Bargiel rinuncia all’Everest

«Siamo qui da tanto tempo e non ci sono stati progressi e la possibilità di fare acclimatamento oltre il campo base (…) però dobbiamo finire la nostra spedizione, è la decisione più ragionevole. A volte bisogna fare così, stimare il rischio e se è troppo alto dire ‘stop’». Con queste parole il polacco Andrzej Bargiel, dopo avere sciato l’anno scorso il K2, ha annunciato nelle scorse ore la fine, senza successo, dell’Everest Ski Challenge. Bargiel e compagni hanno passato tre settimane al campo base ma questa estate ci sono state tante precipitazioni alte e lo zero termico è alto, così la Icefall è in cattive condizioni, con tanti crepacci. Il problema più grande è un immenso seracco alto 50 metri e largo 30, 800 metri sopra la Icefall. Camminare lì sotto è pericoloso: «Non lo farò, non posso accettare questo rischio, può rompersi in ogni momento e questo ci fa desistere dai nostri tentativi» ha concluso Bargiel.


Glacier Haute Route Fast & light

Dan mi dice: «Se inizia a scivolare, salta in quel crepaccio». Il contrappeso potrebbe essere il modo migliore per impedirci di finire nella prossima crepa tra le nevi eterne, laggiù. Guardo giù in un buco senza fondo, blu e terrificante. Per un secondo, o forse anche due, immagino di bere un caffè, di avere un gatto sulle mie ginocchia e delle scarpe da running che mi aspettano sul tappetino della porta. Darei qualsiasi cosa per essere lì. Per essere in un altro luogo piuttosto che legato a due ragazzi su un ghiacciaio in scioglimento. Non ci sono crepacci nella cucina del mio appartamento, in un normale martedì mattina. Voglio venir fuori da questo ghiacciaio che fa saltare i nervi, ma l'unica via d'uscita è continuare a muoversi, prima che si sciolga. Avanzando attraverso il labirinto apparentemente infinito davanti a noi, affrontando il minor rischio, facendo marcia indietro. Schiaccio più forte i miei ramponi nel ghiaccio, pronta ad aggrapparmi alla piccozza o addirittura a saltare in quell'abisso mentre Pascal avanza di qualche centimetro, sondando il ponte innevato davanti a lui.

«Questo non è un bene» lo sento borbottare tra sé e sé mentre osserva attentamente i crepacci per ricostruire il percorso sull'ultimo tratto di ghiacciaio che si frappone tra noi e la nostra destinazione: Zermatt. Non è proprio il tipico percorso di un trail. Solo poche settimane prima, in un'altra escursione di corsa con Dan, avevamo dato uno sguardo al ghiacciaio di Arolla, mentre lui indicava una linea attraverso il ghiaccio, riportando alla memoria i ricordi di svariate settimane ed escursioni sulla famosa Haute Route da Chamonix a Zermatt. Dan, in preda all’eccitazione, aveva interrotto il suo stesso racconto con questa domanda: «E se la facessimo di corsa?».

Sapevo prima che finisse la frase che lo avremmo fatto. Tante avventure iniziano in questo modo: un perché non diventa un progetto accattivante e in breve ti trovi legato a due amici su un ghiacciaio nelle Alpi. Ma anziché la classica versione estiva dell’Haute Route, che può richiedere fino a due settimane di trekking, stiamo percorrendo la Glacier Haute Route, una linea più diretta che attraversa le Alpi francesi e svizzere. Si rimane più in alto, senza grandi saliscendi nelle valli, seguendo gran parte dell'itinerario sciistico della Haute Route. Più conosciuta come la High Level Route estiva, questa alta via di 90 chilometri può essere percorsa in sei giorni. Ci si muove spesso sui ghiacciai (dal 30 al 40 percento dell’itinerario), attraversando molti valichi in quota e dormendo nei rifugi di montagna. Come per la Haute Route sciistica, è necessario avere esperienza su come muoversi in ambiente alpinistico in quota e sui ghiacciai. A causa dei crepacci è un percorso impegnativo con il bel tempo, potenzialmente molto pericoloso con cattivo tempo. Un itinerario pieno di se…

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Come trail runner, voglio andare più in alto, affrontare un terreno più tecnico, persino sconfinare in spazi riservati agli alpinisti. Loro stessi sempre più spesso si muovono veloci e con scarpe imparentate con quelle da trail. La differenze in quota si assottigliano e siamo sempre di più a muoverci fast & light, anche se con diverse culture di partenza. I miei compagni di avventura hanno più esperienza in alta montagna e mi affido alle loro conoscenze per imparare la tecnica necessaria per un trail in alta quota come questo. Entrambi conoscono il percorso, hanno fatto escursioni in estate e sciato in inverno da queste parti. Pascal Egli è uno dei migliori skyrunner della Svizzera, scialpinista e dottorando in glaciologia. Dan Patitucci ha decenni di esperienza alpinistica e in falesia, scia e corre. Entrambi sanno come leggere il terreno, valutare i rischi e prendere decisioni sicure. Sono le persone giuste annodate alle due estremità della mia corda.

Agosto 2017. Stiamo sfruttando una finestra di bel tempo. Sappiamo che i ghiacciai saranno in cattive condizioni dopo un inverno secco e un'estate calda, ma se vogliamo fare questo tour, è il momento di andare. Lasciando Le Tour, in fondo alla valle di Chamonix, sento il peso del mio zaino mentre, con le lampade frontali in testa, iniziamo a percorrere i ripidi tornanti nel bosco verso il rifugio Albert Premier. Portiamo con solo ciò di cui abbiamo bisogno: vestiti caldi e attrezzature per la sicurezza sul ghiacciaio, ramponi, piccozza e un Petzl RAD (sistema di soccorso da crepaccio ultraleggero). Non è molto, ma è un peso maggiore di quello che ci si porta dietro quando si va a correre in giornata. Con queste premesse, il ritmo di partenza mi sembra veloce. Dan e Pascal corrono davanti a me. Inizio a credere che mi trascinerò dietro di loro tutto il tempo, ma almeno sui ghiacciai saremo legati insieme.

Poco dopo il rifugio, il sentiero scompare e ci leghiamo per risalire il Glacier du Tour. È la prima volta che cammino sul ghiacciaio. Nel bene o nel male siamo legati alla distanza di cinque metri l'uno dall'altro mentre scavalchiamo grandi buche sulla strada per il Col du Tour. Ben presto incontriamo la prima vera sfida che la ritirata dei ghiacciai ci pone: il colle che avevamo pianificato di scalare è completamente asciutto, disseminato di massi franati dall’alto. Siamo costretti a rivedere la rotta e salire su un altro colle, dove troviamo una corda fissa per calarci in doppia fino al Plateau du Trient. Non è troppo frequente quando si va a correre che capiti di doversi calare… Una volta liberati dalla corda e di nuovo sul ghiacciaio, alcuni sassi scivolano accanto a noi. Non perdiamo tempo e ci trasciniamo giù, allontanandoci rapidamente dalla frana E verso il mare di ghiaccio grigio diviso da crepacci neri belli aperti. Dan e Pascal riconoscono quanto è sceso il ghiacciaio. «Sono scioccato, l'altopiano è solitamente coperto di neve sufficiente per poterlo attraversare» dice Dan. Oggi dobbiamo zigzagare sulla superficie crepata.

Finalmente fuori dai ghiacciai, corriamo giù per un sentiero fino a Champex. Abbiamo programmato di raggiungere il rifugio Chanrion per trascorrere la nostra prima notte, ma le condizioni sono state peggiori del previsto e il tempo sta cambiando. Ci chiediamo se dovremmo continuare o meno. I crepacci sono già una sfida sufficiente e non è certo necessario aggiungere la pioggia e una scarsa visibilità. Ci sediamo nei pressi di Champex Lac, controlliamo le previsioni del tempo, chiamiamo amici e Guide che potrebbero avere informazioni sulle condizioni dei ghiacciai che ci attendono. Dicono tutti la stessa cosa. «I ghiacciai sono in cattive condizioni» e «Non è una bella situazione, ma alcune persone stanno andando». Stiamo per rinunciare, ma alla fine si decide che vale la pena DI dare un'occhiata. Quando raggiungiamo il rifugio Chanrion, dopo una facile corsa in salita, il custode non usa mezzi termini: «I ghiacciai sono una merda».

Il prossimo giorno sarà impegnativo: da Chanrion, passando per il ghiacciaio d'Otemma, il Glacier d’Arolla, l'Haut Glacier d'Arolla e infine una ripida salita fino alla Cabane de Bertol. Nell'ombra del mattino attraversiamo il ghiacciaio d’Otemma, prima che il sole sia abbastanza alto per raggiungerci. Ci fermiamo a visitare la stazione di monitoraggio che Pascal ha contribuito a installare. Questo enorme ghiacciaio, lungo quasi otto chilometri e con uno spessore massimo di 260 metri, si sta sciogliendo a una velocità allarmante di dieci centimetri al giorno, in estate. In media i ghiacciai nelle Alpi stanno perdendo quattro metri all'anno. Entro il 2050 la maggior parte dei piccoli nevai sparirà e i restanti ghiacciai saranno insignificanti. Entro il 2100 anche i più grandi come l'Aletsch, il più lungo delle Alpi, che raggiunge i 23 chilometri, non esisteranno quasi più, resteranno solo le parti alte. La ritirata delle nevi eterne comporta più rischi naturali, più frane. «Penso che deciderò di andare sui ghiacciai solo in inverno, stanno diventando pericolosi e brutti» dice senza usare mezzi termini Pascal. Prima di continuare la rampa di ghiaccio coperta di sabbia, ci fermiamo brevemente a guardare verso il fondo di un mulino con una tonalità blu mai vista e bellissima.

Ci muoviamo in modo efficiente sui ghiacciai, ma è correre sulle morene sassose e passare da un nevaio all’altro che porta via la maggior parte del tempo. Gli escursionisti ci guardano sorpresi, se non preoccupati, per i nostri piccoli zaini e per la mancanza di supporto alla caviglia mentre saltelliamo sui sentieri rocciosi. «Belle scarpe» dice una Guida dietro di noi con un certo tono di disapprovazione. Sorpassiamo il suo e altri gruppi prima di raggiungere il rifugio successivo. La nostra velocità non ci dà falsa fiducia o sicurezza, ma ci consente di allontanarci dal pericolo e di trascorrere meno tempo in condizioni pericolose. Siamo una squadra forte, in forma, con esperienza, poliedrica e cauta; noi ci conosciamo e ci fidiamo l'uno dell'altro. Non siamo un gruppo di estranei, legati dietro una singola Guida, un gruppo che dipende completamente da una sola persona, e siamo consapevoli della responsabilità di ognuno; conosciamo le nostre capacità e i nostri limiti e prendiamo decisioni ragionevoli per minimizzare i rischi.

Mentre discutiamo il nostro piano per l'ultimo giorno, da Bertol a Zermatt, delle comitive di escursionisti arrivano al rifugio e i pesanti scarponi da montagna riempiono gli scaffali attorno delle nostre scarpe da trail. Al mattino presto scendiamo le scale delle nostre cuccette e poi quelle che dal rifugio Bertol portano sul ghiacciaio. Iniziamo a correre tra la minaccia di un cielo nero e il terreno bianco, entrambi pieni di buchi. Le stelle illuminano le sagome delle montagne, le frontali degli alpinisti rischiarano la strada fino al Dent Blanche e un bagliore crescente riempie il cielo. Saliamo alla Tête Blanche percorrendo il ghiacciaio del Mont Miné giusto in tempo per vedere l'alba sul Cervino. È la prima volta che vedo questa cima così simbolica. Svetta dal ghiacciaio sottostante verso il cielo pallido, è una delle prime a essere raggiunta dai raggi del sole. Il panorama ci blocca per un momento, ma dobbiamo proseguire verso Zermatt. Fa già caldo mentre ci dirigiamo verso lo Stockjigletscher, l’ultima ghiacciaio che dobbiamo attraversare. «Potrebbe essere l’ultimo giorno per percorrere questo tratto» ci aveva ammonito al rifugio una Guida che arrivava dalla direzione opposta alla nostra la sera prima. E in effetti anche le sue orme si sono già cancellate nel disgelo. Ci muoviamo con molta attenzione, saltando oltre piccoli crepacci e procedendo a zigzag in questo grande puzzle che riempie i nostri pensieri di tanti se. Abbandoniamo il ghiacciaio con grande sollievo, ci togliamo i ramponi e le imbragature e arrotoliamo la corda. Gli ultimi 20 chilometri sulla morena rocciosa e lungo un sentiero bellissimo ci portano a Zermatt. Il calore e la polvere salgono dalla terra, una sensazione così diversa da quella che abbiamo provato muovendoci su ghiaccio e roccia. Acceleriamo come quando finisci una qualsiasi corsa, un qualsiasi gara, ma questa volta è diverso: un misto di sollievo, gratitudine e orgoglio riempie i nostri animi. Ci siamo mossi veloci in un ambiente naturale che definirei enorme, potente e terribile allo stesso tempo. È stata una vera avventura e mi rimane tra le labbra una domanda: «Dove altro potrebbero portarmi le scarpe da trail?».

