Da domani i Campionati italiani a Pontedilegno-Tonale
Il comprensorio Pontedilegno-Tonale è pronto a illuminarsi a festa per un lungo fine settimana che avrà il compito di assegnare i titoli tricolori giovani, under 23 e assoluti di skialp delle specialità sprint, staffetta e vertical. Da venerdì 13 a domenica 15 dicembre i migliori interpreti italiani e le giovani promesse, in rappresentanza dei Comitati Fisi d’Italia, andranno a caccia di medaglie nei tre eventi che l’Adamello Ski Team ha messo in cantiere. La sprint e la staffetta andranno in scena nella formula serale proprio a Ponte di Legno, creando una sorta di stadio con una cornice fatta di musica, intrattenimento e iniziative collaterali. La gara sprint scatterà alle 17.30 con le prime qualifiche per la categoria giovani, quindi seguiranno le sfide under 23, senior e master su un percorso allestito nei pressi del campo scuola Cida, perfettamente illuminato, che rispetterà gli standard imposti dalla Federazione per sviluppo e dislivello. Anche la staffetta di sabato godrà dello stesso teatro nei pressi della stazione della cabinovia a Ponte di Legno e identico sarà l’orario di partenza delle prime staffette giovanili: ore 17.30.
Domenica mattina invece spazio al vertical, che andrà in scena al Passo del Tonale con lo start della alle ore 10.30. Lo scorso anno gli scudetti tricolori erano andati al petto di Michele Boscacci ed Alba De Silvestro nella vertical race, di Robert Antonioli e Giulia Murada nella sprint, mentre la staffetta, come da pronostico, vide trionfare il Centro sportivo Esercito e al Comitato Alpi Centrali per quanto riguarda i giovani.
Transalp, il think-tank dello skialp itinerante
Ci sono eventi che diventano il simbolo di una filosofia di affrontare l’outdoor e l’avventura. Basti pensare al Raid Gauloises, all’UTMB o alla Parigi-Dakar. E, perché no, alla Fischer Transalp che nel 2020 arriverà al traguardo delle dieci candeline. Se oggi lo scialpinismo è sempre più legato all’idea del viaggio, di attraversare valli e regioni per andare da un punto all’altro, lo dobbiamo in buona parte alla Transalp. Quando nel 2010 un piccolo gruppo di skialper di lingua tedesca si diede appuntamento in un paesino dell’Austria c’era ancora un mondo da inventare. «La Transalp è nata proprio perché a quei tempi qui in Austria la maggior parte degli scialpinisti non faceva altro che su e giù in giornata per i monti mentre noi sapevamo che la nostra attrezzatura era molto resistente e credevamo che fosse perfetta per tour di più giorni: così abbiamo pensato che il modo migliore per farla conoscere fosse proprio quello di organizzare una traversata delle Alpi» dice Martin Eisenknapp, project manager della divisione scialpinismo del marchio austriaco. Da allora quello che era un esperimento è diventato un marchio ben conosciuto, entrato nell’immaginario dello skialper medio come l’avventura da provare una volta nella vita. Ma anche un think-tank dove sono nati alcuni degli sci più adatti allo skialp moderno.
Su Skialper 127 di dicembre-gennaio abbiamo ripercorso la storia della traversata delle Alpi con gli sci ai piedi, tra curiosità, aneddoti e prospettive per il futuro, però se volete provare a partecipare alla prossima edizione è meglio che ci pensiate velocemente. La Fischer Transalp 2020 è stata anticipata di circa un mese rispetto alla tradizione, con partenza dalla Slovenia il 2 marzo e arrivo in Austria, dopo essere passati per l’Italia, l’8 marzo. Fino al 12 gennaio c’è tempo per mandare la propria candidatura attraverso l’indirizzo Internet fischersports.com/transalp. Sono richieste ottima padronanza della tecnica sciistica, conoscenza dell’ambiente montano e un fisico allenato ad affrontare una settimana con medie di 1.500 metri di dislivello al giorno.
Kamchatka, la penisola di fuoco
«Io l’avevo già visitata, circa dieci anni fa, feci una vacanza di heliski. Si dormiva in città, a Petropavlovsk, si passavano ore in un hangar ad aspettare il bel tempo e, se poi eravamo fortunati, ci trovavamo su qualche pendio senza sapere esattamente dove. Elicotteri enormi, oblò piccoli, 25 persone: una funivia con le pale. Non mi era piaciuta l’esperienza nel suo insieme, ma la Kamchatka sì. La natura è meravigliosa e meritava un’altra chance» scrive così Paolo Tassi, insieme a Martino Colonna autore dell’articolo sulla Kamchatka che pubblichiamo su Skialper 127 di dicembre-gennaio.
E dopo quella esperienza Tassi in Kamchatka ci è tornato, scoprendo che sciare su un vulcano è un’esperienza particolare: «L’esposizione costante del pendio fa sì che le sciate siano infinite, non esistono punti intermedi dove fermarsi, si parte e si va...». E poi ci sono i geyser, spazi infiniti, granchi, gamberi e salmoni tra i migliori al mondo. Ecco perché vale la pena di leggere il reportage di 11 pagine che pubblichiamo su Skialper in edicola. E naturalmente la neve. Scrive Martino Colonna: «I vulcani della Kamchatka sono molto più grandi e attivi di quelli del Giappone e possono superare i 4.500 metri. L’altra sensibile differenza la fa il clima. La Kamchatka è più a Nord e quindi se uno pensa che gli inverni in Hokkaido siano particolarmente freddi e ventosi è solo perché non ha mai avuto a che fare con il clima della Kamchatka. Nella parte meridionale della penisola le temperature medie invernali sono inferiori ai meno 10 e le precipitazioni annuali superano i 2.000 mm di acqua l’anno, molta della quale cade sotto forma di neve. A fine aprile, quando siamo stati nella zona Sud della penisola, c’erano ancora due metri di neve al livello del mare». Sono quattro i vulcani sciati dal duo Tassi-Colonna: Avachinsky, Viluchinsky, Mutnovsky e Gorely, con dislivelli fino a 2.700 metri, raggiungibili con lunghi avvicinamenti in motoslitta, fuoristrada o gatto delle nevi. Welcome in Kamchatka!
Thomas Kähr: i giovani sono fondamentali per la crescita internazionale dello scialpinismo
Cambio al vertice della ISMF, la federsci internazionale dello scialpinismo: lo scorso fine settembre a sostituire Armando Mariotta è arrivato lo svizzero Thomas Kähr. Abbiamo rivolto qualche domanda al neopresidente.
Perché si è candidato alla presidenza?
«La mia motivazione nasce dalla passione per la montagna e per gli sport di montagna. Da molti anni sono un alpinista e arrampico. Lo scialpinismo è diventato la mia attività preferita in montagna. E sono felice e grato di poter ancora gareggiare in diverse manifestazioni di scialpinismo in Svizzera. Quindi, penso di avere buone ragioni per dirlo, conosco lo sport di cui sono presidente. Inoltre, sono in grado di offrire la mia esperienza di lunga data nella gestione generale, nella gestione dello sport e nella comunicazione. Sono fiducioso di poter contribuire in modo significativo a creare una federazione efficiente e gestita senza intoppi».
Lei è vicepresidente dell’UIAA, ci sarà una collaborazione tra le due federazioni?
«A causa di apparenti conflitti d’nteresse ho lasciato tutte le funzioni ufficiali dell'UIAA alla fine di ottobre 2019, data dell'Assemblea Generale dell'UIAA. E - tra l'altro - non avrei il tempo di lavorare per entrambe le federazioni. La questione di una possibile collaborazione non è ancora stata discussa internamente. In questo momento, non escluderei una collaborazione selettiva in aree in cui entrambe le parti possono trarne beneficio, per esempio in materia antidoping o medica».
Quale sarà il suo programma di lavoro per la federazione? Soprattutto per lo sviluppo della Coppa del Mondo?
«Nel campo delle gare di Coppa del Mondo le priorità saranno due: da un lato, svilupperemo ulteriormente la qualità degli eventi esistenti, in particolare nel campo del marketing e della comunicazione e della collaborazione con i nostri organizzatori locali. Poi ci impegneremo nell'organizzazione di gare di Coppa del Mondo nelle Americhe, dove non ne abbiamo attualmente. Questo porterà lo sport a un livello globale con gare di alto livello in tre continenti».
Cosa pensate che si debba fare per lo sviluppo dello scialpinismo?
«Siamo felici di vedere che gode di una crescente popolarità nella comunità degli sport invernali in generale. E sempre più stazioni invernali hanno scoperto questo fantastico sport per arricchire la propria offerta. Lo scialpinismo è di tendenza, perché è sano e vicino alla natura, e non hai bisogno di impianti per essere praticato. Il nostro primo obiettivo sarà quello di ispirare un maggior numero di sportivi a praticare lo skialp. Un ampio movimento giovanile sarà essenziale per sviluppare le gare internazionali. I partner principali per questo sviluppo giovanile saranno le nostre federazioni nazionali che sono vicine alle comunità locali come gli sci club».
E il contratto con Infront? Non pensate che in questo momento sia meglio diffondere gratuitamente le immagini video delle gare per avere più visibilità e solo dopo cercare di ‘vendere’ lo skialp? Pensa che sia possibile avere un canale web per trasmettere le gare in diretta?
«Come ho già detto, marketing e comunicazione saranno una delle nostre priorità nel prossimo futuro. Ne discuteremo anche con il nostro partner Infront, con il quale abbiamo un intenso dialogo».
Olimpiadi, rapporto con La Grande Course, quali sono i vostri progetti?
«Entrare a far parte del movimento olimpico è il sogno di ogni atleta. Questo vale anche per lo scialpinismo. Intanto siamo felici di metterci in mostra in occasione dei prossimi Giochi Olimpici Invernali Giovanili del prossimo gennaio a Losanna, con gare nella vicina Villars-sur-Ollon. Sarà un’esperienza importante per diventare sport olimpico a Milano-Cortina del 2026. Per quanto riguarda La Grande Course, sarà importante avere un rapporto buono e proficuo con gli organizzatori di questi fantastici eventi. La comunità dello scialpinismo è piccola e tutti coloro che ne fanno parte dovrebbero avere un interesse intrinseco a collaborare».
