Tour de La Meije, 4 giorni au refuge
Il tour della Meije, giro classico del massiccio. Quattro giorni La Bérarde to La Bérarde: nel mezzo tutti i rifugi e i loro gestori che accolgono alpinisti e scialpinisti in queste vallate remote. Naturalmente con le pelli ai piedi. «Nei viaggi, oltre ai chilometri, al dislivello e alle discese, sono le persone che si incontrano, spesso per la prima volta, a caratterizzare la linea del percorso – scrive Andrea Bormida su Skialper -. Le impressioni che riceviamo da questi incontri diventano un tutt’uno con quelle del nostro movimento, creando l’esperienza. In questo caso abbiamo avuto l’occasione di condividere il rifugio quasi sempre con i soli rifugisti, complice la poca gente in giro e le previsioni non così definite». Il giro della Meije è soprattutto un passare da un rifugio all’altro, ma si tratta di rifugi e rifugisti che hanno ancora un’anima, come Sandrine del Refuge du Promontoire, Jeff del Refuge de l’Aigle, Sabine (da provare la sua torta ai cavoli!) del Refuge Villar d’Arène o Seb del Refuge Chamossière o ancora Fanny del refuge Adèle Planchard.
Il Tour de la Meije è uno dei più classici delle Hautes Alpes, in Francia, e in quattro giorni si superano circa 4.500 metri D+. Ne parliamo su Skialper 124 di giugno-luglio.
Rotta per casa di Zeus
Spiagge senza fine, oliveti, mare cristallino, valli selvagge, baie e siti archeologici. Così viene ricordata Creta nel 99 per cento dei casi. Ma Creta è molto di più. Nel cuore dell’isola del padre di Minosse, Zeus, sorge una distesa di neve che permette di soddisfare il piacere di sciare in un luogo davvero esotico. L’arrivo di scialpinisti stranieri da queste parti è un avvenimento e i locali, nel vederci giungere bardate di Primaloft e Gore-Tex, hanno scosso il capo e si sono lasciati sfuggire qualche occhiataccia. Però, appena arrivati, le sinuose montagne del Lefka Ori nell’ovest e i rilievi dell’Ida nel centro dell’isola fanno aumentare i battiti di qualsiasi scialpinista.
Quando atterriamo a Chania, una città con porto nel nord-ovest dell’isola, il sole sta già calando dietro le montagne e la notte si avvicina. Blu, nero e grigio sono i colori dominanti che ci hanno accompagnato durante il viaggio da Atene verso Chania, e sfumano verso l’ibisco e il colore notturno del mare. Già al recupero bagagli notiamo che gli isolani non sono così stupiti di vedere, sul nastro trasportatore, in mezzo ai loro bagagli, due sacche di sci. Fuori dall’aeroporto troviamo ad aspettarci la nostra guida George, che ci accompagnerà durante il tour, e gli autisti Nikos e Vangelis. Qui l’aria non sa d’inverno. Una brezza tiepida arriva dal mare, l’odore di primavera… il pensiero di trovarci, tra un paio d’ore, nella neve, sembra un’utopia. La fame si fa sentire, ma dobbiamo passare ancora un’ora nella nostra Mercedes Classe-V percorrendo una strada di montagna verso Omalos, mentre la radio ci fa compagnia con una musica greca a ritmo di chitarra. Purtroppo, a causa del buio, non abbiamo la possibilità di apprezzare l’ambiente che ci circonda mentre proseguiamo, ma la sorpresa, a 900 metri, è la neve, assieme al ghiaccio, che si può scorgere solamente lungo le curve. CI muoviamo tutti insieme, finché Nikos spegne il motore davanti a una casetta con le luci accese. Cariche di tutta la nostra attrezzatura, entriamo in quello che sarà il nostro alloggio per la prima notte qui a Creta. In un piccolo camino scricchiola un fuocherello, mentre il proprietario e sua moglie guardano la televisione, dove passano le notizie del telegiornale. Al nostro arrivo ci aspettano il sorriso del locandiere e il primo Raki, una tipica grappa greca. Zuppa di verdura, carne di agnello, insalata con feta, tsatsiki, riso in foglie di cavolo e yogurt con miele ci danno la forza per i prossimi giorni. George, la nostra guida, ci spiega dettagliatamente il tour che faremo. Il primo giorno e il secondo attraverseremo il Lefka Ori: circa 40 chilometri e 3.300 metri di dislivello con pernottamento in un bivacco. Alla parola bivacco tutte e cinque sgraniamo gli occhi. Durante la preparazione al tour nessuno aveva mai pronunciato questa parola. Ci avevano chiesto di portare un sacco a pelo e viveri solamente per la giornata. Il sacco a pelo, per i greci, è un sacco-lenzuolo idoneo a temperature fra gli 0 e i 5 gradi: siamo inquiete, per il tour erano stati previsti solo sacchi-lenzuolo sottili. Inquietudine aumentata dal fatto che nessuno sapeva che bisognava portare con sé una scorta di acqua per ben due giorni. Non c’era speranza per i nostri zaini da 28-30 litri (la guida ne aveva uno da 70). Massimo un litro e mezzo di liquidi, ma non di più. Una notte in un riparo di sassi, senza acqua e con un sacco lenzuolo? La presentazione ha portato decisamente scompiglio e agitazione. Ancora un sorso di Raki e poi a letto, a pianificare cosa mettere nello zaino da 28 litri. L’aria fredda della camera veniva riscaldata da un impianto di riscaldamento crepitante. Ma non si può dire che fosse calda quella camera. Le lenzuola erano sicuramente troppo fini, però con un paio di coperte e non si pativa così tanto il freddo.