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La Glacier Haute Route in versione trail

Dan, Kim e Pascal hanno percorso la Glacier Haute Route in quattro tappe giornaliere.

Partenza: Chamonix (Le Tour) 

Arrivo: Zermatt

Distanza: 88 km      

Dislivello positivo: 6.000 metri

Chamonix - Champex: 23 km / 2.127 m+ 2.156 m-

Mauvoisin - Chanrion: 13 km / 872 m+ 255 m-                                                      

Chanrion - Bertol: 26 km / 1.955 m+ 1.127 m-

Bertol - Zermatt : 26 km / 1.033 m+ 2.645 m-

Da Champex a Mauvoisin hanno preso un’auto, come fanno gli scialpinisti in inverno.

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Serpentina for a livin'

Quando penso alla serpentina, la prima immagine che mi viene in mente è quella della lavatrice nella pubblicità della Calfort degli anni '80, una serie sinuosa di curve strette unite da un elegante diagonale; la stessa diagonale che permetteva a sciatori leggendari come Doug Coombs, Dean Cummings o Jean-Marc Boivin di ricalibrare i movimenti tra una curva e l’altra durante una ripida discesa. La serpentina è sempre stata una curva chiave nella tecnica dello sci, a prescindere dal materiale usato dagli anni ‘70 a oggi. Certo, con l’evoluzione degli sci anch’essa ha subito una costante mutazione diventando sempre più condotta e scorrevole, adottando diverse sfumature in base appunto alla tipologia di sci usato e ovviamente ai tipi di neve e alla pendenza.

Prima della rivoluzione dei fat ski e dei carving, lo sci era tutta un’altra storia, le aste che andavano dai due metri fino ai due e dieci non permettevano fluide planate in neve profonda, e nemmeno una gestione slideata della curva verso la massima pendenza, per perdere quota in neve crostosa o difficile. I casi erano due: o si eseguiva una curva saltata (sci ripido e neve dura) o una serpentina. Questo tipo di curva permetteva il massimo della fluidità possibile per scendere un pendio controllando la velocità in nevi la cui profondità non consentiva agli sci senza sciancratura di curvare rapidamente e tornare sotto il baricentro dello sciatore semplicemente ruotando i piedi. Per dare un’idea io prenderei: Doug Coombs in Alaska, dove effettuava serpentine dalla lunghezza eterna; Jean-Marc Boivin in una qualsiasi discesa di ripido e il grande Steve McKinney, che faceva dei veri propri drittoni giù per le Palisades a Squaw Valley con ai piedi gli sci da chilometro lanciato! Per vedere curve lunghe più fluide avremmo dovuto aspettare gli anni ‘90, con Kent Kreitler e Shane McConckey, rivoluzionati poi dallo snowboard e dalla leggendaria discesa in tre curve di Jeremy Nobis.

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WE TEST ON HUMANS

Dopo avere pensato a tutti gli scenari passati è venuto il momento di tirare le somme; perché fare un articolo sulla serpentina nell’epoca dei drittoni e di film come La Liste, dove ognuno cerca la planata e la velocità più alta? Perché da sempre questa accomuna gli sciatori di ogni tipo. A seconda delle situazioni è la curva che viene eseguita sia dai freerider più veloci, sia dagli scialpinisti classici. Quindi che fare? Ci siamo armati di sci di 207 centimetri di lunghezza, oltre ai materiali soliti, e abbiamo sciato in condizioni variabili, cercando similitudini tra passato e presente e soprattutto di evidenziare le differenze nell’utilizzo di aste diverse. Tecnicamente lo sciatore ha a disposizione quattro movimenti fondamentali: alto-basso, inclinazione, antero-posteriore e rotazione. Questi movimenti si sono adattati nel tempo ai materiali, più sciancrati, più larghi e pre-deformati (rocker), riducendo via via l’alto basso, o meglio utilizzandolo come regolatore per ricercare il contatto col terreno; e rendendo le inclinazioni sempre più preponderanti ed accentuate, grazie al vincolo molto solido creato dai nuovi sci. Ma cosa accade quando sotto ai piedi mettiamo qualcosa di lungo, stretto e totalmente dritto, sci che solo dall’aspetto ti fanno capire che forse non è il caso di maledire gli snowboarder, ma che forse è meglio offrirgli da bere?

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ANCHE A MONTE, BUSTO A VALLE

Appena saliti in funivia mi accorgo degli sguardi della gente, il mio abbigliamento all’avanguardia dello stile e della tecnica stona totalmente rispetto agli sci che mi porto dietro: sono quasi mezzo metro più alti di tutto e continuo a sbatterli contro gli stipiti delle porte, ma il bello deve ancora venire… Calzo gli sci e l’effetto visivo è perfino più incredibile, sono la metà della pianta degli scarponi! Faccio le prime curve in pista, su neve dura coperta da dieci centimetri di polvere. Fino a qui tutto bene. Prime curve strette: accentuo leggermente i movimenti verticali e mi ricordo di non inclinarmi troppo, giro i piedi e gradualizzo il movimento, una meraviglia! Gli sci girano e sono veramente agili, tant’è che la mia arroganza mi spinge a prendere velocità per allungare le curve; inizio a inclinarmi e gli stecchini vanno per la tangente, quasi cado e metto la mano in terra, benissimo. Ritorno a curvare stretto e riprendo gradualmente ad aumentare la velocità, cerco la fluidità, anche a monte fino all’ultimo e con il busto bene verso valle. Eccola la serpentina! È veramente una soddisfazione e la sensazione non è niente male, sento la stabilità e chiudo bene le curve. Quindi qualche adattamento e in pista ci siamo, le curve lunghe le faremo un'altra volta, ora è il momento di uscire dal seminato… L’inverno per ora non ci ha dato granché, ma in alto qualche nevicata l’ha fatta e quindi usciamo fuoripista e vediamo com’è la situazione. Il manto è un mix di cartone, crosta e fondo inconsistente, insomma una meraviglia. Nelle prime curve è duro, azzardo due curve saltate su discreta pendenza e, a parte la lunghezza, gli sci sono solidissimi e mi danno sicurezza; due curve dopo la neve sfonda e fare girare le aste diventa un altro paio di maniche, devo quasi fermarmi tra una curva e l’altra per fare ritornare l’esterno sotto di me. I movimenti verticali diventano basilari per creare l’alleggerimento necessario a impostare la virata: niente slashate, niente scrub, qui il capitano va giù con la nave. Come primo giorno poteva anche andare, ma avevo bisogno di sciare ancora un po’ per trarre delle conclusioni, magari con condizioni più morbide e divertenti. Però nulla sarebbe cambiato in termini di neve nelle settimane successive, quindi sotto a chi tocca e via con la seconda parte dell’esperimento. Dopo avere scelto un bel pendio con fondo incerto, coperto da venti centimetri di neve nuova ventata, decidiamo per un approccio scientifico: prima una serie di curve con un 177 centimetri, 96 millimetri sotto il piede e poi con il famigerato 207. Non sapendo a cosa andare incontro parto cauto: curve profonde controllando la velocità per minimizzare i danni in caso di squali, cercando la leggerezza e la perdita di quota, dosando la pressione e la presa di spigolo. Questi sci li conosco bene, galleggiano e girano molto facilmente, non devo preoccuparmi di nulla se non rimanere centrale e inclinarmi il giusto. La neve non è male, portante il fondo, polveroso lo strato superiore; è il momento dei 207. Anche se so cosa mi aspetta in termini di neve, non mi fido e mi muovo con cautela: accentuo i movimenti verticali per impostare la curva e mi abbasso molto in piegamento per assorbire il carico che imprimo allo sci nella seconda parte. Fluidità e morbidezza, non ho un grande feeling, ma neppure pessimo, senza dubbio non sono a mio agio. Quando riguardiamo le sequenze l’effetto è sorprendente: due serpentine quasi uguali! Incredibile come sensazioni cosi contrastanti abbiano però prodotto lo stesso risultato.

TAKE HOME MESSAGE

Evidentemente quando non è possibile cavarsela mollando a tutta verso valle ed è quindi necessario controllare la velocità, la serpentina è davvero l’unica via. Gli sci nuovi ci fanno risparmiare molte energie rispetto agli sciatori del passato, ci fanno andare veloci: però quando è crosta o è ventata, quando non vediamo dove andare e sciamo sulle uova, o semplicemente quando vogliamo far durare più tempo la discesa dopo una salita dura, senza nemmeno accorgercene, sapete che curva faremo? Serpentina for a livin’!

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Brody Leven, globetrotter per l'ambiente

Seguo Brody Leven sui social ormai da qualche anno e la sua figura mi ha sempre incuriosito. Un po’ insta-blogger, un po’ (tanto) scialpinista d’avventura, specialista assoluto del ravanage e dei viaggi improbabili, tipo la spedizione pedal to peak alle isole Lofoten: in bicicletta, in inverno, trasportando tenda, sci e attrezzature con un piccolo rimorchio su strade tortuose e una meteo decisamente avversa. Brody condisce il tutto con un dialogo attivo tanto nel mondo virtuale quanto quello reale sulle tematiche ambientaliste perché, dopotutto, se vengono a mancare freddo e neve la vita degli sciatori si complica non poco. Scia, tanto, e comunica anche tanto, non esitando a raccontare - e raccontarsi - attraverso storie di Instagram, video e articoli sulla carta stampata. Lui si definisce adventure skier and storyteller ed effettivamente è quello che fa: al primo impatto potrebbe sembrare l’ennesimo wannabe influencer tutto chiacchiere e distintivo, ma seguendolo si capisce che sa quello che fa e in che direzione andare, soprattutto quando si tratta di andare a martellare al Congresso di Washington DC per promuovere la causa ambientalista. Insomma, a me quelli come Brody piacciono, perché sono fuori dagli schemi in senso positivo, e si impegnano davvero, a costo di giocarsi sponsorizzazioni o attirare commenti acidi degli hater sotto i propri post.

Ciao Brody. La tua figura di atleta professionista è fuori dalla norma: non sei un freeskier vero e proprio, e nemmeno un alpinista o uno storyteller nella loro accezione più pura. Sei un mix di tutte queste attività: come ti definiresti?

«La mia qualifica professionale è qualcosa che ho pensato io stesso. Credo di essere autorizzato a farlo, dal momento che ho creato la mia stessa professione. Adventure skier and storyteller: vado in giro, scio e racconto storie che spero possano aiutare i lettori, strappare un sorriso o dare la carica per una nuova sfida, perché credo che mettere alla prova le proprie capacità faccia del bene a noi stessi».

Ho letto che quando eri giovane lavoravi come DJ ed eri uno sciatore da park. Come sei diventato il Brody di oggi?

«Come molti americani, ho dovuto ripagarmi i prestiti universitari. Mi sono impegnato molto per sviluppare le mie capacità scialpinistiche durante l’università, mentre studiavo i fondamenti per avviare una mia attività commerciale, così ho deciso di combinare insieme le due cose. A differenza di altri miei colleghi, non sono stato su vere montagne fino ai diciott’anni. Ero letteralmente indietro di una vita rispetto agli altri sciatori e ho praticamente dovuto re-imparare a sciare fuori dai park, sui grandi pendii. Sapevo di voler lavorare per me stesso e viaggiare per il mondo, quindi era una carriera perfetta a cui puntare».