Natural born skiers
«Parlare con persone che vivono per lo sci non è così scontato come sembra. Lo scivolare in montagna occupa un posto tanto intimo in ciascuno di loro, che doverlo raccontare non è stato sempre facile. Anche trovarle queste persone non è stato banale: come per i tifosi nel calcio, il rischio di incappare in infervorati occasionali è concreto. Difficile distinguere tra chi lo sci lo vive per se stesso e chi per la story e il post del weekend. Per molti, la ricerca diventa far credere al proprio pubblico di star vivendo un sogno: Yeah! Seguiteci! Balle! È spesso vero che di solito, quando la gente è libera di fare ciò che vuole, si imita a vicenda». Scrive così Andrea Bormida nell’articolo Natural Born Skiers, su Skialper 127 di dicembre-gennaio. Un articolo nel quale invece noi volevamo persone che vivono lo sci come elemento naturale, non perché fa stile. Volevamo degli sciatori, persone che vivono da tempo la loro passione indipendentemente dalla latitudine.
«Lo schema di partenza è però stato sempre lo stesso: Dimmi chi sei? Per poi farselo raccontare attraverso il proprio modo di vivere lo sci e la sensazione di libertà che ne deriva. Quindici storie diverse, tutte di passione. Un girone di dannati e di romantici. Un collage variopinto di piccoli ritratti, corti o lunghi, intensi o meno… non sta a noi dirlo. Non vogliamo briglie, tutto molto free. Alcuni li conoscevamo, altri sono stati una scoperta. Tutti hanno una storia che li ha portati a sciare da soli o in gruppo, magari a lavorare con gli sci per cercare di trasmettere qualcosa o per valorizzare il proprio territorio, o più semplicemente per arrivare a star bene con se stessi». Tutti veri freetourer. Chi sono? Paolo Tassi, Enrico Dellarole, Andrea Cismondi, Ettore Personnettaz, Roberto Parisse, Silvia Moser, Fabio Beozzi, Simone Barberi, Pietro Marzorati, Marco Maffesi, Elisa Vottero, Alfio Scigliano, Mauro Soregaroli, Francesco Tremolada ed Enrico Mosetti. Se volete conoscerli meglio… non vi resta che comprare Skialper 127 di dicembre-gennaio.
In arrivo Skialper 127 di dicembre-gennaio
Duecentoventiquattro. Nel dubbio lo scriviamo anche in cifre, 224. Sono le pagine del prossimo numero di Skialper, in edicola a partire dal 10 dicembre e ordinabile anche online, un fascicolo da record per celebrare l’inverno che è già arrivato, portando tanta neve sulle Alpi. Un numero tutto speciale, con la copertina rinnovata nello stile, dedicato alla new era dello scialpinismo. Volevamo chiamarlo freetouring, oppure scialpinismo moderno. Ma in effetti le categorie ci stanno strette e non volevamo alzare steccati. Lo spirito di Skialper 127 di dicembre 2019/gennaio 2020 è quello descritto dal nostro direttore editoriale Davide Marta nella Buyer’s Guide: «Montagna, godere, community, ricerca estetica, linea, ambiente, condivisione, neve intatta, obiettivi, eleganza, esperienza, unicità, passione. Il freetouring è una terra di mezzo, è qualcosa che ancora non è definito al 100% ma che si sta sempre di più connotando. Unisce l’esperienza sciistica, il piacere edonistico della linea intatta e ben sciata. Esperienza sciistica che però non può essere separata dalla ricerca di spazi intatti, lontani dalle solite tracce, il che richiama automaticamente la necessità di muoversi in distanza, dislivello ed ingaggio. E c’è anche un altro aspetto, quello del fare le cose in compagnia, con amici, lasciare da parte la competizione, la sfida, la performance a tutti i costi. Dallo scialpinismo classico si prende la voglia di esplorare, di andare a vedere lassù, di là. Ma si lascia indietro l’ossessione per la vetta, per la conquista, per la lotta con l’Alpe. Del freeride si prende la voglia di tracciare pendii vergini, di farlo con stile, con eleganza, con rispetto dell’ambiente». Ecco, nel disegnare Skialper 127 siamo partiti dalla forza di questa idea più che da un termine preciso.
MONSIEUR BRUNO - Trend setter: colui che avvia nuove mode e stili. Qualcuno lo vorrebbe essere, qualcun altro fa finta di esserlo e poi c’è chi lo è davvero, quasi inconsapevolmente: Bruno Compagnet appartiene a quest’ultima categoria. «Fino a pochi anni fa lo scialpinismo era considerato un’attività da vecchi, di quelli che andavano in giro con pantaloni di Cordura attillati, sci stretti e tendenzialmente sciavano male. I giovani cool, invece, volevano essere freerider, abbigliamento colorato e sbragalone, adesivi ovunque - per poco anche sulla lente della maschera - e sci fat che facevano voltare i turisti in coda alla seggiovia. (…) Poco alla volta, quattro o cinque anni fa, le cose sono cominciate a cambiare, grazie sia alla comparsa di attrezzatura specifica, ma anche a causa di alcune figure che importavano la cultura buona del freeride nel mondo delle pelli di foca: set-up più discesistici, un’estetica curata tanto nel materiale quanto nell’abbigliamento, un rispetto reverenziale verso la discesa che si tramutava nella ricerca dei pendii e nevi ideali per divertirsi e un generale abbandono dell’epicità dell’alpinismo a favore dell’edonismo da inseguire attraverso lo sci. Insomma, di colpo lo scialpinismo non era più un passatempo da sfigati, ma il nuovo trend degli sport invernali, grazie anche a brand disruptive come Black Crows. I freerider montavano attacchini sui loro sci e gli scialpinisti cercavano di capire cosa significasse il termine rocker. Entrambi ignoravano che in realtà per alcuni quella pratica altro non era che la naturale evoluzione dello sci che avevano praticato negli ultimi venti o trent’anni. Bruno è uno di questi». Quindici pagine a tu per tu con Compagnet.
KAMCHATKA, LA PENISOLA DI FUOCO - Scrive Paolo Tassi: «La penisola della Kamchatka è costellata da un’infinita catena montuosa dalla quale si ergono vulcani di tutte le dimensioni. Non sono tutti uguali: i crateri a volte si slanciano verso il cielo, quelli a cono, e non sono facilissimi da risalire. Anzi, più ci si avvicina al cratere, più è ripido e ghiacciato. Ci sono vulcani che implodono, creando caldere enormi. In altre occasioni geyser e fumarole compaiono qua e là, rendendo la montagna più viva che mai e facendo capire che lì sotto c’è un cuore pulsante, ribelle e pronto a eruttare come un bambino dopo un sorso di Coca Cola. Vale veramente la pena sciare un vulcano: l’esposizione costante del pendio fa sì che le sciate siano infinite, non esistono punti intermedi dove fermarsi, si parte e si va...». Ed è proprio quello che abbiamo fatto noi pubblicando l’ampio reportage di Paolo e Martino Colonna.
ARGENTERA RELOADED - Mai decollata veramente come stazione sciistica, la località piemontese è uno dei migliori segreti delle Alpi per discese nella polvere profonda, un segreto custodito anche da celebrità come Candide Thovex e Kaj Zackrisson. Ma ora la probabile chiusura degli impianti obbliga a riavvolgere il nastro e disegnare un nuovo futuro. Scrive Federico Ravassard: «Argentera è sempre stato il posto di cui non bisognava parlare. Troppo bella, troppo poco affollata per essere data in pasto agli affamati di polvere, specialmente quando lì se ne trovava mediamente più che nel resto dell’arco alpino. Protetta dalla massa anche grazie al suo isolamento: dalla pianura del cuneese bisogna sciropparsi cinquanta chilometri di curve, spesso intasati dai tir diretti verso la Francia attraverso il Colle della Maddalena. Da Milano ci vogliono quattro ore, da Torino poco più di due: forse troppi per una stazione che ha da offrire una seggiovia e uno ski-lift. Ciononostante il mito di Arge è cresciuto negli anni, senza tuttavia riuscire mai a diventare un fenomeno mainstream come è successo ad altre località simili, per rimanere in Piemonte, Prali, forse anche a causa del fatto che i suoi frequentatori hanno preferito mantenerla per sé, per fare in modo che nei giorni di polvere in coda agli impianti ci si potesse contare nell’ordine di un paio di decine di sciatori». Un reportage di 17 pagine: siamo andati a trovare i local e a visitare Arge per capire quale futuro potrà avere.
CANALI A MANETTA - Sci dai 105 millimetri in su, sbananati e con montaggio centrale. Pellate e ingaggio alpinistico seguiti da curvoni in stile big mountain nelle forcelle più strette del versante opposto. È questa la new era del freetouring dolomitico, che raggiunge la completezza nel progetto Linea: sciare discese estreme (ripetizioni, prime ripetizioni e forse anche prime assolute) dall’inizio alla fine, senza averle risalite, alla massima velocità e nel caso anche fissando ancoraggi per calate, avvalendosi di un normale pianta spit. Ne scrive Alberto Casaro.
TRANSALP, IL THINK TANK DELLO SKIALP ITINERANTE - La traversata delle Alpi organizzata da Fischer, che nel 2020 festeggia i dieci anni, è diventata negli anni il simbolo di un modo di affrontare la montagna. E incubatore di idee per realizzare gli sci per lo scialpinismo moderno.
ELECTRIC GREG - Greg Hill, 43 anni, scialpinista canadese, ha messo la creatività al centro della sua idea di esplorazione, arrivando a sciare fino a 600.000 metri di dislivello in un anno e 100.000 in un mese. Ma sempre con almeno 106 millimetri sotto il piede. E ora si è lanciato in una nuova sfida. Lo abbiamo incontrato in Canada. La sua filosofia? «Mi piace salire, ma per trovare una nuova linea, sciare un couloir, esplorare la montagna. Quando unisci un buon livello di fitness e di esperienza hai possibilità infinite, puoi andare su quella cima, esplorare quella valle, sciare quel pendio. È una sensazione di infinito che non dipende dal livello, perché accomuna tutti quelli che vivono lo sci di montagna con questo spirito, certo se sei forte gli obiettivi e la soddisfazione per quello che hai fatto aumentano. Le montagne più belle? Quelle che non hai ancora sciato».