Il giorno successivo, al risveglio, appare davanti ai nostri occhi la montagna imbiancata, il Lefka Ori. Pochi alberelli dispersi per la piana di Omalos, mentre tutto il resto è bianco, con le cime delle montagne facilmente riconoscibili. Il cielo è di un blu brillante che, insieme al sole, preannuncia che durante la giornata non soffriremo il freddo. Nel punto più a nord della gola di Samaria, lunga ben 17 chilometri (una delle più lunghe d’Europa), inizia il nostro tour. In estate questo luogo è colmo di bus e turisti, ma oggi neanche un’anima. Una vegetazione minima, spazi incredibili e, dopo alcuni metri, già i primi scorci del Mar Libico nella parte sud dell’isola. Le pendici settentrionali del Lefka Ori brillano di sfumature argentate, come se fossero davvero ricoperte d’argento. Ma in realtà è semplicemente neve sotto il sole. Dopo la discesa, ecco il primo stop al rifugio Kalergi (l’unico aperto e gestito) sulle pendici del Lefka Ori. Ci si sente come Bambi, che senza alcun appoggio e continuando a ruzzolare, a stenti, si trascina fino alla terrazza del rifugio. La vista dalla gola di Samaria è bellissima. Il profumo del the greco alle erbe ci conquista e ci fa andare avanti. Il gestore del rifugio si meraviglia, non capita tutti i giorni di vedere passare degli scialpinisti. Solamente nove local con gli sci frequentano i versanti del Lefka Ori, gli isolani passano tempo tra i monti solamente in estate. Riempiamo le nostre borracce ancora una volta e poi ci dirigiamo verso la cima Melidaou, direzione rifugio Katsiveli, dove pernotteremo. Di croci sulle cime delle montagne, qui a Creta, neanche l’ombra, di tanto in tanto fiancheggiamo qualche cappella. Dopo tante salite ghiacciate, discese nel firn e lunghe traversate il primo giorno è già arrivato al termine. Non siamo ancora arrivate alla nostra meta che il sole è già tramontato. Accendiamo le frontali e, passo dopo passo, ci avviciniamo al rifugio. Alla domanda ‘quanto dista ancora?’, la risposta è sempre stata, nelle ultime due ore, ‘not far anymore’. Le forze iniziano a calare, il freddo a farsi sentire. La voglia diminuisce, lo zaino fa male e la gola è secca, lo stomaco borbotta. Otto ore di cammino e, grazie alla luce della frontale, eccoci arrivate al riparo. Nikos, un amico della nostra guida, ci aspetta insieme a una fumante tazza di the alla cannella ed erbe sul tavolo. Su un piccolo fornello a gas c’è una padella nella quale bolle la zuppa di verdura. Anche la temperatura nella stanza è aumentata di 10 gradi. Festeggiamo Nikos e l’incredibile spirito di ospitalità greco. Al peggio ci siamo adattate e alla fine abbiamo dimenticato la faticaccia e la nostra bocca ha preso una piacevole piega all’insù. Quando Niko ha preparato gli spaghetti al ragù, la serata è diventata un vero e proprio trionfo. Tre coperte per ognuna di noi, una borsa dell’acqua calda e un piccolo posticino per dormire hanno fatto di quella notte la più calda delle cinque passate a Creta.
Anche il secondo giorno inizia con un cielo limpido, benché all’orizzonte s’intraveda un banco di nubi e nebbia accompagnato da una brezza fresca che sembra dirigersi verso il nostro rifugio. E infatti, poco dopo, la nebbia ci avvolge. Ancora una volta c’è il the, le borracce vengono riempite, si mangia un panino con burro e marmellata accompagnato da un espresso ed eccoci pronte ad aprire la porta… che la nebbia si è dileguata. Cielo azzurro e un mare di nuvole sotto di noi. Quattrocento metri ci separano dalla cima del Svourichti e, dopo un’altra salita, arriviamo in cima anche al Mikros Trocharis, a 2.410 metri, la seconda cima più alta della zona del Lefka Ori. Il vento soffia e la nebbia si aggira attorno alla vetta. Ma durante la fantastica discesa in firn abbiamo di nuovo un’ottima visibilità. Dopo un breve stop per il ristoro, ecco che ci dirigiamo verso l’ultima salita, la cima Fanari. Sono già tre ore buone da quando siamo ripartite e questa salita ci ha rubato parecchie forze. Fossimo state sulle Alpi, non avrei mai fatto un percorso del genere, avrei avuto troppa paura delle valanghe. Ma qui a Creta la consistenza della neve è ben diversa e unica. Non c’è pericolo valanghe, anche se le temperature superano i dieci gradi e il sole bacia i pendii delle montagne. La copertura nevosa è così ben composta che, racconta la nostra guida, dai suoi tempi (ha iniziato nel 1996), ha visto solamente due valanghe. Per noi è difficile da credere, ma meglio così.
Il sole sta nuovamente calando e la valle che dobbiamo percorrere è già all’ombra. Questo significa che il terreno è nuovamente ghiacciato. Appena il sole cala, il firn scompare e così ci dirigiamo verso il Niato Plateau. E qui vorrei soffermarmi sulla nostra discesa nel firn. Un pendio ripido, cupo e vasto: il sogno di ogni sciatore. Dal Niato Plateau si prosegue lentamente verso Askifou. Arriva di nuovo l’oscurità e le frontali devono fare il loro lavoro. Il piano era che Nikos e Vangelis sarebbero dovuti venire a prenderci a 1.300 metri con la nostra Mercedes, ma è un inverno molto nevoso, perciò dobbiamo scendere fino a 1.000 metri con gli sci ai piedi.
Askifou ci saluta con i belati delle pecore in sottofondo e offrendoci la cena in una tipica locanda del posto. Attorno a due tavoli si sono raccolti gli uomini del luogo e ci fissano, o meglio, fissano la televisione sul muro. Fegato di agnello, patate, riso, insalata greca, lenticchie e una birra fresca sono pronti per noi. Per dolce ci aspetta il Raki e i famosi Bavlak (una sfoglia ripiena di noci, imbevuta nel miele). Sembra un garage: una stanza con un piccolo bar e quattro tavoli. Un paio di vecchi quadri addobbano la parete. Una piccola televisione è l’intrattenimento principale del luogo. Non c’è nient’altro qui, tutto ridotto al minimo. Dopo cena ci aspettano due ore di auto nell’oscurità, tra le strade di montagna e l’autostrada verso Anogia. L’entrata del nostro alloggio è molto accogliente, un’aria calda ci accoglie, assieme ai biscotti. La locandiera è molto zelante. Le camere di nuovo troppo fredde. Ci danno ancora solo delle lenzuola e il camino è spento già da parecchio tempo. Anche qui siamo gli unici ospiti, solamente a colazione vediamo altri avventori. C’è sempre il tipico formaggio di capra Misithra (la consistenza è quella della ricotta), da mangiare con pane e miele. La stanza dove mangiamo ha il profumo di salvia e rosmarino, un odore un po’ troppo forte per i miei gusti. La locandiera è così emozionata che parla senza sosta.