Sei conosciuto per i tuoi viaggi particolari e sei stato uno dei primi professionisti a organizzare un’avventura in stile pedal to peak: un ottimo modo per promuovere il turismo sostenibile, come è nata l’idea?

«Di sicuro non l’ho fatto per promuovere nulla, compresa la sostenibilità. È che mi piacciono tante cose oltre allo sci, come il viaggiare lentamente, il bike-packing, scalare e viaggiare per vedere il mondo; specialmente quando lo vedo a bassa velocità. A piedi si è troppo lenti, e in auto troppo veloci, quindi sui pedali hai l’andatura giusta. Andare in un posto come le Lofoten non può essere definito una spedizione, perché non si è così isolati e le montagne sono basse: è più giusto parlare di viaggio sciistico, ma quando si tratta solo di sciare è facile che mi annoi. Mi piace variare le attività, così la bicicletta è stato il modo per visitare una zona relativamente piccola in un paio di settimane e nel frattempo avere la possibilità di praticare scialpinismo come piace a me. Stare all’aria aperta tutto il giorno, tutti i giorni, è un ottimo modo per sentirsi integrati nella natura, e questo è un altro dei motivi per cui amo il bike-packing. Perché siamo parte della natura, ed è naturale stare là fuori».

Che problemi hai riscontrato in questo tipo di viaggi? Come gestisci il carico pesante? Che consigli daresti a chi si vuole cimentare in un’avventura come le tue?

«No, non ci sono stati problemi, anzi, è stato fantastico! Sì, ho dovuto trasportare materiali per dormire, cucinare e sciare sulla mia bici, che era davvero pesante, usando un normale rimorchio della Bob leggermente modificato. Chi volesse provarci deve solo uscire di casa e farlo! Si capisce facilmente e in poco tempo ciò di cui si ha bisogno e ciò che invece può rimanere in garage e come settare la bici. E poi, pedalando, hai un sacco di tempo per pensare alle migliorie».

Qual è stato finora il tuo viaggio più bello? E il peggiore? Ti ricordi qualche episodio particolare?

«Ovviamente è difficile sceglierne uno solo. Ma di sicuro uno dei mie preferiti è stato il viaggio stagionalmente confusonell’estate del 2013, attraverso la Patagonia con il mio amico e fotografo Adam Clark. Abbiamo affittato un van e, nel corso di un mese, abbiamo guidato da Santiago fino all’estremità meridionale del continente, scalando e sciando montagne che vedevamo direttamente dalla strada. Abbiamo caricato autostoppisti, sciato all’ombra del Fitz Roy ed è stata davvero l’avventura della vita. Mi mancano i viaggi di quel tipo».

Qual è il motivo per cui viaggi? Curiosità? Come scegli una destinazione?

«Uhm, questa è una bella domanda. Non so se si tratti di curiosità, almeno non nel senso tradizionale del termine. Sono curioso di sapere quali sono i miei limiti e cosa si provi a visitare e sciare in altri luoghi. Mi piace trovare un punto di equilibrio tra sicurezza, sfida fisica e impegno mentale, quest’ultimo probabilmente deriva anche dal fatto che sono lontano da casa. È quella che il mio amico alpinista Graham Zimmermann chiama esposizione relativa: è più facile sciare una linea ripida ed esposta sulle montagne di casa tua, dove conosci il manto nevoso, il terreno, i tuoi margini di sicurezza e come allertare i soccorsi. Viceversa, in giro per il mondo, dove non parlano la tua lingua, non hai la possibilità di essere soccorso, non sai com’è la neve, hai tempo e cibo in quantità limitate, è diverso. Mi piace inserire l’esposizione relativa come variabile nell’equazione per programmare un viaggio. Scelgo le destinazioni leggendo i report dell’American Alpine Journal, guardando immagini satellitari su Google Earth, blog su internet e voci che girano tra le mie conoscenze. Dal momento che molte delle mie discese vengono fatte in aree più conosciute per l’arrampicata, spesso cerco di informarmi su queste ultime, piuttosto che puntare direttamente a destinazioni prettamente scialpinistiche».

Dove hai trovato la neve più bella? E qual è stata la miglior destinazione per lo scialpinismo a tutto tondo, compresi l’ospitalità, le montagne, la gente?

«Quando programmi un viaggio con mesi di anticipo è difficile pensare di trovare bella neve, ed effettivamente è quello che succede. Di sicuro quella peggiore l’ho sciata sulla Cima Margherita, al confine tra Congo e Uganda. Più che neve, era un ghiacciaio scoperto. Sull’Orizaba, la terza più alta montagna del continente americano, in Messico, non c’era praticamente copertura nevosa in cima. Ho fatto delle curve decenti alle Svalbard, ma anche lì c’era neve bruttina! Uno dei miei posti preferiti invece è stato il Kazakhistan. È un Paese bellissimo, con gente ospitale e montagne enormi, difficili e remote. Vorrei tornarci».

Sui tuoi canali social parli molto di tematiche ambientali e del tuo lavoro con la community di POW (Protect Our Winters). Quando hai cominciato a essere un attivista? Qual è il tuo ruolo in POW?

«I miei parenti mi hanno cresciuto insegnandomi a prendermi cura della natura. Alle scuole elementari ho partecipato a un progetto sul riciclo della carta e, una volta entrato all’università, come rappresentante degli studenti, ho lavorato molto sulle iniziative ambientali. Quando sono diventato uno sciatore professionista ero coinvolto già da tempo in programmi di salvaguardia dell’ambiente e iniziative varie, quindi si può dire che l’attivismo sia sempre stato una parte rilevante della mia vita e del mio modo di vivere».

Rispetto all’Europa, gli atleti americani sembrano essere molto più coinvolti nelle azioni di responsabilità sociale ed ambientale, come ad esempio nel dibattito sulle public lands o sull’esclusione di Colin Kaepernick in NFL (giocatore di football americano messo fuori squadra perché ha protestato durante l’inno nazionale). Credi che gli sportivi professionisti abbiano il dovere morale di partecipare alla vita pubblica?

«Dal momento che ognuno di noi ha il proprio senso morale, non è giusto per me dire che si tratti di un dovere in generale. Ma è come se lo fosse».

Ogni tanto vai al Congresso, a Washington, puoi dirci di più su queste attività di lobbying?

«Vado a Washington DC solo quando ho uno specifico messaggio da comunicare e sento di poter concretamente influenzare le idee e le azioni di chi mi ascolta. Ci sono stato con l’American Alpine Club e POW e un paio di altre volte. Incontrare membri del Congresso o i loro staff può essere un’esperienza frustrante, specialmente quando si tratta di persone che rifiutano di accettare i fondamenti scientifici del surriscaldamento globale. Ma quando si raccontano storie che hanno a che fare con il salire e scendere montagne di tutto il mondo, o di medaglie olimpiche come quelle vinte da alcuni atleti di POW, sembra che siano più propensi a dedicarci la loro attenzione. Ci sono degli esempi di come potenzialmente abbiamo cambiato il loro modo di vedere le cose, ma le loro decisioni sono così influenzate dalle linee guida dei partiti che preferisco investire il mio tempo nel parlare direttamente con gli elettori piuttosto che con i politici».

I viaggi aerei sono uno dei problemi principali quando si tratta di gestire la propria impronta ecologica. Come fai a vivere una vita da atleta professionista con una filosofia di basso impatto ambientale? Hai dei suggerimenti?

«Oh, io incoraggio assolutamente la gente a viaggiare. Vedere il mondo è il miglior modo per rendersi consapevoli della sua salvaguardia. L’aumento dei valori della propria impronta ecologica è compensato dai cambiamenti nel modo di vivere e agire che vengono stimolati dall’esperienza del viaggio. Essere cittadini di una società alimentata a combustili fossili non significa sostenerli e non si può frenare il progresso in nome della perfezione: vivo e lavoro nello stesso mondo degli altri ed è necessario per tutti essere consapevoli del proprio impatto sull’ambiente. Il punto è che l’impronta dei singoli individui è minima se comparata alle emissioni di gas serra delle industrie. Possiamo essere ambientalisti attivi anche vivendo normalmente nella nostra società, perché ciò di cui si ha bisogno non è un passeggero in meno su un volo aereo, ma sistemi di trasporto puliti e più corporazioni devote alla causa green. Se diciamo alla gente che sono degli ipocriti e che bisogna assolutamente vivere a impatto zero per sostenere l’ambiente, non facciamo che perdere potenziali attivisti: questo sarebbe certamente il modo per essere sconfitti definitivamente.

Personalmente, vivo in una casa che produce grazie ai pannelli solari più energia di quanta ne consumi, non utilizza gas o combustibili fossili ed è costruita con materiali riciclati. Sono ossessionato dal minimalismo, che è un ottimo modo per ridurre la propria impronta ecologica. Sono vegetariano da sempre e tengo in considerazione l’origine del cibo che mangio; non ho mai mangiato carne, che foraggia un tipo di industria veramente dannosa per l’ambiente. Mi muovo in bicicletta e per i viaggi più lunghi ho una vecchia auto che condivido con la mia ragazza e che verrà sostituita da un mezzo elettrico quando sarà tempo di un upgrade. Ma tutte queste cose, credo, sono meno di una goccia nell’oceano: lo faccio perché ho fiducia che tutto ciò possa aiutare me e gli altri a cambiare il nostro modo di vedere le cose, non perchépenso di poter frenare i cambiamenti climatici».

Hai letto le recenti dichiarazioni del presidente della Federazione Internazionale Sci Gian Franco Kasper, che ha negato l’esistenza del surriscaldamento globale? Hai firmato la petizione di POW per chiedere le sue dimissioni?

«Sì, certamente. Ne sono venuto a conoscenza tramite la newsletter di POW ed è disgustoso sapere che una figura di questo tipo rappresenti un ente così importante per il nostro settore. Gli amici mi hanno detto per anni di quanto obsoleta fosse la FIS e credo che questo episodio non faccia che confermarlo. È un’organizzazione influente e dovrebbe assolutamente agire nell’interesse degli atleti e dei fan di tutto il mondo: negare i cambiamenti climatici in atto è in antitesi con tutto ciò e per questo POW, assieme a 10.000 altri firmatari (tra cui atleti, brand e addetti ai lavori) ha chiesto le sue dimissioni. Le sue opinioni non lo rendono assolutamente idoneo alla guida della federazione».

Sei mai stato in Italia?

«Sì, ci sono stato per la prima volta quest’estate, per sei ore! Assieme al mio amico Brendan Leonard sono stato ospite di un tour organizzato da Run the Alps attraverso Francia e Svizzera, conuna comitiva di loro clienti. Abbiamo corso una versione trail della Haute Route Chamonix-Zermatt, in una decina di giorni. Un giorno, mentre assistevamo alle gare dell’UTMB, io e Brendan abbiamo preso il pullman fino a Courmayeur, mangiato un sacco di pizza e poi siamo tornati in Francia: questo è stato per ora il mio unico soggiorno in Italia. L’ho adorata. Ovviamente, essendo appassionato di ripido e canali, ho sempre voluto andare a sciare nelle Dolomiti, ma ho una regola personale che mi vieta di utilizzare gli impianti di risalita e l’idea di affrontare quelle discese muovendomi unicamente con le pelli mi intimidisce un po’, soprattutto perché chi c’è stato mi ha raccontato che sarebbe un’ambizione un po’ folle. Ma in Italia ci voglio davvero tornare, in qualsiasi periodo dell’anno. Per scalare, o sciare, o mangiare…».

Qual è l’ultimo libro che hai letto?

«Kitchen Confidential di Anthony Bourdain. Per Natale la mia fidanzata mi ha regalato un Kindle che ha riacceso la mia passione per la lettura. Mattatoio n° 5 o La crociata dei bambini, Alone on the Wall e Giorni Selvaggi sono state altre letture recenti. Ora sto leggendo How a Second Grader Beats Wall Street».