NATURAL BORN SKIERS - Lo schema di partenza è stato sempre lo stesso: Dimmi chi sei? Per poi farselo raccontare attraverso il proprio modo di vivere lo sci e la sensazione di libertà che ne deriva. Quindici storie diverse, tutte di passione. «Un girone di dannati e di romantici – scrive Andrea Bormida - Un collage variopinto di piccoli ritratti, corti o lunghi, intensi o meno… non sta a noi dirlo. Non vogliamo briglie, tutto molto free. Alcuni li conoscevamo, altri sono stati una scoperta. Tutti hanno una storia che li ha portati a sciare da soli o in gruppo, magari a lavorare con gli sci per cercare di trasmettere qualcosa o per valorizzare il proprio territorio, o più semplicemente per arrivare a star bene con se stessi. Parlando con loro abbiamo avuto l’occasione di scoprire un’infinità di declinazioni del termine sciare: non è facile descrivere una sensazione, dopotutto. E non vogliamo nemmeno farlo, ma semplicemente parlarne. Abbiamo iniziato da qui: freetouring è sensazione. Anzi, sciare è sensazione. Perché non abbiamo inventato niente di nuovo!».
MUST HAVE - 26 pagine tutte da guardare con i migliori ‘oggetti’ per il freetouring ma anche tante altre idee regalo, dal casco, all’abbigliamento.
LINEE GUIDA - In regalo 16 pagine con pratiche illustrazioni con le linee guida per la ricerca e il recupero delle vittime da valanga tramite apparecchi A.R.T.Va. a cura di Maurizio Lutzenberger, uno dei massimi esperti in materia. Un inserto da conservare e leggere con attenzione.
MATERIALI - Gli zaini airbag elettrici di Black Diamond e Ferrino ai raggi X, il nuovo Gore-Tex Pro in arrivo dall’autunno 2020, tutti i segreti dello sviluppo degli attacchi Ski Trab, le differenze tra gli scarponi Dynafit Hoji Pro Tour e Hoji Free, l’abbigliamento freetouring secondo Crazy e gli artistici caschi DMD.
PORTFOLIO - Otto pagine di foto emblematiche, dallo sci notturno nei canali dolomitici, a quello, sempre notturno, con la Nebulosa di Orione sullo sfondo, al progetto di Cody Townsend di sciare le linee più cool del Nord America in tre anni, finoi alla traversata con gli sci da Est a Ovest della Nuova Zelanda.
Dream Line, la madre di tutte le linee
Cinque settimane. Cinque settimane per salire su un aereo da San Francisco a Chengdu, in Cina, arrampicarsi sugli 8.516 metri della quarta montagna più alta della terra, sciare la madre di tutte le linee e ritornare a casa dai figli di 9 e 11 anni insieme al compagno di avventura e di vita. Con un chiodo fisso nella testa: la Dream Line del Lhotse. Ottocento metri di canale con tratti oltre i 50 gradi, un toboga che si tuffa dritto a valle tra le rocce, in alcuni punti largo poco più di un metro. Una linea da sogno, tanto bella e perfetta da sembrare parte di un videogioco. Una linea a lungo bramata, solo sfiorata nel 2007 da Jamie Laidlaw. «Quando siamo arrivati in vetta con tutta quella neve e ci siamo resi conto che avremmo potuto sciare la Dream Line dall’inizio, senza calarci tra le rocce, è stato bellissimo, un momento che ricorderò per sempre: eravamo nervosi, ma appena abbiamo messo gli sci l’eccitazione ha preso il sopravvento» dice Hilaree Nelson, 45 anni, che nel 2018 ha preso il posto, dopo 26 anni, di Conrad Anker come capitano del Global Athlete Team di The North Face. Quella sciata da HIlaree e Jim Morrison è un’impresa incredibile in un’annata pazzesca, che ha visto anche la discesa di Bargiel dal K2. Come incredibile è la vita di questa donna originaria dello stato di Washington e del suo compagno. Nel 2005 Hilaree (allora si chiamava O’Neill) ha sciato il ChoOyu, nel 2012 è stata la prima donna a salire in 24 ore Everest e Lhotse senza ossigeno e vanta più di 40 spedizioni in tutto il mondo e discese dalla Kamchatka alla Bolivia. In India con Jim Morrison nel 2013 ha sciato la parete Ovest del Papsura (6.440 m), anche soprannominato in maniera poco rassicurante Peak of Evil (picco del male), una linea difficile di un’estetica ineccepibile che ripercorreva in parte l’ascensione neozelandese del 1991. Fino al 2011 le vite di Hilaree e Jim erano separate e Jim felicemente spostato e padre di un bimbo e una bimba di cinque e sei anni. La sua famiglia sparisce in un istante in un incidente aereo e la vita va in frantumi. Poi si sono conosciuti al Makalu e dopo sei mesi hanno iniziato a frequentarsi. Ora per Jim «ci sono i suoi bambini ai quali preparare cereali e uova a colazione». E le foto di una giornata pazzesca, il 30 settembre 2018, da guardare e riguardare per tutta la vita.
Hilaree, è giusta la definizione adventurer per descriverti?
«È una bella domanda: negli ultimi due anni ho iniziato a dire che sono una adventurer perché era un ottimo ombrello sotto il quale racchiudere la mia passione per lo sci, soprattutto per il ripido, diciamo che anche expedition skiercalzerebbe a pennello».
Da dove arriva questa passione per la montagna e l’avventura?
«Sono originaria dello stato di Washington e ho messo gli sci a tre anni, ma è stato all’università che ho iniziato a uscire di pista, a mettere le pelli, ad arrampicare e salire sui primi quattromila del Colorado. Poi, appena finiti gli studi, sono andata a Chamonix ispirata da un film di sci ripido. Volevo restarci un anno e mi sono fermata per un lustro… avendo la fortuna di sciare un po’ con tutti i grandi, da Shane McConkey a Jeôme Ruby. Quando ripenso a quegli anni, soprattutto a quel primo anno, mi rendo conto che sono una sopravvissuta perché facevo cose per le quali non avevo esperienza».
Come hai iniziato a sciare in giro per il mondo?
«È iniziato tutto a Chamonix, credo nel 1999, ho incontrato qualcuno di The North Face e dopo pochi mesi mi sono ritrovata in spedizione in India. Mi hanno cercato perché avevo fatto delle ripetizioni importanti, probabilmente in alcuni casi le prime discese al femminile. In quegli anni riuscivo a portare a casa qualche soldo partecipando a gare come i campionati del mondo di sci estremo e li investivo in spedizioni».
Che cosa ti spinge a imprese come quella del Lhotse?
«La voglia di andare sempre più in alto e in luoghi sempre più selvaggi e poco affollati, questa è la mia droga: il Lhotse in autunno univa tutte le caratteristiche. Quando guardi quel canale dalla vetta dell’Everest non puoi non rimanerne incantato».
L’idea di sciarlo è nata nel 2012?
«Gli sci li avevo portati e già nel 2007 quando Laidlaw aveva cercato di sciare il Lhotse dalla vetta ne avevo sentito parlare, però quell’anno non era proprio sciabile, non c’era neve. E anche quando siamo arrivati a settembre non eravamo sicuri che lo fosse. Abbiamo scelto l’autunno per trovare meno gente sulla montagna e più neve, ma eravamo anche in balia dei terribili venti che soffiano in quel periodo in quota».
E in effetti al Lhotse di gente non ne avete proprio trovata…
«No, eravamo gli unici sulla montagna, io, Jim, i fotografi Nick Kalisz e Dutch Simpson e cinque tra sherpa e icefall doctor. È stato incredibile perché i fotografi non erano mai andati oltre i 6.000 metri e sono arrivati in vetta, c’era un’atmosfera molto elettrica, anche tra gli sherpa».
Avete usato l’ossigeno?
«Non mi piace usarlo, ma a 8.200 metri abbiamo deciso di farlo perché per noi la priorità era la discesa, arrivare in vetta nei tempi giusti e nelle condizioni per scendere e a quella quota l’ossigeno aiuta a scaldare il corpo. Da lì alla cima ci abbiamo impiegato due ore, senza ce ne sarebbero voluto cinque».
Raccontaci della discesa, soprattutto del Couloir.
«C’era tanta neve e in salita abbiamo fatto fatica, ma non immaginavamo che ce ne fosse così tanta lì dentro. Tutta la discesa, compresa la Face, fino al campo 2, è di circa 2.100 metri di dislivello, e ha preso circa quattro ore, ma la maggior parte del tempo l’ha richiesto la sezione del Couloir. Siamo stati vicini perché era la parte più impegnativa, l’ampia parete sottostante l’avevamo già provata nella fase di acclimatamento e lì ci siamo allontanati un po’ e abbiamo gustato la discesa. Sciare con Jim, compagno anche nella vita, mi dà una grande fiducia».
Come era la neve? Che attrezzatura avete usato?
«Cambiava a ogni curva, in vetta era zuccherosa, in alcuni tratti si sprofondava, altre volte c’era la costa che si rompeva. Non si può dire bella neve, ma siamo riusciti a divertirci. Abbiamo lasciato i piumini e siamo scesi con la tuta da sci. Il feeling che cerco è quello dello sciatore, voglio essere leggera e non avere qualcosa che rende l’esperienza meno sciistica. Non avevamo copriscarponi e le scarpe erano Tecnica Pro Guide, gli sci Blizzard Zero Pro e gli attacchi Dynafit. Non è stato facile salire con quegli scarponi, ma in discesa con un quattro ganci è tutta un’altra cosa. Abbiamo usato la piccozza solo in salita e bastoni normali da sci».
Come vi siete preparati?
«Avevamo solo cinque settimane a disposizione, per la quota siamo stati in parte aiutati dal fatto di vivere a Telluride, a 2.600 metri di quota, e abbiamo usato le tende ipobariche, che simulano l’atmosfera che si trova a quelle quote, per guadagnare tempo. Il difficile era arrivare dall’estate e passare all’inverno. La salita dal campo 3 alla vetta ha richiesto 12 ore e per allenarci a stare fuori così tanto abbiamo programmato lunghe uscire nei dintorni di Telluride, sulle vette più alte e rocciose. E poi siamo scesi di corsa».