Saliamo in macchina e ci indirizziamo verso Psiloritis (Monte Ida). Le pecore, alberi di limone e di arancio costeggiano la strada. Pini e cipressi sono visibili lungo il percorso. Presto però arriviamo in mezzo alla neve e lasciamo la macchina in favore di sci e pelli, pronte per partire alla volta del Migero Plateau e del Monte Kourouna. Ci sono diverse salite e molte discese in firn, verso sud e verso nord. Lo sguardo corre verso il mare cretese a nord e il Mar Libico a sud. Un caldo incredibile ci accompagna durante la salita e i nostri visi diventano rossi e nemmeno la migliore delle creme solari è utile. Psiloritis è nota come il luogo di nascita di Zeus. Nella cava di Ideon Andro si manifestò sotto forma di toro bianco e, accoppiandosi con la principessa fenicia Europa, diede vita a Minosse. Un’ultima lunga discesa in firn cancella la faticaccia fatta in questi giorni, i piedi gonfi e le spalle doloranti.
Dopo l’ultima escursione siamo stati ospiti di Andreas, un prete, in un posto così isolato che ci ha fatto scoprire un nuovo mondo, fatto di tradizione e accoglienza e abbiamo conosciuto gli uomini del posto, che sono anche scialpinisti. Proprio domenica il comitato organizzatore della Pierra Creta. La gara di skialp locale, si è incontrato casa di Papa Andreas. Il prete ci guida lungo le mura sassose, facendoci scoprire come si fa il formaggio Misithra e ci fa assaggiare quello che produce lui. Fuori Papa Andreas aveva precedentemente messo sul grill la carne di agnello, pronta per noi. La piccola comunità di scialpinisti ci ha fatte subito sentire parte del gruppo e così abbiamo passato una bella serata in compagnia. Abbiamo cantato, ballato, suonato la chitarra, bevuto vino e Raki e raccontato le nostre avventure tra le montagne. I local sono curiosi, ci hanno chiesto informazioni sulla tecnica sciistica, apprezzando il nostro abbigliamento tecnico e moderno e ci hanno raccontato di alcuni camp per giovani, durante i quali cercano di avvicinarli alla montagna. Sono così fieri di loro stessi e delle loro vette.
L’ultimo giorno del nostro viaggio abbandoniamo con difficoltà il letto (l’accoglienza greca ci ha procurato qualche effetto collaterale) Vogliamo conoscere anche l’altro lato di Creta, lontano dalle montagne, ma sempre con un occhio rivolto al gigante bianco dell’isola. Ci dirigiamo verso Chania, verso il mare. I prati diventano sempre più verdi, gli alberi di limone e arance sono sempre più rigogliosi. I fiori sbocciano, l’aria diventa più calda, l’odore di estate si disperde nell’aria. Vasi d’argilla, cipressi e oliveti costeggiano la strada. Gli uomini giocano a carte e bevono caffè. Ci fermiamo in un paesino di vasai, osservando il lavoro delle donne. Al porto di Chania possiamo finalmente toglierci le scarpe e mettere i piedi nell’acqua, sollievo per i nostri dolori. Abbiamo anche fatto un salto nel mare. L’aria è carica di sale, il pesce, le palme, i vecchi lampioni e, sullo sfondo, le bianche pendici del Lefka Ori creano un’atmosfera magnifica. Ancora una volta George ci porta a cena. Insalata greca con avocado e noci, riso indiano, paprika con yogurt, involtini di verdura, finocchio, spinaci e un’altra bottiglia di vino. La fine perfetta di un viaggio in un altro, fantastico, esotico, mondo.
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L'Adamello Ski Raid andrà in scena già nel 2020
La settima edizione dell’Adamello Ski Raid in via eccezionale si disputerà nel 2020. Il Comitato organizzatore, in accordo con il circuito La Grande Course, ha deciso di recuperare la gara annullata lo scorso aprile a seguito delle abbondanti nevicate in quota con un’edizione straordinaria programmata per sabato 18 aprile 2020.
«Si tratta – spiega il presidente dell’Adamello Ski Raid Alessandro Mottinelli – di un grande sforzo organizzativo ed economico indirizzato a tutti gli appassionati di grandi gare di sci alpinismo, ai quali vogliamo dare la possibilità di godere il prima possibile delle bellezze e tecnicità dei ghiacciai dell’Adamello senza dover aspettare altri due anni. Ci sentivamo in obbligo nei confronti degli oltre 700 appassionati che avevano deciso di essere fra i protagonisti lo scorso 7 aprile, ma anche di tanti altri skialper che avranno voglia di mettersi in gioco l’anno prossimo e che possono programmarsi la preparazione nel prossimo inverno».
L’Adamello Ski Raid, Ponte di Legno, Passo del Tonale e il ghiacciaio Presena saranno più che mai protagonisti dunque nel prossimo biennio. Si inizierà già a novembre 2019 con l’Adamello Ski Raid Junior, la classica competizione di apertura dedicata ai giovani, quindi il 18 aprile 2020 la settima edizione dello Ski Raid, ancora la sfida junior ad inizio inverno 2020 (prova del circuito La Grande Course Junior) e l’ottava edizione della sfida de La Grande Course per l’aprile 2021. Un segnale forte da parte di questo territorio che si candida a rivestire il ruolo di capitale dello sci alpinismo mondiale.
A Oberalp le scarpette d'arrampicata Evolv
Dopo Salewa, Dynafit, Pomoca e Wild Country, ecco Evolv. Il Gruppo Oberalp, la holding di Bolzano controllata dalla famiglia Oberrauch, ha acquisito il controllo di un altro brand del mondo verticale, specializzato nella produzione di scarpette da arrampicata. A seguire riportiamo il comunicato ufficiale dell'azienda.
Bolzano, 18 giugno 2019 - Il Gruppo Oberalp, brand house degli sport di montagna con sede a Bolzano, ha annunciato l'acquisizione con effetto immediato del marchio statunitense Evolv specializzato in scarpette da arrampicata. «L’arrampicata sportiva и un settore in crescita a livello internazionale- spiega Ruth Oberrauch, a nome della famiglia proprietaria del gruppo - L’acquisizione di Evolv è sinergica al nostro marchio Wild Country che opera soprattutto nell'ambito dell’attrezzatura tecnica. In questo modo il Gruppo Oberalp può ora distinguersi come fornitore di soluzioni complete per l’arrampicata sportiva. Con Salewa, Dynafit, Pomoca e Wild Country, Evolv è il nostro quinto marchio di proprietà per le attività in montagna, rinforzando così il ruolo di rilievo del nostro gruppo nel vasto mercato dell'outdoor».