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© Joey Schusler

La Promenade

Fra i legni lunghi due metri e dieci e i palettoni da 106 millimetri sotto il piede scivolano via cinquant’anni. Come niente fosse. Decenni di vite, senza che la montagna se ne sia neppure accorta. Corse, salite, discese, gare, neve, pioggia e sole. E lei sempre uguale a se stessa. Sempre lì, a due passi da casa. Corrono via cinquant’anni, ma gli orizzonti restano immobili. Vicinissimi a tutto, ma lontanissimi dal mondo. E i ricordi di allora si fondono con quelli di oggi. Raccontando come tutto sia cambiato. È il 1970, i legni sono altissimi e stretti, fardelli sugli attacchi capaci di alzarsi non oltre un paio di dita. Pelli fissate a tre ganci laterali, una tenuta approssimativa, nello zaino l’attrezzatura per sistemarle nei momenti peggiori. Nello sconfinato bianco della Val d’Aosta, in condizioni di neve perfette e abbondanti, tre ragazzi. Guido, Ruggero, Carlo. Ad aprile, primi di sempre, tracciano il loro sogno: attraversare la regione sugli sci, da Champorcher a Gressoney. Tredici tappe, due giorni di sosta per maltempo, 37.000 metri di dislivello. Quando arrivano alla meta, il giorno della Festa del Lavoro, a unirli non è solo la sensazione di aver fatto qualcosa di mai visto. È la certezza di aver fissato un’amicizia. Di averla messa alla prova. Nelle difficoltà e nelle risate. «Resterà sempre uno dei ricordi più belli della mia vita» dirà uno di loro.

Cinquant’anni si dileguano in vapore. Ma le cose belle diventano cemento. Anno 2017, mese di maggio. La storia si ripete. Sulle stesse linee che ogni anno decine di persone ripercorrono, sugli stessi passi che gli atleti del Tor des Géants inanellano frenetici, il sogno di Guido, Ruggero e Carlo rinasce. È lo spirito a dettare le regole: nessuna sfida contro il tempo, nessun bisogno di leggerezza per correre più veloci. Lì, a due passi da casa, Shanty Cipolli e Simon Croux decidono semplicemente di ripercorrere quel che qualcuno ha già fatto. Per raccontare a tutti, senza esibizionismi alpinistici, che «per esplorare non si deve per forza andare lontano». Perché quando parti, come puoi apprezzare quello che trovi, se non sai quello che lasci?. Sono le montagne su cui si affaccia la camera da letto, rimaste lì nel tempo ad osservare, senza dire parola. I luoghi di una vita. Shanty Cipolli, nome sanscrito portato in dono da un viaggio paterno in Nepal, qui ci scia da sempre. Ventisei anni, maestro di sci di Antey, porta sulle gambe giganti e gare di skicross con i colori della nazionale, prima di approdare al mondo freeride e ai Qualifier per il World tour. «Studiavo da geometra, ma ho lasciato perché non era compatibile con tutti questi impegni» ammette. E lo sguardo a un futuro professionale si è ridisegnato di conseguenza: «Ora punto alle selezioni per diventare Guida alpina» non nasconde. E intanto, si scia. Un po’ la stessa storia di Simon Croux, ventunenne di Courmayeur, nato in Svizzera e posato sugli sci all’età di tre anni da una famiglia titolare di un locale sulle piste ed erede di una lunga tradizione di Guide alpine (il trisnonno Laurent era fra i consueti accompagnatori del Duca degli Abruzzi). Anche per lui gare di gigante, poi un salto alle competizioni freestyle e l’arrivo a soli 14 anni al Freeride World Tour junior. «Anche io ho dovuto lasciare la scuola: frequentavo il liceo sportivo, ero riconosciuto come atleta nell’ambito di una classe de neige. Ma niente: la mia attività non era vista alla pari dell’agonismo più classico, da sci club. E questo non mi ha aiutato». Oggi, tanto per chiarire com’è finita, è nei Qualifier del Freeride World Tour.

© Achille Mauri

Per Shanty e Simon, stuzzicati dal filmaker Michel Dalle, di Grobeshaus Production, l’idea di ripercorrere quel sogno lungo cinquant’anni, ritrovando lo spirito di quei lontani giorni scoperto per caso in un libro, è la scintilla. L’innesco di un’avventura diventata film con la voglia di mostrare a tutti cosa c’è là dietro. Dietro le cime di sempre. Oltre lo sguardo. A due passi da casa. Ma tra il fare per conservare e il fare per raccontare passano differenze immense. E dove Guido, Ruggero e Carlo scivolavano senza guardarsi indietro, pensando solo alla loro avventura, Shanty e Simon si trasformano in protagonisti. Accompagnati dal regista-snowboarder in split e illuminati dal volo di perlustrazione effettuato con l’amico Cesare Balbis, pezzo di storia del Soccorso Alpino valdostano, cercano soluzioni, inquadrature, momenti, luci e pensieri da cristallizzare. I chilometri si susseguono, i metri di dislivello scattano. «Ma i pesi dell’attrezzatura sono di per sé il segno che quel che si voleva non era la performance, piuttosto una forma di ricerca» chiarisce Michel. Il desiderio di dire qualcosa. Di vivere i luoghi della vita in modo diverso. Venti chili di materiale foto-video, sacco a pelo, fornellino, bombole, attrezzatura alpinistica, tende, cibo, acqua, sci, scarponi. Addosso a ciascuno c’è più di una ventina abbondante di chili. E da Courmayeur Arp, dove tutto inizia, le giornate si fanno pian piano sempre più dure. Sveglia alle 6 del mattino o giù di lì, pelli e sciolina fino alle 16, poi sosta. Se serve in tenda, dove la zanzariera deve restare aperta per evitare che tutto condensi, se si può in rifugio. Giorno dopo giorno, per ventidue albe e tramonti, corrono sotto le lamine La Thuile, il Rutor, la Valgrisa e il col Bassac Déré, il rifugio Benevolo, la Val di Rhêmes con la Punta Basei, la Valsavarenche con i Piani del Nivolet, il Miserin e Champorcher, Gressoney e il Colle Bettaforca, Champoluc e il Col di Nana, Torgnon, Saint Denis, Saint Barthélemy e il col Vessona, la Valpelline, il Gran San Bernardo e il Col Malatrà. La birra finale evapora qui, seduti fianco a fianco ad ammirare i 4.810 metri che sovrastano ogni cosa. E la mente corre veloce a tutto quel che è stato in così poco, ma anche tanto tempo: la salita durissima verso La Thuile e il Deffeyes, la volpe che curiosava in tenda e poi accettava uno spuntino, il caldo opprimente della Valgrisa. La giornata di relax totale sul ghiacciaio Goletta, all’ombra del Granta Parey. La voglia di uscire di rotta e salirlo, la decisione di farlo davvero. La fatica della parete dura e ripida. La bellezza della sciata fuori programma. E poi la polvere che solleticava le ginocchia sotto il Città di Chivasso, la durezza della salita al Miserin, la tappa a Chamois e Antey, con la grigliata a casa di Shanty e la parentesi di una notte nel letto di sempre. La polverella fine al Vessona, le tracce di lupi verso la Valpelline. Tutto si accavalla, tutto torna. Ma è tutto troppo caldo ancora. E giù dal Bonatti scalpita la voglia di dire basta alla fatica. «Era ora di arrivare  - ricorda Simon -. E ho tirato giù una linea dritta sulle pigne del bosco. Era fatta».

Venticinque minuti di film, poco più di un minuto per ogni giorno, un anno dopo sintetizzano e fermano nel tempo quelle emozioni. Campi larghi, silenzi, parole scelte con attenzione. E un racconto che non risparmia dettagli sulle difficoltà. Shanty e Simon che osservano la mappa, che scendono a fuoco nell’immenso del bianco. Che attendono in tenda. Che scherzano sul cibo. Sono i momenti televisivi. Dietro ai quali si nascondono le discussioni sulla scelta dell’itinerario, le rotte decise in base alle condizioni del momento, i consulti con gli amici di ogni valle, gli sguardi ai bollettini valanghe. La consapevolezza di percorrere una linea logicamente contraria all’usuale, sempre in partenza da ovest per scendere ad est, dal cemento del mattino alle insidie del pomeriggio. La speranza che il tempo regga, la fortuna di vedere che sarà così. I tratti più critici, i traversi a rischio. I momenti di confronto sulla scelta delle inquadrature. I tempi di assetto del regista nei punti strategici e più magici. Ma la neve si offre stabile. Perfetta. Ed è lei a legare ogni pezzo all’altro. Un giorno, due. «La camminata fin da subito si rivela più lunga e faticosa del previsto - recita Shanty, voce narrante sullo sfondo delle immagini -. Ma ormai non si torna più indietro. Adesso siamo qui, solo noi con le nostre forze». Ed è lì, nell’attimo della consapevolezza, che il vero sogno di Guido, Ruggero e Carlo riprende forza. «Gli spazi si fanno sempre più ampi - spiega Shanty -. E noi ci sentiamo piccoli». Puntini nel bianco. Proprio come cinquant’anni prima, pur sorretti da materiali, idee, attitudini e propositi molto lontani, i pupilli del CAI Guido Fournier, Carlo Vettorato e Ruggero Busa avevano immaginato. «Il nostro non voleva essere solo un esercizio fisico - ricorda Guido quasi cinque decenni dopo -. Era qualcosa di più. Che aveva in sé anche una componente estetica e naturalistica». Un’esperienza. «Un ricordo fantastico - chiarisce Carlo -. Che se avessi cinquant’anni meno, o anche solo 30 o 40, rifarei subito. Anche se so che non sarebbe più la stessa cosa».

© Achille Mauri

Anche Shanty e Simon lo dicono. È passato un solo anno, ma la voglia di rifare tutto è già forte. «Un rewind? Potendo farlo, mi muoverei a tappe - spiega il maestro di Antey -. C’è tanto, così tanto da sciare in quei luoghi che scorrere via veloci, in una sola linea di passaggio, sembra un peccato». E allora, chissà. Forse sarà domani, forse tra qualche tempo. Forse ci penserà di nuovo qualcuno tra cinquant’anni. Intanto il bello è ormai dentro al cuore e alla memoria. Una lotta contro il «freddo, il vento, la stanchezza, la fame, la condensa, gli scarponi ghiacciati». Con un finale che non ti aspetti. Perché «quando sei lassù a guardare le stelle, a sentire il silenzio, a vedere la luce del mattino, ti rendi contro che, nonostante tutto, ne è valsa la pena». E forse, a due passi da casa, ne varrà sempre la pena.

1.300 metri al giorno

La traversata scialpinistica della Val d’Aosta portata a termine nel maggio 2017 da Shanty Cipolli e Simon Croux è durata 22 giorni. Queste le tappe: Courmayeur Arp la Balme; La Thuile e Rutor; Valgrisa e Col Bassac Déré; Rhemes e Punta Basei; Valsavarenche e Piani del Nivolet; Miserin e Champorcher; Gressoney e Colle Bettaforca; Champoluc e Col di Nana; Torgnon; Saint Denis; Saint Barthelemy e Colle Vessona; Valpelline e Valle del Gran San Bernardo; Col Malatrà e Courmayeur. I due freerider valdostani hanno coperto circa 1.300 metri di dislivello al giorno, con alcune varianti e soste rispetto al classico percorso del Tor des Géants, facendo affidamento su mappe, cartine e telefonino, oltre a un GPS che però è stato utilizzato solo nei punti più critici. Membri del team Mammut, supportati da alcuni sponsor, hanno percorso la traversata con sci da freeride: per Simon Croux i Line Francis Bacon (104 mm sotto il piede) con attacchi Marker Kigpin; per Shanti Cipolli i Movement Go Strong (106 mm), sempre con Kingpin. Con loro il filmaker Michel Dalle, che ha seguito la traversata con una tavola split. Al seguito, quattro batterie da un chilo l’una, un corpo camera da cinque chili, un computer, caricatori, treppiedi e ottiche, per un totale di circa 20 chili di materiale video. Nel 1970 un itinerario analogo era stato percorso da Carlo Vettorato, Guido Fournier e Ruggero Busa: partiti da Champorcher il 17 aprile, arrivarono a Gressoney il primo maggio, chiudendo la linea in tredici tappe, con una sosta di due giorni per maltempo. Percorsero 37.257 metri di dislivello, di cui 17.842 in salita e 19.415 in discesa.

