche quel famoso Maestrini che era stato, nel 1971, insieme a Gherardi durante la traversata e che l’aveva ripetuta anche dopo la morte dello stesso. «Era da tempo che pensavo di ripetere la traversata, partendo però dal lago, sopra Lecco, e arrivando a Corteno Golgi in Valcamonica. Nella parte di traversata fatta dal Gherardi ci siamo mantenuti il più possibile fedeli al percorso originale». Immaginiamoceli a Varenna, zona imbarcadero, con tanto di scarponi e sci in spalla. E poi immaginiamoceli sul Grignone, lo stesso giorno, per scendere e dormire in Valsassina, nei pressi di Pasturo. «Il secondo giorno siamo andati da Pasturo a Introbio, per risalire la Val Biandino e il Pizzo Tre Signori. Scesi fino al lago di Trona, siamo poi risaliti al Benigni, dove abbiamo trascorso la notte nel locale invernale. Il terzo è successo quello che a uno scialpinista non dovrebbe mai accadere: rompere gli sci! Mi è venuto in soccorso l’amico Alberto, che ha provveduto al cambio sci ai Piani dell’Avaro, dove abbiamo dormito. Il giorno dopo siamo ripartiti alla volta di Foppolo. La quinta tappa ci ha visti in Val Cervia, per arrivare a dormire a fine giornata con i nostri sacchi a pelo presso le baite di Scais. Siamo saliti al Mambretti durante la sesta tappa, affacciandoci verso la vedretta di Porola nella speranza di aver ben compreso le indicazioni del buon Maestrini (morto nel luglio del 2017, ndr). Dal Colletto Nord di Porola, che si trova a 80 metri dalla vetta del Porola, ci siamo ritrovati a guardare giù, verso il canale che scende alla vedretta del Lupo, a Nord del Passo di Coca. Un’emozione grande, soprattutto perché eravamo i primi a continuare la traversata e perché ci trovavamo, in quel momento, nel punto più alto della stessa». È la sera del 26 aprile e, dato il meteo non favorevole (le temperature sono troppo alte), i due decidono di arrivare al rifugio Coca e di scendere a Valbondione. Ripartiranno solamente la sera del 31 aprile, complice un improvviso abbassamento delle temperature. Si riportano all’altezza del rifugio Coca (dove si erano fermati) per poi ripartire, dopo qualche ora di sonno, prima dell’alba del primo maggio e, passando per la Bocchetta dei Camosci, scendere la Valmorta fino al rifugio Curò, risalire al Passo Caronella e, finalmente, perdere quota per arrivare a Carona, in Valtellina. La soddisfazione per l’impresa la si evince chiaramente dalle parole di Panseri.
«Lo sci di traversata è l'essenza dello scialpinismo perché abbina alla parte tecnica una componente esplorativa e avventurosa che rende l'esperienza completa e decisamente interessante. La logistica, come in una micro-spedizione, ha poi il suo peso in tutti i sensi. Più il luogo è selvaggio, più si deve essere autonomi e sempre più aumenta il peso dello zaino: sacco a pelo, fornello, cibo… e tutto si riduce all'essenziale. Se vi ingaggerete nella
traversata delle Orobie con gli sci non troverete altro che l'essenziale per vivere una grande avventura immersi nella bellezza». Nota di colore, o colpo di scena, rivelato dallo stesso Panseri: vi ricordate il francese, Jean Paul Zuanon, protagonista della traversata integrale del ’74 insieme a Gherardi? Tornò a casa e scrisse il suo personale racconto sull’annuario del CAF (Club Alpino Francese). Nel 2011 François Renard, ingegnere con la passione per lo scialpinismo, decide di realizzare la traversata in senso contrario e descrivere in un libro quella che (secondo il suo personale parere) figura tra le 15 più belle traversate con gli sci a livello mondiale. Nel suo volume Skitinerrances 1, pubblicato nel 2013, racconta di Cile, Nuova Zelanda, Norvegia e Alpi. Nella pubblicazione la parte del leone la fanno, naturalmente, le Alpi e poi troviamo, oltre agli Appennini, pure le Prealpes Bergamasques, con la traversata realizzata sulle tracce di quella effettuata da Gherardi e da Zuanon nel 1974.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 118, uscito a giugno 2018. Se non vuoi perderti nessuna delle storie di Skialper e riceverlo direttamente a casa tua puoi abbonarti qui.