«Come gruppo agiamo solo dove siamo competenti, e lo facciamo con passione. Il nostro mondo и la montagna, compresa la palestra da arrampicata - aggiunge Christoph Engl, CEO del Gruppo Oberalp - La nostra crescita è frutto del fatto che siamo focalizzati sull'alpinismo, mentre molti altri marchi sembrano cercare il successo nel settore più ampio dell'outdoor. Ecco perché il marchio Evolv si inserisce così bene nella strategia del Gruppo Oberalp».
Evolv è uno dei marchi leader nel mercato americano delle scarpette da arrampicata e genera un fatturato annuo di 6,5 milioni di dollari, con una produzione di 120.000 paia di scarpette da arrampicata all'anno. Inoltre, Evolv ha sviluppato con successo un servizio di risuolatura, che viene offerto per scarpe da arrampicata di tutte le marche. Il mercato principale и quello americano, ma ha dimostrato un grande potenziale di sviluppo nel mercato asiatico e in Europa dove и ancora poco diffuso.
Con questa acquisizione il Gruppo Oberalp sottolinea la propria dedizione all’ambito dell'arrampicata e del bouldering, e la volontà di sviluppare la propria attività anche in questo specifico settore. «La palestra и l'unica montagna ancora in crescita. Una montagna giovane e urbana. Con i marchi Evolv e Wild Country puntiamo soprattutto ai mercati asiatici e statunitensi. Ma Evolv potrà collocarsi perfettamente anche all'interno della comunità degli scalatori europei», così Engl riassume la strategia del Gruppo Oberalp per Evolv.
Evolv rimane a Los Angeles
Evolv è stata fondata 16 anni fa a Los Angeles dal coreano Brian Chung che ha avuto per molti anni la leggenda Chris Sharma come ambasciatore. Evolv resterà un marchio indipendente e Brian Chung continuerà a fare parte della gestione guidando il marchio come Product & Athletes Manager, mentre l’attuale Operations Manager, Jason Hung, continuerà ad occuparsi dello sviluppo del prodotto e della produzione. Nella sede di Los Angeles verranno mantenute le attività di sviluppo del prodotto, gestione degli atleti, vendite, design e servizio di risuolatura. La logistica, gli acquisti, il servizio clienti, le finanze e l'amministrazione saranno gestiti dalla filiale del Gruppo Oberalp a Boulder, sotto la responsabilità di Drew Saunders, country manager North America. La distribuzione in Europa sarà affidata al medesimo team di Wild Country, per ottimizzare le sinergie commerciali tra i due marchi.
Il Gruppo Oberalp considera il potenziale di crescita del marchio Evolv molto elevato, anche grazie al fatto che l'arrampicata sportiva sarà disciplina olimpica a partire dai prossimi Giochi olimpici di Tokyo, una occasione di grande visibilità presso il grande pubblico. «L'arrampicata è una nuova forma di fitness- continua Ruth Oberrauch - L'allenamento in palestra non attira soltanto gli appassionati di montagna e gli alpinisti. Molti giovani scoprono l'arrampicata come uno sport che combina diversi aspetti per migliorarsi: forza, agilità, concentrazione, e sempre più persone scoprono autonomamente l'arrampicata sportiva e si avvicinano alle palestre da arrampicata».
C’era una volta il west
Monaco di Baviera, Ispo 2018. Ormai da qualche anno, se vai all’Ispo, vedi freeride ovunque. Non c’è marchio, non c’è padiglione in cui almeno una delle foto utilizzate negli stand non ritragga uno sciatore immerso nella polvere con un completo colorato addosso. Qua e là product manager impacciati che parlano di rocker e sci larghi a clienti che li ascoltano annuendo, ignorando il fatto che fino a ieri per loro lo sciatore di riferimento era Alberto Tomba, mica Shane McConkey. I più ribelli, al massimo, tifavano Bode Miller. Nei comprensori la scena non cambia molto: appena nevica spuntano sciatori che in settimana si fanno la barba ogni mattina prima di andare in ufficio e che nel weekend, da un paio di stagioni, girano a bordo pista con le braghe larghe e i twin tip rubati ai figli ululando steep and deep, ma alla fine le tracce che lasciano sono le stesse serpentine che si facevano già negli ’80. Tutti che fanno i freerider, ma pochi in fondo accetterebbero di esserlo per davvero. A tanti, invece, del destino del freeride frega poco o niente, il suo spirito può essere sacrificato in nome di qualche like sui social. SCKREEECH. Freniamo tutti un attimo, per favore. Consumatori, brand, addetti ai lavori, anche noi giornali. Intendo proprio tutti. Che se si continua così il freeride muore per davvero. Abbiamo perso la bussola, ci siamo dimenticati quali sono le cose che contano quando si va a sciare. Abbiamo cominciato a preoccuparci più degli abbinamenti tra gusci e pantaloni piuttosto che di come arrivare a quel pendio rimasto vergine dopo l’ultima nevicata. O a imparare a memoria le geometrie degli sci che usciranno fra cinque anni, scordandoci che quelli dell’anno scorso vanno ancora benissimo e un paio nuovo costa almeno quanto lo skipass stagionale di una qualunque località. Tranquilli, ci sono anche io tra di voi, ci si fa compagnia nello smarrimento causato dalle insidie del marketing e dall’ansia da follower su Instagram, che se alla domenica sera non si pubblica una foto di deep powder abbiamo sprecato il weekend e potevamo anche starcene a casa. A fine febbraio ho deciso di curarmi. La meta del mio rehab era una valle nell’Ovest, dove il freeride esiste da più di vent’anni e non è stato inventato ieri da un marketing manager di una multinazionale, dove lo sci libero non lo si pratica, lo si vive in tutti i suoi eccessi e i sacrifici che ti richiede. Dove tra l’essere e l’apparire si sceglie lo sciare, e se la neve è bella magari al lavoro ci si va un’altra volta, pazienza se il conto in banca a fine mese piange. Così sono andato a disintossicarmi a Gressoney da Zeo e i suoi amici, alla Baitella.