© Grobeshaus Production

Il film

Disponibile online su YouTube, La Promenade (25’ 48”) è il film che racconta i 300 chilometri e 20.000 metri di dislivello percorsi da Shanty Cipolli e Simon Croux nella loro avventura scialpinistica. Prodotto da Grobeshaus Production di Aosta, il video è stato scritto e diretto dal filmaker Michel Dalle, maestro di snowboard. Al suo attivo da un paio d’anni anche il film cAPEnorth, realizzato con la comproprietaria di Grobeshaus, Francesca Casagrande, per raccontare il viaggio su un’Ape Piaggio di due giovani aostani fino all’estremo nord della Scandinavia.

© Achille Mauri


White out

Esiste un posto, dall’altra parte dell’Atlantico, dove la neve è diversa. Voglio dire, è pur sempre fredda e bianca come la nostra, di neve, ma è diversa. È talmente leggera che quando vedi uno sciarci dentro sembra che stia cavalcando una nuvola di fumo, per questo la chiamano cold smoke. Una neve così, sulle Alpi, non può cadere. Una neve così ha pochi uguali nel mondo, qualcuno dice che solo in Giappone si trovi di meglio, ma nel Nuovo Continente, e neanche nel Vecchio, non c’è niente di così perfetto. Magari da qualche parte la si trova ancora più leggera, ma qui lo è al punto giusto, conservando quel tocco di corposità tale da permettere agli sci di acquistare portanza e velocità.

Tutto ha origine nel Pacifico, da cui ogni inverno una ventina di perturbazioni salpano verso gli States. Salutano le spiaggie della California e poi passano sopra le montagne della Sierra Nevada, dove le nuvole che le formano perdono progressivamente umidità. Poi, in vista dei Wasatch, avviene la magia. Il Great Salk Lake è lì che le aspetta. Manco a dirlo, è un’enorme pozza di acqua di mare: profondità media quattro metri o poco più, estensione di 4.400 chilometri quadrati e una concentrazione salina di 50g/l, più degli oceani, per intenderci. Sopra queste acque le nuvole continuano ad asciugarsi e a raffreddarsi e, una volta sopra le cime del Little Cottonwood Canyon, puf!, asciano cadere fiocchi perfetti. Tecnicamente si chiamano dendriti e sono fatti esattamente come quelli che disegnerebbe un bambino, o come se li tatuarebbe uno skibum sul sedere: cristalli di ghiaccio a forma di stella, insomma, quelli che scendono ad Alta sono i Fiocchi di neve, con la f maiuscola.

Alcuni viaggi uno se li programma, o magari se li coccola come sogni nel cassetto per anni, anzi, per autunni interi, che è la stagione in cui la scimmia della neve inizia a risvegliarsi dal letargo estivo. Ad Alta invece ci sono finito quasi per caso, vittima di una serie di fortunati eventi. Ne avevo già sentito parlare, attraverso il web e i video di sciatori che arrivano proprio da qui: gente come Johnny e Angel Collinson (Jim, il padre, lavora da queste parti come snowpatroller), o Pep Fujas, giusto per nominarne un paio. Ma non mi era mai passato per la mente di venirci a sciare. Comunque, meno di un mese dopo aver preso il biglietto, mi sono ritrovato nella hall degli arrivi dell’aeroporto di Salt Lake City, in cerca della persona che mi avrebbe dovuto dare un passaggio su per il Little Cottonwood Canyon. Si è presentata nel modo più yankee possibile, a bordo di un suv dalle dimensioni tali da far impallidire un gruppo di attivisti ambientali. In pochi minuti ci siamo lasciati la città alle spalle, addentrandoci nella vallata in cui un secolo e mezzo fa arrivarono i primi minatori alla ricerca di argento.

Il primo impatto non è dei migliori, anzi. La maggior parte di questa cittadina di 300 abitanti è composta da edifici in cemento con le linee squadrate, i classici ecomostri che andavano di moda nelle stagioni sciistiche degli anni ’70. Qua e là qualche cottage si staglia orgoglioso, ma nulla lascia pensare che qui la media annuale di sciatori tocchi il mezzo milione. Il perché è presto spiegato: da quando ho caricato le borse in auto all’aeroporto a quando le ho depositate all’entrata del lodge sono passati a malapena tre quarti d’ora, questa vicinanza fa sì che il mezzo milione di frequentatori annui sia composto per lo più da sciatori che vengono qui in giornata da Salt Lake City, che può vantare più di una decina di comprensori a meno di un’ora di viaggio.

© Federico Ravassard

La prima notte non dormo benissimo, il cuore non ne vuole sapere di rallentare. Nonostante i boschi di conifere, infatti, Alta si trova a 2.700 metri, una quota dove solitamente gli impianti sulle Alpi finiscono, mica cominciano. Non nevica da una settimana, così il mattino seguente lo si dedica alla scoperta delle piste battute, i groomers. Già dalle prime curve capisco che qui c’è qualcosa che non va, anzi, che va fin troppo bene: la bassissima umidità evita infatti che la neve geli di notte anche dopo il passaggio dei gatti, niente a che vedere con i lastroni che si trovano da noi al mattino. Dopo un’accurata indagine di mercato, compiuta in coda alla seggiovia, noto che la maggior parte degli sciatori utilizza aste da 90-100 millimetri al centro: il manto, sempre morbido, rende inutili attrezzi più cattivi e quello che da noi viene ancora considerato uno sci da freeride, qui diventa un all-mountain. Si può dire che la concezione stessa dello sciare sia differente. Non si fanno distinzioni tra mazinga e freerider, o tra pista e fuoripista. I gestori stessi considerano come aree sciabili tutto ciò che rientra all’interno del resort, compresi boschi e i tratti tra una pista e l’altra. Questo vuol dire che l’intero comprensorio viene quotidianamente controllato e messo in sicurezza da un esercito di patroller, una situazione ben diversa dagli standard europei, dove, essenzialmente, al di là delle reti di bordo pista sono fatti tuoi. Non esiste l’idea che uno vada a sciare solo dentro o solo fuori. Ci si fa un giro a tirare pieghe in pista e il giro dopo, tutti insieme, ci si butta in un canalone, bonificato nei giorni precedenti dai patroller. Non esiste il freeride e non esiste neanche il carving. Esiste solamente l’andare a sciare, in una visione della pratica più globale della nostra, costruita a compartimenti stagni in base a come ti vesti e a quali sci utilizzi.

Tantissimi scendono sotto le seggiovie, su pendii ormai tritati e coperti di gobbe. Da noi il ‘sottoseggiovia’ è un terreno per pochi, in genere sventurati che, dimenandosi tra un dosso marmoreo e l’altro, vagano in cerca del bastoncino caduto. Qui non è così. Come detto prima, la neve non gela, ergo, i mogul sono sciabili e, giuro che è vero, è anche divertente farlo. Bisogna solo fidarsi a prendere velocità, con la spatole che affondano in curva assorbendo i colpi. Più vai veloce e più galleggi, come nelle whoops del motocross, anche se poi al fondo ci arrivi con le cosce che bruciano chiedendo pietà. Un pomeriggio puntiamo a un must di Alta: la Main Chutedel Mt. Baldy, un ripido canalone che si raggiunge con una breve camminata, sci in spalla, dall’arrivo della seggiovia Sugarloaf. Dalla cima la vista sul Little Cottonwood Canyon è spettacolare, per quanto sia impossibile non notare la cappa di smog su Salt Lake City, in inverno onnipresente a causa della morfologia della zona.

Con me, insieme ad altri, ci sono Marcus (Caston) e Connery (Lundin), due local con i quali scierò anche nei prossimi giorni. Marcus è, in una sola parola, impressionante: ha gareggiato per anni in discesa e super-g, importando poi la tecnica garaiola nel freeride. Il suo stile è un mix di agilità e potenza, scia esattamente come scierebbe uno slalomista di Coppa con un paio di fat nei piedi. Connery, invece, arriva dal freestyle, che gli ha dato un imprinting di fluidità e scioltezza. Uno alla volta entriamo nel canale, segnato dai numerosi passaggi, più per non intralciarci a vicenda che per ragioni di reale sicurezza. È strano da dire, ma qui nessuno scia fuoripista con il kit antivalanga. Questo perché i patroller bonificano continuamente tutti i pendii, segnalando con cancelli e pali quali pendii sono già stati messi in sicurezza e quali, invece, sono ancora da far brillare. Marcus molla gli sci dritti, assorbendo i colpi tenendo il baricentro bassissimo e sfruttando le gobbe per impostare le curve saltate. Dall’uscita del canale fino all’entrata in pista non tira neanche più le curve, prendendo subito velocità. Io rimango lì, in mezzo al pendio, a fissarlo con la bocca spalancata. Non avevo mai visto qualcuno sciare in questo modo, così composto e dinamico allo stesso tempo. Mentre torniamo al lodge il cielo comincia a coprirsi. Oh già, stanno arrivando le magiche nuvole dal Pacifico e i prossimi giorni saranno fenomenali. Dall’ufficio dei patroller cominciano a diramarsi i bollettini meteo, mentre i primi fiocchi iniziano a scendere, dando origine in pochi minuti a una copiosa nevicata. Il mattino dopo la sveglia è condita dai botti dei cannoni. Dico cannoni, e non gasex, perché negli States, dove è consentito usare esplosivi, per il controllo delle valanghe effettivamente usano proprio quelli. Obici perfettamente funzionanti, ottenuti in prestito dalla US Army. Ad Alta ce ne sono sei, posizionati sulle vette più panoramiche; per bonificare i pendii più nascosti, invece, si ricorre a un altro metodo ancora più pratico, lanciando granate a mano direttamente dalle creste. È tutto così americano che non mi stupirei di sentire anche il rombo delle pale di un elicottero Apache.

© Federico Ravassard

Ho appuntamento con Julian Carr, un personaggio fuori dalle righe e fuori di testa. Freeskier professionista, attivista ambientale, imprenditore, runner… uno che sa come ammazzare il tempo, in poche parole. Capelli lunghi sotto le spalle, tratti orientali, una calma zen, è letteralmente cresciuto qui, figlio di un jazzista di Salt Lake City. Sugli sci è conosciuto per l’altezza dei suoi drop, che gli hanno fruttato due Guinness World Record, tra cui quello per il più alto front-flip: 210 piedi, circa 70 metri. Circa due tiri di corda, o un palazzo di venti piani. Facendo il mortale in avanti. Quando non è occupato a fare trick da videogioco, Julian manda avanti il suo marchio di abbigliamento streetwear, Discrete Clothing, organizza un circuito di gare di trail proprio qui in zona, la Cirque Series, e tiene discorsi sul surriscaldamento climatico per POW (Protect Our Winters), l’ente no-profit fondato dallo snowboarder Jeremy Jones. A essere sincero, non mi stupirei se nei tempi morti si occupasse anche di fisica quantistica e letteratura bulgara.
Prendiamo la prima seggiovia, chiacchierando del più e del meno. Io faccio il vago, cercando di sopravvivere. Non mi sono tolto lo zaino e in America, sulle seggiovie, non ci sono le sbarre di sicurezza. Mentre lo ascolto con un sorriso tiratissimo, Julian mi racconta delle sue attività per POW, di quanto tutto ciò sia diventato ancora più importante dopo la vittoria di Trump. Lo Utah è uno stato in cui un florido movimento attivista e un innegabile patrimonio naturale devono fare i conti con una maggioranza repubblicana e conservatrice, in un braccio di ferro il cui premio in palio sono ettari di foreste, montagne e deserti. Poche settimane dopo il mio viaggio, la notizia che ha scosso gli animi è stata quella dell’abbandono dell’Outdoor Retail Show (l’equivalente del nostro Ispo) della sua sede a Salt Lake City in segno di protesta e di coerenza nei confronti di uno Stato che non si impegna nella salvaguardia ambientale.