La Feuerstein Skiraid si recupera domenica 17 febbraio
La terza edizione del Feuerstein Skiraid in Val di Fleres, organizzata sezione skialp del Gossensass, doveva andare in scena il 3 febbraio. Le forti nevicate, però, hanno mandato all'aria i piani degli organizzatori, costringendoli a rinviare la gara all'ultimo momento, sia per ragioni logistiche che per motivi di sicurezza. Ora è stata fissata una nuova data: si svolgerà domenica 17 febbraio, come gara FISI e campionato provinciale, ma non più come prova di Coppa Italia. «Abbiamo atteso la risposta alla nostra richiesta di recuperare la gara come Coppa Italia - spiega la direttrice del comitato organizzatore, Stefanie De Simone - per una settimana. Poi, la commissione nazionale ci ha dato una risposta inaspettatamente negativa, motivata con un accordo preso nel settembre dello scorso anno, in base a cui le richieste di modifica non vengono accettate neppure se derivanti da forza maggiore per evitare accavallamenti con le competizioni già in programma inserite nel calendario. Incomprensibile in un inverno in cui, finora, causa mancanza di neve non si è svolta praticamente nessuna gara in tutta Italia e difficile da capire per tutti coloro che organizzano competizioni di scialpinismo e che, conoscendo l'ambiente, sanno che l'unica sovrapposizione in questa data differisce molto da una gara individuale di un giorno: nonostante questo abbiamo deciso di non privare gli scialpinisti e, soprattutto, le nuove leve di una gara in un ambiente mozzafiato, con condizioni di neve semplicemente favolose». Le iscrizioni rimangono aperte fino a sabato 16 febbraio alle ore 17. Dopo questo termine, non sarà più possibile registrarsi. Gli atleti tesserati FISI possono iscriversi esclusivamente tramite il portale www.online.fisi.org. Gli atleti stranieri di federazioni equivalenti possono registrarsi sul sito feuersteinskiraid.com, tramite il modulo di iscrizione online. Nel giorno della gara, nell'area di partenza al centro del fondo Erl si ritroveranno oltre 100 atleti e anche il tempo questa volta pare sarà clemente. Nonostante il rinvio, quindi, anche la terza edizione della gara di scialpinismo di Fleres promette di diventare uno spettacolo avvincente.
Kilian polverizza il record di dislivello con gli sci in 24 ore
Ben tre record di dislivello in 24 ore con gli sci ai piedi e le pelli si sono succeduti nel corso del 2018. Dopo quello di Mike Foote (18.654 m( e Lars Erik Skjervheim (20.939), in questi giorni è arrivato quello di Kilian Jornet. E, come tutte le imprese del catalano, i numeri sono impressionanti: 23.486 metri, fatti registrare nella località norvegese di Tusten. In pratica è come salire cinque volte sul Monte Bianco partendo dal livello del mare… La media di salita è stata di 979 m/ora e, secondo quanto riportato da carreraspormontana.com, uno sciatore presente al record ha registrato la velocità di 115,6 km in discesa. «Non è la mia idea di giorno di divertimento» ha dichiarato Kilian che però ha ammesso di avere trovato anche qualche bella discesa nella polvere.
TLT8 e Hoji Free tra le novità Dynafit per il 2020
La fiera Ispo di Monaco di Baviera è l’occasione per togliere il velo sulle principali novità della stagione invernale 2019/20 e anche Dynafit ha annunciato diversi highlight.
TLT 8 - Il nuovo TLT8 Expedition, con i suoi 1020 grammi, è un autentico peso piuma fra gli scarponi da scialpinismo a due fibbie. Per aumentare la velocità in ascesa, senza dimenticare comfort e sicurezza, i designer si sono concentrati sul nuovo sistema di chiusura Ultra Lock 4.0, semplice e intuitivo, che permette di risparmiare tempo nel passaggio dalla modalità salita a discesa. La fibbia superiore ha due funzioni: leva per il meccanismo ski-walk e sistema di apertura per il gambetto. È regolabile con estrema precisione, così come la fibbia inferiore, per adattare alla perfezione lo scarpone al piede dello sciatore. Il sistema è facile da utilizzare anche quando si indossano i guanti, affidabile e robusto, senza rinunciare alla leggerezza: velocità senza compromessi. La rotazione del gambetto di 60 gradi consente una camminata naturale e senza spreco di energie anche su terreni molto ripidi. La punta ridotta, chiamata Speed Nose, riduce il peso del 15% e, con il punto di rotazione spostato indietro di 4 mm, rende la rotazione più efficiente del 12%. In discesa lo scarpone si può regolare con un angolo di pendenza di 15 o 18 gradi, garanzia di una posizione più dinamica e di divertenti discese. Per una perfetta trasmissione delle energie anche la calzata del TLT8 Expedition è stata modificata, ora è più sportiva e aderente al piede, con una larghezza pianta di 103 mm e vestibilità atletica. Un’ulteriore caratteristica del TLT8 Expedition si palesa in presenza di quei passaggi che vanno affrontati con lo scarpone al di fuori dell‘attacco come attraversamenti sul ghiaccio o su terreni particolarmente ripidi: questo scarpone è infatti particolarmente efficiente utilizzato in abbinata con il rampone ultraleggero Cramp-In di Salewa. Con un peso di appena 260 grammi, è il rampone attualmente più leggero sul mercato. Mediante un particolare meccanismo di ganci e relativi inserti sulla suola, viene fissato direttamente allo scarpone, e aderisce in modo sicuro, preciso e affidabile, senza l’utilizzo di fastidiose fettucce e gabbie. ll TLT8 Expedition riproduce il celebre e sobrio design della famiglia TLT di Dynafit, evita chiusure ed elementi a vista che potrebbero generare spostamenti, incastri e impigli indesiderati durante il tour. Anche per le restanti caratteristiche tecniche Dynafit si affida all’esperienza riproducendo il rodato inserto Master Step, per un ingresso semplice e veloce nell’attacco. Lo scarpone si inserisce in quest’ultimo mediante un supporto per la salita più lungo che, quando si entra, si chiude a semicerchio intorno ai pin dell’attacco, rendendo l’ingresso ancora più veloce e facile, soprattutto in caso di condizioni di neve sfavorevoli e su terreni impervi. Quanto alla scarpetta interna si può scegliere fra due varianti: Custom Light (140 gr) e Custom Ready (270 gr). TLT8 Expedition è realizzato in Grilamid e lo scafo è rinforzato con fibre di vetro. Progettato in Italia, viene prodotto interamente in Europa. Disponibile in versione maschile (numeri 25 - 30,5) e femminile (23 - 27,5) a un prezzo consigliato di 600 euro.