The Baitella State of Mind
La storia della Baitella è legata strettamente a quella di Zeo, che a Ondro Lommato, la frazione nella quale si trova, ci arrivò nel 1994. All’epoca frequentatore dell’ambiente dei centri sociali, il milanese Zeo si innamorò del posto e assieme agli amici cominciò poco alla volta a trasformarla in una specie di casa comune, dove trascorrere l’inverno e ospitare chi passava di qua per sciare. È impossibile tenere la conta di chi ha soggiornato nel corso degli anni, magari risvegliandosi con la testa che rimbombava dopo una serata di bisboccia. La leggenda della Baitella si è accresciuta quando il proprietario, inconsapevolmente, si è ritrovato a ricoprire anche il ruolo di localdi riferimento dei rider stranieri che venivano a filmare ski movie sul Monte Rosa, innamorandosi a loro volta della Valle del Lys. Appena dopo la porta di ingresso c’è un muro sul quale gli ospiti lasciano una dedica, seria quanto basta. In alto a destra ci sono quelle di Chris Bentchetler, di Sean e Callum Pettit (ski you later, ha scritto), quella di Eric Pollard che ha anche disegnato uno dei suoi alberi, gli stessi presenti sulle serigrafie dei Line Skis, quando era stato qui per alcune scene di After the Sky Fall. E poi ci sono quelle della troupe di DPS, che qui ha filmato il cortometraggio Reverie in condizioni nevose da antologia. Gli amici italiani, poco più in là sullo stucco bianco, gli hanno detto ciano firmandosi come Riders de noartri. La Baitella è stata per me il posto giusto da cui ricominciare la disintossicazione. Se dovessi pensare a quali sono i valori del freeride, ammesso che li si possa definire tali, beh, tanti di questi li ritrovo in Zeo. La condivisione, prima di tutto: condividere con qualcuno le proprie idee e i propri luoghi. Portare i nuovi amici nei propri secret spot, sperando che poi l’ubicazione di questi ultimi venga divulgata solo ai più meritevoli (a proposito: in questo reportage non troverete i nomi delle discese fotografate, sarebbe troppo facile leggerle su un giornale e andare a ripeterle dopo una nevicata. Mi spiace, ma i local mi hanno detto che sanno dove abita la mia famiglia…). Ma anche la consapevolezza dell’ambiente che ci circonda, l’essere consci che le Alpi non sono messe bene, e che tutti dovremmo impegnarci un pochetto per preservarle. Perlomeno per permettere ai nostri figli di provare l’ebbrezza della powder nei boschi sotto i 2.000 metri, ecco. E, soprattutto, l’essere presi bene. Che è una forma più forte dell’essere entusiasti, senza sfociare tuttavia nell’essere ossessionati. Essere presi bene significa fare l’ultima pellata partendo alle cinque del pomeriggio, per il semplice godere della luce e della neve, e non perché bisogna accumulare dislivello a tutti i costi. E poi magari, i giorni in cui fa brutto, starsene a poltrire a casa senza sentirsi in colpa, lasciando gli ossessionati a perdersi nella nebbia al posto nostro. Ho poi conosciuto l’ecosistema di Gressoney del quale Zeo fa parte: una tribùeterogenea di indigeni della Valle del Lys della quale fanno parte Maestri, Guide, aspiranti Guide, fotografi di montagna, ma anche amatori che nella vita fanno tutt’altro. Età indefinita, dai venti agli over sessanta. Se li vedi da fuori non lo diresti neanche che passano le giornate a sciare insieme: qualcuno gira con padelloni da 120 millimetri sotto il piede, altri con degli assi che avranno sì e no quindici anni e oggi andrebbero bene per le gare. Abbigliamento, idem: si va da un estremo all’altro, dal tutone alla tutina. Ad accomunarli, però, sono le scelte che hanno fatto per arrivare fin qui, tutte mirate al poter trascorrere il maggior tempo possibile in montagna, rinunciando magari ai lussi di una vita e di un lavoro normali in cambio del potersi svegliare col Monte Rosa fuori dalla finestra. Era qui che volevo arrivare: il freeride non è una pratica e nemmeno un modo di vestirsi o di sciare. Il freeride è un percorso di vita.
Weissmatten
Spesso trascurata a favore degli impianti di Gressoney La Trinité, quest’area dispone di una sola seggiovia biposto e, apparentemente. di pochi pendii accessibili dalla cima. Ma basta aver voglia di mettere le pelli anche solo per pochi minuti che si sblocca un mondo fatto di ripidi lariceti, riparati dalla folla che gira a Punta Jolanda, decisamente più frequentata. Prima regola del freeride, cercare sempre il pendio vergine, giusto?
Il trasformista Andrea Gallo
Climber, fotografo, pioniere giornalista, sciatore-autore, videomaker della scena rap italiana: Andrea Gallo è stato ed è tutto questo. Negli anni ’80 Andrea fu uno dei più forti arrampicatori italiani, autore delle prime salite di pietre miliari del freeclimbing sparse tra Piemonte e Liguria. Basti pensare che la sua Hyaena, gradata solo8b+, fa notizia ancora adesso quando viene ripetuta. Fu poi uno dei primi a credere nel paradiso outdoor di Finale Ligure, contribuendo attivamente al suo sviluppo e aprendo il primo negozio di attrezzatura da montagna in quella che era una cittadina della riviera ligure. Poi tornò su nelle montagne di casa, a Gressoney, dove partecipò alla stesura della prima guida di freeride della zona, Polvere Rosa. Come il serpente dell’Eden, Andrea continuò a tentare il resto del mondo rompendo gli schemi. Intramontabile lo speciale Freeriderc he curò per la rivista Alp nel 1999, dove scrisse delle attività libere dagli schemi che in futuro sarebbero state catalizzatrici dello stantio mondo della montagna: in quel numero si parlava di bouldering, di skibum a Chamonix, di drytooling e, ovviamente, di Gressoney.