La prima run della giornata per me è anche la prima che faccio nella cold smoke. Realizzo nel giro di poche curve che quello che si dice di questa neve è tutto vero. È leggera, unica. Gli sci scorrono veloci nonostante si affondi fin quasi al bacino. Da noi, oltre un certo spessore, non c’è fat che tenga. Se è troppa è troppa, non puoi fare altro che tirare giù dritto. Qui invece no, sei il passeggero di te stesso mentre giochi a variare l’ampiezza delle curve, modulando la velocità in modo imbarazzantemente facile. Anche dove è già stata tracciata, la neve ti copre comunque la faccia a ogni dosso, sciare in questi boschi è la cosa più goduriosa di questo mondo. Seguo Julian per tutta la mattinata, dopo un paio di giri ci avviamo in direzione dei secret spot di Alta. C’è da camminare un attimo, ma ne vale la pena. Scendiamo nell’anfiteatro chiamato Wolverine Circus, dove sono state girate numerosissime sequenze di skimovie. Di fronte a noi, dall’altra parte della valle, si trova uno dei kicker naturali più famosi al mondo, il Chad’s Gap. Quaranta metri di aria sotto i piedi che ti sparano tra due colline originatesi da depositi minerari, resi famosi da Candide Thovex e, soprattutto, da Tanner Hall, che in un tentativo andato male si spezzò entrambe le caviglie. Per ore non facciamo altro che sciare e scattare fotografie. In una pausa caffè (ops, meglio chiamarlo brodone. Qui sotto il mezzo litro è già un espresso) parliamo di POW e di come, in fondo, degli sportivi siano i più adatti a diffondere il messaggio che se non si fa qualcosa subito, di neve non ce ne sarà mica più tanta in futuro. Come altri skier locali, Julian si reca spesso nelle scuole a tenere seminari agli studenti: per un adolescente sentirsi un sermone sull’effetto serra recitato da un capellone in jeans e trucker hat dev’essere decisamente più cool che ascoltare un professore.

Nel tardo pomeriggio le nuvole si aprono, lasciando Julian libero di farmi da cicerone su quelle che sono le gite scialpinistiche di Alta. La più succosa è proprio di fronte a noi, il Mt. Superior: mille metri esatti di pendio la cui entrata è caratterizzata da un’enorme cornice, così grossa che per oltrepassarla bisogna letteralmente scavarci un tunnel da parte a parte. Poco più in là ci sono le discese di Cardiff Bowl e Toledo, più tranquille, solitamente usate come allenamento. I loro nomi derivano dalle vecchie miniere d’argento dismesse che si trovano alla base. Il mattino seguente avrei di nuovo un gancio con Julian, ma verso le 8 del mattino un messaggio cambia i piani. «Too much snow, the canyon is closed. See you tomorrow!»Proprio così, la nevicata, ricominciata con americana ingordigia nella notte, ha costretto i Ranger a chiudere la strada di Little Cottonwood e a mettere in azione i cannoni nella parte basse della valle. Facendo colazione i vetri del lodge vibrano per lo spostamento d’aria provocato dallo scoppio dei colpi di bonifica, mentre un cameriere mi racconta ghignando di quella volta in cui un colpo ha mancato il bersaglio, regalando un bello spavento a una famiglia di Snowbird. Solo, mi avvio verso la partenza della Wildcat (una seggiovia) aspettando che succeda qualcosa. Incontro Bob, il cuoco del lodge. Anche lui è senza compagni, ma non sembra curarsene. Nevica tantissimo e il resort è per noi e pochi altri.«If you’re not skiing everyday you’re living in the wrong place» mi dice in coda facendo l’occhiolino. Ieri sera, comunque, si stava sciogliendo i muscoli con un intruglio a base di tequila, miele e te caldo. Un paio di run dopo faccio pausa caffè, nevica come Dio comanda e ci sono -10 gradi. Hanno riaperto la strada, ma è già mezzogiorno e oggi salgono solo gli infognati, quelli a cui un paio d’ore possono essere sufficienti a mettersi l’anima in pace. Un gruppo di ragazzini vestiti da skateboard si infila nell’atrio del Rustler e si cambia lì, in mezzo ai fiocchi di neve portati dagli spifferi d’aria. Età media 14 anni, qualcuno arriva ai 16, che è poi quello che ha guidato fino a qui stamattina.

Con una certa delusione nel cuore constato che sono l’unico a non chiudere backflip. Mi guardo intorno e quello che vedo, tra una run e l’altra, è che il livello medio ad Alta è pazzesco. Sciano tutti benissimo, anche i vecchietti sotto la seggiovia vanno giù fluidi e sorridenti. E chi va forte, va forte davvero. Chi in Italia può reputarsi un discreto sciatore, qui non va oltre la media, che è una cosa bellissima perché fa capire veramente cosa vuol dire essere bravi a parole o sulla neve. In giro di poser ce ne sono pochi. C’è talmente tanta foga nel voler tracciare le metrate di polvere che di tempo per pavoneggiarsi all’arrivo della seggiovia non ce n’è mica tanto, ce n’è solo per accumulare più metri di dislivello possibile. Nel pomeriggio incontro Marcus. Immaginando che avrebbero chiuso la strada del Little Cottonwood, si è svegliato alle cinque per salire ad Alta prima che scattasse il blocco. Il tempo è leggermente migliorato e nel pomeriggio saliamo per qualche foto. Mi confida strizzando l’occhiolino che ha preso degli sci più stretti per affondare ancora di più. La luce è surreale, i fiocchi sono talmente leggeri che svolazzano nell’aria come polvere nei campi secchi. Marcus scia veloce, a ogni curva deforma all’eccesso i suoi sci da 95 millimetri per poter uscire dal manto. A un certo punto il meccanismo si inceppa e le spatole vanno giù, facendolo affondare fino al primo strato di neve compatta. Ergo, solo la testa spunta fuori.

L'ultimo giorno ad Alta è quasi surreale. Nevica di nuovo da 48 ore consecutive e fuori dalla finestra di camera mia il mondo è diventato una sfera di fiocchi grossi e bianchi, come quelle palle di vetro pacchianissime che vendono nei mercatini di Natale. Di sciare, purtroppo, non se ne parla. È scattata l'interlodge closure, l'ultima volta era stata tre anni fa. Significa divieto tassativo di uscire dagli alberghi e dalle abitazioni perché le bonifiche verranno fatte a ridosso dei centri abitati. Il personale del lodge ci raduna nella hall, mentre i vetri delle finestre vibrano di continuo a causa dei colpi di cannone. L'atmosfera è resa ancora più surreale da un cameriere che serve gin tonic da una caraffa nonostante siano le 10 del mattino. Qualcuno mi chiede del Rigopiano, siamo a ridosso dei giorni della grande nevicata in Abruzzo e la situazione è ironicamente molto simile. Dico ironicamente, perché tutto quello che non ha funzionato di là, di qua invece fa parte di un meccanismo ben rodato. I mezzi spazzaneve girano frenetici cercando di liberare almeno una corsia per far sì che pochi shuttle autorizzati possano portare a Salt Lake City chi non può perdere il volo, me compreso. Fuori dalla finestra si vedono dei puntini neri scendere veloci: sono i patroller che, finito il turno, si godono un comprensorio intero chiuso per troppa neve. In pratica, il sogno di qualsiasi amante della puffia, di quella neve così leggera e così polverosa che qui ad Alta trova la sua espressione più pura.

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© Federico Ravassard

Paul Bonhomme, lo sci ripido come esplorazione

Dieci maggio 2018. La luce in fondo al tunnel è quella che ci coglie al termine del traforo del Frejus. Piove a dirotto sul lato francese, il che ci fa buttare un occhio alla temperatura riportata nel cruscotto della macchina: «Bene! Questa in alto attacca…». In primavera inoltrata, durante i giorni di pioggia, spesso il pensiero dei malati di sciva infatti alla neve che, con zeri termici abbastanza elevati, riesce a incollarsi sulle pareti tipicamente glaciali e rocciose. Oggi dopotutto stiamo andando a intervistare un personaggio che, senza temere di sbagliarci di molto, starà pensando esattamente la stessa cosa guardando tutta questa acqua che cade dal cielo sopra Annecy.

Come tutte le volte che capita di andare a conoscere davvero qualcuno di cui hai sentito parlare in maniera indiretta o attraverso i canali social, spesso ti immagini il primo istante in cui te lo troverai di fronte. Nessuna ansia particolare, per carità, solo un gioco che cerca di anticipare il tempo. Arriviamo ad Annecy nel luogo in cui ci siamo dati appuntamento probabilmente imboccando una corsia riservata ai bus; piove a manetta e questo non aiuta a interpretare le indicazioni di una circolazione urbana non esattamente ben studiata. Per farci riconoscere molliamo l’auto sul marciapiede di fronte al negozio di articoli sportivi dell’appuntamento: siamo gli inviati di una testa di sci italiana dopotutto, ed è più pratico che scrivere su Facebook un messaggio a Paul.

Dall’altra parte della strada un uomo non troppo alto e minuto, piumino rosso e cappellino con la visiera, ci si fa incontro. È lui! È Paul, quello che vuole concatenare in giornata con partenza da Chamonix le quattro pareti dell’Aiguille Verte: sci de pente raidee alpinismo, per un viaggio di oltre 4.000 metri. Roba da atleti e mega allenamento, pensiamo. «Salut, je suis Paul!». Paul lascia uscire una boccata di fumo sotto la pioggia: sta fumando una sigaretta. Lo seguiamo in un caffè del centro non distante dalle rive del lago di Annecy, è mattina, non c’è quasi nessuno e possiamo stare tranquilli e chiacchierare. La skilometratada Torino per venire fino a incontrare questa Guida francese ha una ragione ben precisa.

Sconosciuto forse ai meno attenti, Paul Bonhomme, classe 1975, è un alpinista a tutto tondo e sta portando avanti una sua particolare idea di sci. Si è allenato tutto l’inverno sui pendii più difficili degli Aravis, seguendo le orme di Pierre Tardivel per un grande e personalissimo obiettivo: percorre a piedi in salita e in sci i quattro versanti di una delle montagne simbolo dell’alpinismo nel massiccio del Monte Bianco, l’Aiguille Verte. Proprio quella cima marcata indelebilmente da una delle più celebri imprese della storia dell’alpinismo ad opera di Gaston Rebuffat. «Avant la Verte on est alpiniste, à la Verte on devient montagnard» giusto per capirci. L’ambizioso progetto 4Faces* prevede la partenza da Argentière, la salita in cima alla Verte per il Couloir Couturier, la discesa sul versante sud-orientale della montagna per il canalone Whymper, la risalita per il Couloir à Y e la discesa della parete più austera e difficile: il Nant Blanc. Il tutto in giornata. Ecco perché i chilometri per venire a conoscere Paul li abbiamo fatti più che volentieri!

© Federico Ravassard

Chi è Paul Bonhomme? Cosa fa? Presentati ai nostri lettori.

«Allora, sono una Guida di alta Montagna, nato in Belgio ma con origini Olandesi, un bel mix! Con la mia famiglia ho vissuto fino a 18 anni a Parigi per poi trascorrere circa dieci anni con mio fratello Nicolas nel Briançonnais. Ho iniziato con l’arrampicata a tredici anni, gareggiando anche nel campionato nazionale. Gli sci li ho messi a due anni, ma non ho mai preso lezioni fin verso i 19, quando ho deciso di diventare maestro. Così mi sono avvicinato alla montagna, mi ritengo un appassionato prima di tutto. I primi compagni sono stati mio fratello Nicolas e il nostro migliore amico, Jean Noel Urban, due sciatori e alpinisti. Purtroppo Nicolas ha perso la vita sui pendii del Gasherbrum 6 nel 1998, mentre Jean Noel mentre era con gli sci sul Gasherbrum 1 nel 2008. Ecco perché il 2018 per me ha un significato particolare. Dopo la morte di mio fratello, nel 2000, ho deciso di diventare Guida alpina e ho di nuovo contattato Jean Noel, che era un po’ restio a venire in montagna e a sciare con me per quanto era successo a Nico. Insieme avevano sciato nel 1996 la Wickersham Wall sulla parete nord del McKinley: un versante pazzesco. Ho poi iniziato a sciare sul ripido. Non una passione totalizzante, mi piace fare diverse cose in montagna e variare».