HOJI FREE - Dopo Hoji Pro Tour arriva Hoji Free che, grazie alla specifica costruzione della punta e al tallone modificato, è compatibile anche con gli attacchi da sci alpino. L’elevata rigidezza, ottenuta attraverso l’utilizzo dell’innovativo materiale Grilamid con fibre di vetro e il flex progressivo di 130, conferisce all’Hoji Free tutte le caratteristiche necessarie per garantire una perfetta trasmissione dell’energia e performance eccellenti in discesa. Il piede è accolto alla perfezione all’interno dello scarpone grazie alla pianta di 102 mm di larghezza, le tre fibbie di microregolazione e l’Ultra Lock Strap. Nella modalità ski l’Hoji Free può essere bloccato con un angolo di inclinazione di 11 o 15 gradi, per ottenere così una posizione sugli sci comoda, ma al contempo atletica e controllata. Ma gli appassionati di freetouring potranno affrontare degnamente anche la salita: la lingua a V e la rotazione del gambetto di 55 gradi permettono la massima libertà di movimento, flessibilità e comfort, in modo da consentire una camminata naturale e senza spreco di energie anche su terreni molto ripidi. Grazie al peso contenuto di Hoji Free, solo 1.550 grammi, qualche metro di dislivello in più non sarà un problema, si potrà risparmiare sufficiente energia per godersi la meritata discesa. Un’ulteriore particolarità è la nuova scarpetta interna termoformabile Hoji Free Liner firmata Sidas, azienda specializzata in calze, plantari e boot fitting, che verrà utilizzata la prossima stagione in esclusiva per questo nuovo scarpone Dynafit. La scarpetta può essere adattata perfettamente alla forma individuale del piede, per raggiungere la più alta performance possibile, sia in salita che, in particolare, in discesa. Conquista per leggerezza e comfort, ma al contempo accoglie il piede in modo preciso, saldo e sicuro. Per consentire agli sciatori di attraversare anche rocce e fianchi ghiacciati, alla ricerca della discesa perfetta, l‘Hoji Free è stato equipaggiato con la nuova suola Pomoca Free Sole: grip e tenuta ottimale permetteranno un’efficiente camminata senza attacco, per una suola che risulta anche particolarmente stabile e durevole. Inoltre questo scarpone, grazie alla specifica costruzione della punta, è compatibile anche con ramponi semiautomatici. Infine l’Hoji Free, per entrare agevolmente nell’attacco Tech frameless anche su terreni impraticabili, è dotato di inserto Quick Step-In. Questo nuovo scarpone, come gli altri modelli della famiglia Hoji, è prodotto completamente in Italia. Taglie 25/29,5, prezzo consigliato 750 euro.