Una Malfatta ben fatta
Il Vallone della Malfatta è una delle discese più conosciute che da Punta Indren scendono sul lato valsesiano del Monte Rosa. Solitamente vi si accede tramite un canale che richiede una calata, o perlomeno di essere disarrampicato. Solitamente. Con Zeo e il Camicia l’abbiamo sciato in tutto il suo splendore, accedendoci sci ai piedi e lasciando le nostre firme nello zucchero, in una giornata in cui il cielo era quello che gli americani - che hanno un neologismo cool per qualsiasi cosa - definirebbero bluebird. Discese classiche come questa in queste condizioni richiedono essenzialmente un requisito: essere lì, in settimana, dopo una nevicata e alla prima funivia… tutto il resto sono chiacchiere da bar.
Il Circo Barnum al Lago del Labiet
Più si è, meglio è. Un giorno ci siamo ritrovati a pellare dalla diga del Labiet in undici, in una bolgia colorata con poche idee in testa ma molto chiare: trovare abbastanza pendii immacolati per tutti. In testa il solitario Camicia, che non solo voleva battere tutta la traccia da solo, ma respingeva anche chi si offriva di dare il cambio a questo intagliatore che un giorno, da solo e per sfizio, aveva pellato per 5.100 metri di dislivello. Dietro, a seguire, il carrozzone del Circo Barnum: il più giovane era il ventunenne rasta Mattia, che per l’occasione aveva un paio di Dynafit al posto dei twin-tip da park; il più, ehm, saggio era Paolo, ormai in pensione. Gente che aveva fatto il Mezzalama mischiata ad altri che in salita facevano le pause a suon di sigarette e vin brulé, mischiata ad altri ancora che le pause non le facevano proprio perché erano i giorni di Burian e la temperatura a dir poco tonica. Chiedetelo a Zeo, che si è dovuto far prestare un phon al bar per scaldare le pelli ghiacciate.
Sciare la luce
È successo anche di partire per l’ultima pellata all’ora in cui il sole stava per scomparire, salendo con il filo dell’ombra che seguiva poco più a valle. Faceva così freddo che i cristalli di neve non si legavano l’uno all’altro, ma rimanevano lì, sospesi nell’aria a luccicare come polvere d’oro. Davanti a me a battere la traccia c’erano il Camicia e i fratelli Thedy, dietro Zeo e Mattia. Con me era rimasto Francio, che saliva con calma trascinandosi dietro scarponi da pista e sci da 124 mm al centro. Abbiamo spellato proprio mentre il sole stava calando, il primo a danzare nella luce è stato il Camicia, mentre Francio si gustava una sigaretta rollata a meno venti.
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Gore Wear, a prova di sport
Il marchio Gore, nell’immaginario collettivo, è associato alla membrana e alle tecnologie Gore-Tex, però Gore è anche una marca di abbigliamento, che si può richiedere nei negozi sportivi più specializzati. Gore Wear è un po’ il laboratorio di tutta una filosofia e realizza prodotti altamente funzionali a partire dalle membrane e tecnologie Gore-Tex. Abbigliamento per ciclismo, mountain bike, corsa, trail running, fast hiking, sci di fondo pensato per un utilizzo sportivo specifico e intenso, che integra il know-how Gore con design e dettagli mai presenti per caso. Abbiamo provato un completo da running e trail running e uno indicato per fast hiking cercando di concentrarci proprio sulla funzionalità e di andare a cercare tanti piccoli particolari che sono quelli che, a parità di materiali utilizzati, possono fare la differenza. Vista la specificità del marchio e della proposta abbiamo scelto due testatori particolari. Le proposte da uomo le ha indossate Filippo Bianchi, trail runner e sky runner di punta (vanta anche una convocazione ai Mondiali di corsa in montagna) che è escursionista appassionato, naturalmente nella modalità fast… Indubbiamente un consumatore molto esigente. Il completo da fast hiking da donna lo abbiamo fatto indossare invece a Erika Giordana, che con Danilo Noro gestisce il negozio
XL Mountain, nostro partner per i test della Buyer’s Guide. Chi meglio di una negoziante esperta, che maneggia tutti i giorni capi sportivi e di una praticante outdoor assidua come lei per giudicare la proposta Gore Wear?
Running, GORE R7 Maglia e Pantaloncini 2in1
La proposta per correre prevede un completo con pant corti 2in1 e una maglia a maniche corte. «Premetto che non sono un amante dei pantaloncini doppi, personalmente preferisco quelli unici, ma con questi mi sono trovato bene, perché la parte stretch a contatto con la coscia non è stretta e soprattutto il materiale è molto leggero e piacevole al tatto, quella sopra è invece bella larga» esordisce Filippo. Tanti i dettagli, dalla comoda tasca con zip sul retro, a quelle laterali per i gel. La regolazione in vita avviene tramite coulisse piatta. «Ci sono anche tanti loghi riflettenti, sempre utili per essere visti quando scende il buio e la ventilazione, anche grazie agli inserti in rete e alle caratteristiche del tessuto, è buona» aggiunge Filippo. Più indicata per allenamenti e camminate veloci la maglia, di un piacevole e leggero tessuto, pensata per assecondare la vestibilità e con inserti in silicone sulle spalle per lo zaino. Si asciuga velocemente, non aumenta di peso se bagnata e punta sulla regolazione del microclima grazie alle tecnologie del tessuto e non su inserti in rete o costruzioni differenziate. «È sempre piacevole al tatto grazie alla cuciture piatte Ultrasonic» conclude Filippo.
Fast hiking, Gore H5 Gore.Tex Active e pantaloni Gore H5 Windstopper Gore Windstopper Hybrid
A vederli, pantaloni e giacca, sembrano più pesanti di quanto realmente siano. Li abbiamo provati in una giornata primaverile ventosa, ma non particolarmente fredda. E il primo commento, sia di Filippo che di Erika, è che non sono caldi. Intendiamoci, garantiscono il giusto microclima, anche se c’è fresco, ma non fanno sudare. La giacca con cappuccio è impermeabile all’acqua, antivento e altamente traspirante. «A conti fatti potrebbe anche essere utilizzata come strato per chi corre, è davvero light e poco ingombrante» dice Filippo. «È un capo piacevole da indossare con la consistenza di una k-way e lascia una bella libertà di movimento, anche quando si forza il ritmo» gli fa eco Erica. Questo guscio è particolarmente ricco di dettagli: «la coulisse regolabile in vita assicura la giusta vestibilità ed evita la dispersione del calore, il polso con velcro è pratico e meglio di quelli elastici che alla lunga cedono» dice Erika. «È ben compatibile con lo zaino e non ha cuciture sulle spalle» aggiunge Filippo. A un primo sguardo i pantaloni incuriosiscono. Sono forse il capo dove i dettagli fanno ancora di più la differenza. Abbinano il tessuto GORE WINDSTOPPER a inserti in GORE-TEX per fare scivolare via il gocciolamento dalla giacca, ma soprattutto tessuto stretch per assecondare i movimenti e la vestibilità dove serve, che li rende anche piacevolmente morbidi. «La regolazione in vita con cintura a velcro è molto comoda» nota subito Filippo, mentre Erika apprezza il fit e la fascia grip interna al giro vita. Non mancano anche in questo caso i dettagli riflettenti, nulla è lasciato al caso.