Cosa vuol dire essere adventurer, sciatrice estrema e allo stesso tempo madre?
«Essere madre è un mestiere difficile, duro, richiede tanta pazienza. Salire un ottomila e scenderlo è altrettanto duro, ma sono due cose diverse. Una volta le tenevo separate, ora cerco di farle andare d’accordo. Porto a scalare i miei figli, li porto ai meeting degli atleti The North Face, parlo loro dei rischi che si corrono. Ma si può morire anche andando in auto. Quando scio la concentrazione è massima su quello che faccio, ma poi penso a loro che sono così lontani e mi mancano, mi entrano prepotentemente nella testa. Con il mio ex marito abbiamo l’affidamento condiviso, una settimana a testa. Al Lhotse era il viaggio più lungo e sono stati con lui, poi è andato in vacanza. Per fortuna abbiamo, sia io che il mio ex marito, dei genitori comprensivi e molto disponibili».
Che cosa fa nella vita Hilaree, oltre a sciare?
«Vivo grazie al ruolo di capitano del Global Athlete Team di The North Facee girando per il Nord America a tenere conferenze per il National Geographic».
L’Himalaya, gli ottomila, sono il futuro dello sci ripido?
«Diciamo che questa affermazione è sulla strada corretta, ma non limiterei tutto agli ottomila, ci sono vette di seimila, settemila metri in India o in Pakistan con linee incredibili».
Il prossimo obiettivo?
«Vorrei tornare in Himalaya fra un anno, magari a rivisitare delle linee già fatte, ma il progetto non lo dico».
Toglici una curiosità, se mai fosse possibile confrontarle, qual è la più bella linea sciata, il Papsura o il Lhotse?
«Il Papsura è stata la più impegnativa, la più difficile, non hai un attimo di tregua, non puoi dividerla in sezioni e tirare il fiato come al Lhotse. Il Lhotse la più bella sorpresa, divertente. Sono state due discese molto diverse, che metto prime a pari merito, ma nella vita è bello anche divertirsi».
Hai mai sciato in Italia.
«Ho fatto una delle giornate più memorabili che ricordi, a fine anni novanta, sul Marinelli al Monte Rosa».
A volte la dream line può essere anche dietro casa…
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124
The Collective disponibile online
Ventisei diversi atleti di nove Paesi, sciatori e sciatrici di lingue e stili diversi, dal rail al pillow, passando per il ripido sciato in velocità, con meno curve possibili. Dai piatti parchi innevati di Helsinki ai boschi carichi di neve del Giappone, con una sosta sui quattromila della Svizzera. Star del calibro di Sam Anthamatten, Duncan Adams, Sarah Hoefflin, Alex Hall, Kelly Sildaru, Antti Ollila. Lo ski colossal The Collective, prodotto da Faction in collaborazione con Red Bull Media House, potrebbe essere uno degli altri, uno dei tanti movie tutti salti e sciate impossibili. E in parte lo è perché il livello è decisamente alto e le riprese che non lesinano nell’utilizzo di droni, Gopro & co sono spettacolari. Ma se The Collective ha fatto il tutto esaurito nelle 400 proiezioni del world tour, ha mandato in tilt il mini sito dedicato ieri a partire dalle 17, ora del lancio online, e collezionato duemila visualizzazioni sul canale Red Bull Snow di Youtube in una sola ora è perché dietro a tanti salti, kicker, pillow e ski star c’è di più, c’è un’idea. Quella che lo sci, nelle sue diverse anime, dalle pelli ai twin tip, è un’avventura incredibile, un caleidoscopio di emozioni da vivere insieme. «Non importa chi sei e da dove vieni, è bello essere parte di qualcosa di speciale». Ed è proprio il lato esperienziale, a partire dalla bella colonna sonora firmata tra gli altri da Peggy Gou, Chaka Khan e George Clanton, disponibile gratuitamente a partire da ieri e dal format scelto da Etienne Mérel per comunicare la sua idea di sci come melting pot di emozioni e sensazioni che abbattono i muri - tema decisamente attuale - a coinvolgere e a fare volare via i 49 minuti del film. In più c'è anche tanta visibilità per le donne - Kelly Sildaru, Sarah Hoefflin, Mathilde Gremaud, Giulia Tanno, Caroline Claire et Margaux Hackett insieme formano un capitale di medaglie olimpiche, mondiali e agli X Games - altro tema attuale e spesso poco in luce negli ski movie. Alla fine quello che rimane dopo tutti quei wow a guardare Anthamatten che si mangia i ripidi 4.000 della Svizzera in quattro curve e Alex Hall passare con disinvoltura dai rail di Helsinki ai pillow della British Columbia o ai kickers di La Clusaz è la forza dell’idea, ben sfruttata dal regista.
The Collective è un film a episodi, collegati tra di loro dall’appartenenza degli atleti al team Faction e dalla colonna sonora che ti tira da un luogo all’altro e da un salto su kicker a un atterraggio nella neve soffice del Giappone con toni sempre simili ma allo stesso tempo coinvolgenti. Le location sono il ghiacciaio di Folgefonna in Norvegia, Laterbrunnen, Leysin e Saas Fee in Svizzera, Hakuba in Giappone, Helsinki, la British Columbia e La Clusaz. Con un intelligente editing Mérel ci fa fare il giro del mondo e del calendario, iniziando con il sole che non tramonta mai e gli impianti chiusi dell’estate nordica, immergendoci nel freddo inverno per poi chiudere a fine stagione sulle Alpi francesi, con le piste ancora innevate ma gli impianti chiusi, come a dire che un anno è passato ma la ciclicità della vita saprà proporre altre emozioni, perché le più belle sono quelle che devono ancora essere vissute. La convivialità dello sci, la condivisione di passioni che vanno oltre la mera curva nella powder è rappresentata con ricorrenti inquadrature che chiudono sulle crew sorridenti dopo le session, ma anche con l’audio delle risate degli amici durante le sciate. Però è il doppio piano scelto per dividere l’azione pura dal doposci o dai momenti di convivialità sulla neve l’idea più potente. Mérel ha scelto di riprodurre l’effetto dei vecchi filmini super8, con sensazioni molto reali per chi quei filmini li ha visti proiettare e scritte fedeli allo stile dell’epoca, ma soprattutto utilizzando in questi frangenti immagini con formato quattro terzi per rappresentare giochi di società, tavolate e bevute. Così si ha quell’effetto libro dei ricordi che ognuno collega prepotentemente al proprio vissuto. Quello senza gli sci, naturalmente, almeno per la maggior parte di noi. E poi a rendere più umani i protagonisti c’è una lunga serie di blooper (gli errori) sugli sci nei titoli di coda. Ecco perché vale la pena di vedere The Collective. E di ascoltarsi la colonna sonora, anche dopo averlo visto.
I 26 protagonisti degli episodi, ma rigorosamente tutti episodi ‘collettivi’, mai un solista, sono: Alex Hall, Alexis Ghisleni, Andrew Pollard, Antti Ollila, Ben Buratti, Benjamin Forthun, Caroline Claire, Cody Cirillo, Corey Jackson, Daniel Hanka, Duncan Adams, Eirik Sateroy, Giulia Tanno, Kelly Sildaru, Mac Forehand, Margaux Hackett, Markus Fohr, Mathilde Gremaud, Pablo Schweizer, Sam Anthamatten, Sarah Hoefflin, Shingo Sasaki, Taisuke Kusunoki, Tim McChesney, Timothé Sivignon, Will Berman.
The Collective, oltre che nel player video di questo articolo, può essere visto online sul sito www.thecollective.film e sul canale Youtube di Red Bull Snow in 4k. Buona visione!
Crans-Montana Rando Parc
Ufficio del Turismo di Crans-Montana, Svizzera, Vallese. Ampie vetrate che danno sulla strada. Nonostante sia un giorno infrasettimanale c’è comunque chi, sci in spalla, si affretta in direzione della cabinovia. «Nei week-end - mi racconta Jenny, responsabile dell’area comunicazione - qui è tutto un brulicare di sciatori, snowboarder e ciaspolatori, di famiglie coi bambini e di giovani che passano la giornata sulle piste e la concludono con l’après-ski. La scorsa settimana abbiamo ospitato le atlete di Coppa del Mondo». Esita un attimo, ma poi continua, aprendo il viso in un sorriso: «Ha vinto la vostra Brignone». Probabilmente avrebbe preferito commentare il successo di un’atleta della squadra elvetica, ma d’altro canto le vittorie, quelle vere, vanno riconosciute. Non posso che ricambiare quella mezzaluna felice, che mette in evidenza i denti bianchissimi e fa da cornice agli occhi azzurro chiaro. Nicolas, al mio fianco, annuisce e a tratti allunga lo sguardo oltre i vetri. Scruta in attesa di vederla arrivare. E lei, finalmente, arriva. Preceduta da una trottolina dagli occhi grandi, chiusa nel suo cappottino e con le guance tempestate di puntini rossi. I capelli biondi, come quelli della mamma, sono nascosti dal berretto di lana. Gli occhi, invece, sono quelli del papà. Mi guarda dal basso dei suoi quattro anni e mezzo, mentre addenta un panino. Dietro di lei, Séverine ci viene incontro con passo leggero. Si scusa per il ritardo, sfoderando il sorriso di chi sa farsi perdonare. Lei è Séverine Pont-Combe. Scialpinista, campionessa, ma anche mamma e lavoratrice. Essere tante cose contemporaneamente non è semplice e questa mattina il suo essere mamma ha avuto la meglio. «Si è svegliata con questi puntini rossi su tutto il corpo e quindi siamo dovute andare dal dottore» esordisce indicando la figlia e quel rossore sulle gote che, se non me lo avesse detto, avrei imputato al freddo. Uno sfioro di labbra sulla guancia a Nicolas, suo marito, che mi ha tenuto compagnia fino a questo momento. Nicolas è uno a cui piace ridere e sorridere, si vede. Ex allenatore della nazionale svizzera di scialpinismo, ex maestro di sci, la storia di Séverine non potrebbe essere raccontata senza di lui. Vivono a Crans-Montana da circa una decina d’anni, insieme alle due figlie. I genitori di entrambi abitano lontani. La scelta di non mandare le bambine alla scuola materna li ha portati a dover essere costantemente presenti, a turni, per occuparsene. Una scelta non semplice, che dimostra carattere e determinazione, le stesse caratteristiche che ci vogliono per vincere le gare.