LOW TECH RACE 105 - Nella lotta contro il tempo il Low Tech Race 2.0, con il peso ridottissimo di appena 110 grammi, ha ridefinito, negli anni passati, gli standard di settore. Con il Low Tech Race 105 Dynafit alza l’asticella, riuscendo a battere sul peso il precedente modello di 5 grammi pur con una rigidità torsionale superiore del 20%. Il Low Tech Race 105 è un attacco performante e senza compromessi dedicato all’agonismo. Sul puntale gli ingegneri hanno concentrato tutto il loro know-how, limando e fresando fino a ottenere la perfezione. Per ridurre ulteriormente il peso, la composizione dei materiali è stata modificata, e anche la leva di bloccaggio dell’attacco è realizzata adesso in leggero alluminio forgiato 7075. Sono stati utilizzati anche titanio e plastiche ad alta resistenza. Come il modello precedente, anche il Low Tech Race 105 è disponibile in versione autolock e manulock. In conformità alle prescrizioni della ISMF l’attacco si sgancia sia in verticale che lateralmente, e può essere completamente bloccato. Il nuovo schema di foratura del puntale migliora inoltre la trasmissione delle energie, e consente di raggiungere la massima prestazione sullo spigolo dello sci. Per la talloniera, con alzatacco a stadio singolo, Dynafit punta su una costruzione simile al Low Tech 2.0, con la differenza che un’aggiunta piastrina di alluminio aumenta stabilità e robustezza. Anche per i pin ci si è affidati all’esperienza precedente: i pin rompighiaccio del puntale allontanano neve e ghiaccio in modo affidabile e rapido dall’inserto, facilitando l’ingresso, una delle questioni più critiche nel mondo agonistico. I pin in titanio della talloniera tengono gli scarponi saldi e sicuri all’interno dell’attacco. Il Low Tech Race 105 viene fissato con l’aiuto di viti Torx e sarà disponibile al prezzo consigliato di 500 euro.

In arrivo Skialper 122, un numero dedicato all’old school
«Old school non è vintage. Non è revival. Old school è old school, è vecchia scuola, alla moda vecchia, come si faceva una volta. Quando abbiamo buttato sul tavolo il tema di questo numero, la sfida era di focalizzarci su cosa è rimasto e che cosa no del modo di andare in montagna con gli sci di venti, trent’anni fa. Così i nostri reporter e fotografi hanno viaggiato tra corsi CAI e serpentine, tra discese a raspa e scialpinisti che erano già così prima e sono rimasti tali, tra sci lunghi e dritti e altri rockerati e sbananati». Sono le parole del direttore editoriale Davide Marta a introdurre l’argomento del numero 122 di febbraio-marzo di Skialper, disponibile dal 12 febbraio in edicola. Un numero molto particolare, anche nello stile grafico, volutamente con un flow retrò, a partire dalla copertina di Enrico Zenerino che illustra uno sciatore che si tuffa a tutta velocità su un pendio vergine con la raspa. E. si badi bene, non è una foto d’epoca…
SUCAI 1951- È la più antica scuola di scialpinismo europea, quella del SUCAI di Torino. Il nostro Federico Ravassard ha partecipato alla prima uscita, con 140 iscritti. Un reportage da dentro il corso CAI tra levatacce, incubo inversioni e vin brulè.