Sciatore, alpinista, un appassionato a tutto tondo…

«Sì, assolutamente. Ad esempio ho fatto anche traversate come l’Annecy - Chamonix in meno di due giorni con alcuni compagni, però non mi piace pensare alla montagna solo come a uno sport. Anzi, non è uno sport, ma è esperienza, sperimentazione, è vita! C’è una grossa differenza rispetto alla performance pura».

Sei stato anche in Himalaya, vero?

«Ben nove volte. Quattro per dei trekking con i clienti. Nel 2005 con Jean Noel Urban e Nicolas Brun per provare a sciare il Cho-Oyu (8.201 m, sciato dal solo Jean Noel) e lo Shishapangma (8.027 m) per la parete Sud-Ovest. Nel 2007 sono stato sul Dhaulagiri. Come ti dicevo a Jean Noel non piaceva molto sciare con me per via dell’incidente di mio fratello. Su quel tipo di terreno ho iniziato a sciare con Nicolas Brun. E poi da quando non sono più vice-presidente del SNGM (Syndicat National des Guides de Montagne) per sciare ho più tempo!».

L’anno scorso il Couturier in giornata, poi grandi allenamenti di fondo, quindi gli itinerari più difficili degli Aravis… qui si fa sul serio.

«Devo dire che non mi alleno in modo specifico. Solo per questo progetto 4Faces, nelle giornate in cui tornavo in rifugio con i clienti, mi è capitato poi di rimettere le pelli e salire ancora e scendere per conto mio. Ma solo per il progetto! Ti basti pensare che fumo. L’anno scorso, durante il concatenamento con gli sci tra Annecy e Cham, mi sono sentito bene su terreno ripido e così ho iniziato a immaginare questo progetto. Ho partecipato all’UTLO (Ultra Trail Lago d’Orta) e mi sono allenato per quello, da novembre a gennaio ho avuto più tempo e ho curato forse un po’ di più questo aspetto. Poi ho iniziato la mia stagione normale con i clienti».

Hai altri progetti per il futuro?

«Non so, ho molti altri progetti, ma non ho niente da dimostrare agli altri. Ho una mia idea un po’ pazza, un viaggio con gli sci, ma su terreno ripido: è il mio concetto di evoluzione di questa disciplina. Il gioco consiste nell’essere sufficientemente preparato per salire, ma il vero obiettivo è essere ancora abbastanza concentrati per discese di quel tipo. Questo è il vero goal che mi sono preposto! È solo sci in fondo, ma dove la componente alpinistica diventa sempre più importante. Come scalare su terreno d’avventura. Poi per me lo sci estremo è in solitaria».

Cosa cerchi in una linea ripida, ti interessa più aprire o ripetere?

«Devo ammettere che non ho preferenze. Nel ripetere mi piace pensare a chi ha aperto e scovato quella determinata linea. Un modo per rendere omaggio al primo. Per esempio durante la mia recente ripetizione del Couloir Lagarde sulle Droites ho ripensato ad Arnaud Boudet nel 1995 e alla storia degli altri sciatori che ci sono passati. Vogliamo parlare di quando si è sulle discese di Pierre Tardivel?».

La mentalità è davvero cambiata oggi?

«Sì, a partire dai materiali, basti pensare all’avvento e alla diffusione della tecnologia low-tech degli attacchi e agli sci fat. Insomma, una serie di contributi derivanti sia dallo skialp classico che dal freeride. E poi circolano più informazioni sulle condizioni delle discese. È un insieme di fattori. Generalmente però per emergere nelle diverse discipline alpinistiche occorre essere più settoriali, mentre nello ski de pente è importante essere il più completi possibili, non solo buoni sciatori. Che per me vuol dire essere uno sciatore buono in tutte le condizioni che puoi incontrare. Quindi non solo tecnicamente. Alcuni dicono persino che Jean Marc Boivin non sciasse in modo eccelso, eppure… Sulla tecnica mi concentro molto quando sono su terreno ripido ed esposto, quando devo curvare».

Ti ispiri a qualcuno?

«È la storia stessa dell’alpinismo che mi affascina, per esempio personaggi come Berhault. In fondo questo mio progetto 4Faces è proprio un viaggio in montagna».

Credi di poter ispirare qualcuno?

«Innanzitutto penso che sia fondamentale dire la verità quando racconti le tue esperienze. Mi piace molto poter condividere ciò che faccio, ma trovo importante spiegare bene tutto, per esempio gli aspetti tecnici, in modo che chi legge capisca bene le difficoltà e la mia impresa non diventi un incentivo a cimentarsi su certe pareti sottovalutandole. Come dicevo all’inizio, non è uno sport questo tipo di sci. Se uno ti chiede quando andare su determinati pendii, vuol dire che non è pronto perché non ha l’esperienza necessaria per valutare lui stesso quando trovare il giusto momento».

Da una parte Kilian, da una Jérémie Heitz e poi gente semi-pro che scia tutto, tutti i giorni e in qualsiasi condizione, come si vede dopo ogni nevicata su discese come la Mallory: tu dove ti collochi in questo universo?

«In mezzo, almeno così penso!». (ride)

Domanda classica, che materiali usi?

«Sci White Doctor LT10, 98 mm al ponte, 175 cm per circa 3,4 kg al paio. Sono prodotti da Eric Bobrowicz a Serre Chevalier. Non propriamente leggeri, cercavo uno sci robusto, in modo da non doverlo cambiare ogni anno! Un attrezzo polivalente che uso durante tutta la stagione con i clienti. Poi attacchi low-tech e scarponi Scarpa F1».

In conclusione, il sogno nel cassetto?

«Mah, molti in realtà: tornare a sciare sul Pumori prima di tutto. Ci avevo già provato nel 2011 e 2016, ma ero troppo stanco, quarantacinque minuti per calzare gli sci sull’enorme pendio finale per poi rendermi conto che con quella neve durissima non avrei potuto fare una curva e tenerla. Sarei morto. Ho fatto un traverso di cento metri e poi altri quaranta minuti per togliere gli sci e rimettere i ramponi: ero esausto. Mi piacerebbe riprendere con le spedizioni in quota, ma ho superato i cinquanta, ho quattro figli e devo pensare a loro. Il sogno sarebbe sciare il Couloir Hornbein all’Everest dopo averlo risalito. Lo ritengo fondamentale per capirne tutte le insidie. E poi il Laila Peak magari, una montagna dalle forme bellissime. Qui sulle Alpi? L’evoluzione passerà secondo me per pareti con tratti di misto che potranno essere percorse magari in condizioni di neve difficile, o non propriamente bella, perché solo in quel momento ricopre certi passaggi. Qualche idea futura? Preferirei non…».

 

* Il 18 maggio 2018 (poco prima che questa rivista andasse in stampa) Paul ha fatto un primo tentativo per realizzare il progetto 4Faces: partito poco prima delle 23 da Argentière ha risalito il Couloir Couturier, quasi 2.800 metri di dislivello e, alle prime luci dell’alba, dopo un piccolo riposo in cima, ha sceso il Couloir Whimper sul versante Telafrè della montagna. Una volta alla base, accompagnato da Vivian Bruchez, giovane Guida e sciatore di gran classe di Chamonix, ha risalito il Couloir à Y sul versante Ovest della montagna: terreno tecnico e alpinistico per ritrovarsi una seconda volta sui 4.121 metri della Verte. A quel punto è iniziata la loro discesa del Nant Blanc, discesa mitica del 1989 a opera di Jean Marc Boivin, ripetuta solo dieci anni dopo da Marco Siffredi in tavola. Terreno d’elite che ha visto cimentarsi, specie negli ultimi anni, i più fini sciatori del panorama europeo, a partire da quel Tardivel che ne ha aperto una variante più sciistica. Purtroppo le condizioni non sono state giudicate sufficientemente sicure per poter completare la discesa in quanto la neve dei giorni precedenti non aveva incollato a sufficienza. Paul e Vivian, ritornati in cima, sono scesi a valle per il Couloir Couturier (5.4 E4) a fine giornata con quasi 5.000 metri di dislivello nelle gambe… non un gioco da ragazzi.

Questo articolo è stato pubblicato sul Skialper 118, info qui

Bonhomme durante il tentativo di 4Faces ©Julien Ferrandez/UBAC Media

A Giuliano Cavallo il Tot Dret, Silvia Trigueros sesta assoluta al Tor des Géants

Il Tot Dret è di Giuliano Cavallo. Il valdostano del Team Salomon – Courmayeur Trailers ha sempre tenuto le posizioni di vetta, alternandosi con Henri Grosjacques e Dino Melzani (ritiratisi entrambi a Oyace), ed ha poi preso il largo, arrivando al traguardo di Courmayeur in 23h01'25" e facendo segnare il record della corsa, scendendo sotto il muro delle 24 ore. «È stata dura - ha detto con la voce rotta dall’emozione- Non sapevo se ce l’avrei fatta, ho saltato anche le ferie per prepararmi, togliendo del tempo alla mia famiglia, anche perché ho avuto un infortunio a giugno e ho potuto allenarmi solo in bicicletta. Volevo arrivare, potevo spingere anche di più, ma ho imparato dall’errore commesso lo scorso anno, quando ero partito troppo forte. Spiace per i ritiri degli altri, io oggi in discesa andavo veramente forte». Al secondo posto Marco Bethaz e al terzo Michael Dola. Il podio femminile vede invece, nell’ordine, Marina Cugnetto, Marie Berna e Kaz Williams.

Intanto nel pomeriggio si è completato anche il podio del TOR X con gli arrivi del canadese Galen Reynolds, poco dopo le ore 18 (77h06’12”) e di Danilo Lantermino, alle 19.09 con il tempo di 79h09’49”. E ha tagliato il traguardo la prima donna, Silvia Trigueros, autrice di una prestazione impressionante che la posiziona al sesto posto assoluto. La sorpresa della giornata è rappresentata dal terzo posto di Danilo Lanternino, conquistato praticamente al fotofinish alle spese del francese Romain Olivier, andato in forte crisi nella discesa dal Col du Malatrà verso Courmayeur. Negli ultimi 20 km il cuneese che corre per l’ ASD Valle Varaita, 38 anni, ha letteralmente cancellato lo svantaggio che aveva nei confronti di Olivier, circa 1h30 al rifugio Frassati. Il francese ha invece chiuso al tredicesimo posto.


Bosatelli nella leggenda: seconda vittoria nella decima edizione del Tor

Oliviero Bosatelli ha vinto la decima edizione del Tor des Géants, bissando il successo del 2016 e raggiungendo Franco Collé in questa speciale classifica dei plurivincitori (in palmarès anche un secondo posto). Il gigante bergamasco, portacolori del Team E-Rock e atleta Scott, ha tagliato il traguardo di Courmayeur questa mattina all’ora di pranzo, chiudendo in 72 ore 37 minuti e 13 secondi. Sul traguardo la moglie Nadia con una torta e due candeline. «Ho rischiato due volte di ritirarmi - ha spiegato Bosatelli all'arrivo - la prima notte a causa di un occhio appannato, il destro, e poi in seguito per una brutta bronchite e la conseguente difficoltà a respirare. Abbiamo tutti patito il grande freddo della prima notte in particolare». Il vigile del fuoco bergamasco ha stretto i denti e ha continuato la sua gara concentrandosi su ogni singolo metro da percorrere. «Ho capito che avrei vinto veramente solo qui, sul traguardo: molte persone ieri mi hanno detto che avevo un gran vantaggio ma io non ci ho creduto fino alla fine».