Contro ogni previsione oggi non nevica. Il cielo non è azzurro ma, a tratti, si scorgono dei buchi di sereno. «È tutto merito del microclima di questa zona - spiega Nicolas mentre sistema lo zainetto sulle spalle della figlia - spesso all around nevica, ma qui no». Si sforza di parlare italiano, per mettermi maggiormente a mio agio, e a volte inciampa in qualche costrutto che fa sorridere. E quando l'italiano non basta più, parla inglese. Con Stefano, il fotografo, la lingua è invece il francese. Io non capisco il francese, Stefano non capisce l’inglese: il tutto prende i connotati di una allegra scenetta poliglotta, che sfiora il comico. La Babele viene interrotta da Séverine, che riprende le redini della situazione. Uno scambio veloce di battute per decidere da dove partire per iniziare la nostra visita al Rando Park. Crans, Barzettes e Aminona sono i tre starting point possibili e, da questi, una miriade di varianti. Mi sento una privilegiata, nel nuovo paradiso dello scialpinismo e accompagnata da una campionessa della disciplina. Quindici itinerari poco distanti dalle piste, su oltre di 40 chilometri di sentieri, con un dislivello positivo di 8.000 metri. Sono queste le dimensioni del gigantesco trekking park inaugurato questo inverno e voluto dall’intero comprensorio, con la preziosa collaborazione di Nicolas e Séverine. Perché se in un posto ci vivi, se lo ami, vorresti che lo amassero anche gli altri e soprattutto vorresti che fosse valorizzato al meglio. Beh, qui a Crans-Montana hanno saputo farlo. Turismo intelligente, turismo per tutti, non solo per i pistaioli; a me piace chiamarlo così.
Mentre aspettavamo Séverine, Nicolas mi ha raccontato con entusiasmo di questo progetto. Gli brillavano gli occhi. «Un’idea che è nell’aria già da quattro, cinque anni. Il popolo degli scialpinisti, che ora è composto anche da quelli che risalgono le piste, è sempre più numeroso. Lasciarli su pista diventava quindi pericoloso, sia per loro sia per gli sciatori. Dare sanzioni a chi risale, non piaceva. Perché escluderli? E allora ecco l’idea, che piano piano e grazie all’aiuto di tutti ha preso forma». E quando le idee sono buone, poco ci vuole perché si trasformino in realtà. «Tre anni fa i primi due itinerari: Petit Loup e Grand Loup, partendo da Aminona. A dicembre 2017 abbiamo inaugurato altri 13 tracciati. I percorsi possono essere utilizzati da tutti e il dispositivo ARTVA (anche se è sempre meglio averlo!) non è obbligatorio. Con una app, aggiornata dalla società che gestisce gli impianti, è poi possibile verificare i tracciati aperti e quelli chiusi, esattamente come accade per le piste. Il park può essere utilizzato da chiunque, liberamente. C’è un biglietto, da 5 franchi (giornaliero) o da 50 franchi (annuale), per chi vuole usufruire anche degli impianti per spostarsi all’interno del comprensorio». «E funziona?» Sono curiosa e non posso fare a meno di domandare. «Eccome. Da quando abbiamo aperto il park non ci sono più scialpinisti in pista. Tutti lo preferiscono».
Ma ora pare giunto il momento di mettere gli sci ai piedi e di vedere qualcuno di questi tracciati. Séverine ci fa strada. I percorsi scialpinistici, rappresentati su un cartellone a poca distanza dall’ingresso della funivia, sono ben segnalati. Ognuno di essi ha un numero, una scala di difficoltà, lunghezza e dislivello. Sbagliare è praticamente impossibile. Sono segnati con frecce e cartelli… qui l’ordine è proprio svizzero! E se mi ero immaginata delle specie di piste battute dal gatto delle nevi, beh, mi ero sbagliata. La traccia c’è, ma è quella fatta dal primo che è salito dopo la più recente nevicata. Quando fiocca, la traccia si cancella, come in ambiente, ma i cartelli rimangono. Il primo che si alza la mattina e mette le pelli sotto gli sci, batte anche per tutti gli altri. Séverine monta e smonta le pelli velocemente. Dopo un primo pezzo che si allontana dalle piste, a tratti costeggiandole e a tratti risalendo nel bosco, arriviamo nella parte alta, sgombra dalla vegetazione. Lo sguardo ha così modo di spaziare. Dalla case di Crans-Montana, formiche sotto di noi, fino alle cime sopra le nostre teste. Di tanto in tanto incrociamo qualche scialpinista, gente del posto, che usa il tracciato per allenarsi. Qui Séverine è la padrona di casa. Una padrona cortese, che saluta tutti sbracciandosi, urlando, chiamandoli per nome e regalando dirompenti sorrisi.
Rimaniamo distanti dalle piste, che possiamo comunque utilizzare per la discesa. Questo è interessante, soprattutto quando la neve non è poi così bella. Guardando i percorsi mi rendo conto che sono tutti piuttosto lineari e che la difficoltà è data, più che altro, da dislivello e lunghezza. Le salite sono continue, uniformi e mai troppo impegnative. Mi mostra la diga del Lac de Tseuzier e poi, là in fondo, dietro le nubi, la corona di cime che si estende dal Breithorn al Monte Bianco, passando per il Weisshorn e il Cervino. Prendo le piccole pause per incalzare e la tempesto di domande sulla sua vita. Come si fa a fare l’atleta, la mamma e contemporaneamente anche l’insegnante a scuola? Come, e soprattutto quando, ci si allena? «Non potrei fare nulla senza Nicolas. Addirittura la mia vita non sarebbe come è ora, se non l’avessi conosciuto. Fino a 23 anni non praticavo scialpinismo, sciavo in pista e neanche troppo bene! Poi ho conosciuto Nicolas, maestro di sci. Lui ha perfezionato il mio stile e insieme a lui ho iniziato anche a fare scialpinismo».
E quando non c’è la neve? «Amo correre e faccio anche qualche gara di trail-running. A dirla tutta corro da sempre, da che mi ricordi. Ho iniziato con l’atletica leggera all’età di 5 anni e sono stata anche membro della nazionale svizzera. Correvo. Correvo in pista! Una buona base per lo scialpinismo. In estate mi piace fare lunghi giri in mountain bike e anche a piedi. Dove? Basta guardarmi attorno. Qui ho tutto quello che mi serve». Quando e come ti alleni? «Ci si allena quando si riesce, in tutti i ritagli di tempo. Fondamentale, non mi stanco di ripeterlo, è il supporto di mio marito. Soprattutto con le bambine: è un super baby sitter e un papà presente. Indosso gli sci a inizio stagione e non li tolgo più fino alla fine. Andare, andare, andare, questo è il punto. Unitamente a un po’ di palestra, qualche peso, tanti addominali. Ma non credere che io vada in una palestra vera e propria. Qui a Crans-Montana non c’è! Faccio tutto in casa». Non solo gare. Non solo sport. Quello che mi interessa scoprire è anche la persona, nel pochissimo tempo che ho a disposizione e tra una pellata e l’altra. E così Séverine mi racconta, si racconta. «Mi piace immergermi nella natura. Le lunghe camminate, insieme a Nicolas e alle bambine, che stanno imparando ad amare quello che le circonda. Vivere insieme le belle esperienze, anche sportive. Il Trofeo Sellaronda, ad esempio, è l’occasione per una vacanza di famiglia». E quando ti devi davvero rilassare? Quando vuoi staccare la testa? «Una tazza di caffé bollente, sulla mia bella terrazza al sole, e magari un buon libro. Queste sono le piccole, semplici cose che mi fanno stare bene e sentire in pace, con me stessa come con gli altri».
La vita di una mamma-atleta-lavoratrice è piena di impegni e così, nel pomeriggio, continuo a esplorare l’area insieme a una Guida alpina. Nel frattempo il sole si è nascosto dietro le nuvole e ha iniziato a scendere un nevischio leggero, ma fittissimo. L’atmosfera è da favola, quasi surreale. Risaliamo il tracciato partendo da Barzettes e arriviamo in una zona solcata da spettacolari rocce, qui lo chiamano il canyon e capisco subito il perché. La neve ora scende bene, punge la pelle già arrossata dal sole mattutino, ma la visuale rimane buona. Altro miracolo del famoso micro-clima di Crans-Montana? Passiamo tra una roccia e l’altra, il paesaggio si allarga e poi si restringe. Mi tiro giù la maschera, davanti agli occhi, e mi pare di guardare dentro a una macchina da presa. La neve ai lati del canyon forma cornici e meringhe. Usciamo dal tracciato, che passa proprio a ridosso di questa spettacolare area, e ci addentriamo tra le rocce calcaree. Normalmente sono striate di giallo e di grigio, oggi la neve uniforma tutto. Non ci sono più tracce. Solo noi, sul manto ghiacciato e nel silenzio ovattato, a lasciare quel segno che, a breve, non ci sarà più. Come fanno le onde del mare sulla sabbia, anche la neve cancella tutto. Ma proprio tutto. Cancella le orme degli animali. Le nostre. Capita che cancelli persino i pensieri brutti. Tutto. Torniamo sul tracciato e lo seguiamo fino in cima. Sopra di noi langue, a quota 2.927 metri, lo sconfinato ghiacciaio del Plaine Morte. Una cabinovia porta fino a su, dove si trovano un rifugio e una pista per fare sci di fondo. La nevicata si intensifica, sale la nebbia ora, e decidiamo di tornare alle auto. Consapevoli, più che mai, di essere stati graziati dal meteo. Crans-Montana si è aperta, svelata, lasciata guardare. Se il sole fosse ancora alto ora continueremmo a salire. Invece togliamo le pelli e scendiamo a capofitto lungo le piste, tirate ad arte. Respirando forte nel bavero della giacca, per sentire quel calore tiepido che accarezza il viso, ai lati della bocca. Ascoltando il rumore delle lamine in curva. Pensando che qui bisogna per forza tornare.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 117
Determinazione Magnini
Proprio ieri sera Davide Magnini si è concesso un bagno di folla nel cuore di Milano, presso Runaway, per raccontare la sua stagione trionfante nelle Golden Trail Series, con le vittorie a Chamonix e Canazei e il secondo posto nel ranking dietro a Kilian Jornet. Una serata nella quale il campione trentino si è messo a nudo, bersagliato dalle domande dei fan sull'allenamento, gli obiettivi, l'alimentazione e tanto altro. Noi lo avevamo incontrato un paio di anni fa e curiosamente ci aveva dato risposte molto simili, perché la dote numero uno di Davide, che in primavera dovrebbe prendere il primo diploma di laurea («per quella magistrale c'è ancora tempo per pensarci, al limite mi prenderò qualche anno in più visto che gli impegni negli ultimi anni sono aumentati») è... determinazione. L'articolo che segue è stato pubblicato sul numero 117 di Skialper.