Fast is the new trendy
«Esiste forse uno stile più logico ed elegante del partire dal fondovalle, scalare una o più montagne e tornare al punto di partenza con il minimo materiale indispensabile, in un solo, rapido, assalto? In questo stile la velocità rappresenta ovviamente una componente essenziale: senza di essa non sarebbe possibile fare cosi tanto dislivello. Senza di essa non si avrebbe la sensazione di cavalcare le montagne. Pur condividendo la ricerca della rapidità, gli approcci a questo tipo di salite sono molto differenti a seconda che si parta dal lato trail running oppure da quello alpinistico. A creare confusione, al di là delle basi culturali, è proprio la disciplina in sé: per la metà del tempo si corre su sentieri, per lʼaltra metà si scalano vie alpine. Nella prima parte della giornata si starebbe quindi bene in scarpette, pantaloncini e canotta; nella seconda ramponi, piccozze e friend diventano fondamentali per la riuscita». Scrive così Denis Trento a proposito delle salite alpinistiche in velocità. Una valutazione filosofica sull’andare veloci, con tanto di excursus storico, per introdurre le uscite fast & light realizzate la scorsa estate in compagnia di Robert Antonioli. Uscite veloci, sì, ma con tutta l’attrezzatura necessaria. «Come Guida alpina non posso prescindere dallʼavere con me attrezzatura alpinistica adeguata e di autosoccorso, con qualche piccolo adeguamento magari sul materiale delle talloniere dei ramponi o sui millimetri della corda».
Denis Trento e Robert Antonioli la scorsa estate hanno salito l’Innominata al Monte Bianco, hanno percorso la cresta di Rochefort e traversato le Grandes Jorasses e toccato Lyskamm, colle del Lys, punta Dufour e punta Zumstein nel gruppo del Monte Rosa.
L’articolo completo è su Skialper 124 di giugno-luglio.
Via Valais, la haute route del trail
«La nostra esperienza, le chiacchiere con altri appassionati di trail, l’analisi delle mappe e le foto aeree ci hanno convinto subito: il Vallese avrebbe potuto avere i migliori itinerari di trail running al mondo, con singletrack tra grandi panorami e salite e discese epiche. Il paesaggio è unico e l’aria pulita invita a lasciare correre le braccia lungo il corpo e forzare il passo. L'unico inconveniente è che ogni volta che giri un angolo, ti trovi davanti un nuovo spettacolo della natura e ti viene voglia di fermarti a contemplarlo. Tutti questi ingredienti rendevano il cantone svizzero il luogo ideale per dare forma al nostro sogno: un lungo trail di più giorni». Scrive così Kim Strom a proposito della Via Valais: 225 chilometri e 14.000 metri di dislivello positivo ai piedi delle montagne più spettacolari d’Europa, da Verbier a Zermatt. Un itineraio nato unendo sentieri già esistenti e dopo un’a lunga e attenta ricognizione in più fasi.
Lungo l’itinerario si incontrano alcune delle montagne più spettacolari delle Alpi, a partire dal Cervino. Lo Schöllijoch, invece, prevede una discesa esposta con corde e scale per raggiungere i resti di un piccolo ghiacciaio con ghiaccio vecchio e senza crepacci. Lungo la via si incontra anche il ponte sospeso Charles Kuonen, il più lungo del mondo di questo tipo, con i suoi 494 metri e si corre nei luoghi della mitica gara Sierre-Zinal e tutto il percorso è diviso in nove tappe.
L’articolo completo sulla Via Valais è su Skialper 124 di giugno-luglio.
Livigno Skymarathon a Ruy Ueda e Sheila Avilés
Alla quarta edizione della Livigno Skymarathon su un inedito percorso da 31 km e 2650 metri di dislivello vittorie del giapponese Ruy Ueda e della spagnola Sheila Avilés.
Sul podio della prima tappa italiana di Migu Run Skyrunner World Series, anche Daniel Antonioli e lo spagnolo Oriol Cardona; al femminile seconda si è invece piazzata la campionessa di casa Elisa Desco, mentre terza è giunta l’altra spagnola Gisela Carrion. 600 atleti da 23 differenti nazioni ai nastri di partenza. Il comitato organizzatore, nelle ultime settimane, è stato chiamato ai lavori straordinari dopo le abbondanti precipitazioni primaverili che hanno lasciato in quota tanta neve e reso impossibile l’utilizzo del percorso originale. Il direttore percorso Adriano Greco, supportato dal campione di casa Marco De Gasperi e dai numerosi volontari, sono comunque riusciti a proporre un itinerario tecnico e selettivo che ha letteralmente esaltato i big mondiali della specialità.
Pronti, via e il giapponese Ruy Ueda ha subito impresso alla gara un ritmo altissimo. Ritmo tenuto sulla prima ascesa verso il Crap da la Parè da Daniel Antonioli. Dietro era bagarre per le posizioni di alta classifica tra Luis Alberto Hernando, Oriol Cardona, Petter Engdahl, Jia Erenjia, Marc e Oscar Casal Mir e Zaid Ait Malek (ESP). Con il passare dei chilometri il giapponese, già vincitore della prima tappa 2019 di Migu Run Skyrunner World Series, ha preso il largo per poi presentarsi in solitaria sul traguardo di Livigno in 3h22’57”.