Per i primi 100 chilometri Bosatelli è rimasto a ruota dei battistrada Franco Collé e Peter Kienzl, entrambi poi costretti al ritiro dopo la prima notte di corsa per problemi fisici. Alla base vita di Donnas, appena prima del giro di boa del percorso, la svolta: il Bosa entra secondo, dietro il francese Romain Olivier, ma si ferma solo un quarto d’ora ed esce dal punto di ristoro al comando. Ha provato a dargli filo da torcere, fino a due terzi di gara, il canadese Galen Reynolds, capace di ridurre il suo distacco a un’ora soltanto, alla base vita di Valtournenche, per poi essere costretto a rallentare ieri a causa di grossi problemi respiratori. Ora è atteso a Courmayeur nel pomeriggio, viaggia con un ritardo di quattro ore dal leader della corsa. Al terzo posto il francese Romain Olivier, in recupero con un distacco che si attesta a un’ora da chi lo precede.

Al femminile resta sempre al comando una grande Silvia Trigueros Garrote, settima assoluta, con un vantaggio di svariate ore su Jocelyne Pauly, seconda, e Sonia Furtado, terza. Il suo arrivo è previsto all’alba di domani, giovedì 12 settembre.

© Andrea Chiericato
© Andrea Chiericato

Tor des Géants, Bosatelli verso Courmayeur

MERCOLEDÌ 11 SETTEMBRE, ORE 10,30 - Oliviero Bosatelli ha superato la Porta del Paradiso e ora per lui è iniziata la lunga discesa verso il traguardo di Courmayeur. Il bergamasco è transitato al Col du Malatrà alle 9.29 di questa mattina, saldamente al comando della decima edizione del Tor des Géants®. Dietro di lui il canadese Galen Reynolds, rallentato ieri da problemi respiratori e ora staccato di oltre quattro ore dal leader della corsa. Al terzo posto il francese Romain Olivier, in recupero con un distacco che scende a un’ora da chi lo precede. Quarto un Danilo Lantermino in grande spolvero, quinto la sorpresa di questo TOR, il sudafricano Erwee Tiaan, che ha approfittato del ritiro di Gianluca Galeati a Oyace, nella notte, per guadagnare un’altra posizione. Al femminile resta sempre al comando una strepitosa Silvia Trigueros Garrote, settima in posizione generale, con un vantaggio di svariate ore su Jocelyne Pauly, seconda, e Sonia Furtado, terza.

MARTEDÌ 10 SETTEMBRE, ORE 17,30 - Oliviero Bosatelli tiene: il bergamasco è l'unico concorrente arrivato a Cuney, alle 16.12. Da Valtournenche era uscito con un'ora circa di vantaggio su Galen Reynolds e tre ore su Olivier Romain. A seguire Lantermino e Galeati. Tra le donne Silvia Trigueros è l'unica arrivata a Champoluc. Alla base precedente aveva circa tre ore di vantaggio su Jocelyne Pauly e circa sei su Sonia Furtado.

MARTEDÌ 10 SETTEMBRE, ORE 8 – Continua la marcia di Oliviero Bosatelli al Tor des Géants. Il bergamasco è arrivato alle 6.19 a Champoluc, seguito alle 7.25 da Reynolds Galen. I due erano usciti da Gressoney con una decina di minuti di distacco in più. Il terzo concorrente, Olivier Romain, è arrivato a Champoluc alle 8.08. Più distanti e non ancora transitati da Champoluc Gianluca Galeati, Sebastien Raichon e Danilo Lantermino, mentre al settimo posto c’è John Kelly, seguito da Enzo Benvenuto, Tiaan Erwe e Cristian Ionel Manole. È abbastanza delineata la situazione nella gara femminile con Silvia Trigueros che a Balma aveva tre ore di vantaggio su Jocelyne Pauly e oltre cinque su Sonia Furtado. La Trigueros è l’unica ad essere transitata da Niel, alle 6.44. A seguire nella top ten: Chiara Boggio, Kaori Niwa, Melissa Paganelli, Elisabetta Negra, Patrizia Pensa, Zoe Salt, Darcy Piceu.

LUNEDÌ 9 SETTEMBRE, 0RE 16 - Altri cambiamenti nella testa della gara con Oliviero Bosatelli che è uscito per primo dalla base di Donnas, dove era arrivato dopo di Olivier Romain: una ventina i minuti di vantaggio, che si sono però assottigliati all'ingresso a Sassa a soli quattro minuti. Al terzo posto Reynolds Galen, attardato di un'altra ventina di minuti abbondante. Ha dovuto ritirarsi Franco Collé per problemi alla vista. L'unica donna arrivata a Donnas è Silvia Trigueros che aveva più di un'ora su Jocelyne Pauly e più di due ore su Sonia Furtado a Champorcher.

LUNEDÌ 9 SETTEMBRE, ORE 9,30 - Cambio alla testa della gara. Alle 9,12 l'unico arrivato a Champorcher era Olivier Romain. Da Cogne, al secondo posto, con 20 minuti di distacco, era uscito Galen Reynolds, seguito a sette minuti da Oliviero Bosatelli. Franco Collé è invece uscito da Cogne alle 6.59, con circa un'ora e 45 minuti di ritardo. Si è ritirato Peter Kienzl. Cambio anche tra le donne con Silvia Trigueros uscita da Cogne alle 8.01 con circa un'ora di vantaggio su Jocelyn Pauly. Terza Sonia Furtado, arrivata a Cogne alle 9.16 ma non ancora uscita.

DOMENICA 8 SETTEMBRE, ORE 19 - Il via questa mattina alle 12 da Courmayeur. Dopo il Tor des Glaciers, è partita anche la gara regina, il Tor des Géants e nelle prime sette ore di gara, in parte anche sotto la neve, la testa della corsa è per Franco Collé, uscito alle 18.56 dalla base di Valgrisa, seguito da Peter Kienzl (19.08) e da Oliviero Bosatelli (19.13). Da Valgrisa sono usciti anche Romain Olivier, Glen Reynolds e Francesco Cucco. Tra le donne al rifugio Deffeyes è passata per prima Sonia Furtado, seguita da Silvia Trigueros Garrote a circa 8 minuti e da Jocelyne Pauly a circa 12 minuti. Nella top ten anche Darcy Piceu, Amy Sproston, Giuditta Turini, Scilla Tonetti, Denise Zimmermann, Patrizia Pensa e Zoe Salt. Ritirata Lisa Borzani a causa di problemi al ginocchio. Edizione record quella del 2019 con 920 concorrenti al via. Intanto prosegue anche il Tor des Glaciers, la nuova gara di 450 km e 32.000 m D+. In testa Luca Papi su Javier Puit e Masahiro Ono. Tra le donne conduce Marina Plavan, seguita da Licia Madrigal, da Anouk Baars e da Ita Marzotto.


Bargiel e Jornet sull’Everest

Si incrociano sulla montagna più alta della terra le storie di Andrzej Bargiel e Kilian Jornet. Mentre il primo è partito a fine agosto per tentare la discesa con gli sci dell’Everest (la spedizione si chiama Everest Ski Challenge), Kilian si trova in Nepal, in marcia verso l’Everest. Se il primo progetto era noto da tempo, sulla presenza di Kilian ai piedi dell’Everest non ci sono informazioni ufficiali anche se da qualche settimana iniziavano a circolare rumour. Secondo quanto ha potuto sapere desnivel.com l’idea di Kilian sarebbe quella di salire dal versante nepalese e non più tibetano, facendo base a Gorak Shep,a quota 5.164 metri, e non al campo base. Così affronterebbe la vetta più alta della terra in velocità, riducendo al minimo il materiale e senza bisogno della tenda per il campo base. Secondo alcune fonti interpellate dai colleghi spagnoli di Desnivel Kilian avrebbe anche un permesso per il Lhotse, mentre altre fonti parlano di una nuova via dal campo 2. Kilian era già stato all’Everest a maggio 2017, salendo due volte, la prima dal monastero di Rongbuk in 26 ore e cinque giorni dopo in 17 ore dal campo base avanzato, senza tuttavia battere i record di velocità da quel punto di Kammerlander (16h45’) e Stangl (16h42’). Sulle salite di Kilian all’Everest, come spesso avviene per gli ottomila, si sono anche succedute una serie di polemiche e dubbi sul fatto che il catalano sia realmente arrivato in vetta, in particolare da parte dell’alpinista statunitense Dan Howitt.


Catherine Poletti, la mia UTMB è come un rock

Non ci sono solo le note di Conquest of Paradise di Vangelis nella compilation di Catherine Poletti, meglio conosciuta come la signora di ferro del trail. Madame UTMB è una che le suona a tutti e infatti nel suo passato e in quello del marito Michel, che sta sempre un passo indietro come il principe consorte, ma è in perfetta sintonia con Catherine, ci sono tante note. «Siamo imprenditori e abbiamo sempre lavorato insieme, gestendo per 20 anni un negozio di musica e dischi - dice mentre parla seduta alla scrivania del 36 di Avenue du Savoy, quartier generale dell’UTMB, naturalmente a Chamonix - Siamo complementari sia come forma mentis che a livello decisionale e questa nostra sintonia si è subito palesata anche nell’avventura dell’UTMB». Un’avventura iniziata lontano e accompagnata per 17 lunghissimi anni dalle note di Conquest of Paradise. «Agli inizi degli anni 2000 le competizioni sulle ultradistanze erano pochissime, almeno qui in Europa. E mio marito, appassionato fondista, le inseguiva da un luogo all’altro. E io seguivo lui, accompagnandolo e facendogli assistenza. È stato proprio dopo una di queste gare che io e lui, di rientro a Chamonix, abbiamo pensato sul serio, per la prima volta, all’UTMB». Ma se Michel era l’atleta, perché proprio Catherine è la direttrice di gara della più importante (e ricca) gara del mondo ultradistance? «È ridicolo, ma delle nove persone che facevano parte del comitato organizzatore, io ero l’unica che non l’avrebbe corsa e quindi quella che avrebbe potuto tenere, anche durante la gara, le redini della situazione». La fama non sempre fa rima con simpatia e questo Madame UTMB lo sa. Spesso le decisioni targate UTMB sono state impopolari e criticate, ma alla fine si sono rivelate giuste. «Non proprio tutti ci amano, ma la maggior parte sì, noi facciamo il nostro e lo facciamo al meglio, del resto poco importa, o meglio, non ci preoccupa. Quando per la prima volta abbiamo introdotto materiali obbligatori, molti non ci hanno visti di buon occhio. Fino a che tutti sono convenuti alla nostra stessa conclusione: correre leggeri come Kilian è il sogno di tutti, peccato che non tutti siano veloci quanto lui e quindi i materiali obbligatori non sono qualcosa di superfluo, ma un vero e proprio salvavita in caso di emergenza». La mente va ancora alle note di Vangelis, a Catherine che balla, incurante della folla e dello stile, a Catherine che abbraccia i concorrenti all’arrivo. «Alla sua prima vittoria all’UTMB Rory Bosio per la fatica si lasciò cadere a terra. Io andai a sollevarla e i media dissero che mi ero intromessa e che avrei dovuto lasciarle vivere questo momento da sola. Sulla scorta di queste critiche, l’anno successivo mi guardai bene dall’andarle incontro. Lei, memore di quanto accaduto l’anno prima, appena tagliato il traguardo mi fece l’occhiolino e si gettò letteralmente tra le mie braccia!». Da donna a donna, in un triangolo perfetto: Catherine, Rory, io. Ma qual è la differenza tra i due sessi in gara? «Non è durante la gara, ma soprattutto al traguardo. Dopo una fatica immensa le donne arrivano composte, dignitose. Sono più eleganti, più attente anche al lato estetico. Ricordi il poster di dell’edizione 2018? Quella è una finisher, una finisher vera: sorridente, raggiante, bellissima… Non abbiamo voluto appositamente usare Photoshop né alcun altro ritocco proprio per non rovinare l’immagine luminosa di questa donna fantastica». Lo scettro della scena internazionale del trail è saldamente nelle sue mani, ma chi sarà il delfino? «Io e Michel non ci saremo per sempre, questo è ovvio, non abbiamo ancora designato uno e dei successori, ma sicuramente ci stiamo già lavorando». Intanto si pensa già alla prossima UTMB perché, alla domanda su quale sia stata l’edizione migliore, Catherine ha risposto senza esitazioni: «La prossima!». Cento di queste UTMB, Madame Poletti.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 120 DI SKIALPER, SE VUOI ACQUISTARLO VAI QUI