Incontrando la scorsa estate una mia compagna di scuola da anni trasferitasi in Trentino, dove insegna matematica, siamo arrivati a parlare di Davide Magnini.
«Cosa fai di bello?».
«Sempre in giro a vedere le gare, adesso anche quelle di scialpinismo».
«Davvero? Io avevo uno studente che faceva le gare».
«Ma dai, e chi?».
«Davide. Davide Magnini: bravissimo, preciso e determinato».
Già, le stesse impressioni che ho avuto quando ho incontrato Davide a casa sua. Anzi, il primo aggettivo che mi ha detto quando gli ho chiesto di parlarmi del suo futuro è stato determinazione. Determinazione a fare tutto nel miglior modo possibile. Perché stiamo parlando di un classe 1997 che fa lo skialper di professione, veste la maglia azzurra di corsa in montagna, è conteso dalle aziende, studia all’Università di Trento, guarda caso in ingegneria dei materiali… E come se non bastasse dà una mano anche nel negozio di articoli sportivi di famiglia, Lodosport, nella sua Vermiglio.
«Adesso sono nell’Esercito e faccio il professionista, ma voglio lasciarmi aperte tutte le strade possibili per il futuro». Un’idea precisa ce l’ha, in realtà. Si illuminano gli occhi quando ti fa vedere le tante medaglie conquistate, ordinate una di fianco all’altra su un vecchio tronco, pronte a fare bella mostra nella malga tra i boschi. «Sono quelle conquistate a livello giovanile, adesso proviamo a realizzare un altro tronco da Senior. Voglio arrivare ai massimi livelli in Italia, che vuol dire essere tra i più forti al mondo e se poi lo skialp arrivasse alle Olimpiadi…». Poteva arrivarci nel fondo, nel salto o nella combinata, magari nello sci alpino, poi si è stufato e ha iniziato con lo scialpinismo. Colpa di papà, si potrebbe dire. Quando ci salutiamo sotto casa è la mezza, io devo rientrare, lui ha già un amico che lo aspetta per un’uscita con le pelli in pausa pranzo. «Mio padre è appassionato della neve. Della montagna, ma della neve in particolare. Tutti gli sport sulla. A nove anni mi portava in giro con le pelli, era solo divertimento: una goduria. Quando c’è stata l’occasione di poter partecipare a una gara di scialpinismo sono stato io a chiedergli di poterla fare. Un amore a prima vista e adesso eccomi qui». «Me la ricordo ancora quella gara - racconta il tecnico azzurro Stefano Bendetti, che lo ha seguito dall’inizio nel Brenta Team -; non poteva ancora gareggiare con i Cadetti, ma ha fatto di tutto pur di essere al via, anche se lo avessero messo fuori classifica. Già allora un agonista nato».
A Piancavallo, al via della sprint dei Mondiali, Davide era preoccupato per il vertical del giorno dopo. Di fianco a lui un certo Kilian che gli rispondeva di star sereno che con il suo motore non avrebbe avuto problemi. E infatti ha vinto tra gli Junior con un tempo che lo avrebbe fatto salire sul podio Espoir, a meno di due minuti dallo stesso Kilian, campione del mondo. «Sono sempre un po’ insicuro prima di una gara, penso che avrei potuto fare qualcosa in più in allenamento per dare ancora il massimo in gara. Che ogni volta ci sono delle incognite». Quasi alla ricerca della perfezione, della perfetta performance. Come Kilian. Non è un segreto che il catalano lo abbia cercato per fare insieme la Pierra Menta. Davide dice di no, che non è vero, ma sa che Kilian lo stima come uomo e come atleta. «Non facciamo paragoni, però: anche io sono nato in montagna, ma a tre anni non vivevo a 3.000 metri. E non credo di avere neppure le sue doti. Finora sono riuscito a gestire due stagioni agonistiche, in estate e in inverno, solo perché da Junior finisci prima la stagione, c’è meno dislivello, puoi organizzarti al meglio, sei più libero di testa. Per me questo è il primo anno ‘assoluto’, ad aprile ci sono anche le gare di skialp: alla fine capirò cosa posso e voglio fare in estate. Ci sono tanti skialper che hanno le potenzialità per tutto, come per esempio Michele Boscacci». Ma lui, Davide, finora ha fatto il pieno di risultati nello skialp e nella corsa in montagna. «Però sono più uno skialper. Quando è arrivata la chiamata in azzurro nella corsa in montagna era impossibile dire di no, ma la prima convocazione in Nazionale mi è arrivata nello scialpinismo, anche se forse un po’ per caso. E poi nell’Esercito sono stato arruolato come scialpinista». Eppure le aziende se lo coccolano proprio perché sa andare forte dappertutto. Lo hanno mandato negli States, a gareggiare in Scozia. Per lui questo è un po’ il momento delle scelte. Chissà, magari tra qualche anno lo vedremo alla Pierra Menta e poi all’UTMB. Come Kilian. «Perché alle gare lunghe «non ci ho ancora pensato, ma se le prepari…».
«Quest’estate in ghiacciaio, dopo l’allenamento al mattino, Davide il pomeriggio lo passava sempre sui libri. Una macchina». Chi parla è ‘Lillo’ Invernizzi suo coach dell’Esercito. «Ma non sono così secchione - scherza Davide - solo che le materie che ho scelto mi interessano e la cosa non mi pesa. Fin da piccolo smanettavo a destra e manca: smontavo e rimontavo di tutto. Adesso lo faccio ancora un po’ con il materiale da gara. Anche per questioni pratiche: per esempio ho un piede piccolo (porta il 41), magro e sottile, così sto sperimentando soluzioni personali per avere il massimo comfort del mio scarpone». Sarà, ma anche in quel campo resta la parola chiave: determinazione. Perché potrebbe essere un’altra, futura, anzi futurissima, strada a fine carriera: entrare in qualche azienda del settore per lo sviluppo dei materiali con le conoscenze sui libri e un background da atleta top. Intanto però resta con i piedi per terra, con grande semplicità. «A Vermiglio certo mi conoscono, ci conosciamo un po’ tutti, ma non c’è poi chissà quale grande tradizione per lo scialpinismo. Il pezzo forteresta lo sci alpino. Fa piacere quando qualcuno passa in negozio perché sanno che ci sono e posso dargli un consiglio sullo scialpinismo; in paese mi chiedono come stanno andando le gare, ma non sono certo una star. C’è un fans club che mi segue, ma non sono il re di Arêches come Bon Mardion. In fondo va bene così. Anche perché sono piuttosto riservato. Dovrei cambiare un po’, lo so. Ormai bisogna essere social, bisogna raccontare al mondo tutto. Io sono molto attivo nel mio quotidiano, ma tante volte mi sembra di essere ripetitivo, che dire a tutti, sempre, ogni cosa non possa interessare granché». Adesso fa tutto da solo, ma anche qui, chissà se tra qualche anno non lo vedremo come star del web?
Davide mi fa vedere il ginocchio. Ha preso una botta nell’ultima uscita sulle nevi di casa. È gonfio, succede. Non si risparmia mai. «Perché la salita mi piace, la fatica mi piace. Certe volte quando ho una tabella dura, penso a chi me lo fa fare, ma se sto fermo come oggi non mi passa più. Sento la necessità di uscire ad allenarmi. Lavoro molto su me stesso: è un consiglio che mi ha dato la mia coach nella corsa, Sara Berti. Il miglior modo per prepararsi è quello di conoscersi a fondo. Finora è stato perfetto: vedo che riesco a dare il massimo facendo più intensità e meno ore e continuo su questa strada. Alberi a parte, come l’ultimo che ho ‘preso’ con il ginocchio». Il suoi punti di riferimento sono due: il papà e Michele Boscacci. «Beh, è fondamentale avere una famiglia che ti aiuta, che ti supporta nei momenti delicati. Mio padre è quasi sempre presente alle gare: i suoi incitamenti sono sempre importanti. Con Miky si è creato un ottimo rapporto: oltre all’Esercito e alla Nazionale ci alleniamo spesso insieme. I suoi consigli sono preziosissimi, proprio in questo anno che è quello del salto di categoria tra i grandi. Sembra una frase fatta, ma è la verità: non si finisce mai di imparare. Puoi sempre migliorare in tutto: la tecnica di discesa, l’efficienza in salita. E poi devo incrementare la potenza». Una spugna lo chiama Miky Boscacci. «Ascolta sempre con grande attenzione tutto quello che gli dico, anzi continua chiedere in continuazione cosa faccio, come mi alleno, i miei programmi. Ma è molto intelligente: non prende a scatola chiusa, adatta i consigli al suo fisico. Quando mi chiede quante ore mi alleno per una gara La Grande Course, non è che dopo fa tutte le ore che faccio io, piuttosto studia un piano per le sue esigenze». Ma ce l’avrà mai un difetto questo Davide Magnini? «Non farmi passare come un perfettino! Ne ho tanti anche io. Se devo dirtene uno? Sono un golosone. Mi piacciono i dolci e mangio tantissimo».