Daniel Antonioli resiste all’attacco dei suoi avversari guadagnando il suo primo podio di world series in 3h24’37”. Autore di una prova tutta in rimonta il leader di coppa Oriol Cardona si è preso il gradino più basso in 3h26’24”. Completano la top ten di giornata Luis Alberto Hernando, Zaid Ait Malek, Eduard Hernandes, Ander Inarra, Pablo Villa, Adolfo Gustavo Buitrago e Alejandro Pujol Forcades
Gara vera anche al femminile con la spagnola Sheila Avilés subito all’attacco ed Elisa Desco subito dietro. In lizza per un posto sul podio anche Holly Page, Oihana Azkorbebeitia, Elena Rukhlyada, Robyn Owen e Hillary Gerardi. Nelle fasi cruciali la local Elisa Desco ha provato l’affondo portandosi al comando, ma Avilés ha subito riguadagnato la testa della corsa vincendo in 3h52’40”. Secondo posto tra gli applausi per Elisa Desco (3h56’13”) e terza piazza per l’altra spagnola Gisela Carrion (3h58’51”). Nelle top five anche Oihana Azkorbebeitia e Holly Page.
La Dream Line di Hilaree Nelson e Jim Morrison
Il 30 settembre 2018 Hilaree Nelson e il compagno Jim Morrison hanno chiuso un’annata di sci ripido sugli ottomila da ricordare, sciando integralmente il Lhotse (8.516 m) dalla vetta, lungo quello stretto canale a lungo bramato da tanti, la Dream Line. Un’impresa di livello dopo quella di Bargiel al K2, portata a termine in cinque settimane totali. «Quando siamo arrivati in vetta con tutta quella neve e ci siamo resi conto che avremmo potuto sciare la Dream Line dall’inizio, senza calarci tra le rocce, è stato bellissimo, un momento che ricorderò per sempre: eravamo nervosi, ma appena abbiamo messo gli sci l’eccitazione ha preso il sopravvento» dice Hilaree Nelson, 45 anni, che nel 2018 ha preso il posto, dopo 26 anni, di Conrad Anker come capitano del Global Athlete Team di The North Face.
La Nelson aveva già sciato nel 2013 la parete Ovest del Papsura (6.440 m), anche soprannominato in maniera poco rassicurante Peak of Evil (picco del male), una linea difficile di un’estetica ineccepibile che ripercorreva in parte l’ascensione neozelandese del 1991. Non c’è dubbio però che la Dream Line del Lhotse rimarrà per sempre legata al suo nome e a quello di Jim Morrison. «Tutta la discesa, compresa la Face, fino al campo 2, è di circa 2.100 metri di dislivello, e ha preso circa quattro ore, ma la maggior parte del tempo l’ha richiesto la sezione del Couloir – dice ancora Hilaree - Siamo stati vicini perché era la parte più impegnativa, l’ampia parete sottostante l’avevamo già provata nella fase di acclimatamento e lì ci siamo allontanati un po’ e abbiamo gustato la discesa. Sciare con Jim, compagno anche nella vita, mi dà una grande fiducia».
L’articolo completo è su Skialper 124 di giugno-luglio.
Sarà una Skylakes solidale
Era iniziata nel 2014 come una scommessa, organizzare una skyrace nel paese più piccolo del Veneto, partendo dal nulla. Quattro anni pieni di soddisfazioni e successi: l’ingresso nel circuito La Sportiva Mountain Running Cup, gli atleti di alto livello che ritornano, il sold out a 750 iscritti, le ottimi critiche. Per questa edizione della Skylakes, che si corre a Laghi (VI) il 23 giugno, il percorso di 21 km e 1.550 m D+, a cavallo tra Trentino e Veneto, rimane immutato, così come la scelta di aggiungere alla gara dei ‘grandi’ il MiniTrail per i ragazzi 7-12 anni sulla distanza di 1.200 m.
La vera novità di questa Skylakes 2019 riguarda pacco gara e quota d’iscrizione. In un calendario trail sempre più fitto e competitivo, in cui il pacco gara rappresenta la miglior pubblicità immediata per una gara di corsa, gli organizzatori vicentini hanno scelto di fare un passo indietro e riportare la Skylakes all’essenziale con un occhio al solidale. «Correre, con una mano sul cuore». Questo è il messaggio che vuole passare quest’anno. La proposta è sicuramente coraggiosa e temeraria. A ogni iscritto, al prezzo base di 20 euro, saranno dati pettorale, assicurazione, gnocchi, chip, docce, deposito bagagli, ma poi sarà lui a fare la scelta tra richiedere il gadget d’iscrizione, una t-shirt in cotone, oppure donare il corrispondente valore in denaro a Team For Children Onlus Di Vicenza, un’associazione dedita all’aiuto dei bambini malati e di appoggio alle relative famiglie (www.teamforchildrenvicenza.it) con cui Skylakes ha di recente iniziato a collaborare per la costruzione di una casa vacanze per bambini oncologici. Una quarta edizione irrivererente, un percorso collaudato e una macchina organizzativa eccellente, tutto ciò che serve per correre forte e divertirsi tra i sentieri delle Prealpi vicentine a un prezzo ribassato. Toccherà ora agli atleti rispondere, dimostrare di non essere solo attratti dallo specchietto per allodole del pacco gara e ricordare che alla fine l’importante è solo correre. L’essenziale.
Mario Poletti organizza la Orobie Experience
Nel 2005 Mario Poletti corse il Sentiero delle Orobie in 8 ore, 52 minuti e 31 secondi. Un’impresa che ricordano ancora in molti e che portò tante persone sul sentiero. Ora il product manager di Scott Italia, nell’anno in cui Marco Zanchi tenterà un’impresa simile, si è inventato una nuova avventura aperta a chi vorrà condividerla con lui: Orobie Experience.
L’appuntamento è per sabato 29 e domenica 30 giugno. La prima tappa è daVal Canale al Rifugio Coca: 42 km e 2700 m D+ - tempo percorrenza stimato 10 ore. La seconda dal Rifugio Coca al Curò, Rifugio Albani e ad Ardesio: 42 Km e 2300 m D+ - tempo percorrenza stimato 11 ore.
L’evento è gratuito e aperto a tutti coloro che, avendo compiuto i 18 anni alla data di svolgimento dell’Experience, sono in possesso di certificato medico sportivo di idoneità all’attività agonistica in corso di validità. Per la partecipazione però è richiesto il curriculum sportivo. Si richiede di aver concluso una skymarathon o un’ultra trail (dai 55 km in su) o edizione del GTO (Gran Trail delle Orobie ). Le iscrizioni si chiuderanno al raggiungimento dei 20 partecipanti e la logistica è curata da Fly - UP. Iscrizioni qui.