I PROTAGONISTI - Arno, Domenico, Fabrizio, Fedora, Stefano. Ma anche Ezio e Pier Luigi. Sette scialpinisti, sei uomini e una donna da una gita ogni fine settimana. Con attrezzi da 85 al centro, salame al posto dei gel, un curriculum di tutto rispetto anche quando i gradi salgono e tanta voglia di divertirsi. Perché questo è lo spirito dello scialpinismo delle origini.

OSCAR BELETTI - Prima viaggiatore, poi alpinista, infine scialpinista. Bresciano ma innamorato delle Orobie, ai monti bergamaschi ha dedicato un libro di 400 pagine che è al tempo stesso guida con 100 itinerari sulla neve e manuale esistenziale. Lo abbiamo intervistato all’antica: sulla neve delle… Orobie.

SERPENTINA FOREVER - Alberto Casaro, testatore della nostra Buyer’s Guide, non è nuovo a sfide impossibili. E allora ha rispolverato dei vecchi grissini da 207 centimetri per provare a fare serpentine davvero old school nella neve fresca. Non sono poche le sorprese a confrontare la sequenza fatta con i vecchi sci e quelli attuali!

YAK SUL MONTE ROSA - Classe 1967, Fabio Iacchini era sciatore estremo, freerider, skyrunner e alpinista fast&light quando ancora queste definizioni erano in incubazione. Lo ha intervistato Andrea Bormida, con le stupende foto realizzate nei dintorni del Monte Rosa da Paolo Sartori.

TÄSCHHORN - Diario della prima discesa conosciuta della diretta Nord-Ovest di uno dei 4.000 più isolati del Vallese.

LUNGA VITA ALLA RASPA - Enrico Marta, fondatore di Skialper, rievoca la storia della raspa nello scialpinismo, tra fatti, aneddoti e curiosità. Gabriele Ghisafi, già interprete dello skialp con la raspa, e Nadir Maguet si sono prestati come modelli per le foto di questo divertente servizio.

IL MEZZALAMA ATTRAVERSO L’ATTREZZATURA - Amedeo Macagno, i fratelli Stella, Chicco Pedrini e Matteo Eydallin sono i nostri modelli per un portfolio fotografico nel quale mostrano l’attrezzatura usata alla regina delle gare di skialp dagli anni Trenta a oggi.

ADAMELLO SKI RAID - Altri due modelli d’eccezione per scoprire tutti i segreti del prossimo Ski Raid, in programma il 7 aprile, e di quelli del passato: Davide e il padre Lodo Magnini.

VIVE LA FRANCE - La nazionale d’otralpe, tra conferme e giovani leve.
MATERIALI - Una sezione tutta nuova che raggruppa le prove attrezzatura e le notizie sulle anteprime dell’inverno 2019/20. La prova del nuovo Blizzard Zero G 95, della giacca Mythic di Vertical e dei ramponi Skimo Race e Skimo Nanotech di Camp, i nuovi Magico.2 e Mistico.2 di Ski Trab, lo scarpone Dalbello Lupo Air 130 e gli sci Völkl Mantra, il bastoncino Speed Twist by Amplatz, le novità Salomon, Atomic, Dynastar, La Sportiva, Scarpa, Movement, Salewa, Black Crows, Plum, Fritschi, K2, Atk Bindings, Hagan, Mammut, Vaude e tanto altro.
IL FUTURO DEL TELEMARK - Lo sci a talloni liberi è veramente morto come hanno scritto i nostri colleghi americani di Powder qualche tempo fa? L’opinione di Emilio Previtali.

PORTFOLIO - C’è chi scia ancora con il monoski, chi organizza raduni con sci e pelli da più di 30 anni che sono diventati dei veri e propri happening e chi come Bruno Compagnet sa divertirsi ancora come un bambino quando in Austria arriva una delle più grandi nevicate del secolo. Sono i click del nostro portfolio fotografico.