Ci salutiamo. L’Adamello è carico di neve, vorrebbe andarci su a mille, ma deve rimanere a casa. Studierà qualche ora. Magari anche di domenica, visto che deve saltare i Campionati italiani. Voleva farli: sarebbe stata la prima individuale tricolore assoluta. E avrebbe voluto dimostrare di poter subito andare al massimo. La sensazione è quella di aver incontrato uno di quelli forti, di quelli che non vorrebbero fermarsi mai, che puntano dritti all’obiettivo che hanno in testa. A vent’anni la strada è ancora lunga, ma Davide sembra davvero aver preso quella giusta.
Täschhorn 4.491
Consumare fa parte della quotidianità dell’essere umano. Alpinisti e sciatori, in quanto esseri umani, sono dei consumatori seriali di qualsiasi dimensione appartenente alla montagna: pareti di ghiaccio, roccia, neve, creste affilate, goulotte, cascate. Tutto, o quasi tutto, è già stato percorso nelle Alpi. Un occhio attento però riesce a scovare ancora qualcosa di vergine. Qualcosa sicuramente scomodo, incerto e lontano dai sentieri più battuti.
Il vallese è il mio posto preferito per sciare in tarda primavera. La lunghezza degli avvicinamenti e l’isolamento, su questi colossi che ti devi guadagnare metro dopo metro, costano tanta fatica, ma sanno regalarti emozioni uniche. Il mio concetto di big mountain skiing è qui, tra queste montagne, su queste pareti e non di certo come intendono oltre Oceano su colline piatte con qualche cliff e un metro di neve fresca.
L’idea di sciare il Täschhorn ha incominciato a frullarmi in testa durante un tentativo fallito alla Est del Weisshorn (4.506 m) a fine maggio 2014, accompagnato da Pietro Marzorati e Pablo Pianta quando, dopo essere saliti in cima al Brunegghorn (3.833 m), mi sono imbattuto nella maestosità delle cime che avevamo di fronte e che formano il famoso massiccio dei Mischabel. Tornato a casa mi sono subito messo a cercare informazioni su questa montagna, ma oltre a un paio di timide discese negli anni 2000 dalla Kinface, non ho trovato nulla, nemmeno consultando vari siti francesi e tedeschi. La Kinface è una proboscide glaciale composta da pendii e seracchi che va a morire in un ghiacciaio molto tormentato e con due imponenti seraccate in successione. Le difficoltà tecniche di questo versante sono medio basse, ma proprio a causa dei ghiacciai tormentati in pochi si avventurano qui. Un altro motivo è di sicuro l’isolamento: non c’è nessun bivacco né punto di appoggio lungo i 3.000 metri di dislivello che bisogna affrontare per raggiungere la cima del Taschhorn. La Kinhütte, a quota 2.500 metri, è un rifugio privato e viene aperto solo nel periodo estivo, come appoggio agli escursionisti che percorrono il famoso sentiero dell’Europaweg. Tutte queste problematiche, unite al dislivello, alla quota e alle condizioni della neve dovute all’esposizione a Nord-Ovest, rendono questo versante mitologico e molto poco frequentato.
Durante le mie lunghe ricerche mi ero imbattuto in una foto su Wikipedia che mostrava in pieno la verticalità della montagna e in particolar modo il versante Nord-Ovest che precipitava a destra della classica Kinface. Una parete enorme, sovrastata da seracchi e con un’uscita mille metri più in basso attraverso delle cenge rocciose con un’altezza di diverse decine di metri. Osservando quella foto ho iniziato a fantasticare, tracciando una linea diretta dalla cima che percorresse tutta la parete a destra della Kinface, fino al sottostante ghiacciaio. Follia pura pensare di poter sciare una parete del genere abitando a 400 chilometri di distanza… Per riuscire in questi progetti è fondamentale poter monitorare le condizioni giornalmente, soprattutto su un pendio cosi dove a 3.500 metri rischi di trovare solo roccia e mille metri più in alto neve che non copre bene la base glaciale. Ecco perché ho subito accantonato la foto nel pc e il relativo progetto per diversi anni.
Nel 2016, durante un’uscita autunnale insieme a Mattia Varchetti, ho conosciuto Riccardo Vairetti, forte scialpinista ossolano. Girovagando in canali alla ricerca di neve sotto i quasi 4.000 metri del Fletchhorn, ci siamo ritrovati a parlare del Täschhorn e della Kinface, la classica della montagna. Anche Riccardo era interessato a quella discesa, ma il progetto morì qualche mese dopo a causa delle scarse precipitazioni primaverili di quell’anno, inadatte a coprire i ghiacciai della parte bassa e la pala superiore.
Nell’inverno 2018 le valli svizzere intorno a Zermatt e Saas-Fee sono state sommerse da enormi quantità di neve. Strade invase da valanghe e paesi isolati per diversi giorni. Subito la mia mente è andata a quel colosso e ho pensato che la neve caduta avrebbe potuto coprire in maniera sensata i ghiacciai tormentati sotto alla Kinface, rendendoli più agibili e sciabili. Dopo una primavera ricca di discese, il mese di giugno è iniziato con un doloroso but (slang francese che significa ritirata) su una nota parete Nord delle Alpi Centrali insieme a Cristian Botta e Pietro Marzorati. Non avevo assolutamente voglia di far finire cosi una stagione ricca di importanti discese. Mattia e Andrea erano off-limits per impegni e mi sono ritrovato ancora con Cristian per sparare quello che avrebbe potuto essere l’ultimo colpo della stagione. Anche a lui piaceva l’idea del Täschhorn ed essendo appena stato sciato sulla classica Kinface da un gruppo di local, eravamo abbastanza fiduciosi sulle condizioni. Volevamo andare su qualcosa di sicuro dopo la mazzata presa.
La sera prima della partenza, facendo lo zaino, mi ritorna in mente quella foto salvata nel pc che ritrae la diretta Nord-Ovest. Il mio sesto senso mi dice di prendere su qualcosa in più (cordini d’abbandono e chiodi da roccia) che nella classica Kinface non servirebbero a niente. Non faccio parola con Cristian della mia idea fino a quando arriviamo a Täsch e ci appare in maniera arrogante il Täschhorn, bianco come non mai. Le particolari condizioni climatiche di inizio giugno hanno fatto crollare tutte le pareti Nord-Est delle Alpi, mentre le Nord-Ovest sono incredibilmente stuccate di neve. Quella a destra della kinface è tutta bianca, regolare ed è enorme. Non si vede purtroppo l’uscita in basso, sopra le cenge, e propongo a Cristian di tentare questa discesa diretta. Tuttavia ciò che può sembrare bianco da lontano non è detto che lo sia anche da vicino. Quindi senza troppe menate ci carichiamo gli zaini in spalla e partiamo con l’obiettivo di trovare un posto in cui passare la notte nei nostri sacchi a pelo e l’indomani pensare al da farsi. Sotto la Kinhütte un ponte non ancora posizionato sul fiume (rimosso in inverno per non essere spazzato dalle valanghe) ci fa ravanare per traversare il torrente in piena e, una volta raggiunta la baita, constatiamo che è troppo spostata a sinistra per essere un posto comodo dove dormire. Saliamo quindi a quota 2.800 metri circa dove intuiamo esserci un piano o qualcosa di simile per sistemarci durante la notte. Verso sera veniamo raggiunti da altri tre sciatori diretti alla Kinface, ma non riveliamo le nostre intenzioni, un po’ per scaramanzia, un po’ perché non abbiamo idea veramente di cosa fare. Sappiamo inoltre che in nottata arriveranno Diego Fiorito e Paolo Piumatti che tenteranno la one-push.
Di comune accordo scegliamo di salire lungo la Kinface versione estiva e non invernale, guardare la diretta e, se ci sembra tutto ok, scendere en boucle, ovvero a vista dall’alto. Verso le 3.40 partiamo nel buio più totale, illuminati solo dalla luce delle nostre frontali, vagando tra seracchi e crepacci poco rassicuranti. Dopo tre ore di marcia, finalmente compare davanti a noi il nostro obiettivo e capiamo che nella parte bassa, rimasta nascosta fino ad ora, abbiamo la possibilità di uscire dalla parete. Alle 12 calziamo gli sci in cima e affrontiamo il primo pezzo di discesa in comune alla Kinface, prima di buttarci nell’abisso della diretta Nord-Ovest. Appena passiamo sotto ai seracchi, la musica cambia: neve dura come cemento e ancora gelata. Curviamo con attenzione e ottima tecnica per oltre 700 metri prima di trovare il punto di passaggio tra le barre rocciose in fondo alla parete. Una doppietta di cinque metri ci deposita sopra l’ultimo pendio prima della terminale. Passata la terminale non è finita, ci aspetta ancora un ghiacciaio totalmente inesplorato per raggiungere il posto in cui avevamo bivaccato e una lunga discesa per morene e prati senza sentiero per tornare nella civiltà, contenti di aver sciato una nuova parete glaciale su uno dei 4.000 metri più selvaggi dell’interno arco alpino.
Taschhorn (4.491 metri) - Diretta Nord-Ovest, 1.000 m, 45°-50°, E4, una doppia di 5 metri alla base della parete. Prima discesa in sci conosciuta il 16 giugno 2018, ad opera di Davide Gerry Terraneo e Cristian Cribot Botta.
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Lunga vita alla raspa
Un bastone per fare attrito e per appoggiarsi in discesa, sia con gli sci che a piedi: le immagini d'epoca sono piene di montanari e guide che scendono ripidi pendii e ghiacciai esercitando pressione su un lungo bastone o alpenstock. Potremmo affermare che si tratti di una tecnica vecchia come il mondo… Per quanto riguarda il mondo dello sci i bastoni hanno sempre costituito un espediente fondamentale per controllare e rallentare la scivolata verso valle. Le gare della prima metà del secolo scorso proponevano un mix di salita e discesa su terreni non battuti in cui la traccia ospitava a malapena due sci. I talloni erano liberi e le possibilità di perdere il controllo e di cadere erano numerose, veniva dunque spontaneo adottare quella che noi chiamiamo la tecnica a raspa che consisteva nell'impugnare i due bastoncini insieme per esercitare una leva in grado di generare un forte attrito sul manto nevoso, solcandolo come con un aratro. I francesi la chiamano sorcière, la strega con la scopa fra le gambe.
Raccontava lo zio di un mio caro amico, valligiano delle Valli di Lanzo, appassionato di fondo, che negli anni cinquanta partecipava a gare di sci pur non essendo un bravo sciatore. Il suo espediente era alquanto curioso e semplice allo stesso tempo: la sera prima della gara faceva il giro del percorso prescelto nascondendo in cima alle salite un bel bastone - lou brancougno come lo chiamava lui - e quando scollinava in gara non faceva altro che imbracciare il bastone e calarsi a raspa in tutta sicurezza.
Ma la raspa non ha cessato di esistere con gli anni cinquanta, infatti anche fondisti provetti non esitavano a ricorrervi nelle situazioni estreme laddove la conformazione della pista impediva di frenare a spazzaneve o in qualsiasi altro modo. Ho visto molti fondisti accennare passaggi a raspa anche durante la Marcialonga moderna proprio per scongiurare rovinose cadute come nell'affollata discesa di Soraga.
Quella che interessa a noi è essenzialmente la raspa usata nello scialpinismo. Al riguardo bisogna aprire una breve parentesi per parlare della nostra rivista al fine di meglio comprendere quella che è stata la tecnica a raspa negli ultimi due decenni prima del 2000.
Quando fondai la rivista Fondo e Telemark, mi avvalsi della collaborazione, preziosissima, di due fondisti: Davide Pellegrino e Gabriele Ghisafi, a loro va il merito di avermi introdotto all'ambiente dello sci di fondo. Allestimmo i test materiali e i servizi tecnici passando molto tempo sulla neve a parlare di scioline, di ponti e di attrezzatura. Fu proprio in occasione di questi raduni che mi accorsi che i miei collaboratori non appena era possibile iniziavano a parlare di gare di scialpinismo e che quando finiva la stagione invernale il loro interesse si trasferiva allo skialp. I temi erano legati ai grandi eventi, a gare come il Mezzalama e la Patrouille senza trascurare quelle più locali come il Trofeo Parravicini o il Fillietroz, per citarne alcune.
Si correva in pattuglie da due o da tre e la tecnica prevedeva l'uso delle pelli per la salita e la raspa per la discesa. E fu proprio in occasione di un test allo Stelvio che ebbi modo di assaporare la raspa: terminati i test degli sci classic, nel tardo pomeriggio venni invitato dai miei due collaboratori a fare un giro con le pelli, e ovviamente con bastoni da raspa. Il terreno prescelto fu il ripido pendio di fronte all'Albergo Folgore. La salita non la ricordo particolarmente impegnativa nonostante la ripidità del terreno, ma il bello è venuto quando ci siamo trovati ben in alto… Sotto lo sguardo sornione di Davide e Gabriele, che probabilmente si erano fatti cenni d'intesa, venni invitato a buttarmi in massima pendenza con i bastoni in mezzo alle gambe. A questo punto non potevo tirarmi indietro: dopo una vita sugli sci come avrei potuto fare sfigurare davanti a due fondisti? E allora giù! Stavo prendendoci gusto, era una bella sensazione, mi sembrava di essere un motoscafo. In quell'istante venni sfiorato e superato dai due che avevano atteso a monte per godersi un'eventuale mia caduta e piuttosto indispettiti mi avevano superato inondandomi di neve marcia. Questo il mio battesimo con la raspa. Da quel giorno e per quasi due anni non ho fatto altro che salire con le pelli, sci da fondo, mezzofondo o classici, per poi scendere a raspa fra il disappunto di quanti erano presenti sulla montagna intenti a inanellare scodinzoli in neve fresca.
Il contenuto tecnico della raspa ebbe un sussulto non appena qualcuno iniziò a utilizzare i bastoncini della Leki - ideati peraltro per le figure del freestyle - che sapientemente imbottiti con tubi di polistirolo (quelli usati per isolare i tubi nella termotecnica) e dotati di papere a stella di alluminio diventavano attrezzi infernali che permettevano velocità folli e la possibilità di superare qualsiasi pendenza.
Soprattutto in Valle d'Aosta, in Lombardia e Piemonte la raspa la faceva da padrona: nelle gare si usavano di norma sci da fondo da tecnica classica mentre in alcune classiche come il Mezzalama venivano preferiti sci laminati più larghi e pesanti.
I grandi interpreti di quegli anni appartenevano ai gruppi sportivi militari: si trattava di grandi fondisti con un passato in squadra nazionale che portavano a termine la carriera dedicandosi quasi esclusivamente allo scialpinismo. Si racconta che Jordanney dell'Esercito fosse un grande raspista, stessa cosa per il forestale Mazzocchi, per il piemontese Darioli e per non parlare dei gressonari come Ghisafi, Angster, Chiò per citarne alcuni.
Ed è proprio a proposito di Stefano Chiò che il mio collaboratore Ghisafi era solito scherzare sulla sua spericolatezza a raspa: «Ma era un po' ripido quel tratto eh?». In effetti era passato a manetta lungo una cascata di ghiaccio durante uno degli allenamenti in valle. Ma aneddoti di questo tipo non si contavano: era una battaglia fra diverse vallate, fra gruppi sportivi e squadre di civili, fra Guide alpine e Maestri di sci. Su tutti brillava la stella di Stefano Ghisafi, uno dei tre fratelli di Gressoney, dotato di un motore eccezionale, di grande tecnica fondistica e di capacità in discesa fuori dal comune. Corre voce che in gara le altre pattuglie facessero un gran forcing per scollinare con il miglior vantaggio per arginare il ritorno di questo grande atleta e dei suoi fratelli, che in discesa avevano prestazioni stellari.
Tutto stava andando per il meglio quando all'orizzonte si è delineata una nuova figura che avrebbe sconvolto il mondo delle gare: Fabio Meraldi, Guida alpina di Bormio che gareggiava con attrezzatura classica in pattuglia dapprima con Adriano Greco poi con Chicco Pedrini, tutti Guide alpine. Nel frattempo il numero 20 di Fondo e Telemark si arricchiva di una terza dicitura in copertina: Ski-alp, un termine da me inventato e che ora è divenuto di dominio pubblico per indicare una nuova era dello scialpinismo fatto di materiali super leggeri e di tutine da gara. La copertina riportava la foto suggestiva di un passaggio del Mezzalama del 1999 con Ettore Champretavy attrezzato da mezzofondo e da raspa, in prospettiva legati a lui altri atleti con inconfondibili bastoni da raspa. Grazie a quella copertina il numero ebbe grande successo e fu allora che compresi l'importanza dello ski-alp fino a farlo diventare la parte preponderante della rivista per arrivare al definitivo abbandono dello sci di fondo, ma questa è un'altra storia…
All'interno di quel numero c'era un altro servizio che aveva calamitato l'interesse di moltissimi lettori: «Ecco a voi Fabio Meraldi!» Ho passato molte giornate con lui per essere in grado di comprendere la sua tecnica, il saper modificare i materiali per renderli più leggeri e competitivi rispetto a quelli usati dai fondisti. Nessuna reticenza, nessun segreto: il grande Fabio si è dato in pasto alla curiosità degli appassionati e nel giro di una stagione le piste si sono popolate di atleti in tuta leggera, zainetto minimo e scarponi alleggeriti, che quando arrivavano in cima staccavano le pelli bloccando gli attacchi e gli scarponi in pochi secondi. Era fatta, avevamo costruito il mostro!
Quando ho detto a Meraldi che avrei parlato di raspa e di gare ha voluto raccontarmi le incredibili vicende del Mezzalama 1997. Lui correva con Pedrini e Omar Oprandi, i loro fortissimi competitor erano i forestali con il terzetto eccezionale Follis, Mazzocchi e Fontana, l'Esercito metteva in campo Invernizzi, Conta e Holzner, la squadra dei civili più accreditata era composta da Stefano e Fabio Ghisafi con Stefano Chiò. Questa era la prima edizione che prevedeva la partenza dal Breuil, mi trovavo sul Ventina quando nella penombra sfilavano tutte le squadre in fila indiana. Ricordo che mi colpì, nella semioscurità, il gesto tecnico di Stefano Ghisafi che procedeva con una sorte di passo finlandese in salita: destro, sinistro e doppio appoggio con i suoi bei bastoni imbottiti.
Ma l'epilogo avveniva fra il Naso e il Mantova. Racconta Meraldi: «Eravamo stati in testa fino al Castore poi erano passati avanti i forestali, da dietro si facevano minacciosi i tre dell'esercito che, appena accodati, avevano detto a Oprandi di passare parola affinché ci spostassimo per dar loro strada. Io ero davanti e ho incrementato il ritmo, da lì non li abbiamo più visti. Intanto nella discesa dal Naso i forestali si erano ulteriormente avvantaggiati: effettuando la discesa a raspa senza togliere le pelli, avevano potuto partire per una breve salita in perfetto assetto mentre noi da dietro avevamo dovuto arrabattarci con la scaletta e un po' di pattinaggio. Sembrava fatta per loro, senonché nella discesa sopra il Mantova i tre, scendendo legati a raspa, avevano preso dentro una palina segnaletica che ha generato un grande groviglio di corde e scompiglio nella pattuglia, proprio quando noi siamo passati in testa per non essere più raggiunti».
Il tramonto della raspa non è legato a questo avvenimento ma soprattutto alle limitazioni imposte dagli organizzatori delle diverse gare che hanno prima proibito l'uso degli sci stretti e poi l'utilizzo della tecnica a raspa. Così è stato per la Pierra Menta da subito, poi per il Tour du Rutor, per il Mezzalama per arrivare alla Patrouille, fino allora tempio della raspa e della grande pattuglia di guardie di frontiera ex fondisti Bucks, Farquet ed Elmer.
Ma la raspa non è morta: se si vogliono provare delle sensazioni forti non c'è che salire in vetta al Gran Paradiso e raggiungere il Vittorio Emanuele senza fare una curva fra lo sbigottimento generale dei classici...
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER N. 122, INFO QUI