Patagonia aderisce allo sciopero per il clima chiudendo i suoi negozi

Patagonia, azienda di abbigliamento outdoor con una lunga storia di attivismo ambientale, chiuderà tutti i suoi negozi nel mondo per supportare gli scioperi per il clima, che si terranno il 20 e 27 settembre, e per fare in modo che i dipendenti possano prendervi parte.

Diverse manifestazioni, organizzate a livello globale, chiederanno la fine dell’epoca dei combustibili fossili ed esigeranno giustizia climatica per tutti. In molti paesi del mondo si terranno venerdì 20 settembre, mentre nei Paesi Bassi e in Italia avranno luogo venerdì 27 settembre, giorno in cui negli store di Cortina, Milano e Montebelluna le casse rimarranno chiuse. I negozi Patagonia, e tutti gli uffici in Europa, consentiranno così ai propri lavoratori di prendere parte alle manifestazioni locali.

Ryan Gellert, General Manager EMEA di Patagonia, ha così spiegato la decisione dell’azienda: «La crisi climatica è una questione umana che riguarda tutti noi. Siamo ispirati dai giovani attivisti che stanno portando avanti un movimento globale e, come loro, Patagonia sta richiedendo un’azione urgente e decisiva per il bene delle persone e del pianeta. In quanto azienda internazionale, chiuderemo i nostri negozi il 20 e il 27 settembre, manifesteremo con i giovani attivisti e domanderemo ai governi di tutto il mondo di intervenire. Invitiamo le imprese e chiunque sia preoccupato per il destino della Terra e del genere umano a reagire concretamente e unirsi a noi».

Per sapere di più su Patagonia, la sua storia di attivismo e la sua missione è possibile visitare il sito ufficiale. Inoltre, attraverso il finder online è possibile scoprire tutte le manifestazioni in programma nella propria area.


La Promenade

Fra i legni lunghi due metri e dieci e i palettoni da 106 millimetri sotto il piede scivolano via cinquant’anni. Come niente fosse. Decenni di vite, senza che la montagna se ne sia neppure accorta. Corse, salite, discese, gare, neve, pioggia e sole. E lei sempre uguale a se stessa. Sempre lì, a due passi da casa. Corrono via cinquant’anni, ma gli orizzonti restano immobili. Vicinissimi a tutto, ma lontanissimi dal mondo. E i ricordi di allora si fondono con quelli di oggi. Raccontando come tutto sia cambiato. È il 1970, i legni sono altissimi e stretti, fardelli sugli attacchi capaci di alzarsi non oltre un paio di dita. Pelli fissate a tre ganci laterali, una tenuta approssimativa, nello zaino l’attrezzatura per sistemarle nei momenti peggiori. Nello sconfinato bianco della Val d’Aosta, in condizioni di neve perfette e abbondanti, tre ragazzi. Guido, Ruggero, Carlo. Ad aprile, primi di sempre, tracciano il loro sogno: attraversare la regione sugli sci, da Champorcher a Gressoney. Tredici tappe, due giorni di sosta per maltempo, 37.000 metri di dislivello. Quando arrivano alla meta, il giorno della Festa del Lavoro, a unirli non è solo la sensazione di aver fatto qualcosa di mai visto. È la certezza di aver fissato un’amicizia. Di averla messa alla prova. Nelle difficoltà e nelle risate. «Resterà sempre uno dei ricordi più belli della mia vita» dirà uno di loro.

Cinquant’anni si dileguano in vapore. Ma le cose belle diventano cemento. Anno 2017, mese di maggio. La storia si ripete. Sulle stesse linee che ogni anno decine di persone ripercorrono, sugli stessi passi che gli atleti del Tor des Géants inanellano frenetici, il sogno di Guido, Ruggero e Carlo rinasce. È lo spirito a dettare le regole: nessuna sfida contro il tempo, nessun bisogno di leggerezza per correre più veloci. Lì, a due passi da casa, Shanty Cipolli e Simon Croux decidono semplicemente di ripercorrere quel che qualcuno ha già fatto. Per raccontare a tutti, senza esibizionismi alpinistici, che «per esplorare non si deve per forza andare lontano». Perché quando parti, come puoi apprezzare quello che trovi, se non sai quello che lasci?. Sono le montagne su cui si affaccia la camera da letto, rimaste lì nel tempo ad osservare, senza dire parola. I luoghi di una vita. Shanty Cipolli, nome sanscrito portato in dono da un viaggio paterno in Nepal, qui ci scia da sempre. Ventisei anni, maestro di sci di Antey, porta sulle gambe giganti e gare di skicross con i colori della nazionale, prima di approdare al mondo freeride e ai Qualifier per il World tour. «Studiavo da geometra, ma ho lasciato perché non era compatibile con tutti questi impegni» ammette. E lo sguardo a un futuro professionale si è ridisegnato di conseguenza: «Ora punto alle selezioni per diventare Guida alpina» non nasconde. E intanto, si scia. Un po’ la stessa storia di Simon Croux, ventunenne di Courmayeur, nato in Svizzera e posato sugli sci all’età di tre anni da una famiglia titolare di un locale sulle piste ed erede di una lunga tradizione di Guide alpine (il trisnonno Laurent era fra i consueti accompagnatori del Duca degli Abruzzi). Anche per lui gare di gigante, poi un salto alle competizioni freestyle e l’arrivo a soli 14 anni al Freeride World Tour junior. «Anche io ho dovuto lasciare la scuola: frequentavo il liceo sportivo, ero riconosciuto come atleta nell’ambito di una classe de neige. Ma niente: la mia attività non era vista alla pari dell’agonismo più classico, da sci club. E questo non mi ha aiutato». Oggi, tanto per chiarire com’è finita, è nei Qualifier del Freeride World Tour.

© Achille Mauri

Per Shanty e Simon, stuzzicati dal filmaker Michel Dalle, di Grobeshaus Production, l’idea di ripercorrere quel sogno lungo cinquant’anni, ritrovando lo spirito di quei lontani giorni scoperto per caso in un libro, è la scintilla. L’innesco di un’avventura diventata film con la voglia di mostrare a tutti cosa c’è là dietro. Dietro le cime di sempre. Oltre lo sguardo. A due passi da casa. Ma tra il fare per conservare e il fare per raccontare passano differenze immense. E dove Guido, Ruggero e Carlo scivolavano senza guardarsi indietro, pensando solo alla loro avventura, Shanty e Simon si trasformano in protagonisti. Accompagnati dal regista-snowboarder in split e illuminati dal volo di perlustrazione effettuato con l’amico Cesare Balbis, pezzo di storia del Soccorso Alpino valdostano, cercano soluzioni, inquadrature, momenti, luci e pensieri da cristallizzare. I chilometri si susseguono, i metri di dislivello scattano. «Ma i pesi dell’attrezzatura sono di per sé il segno che quel che si voleva non era la performance, piuttosto una forma di ricerca» chiarisce Michel. Il desiderio di dire qualcosa. Di vivere i luoghi della vita in modo diverso. Venti chili di materiale foto-video, sacco a pelo, fornellino, bombole, attrezzatura alpinistica, tende, cibo, acqua, sci, scarponi. Addosso a ciascuno c’è più di una ventina abbondante di chili. E da Courmayeur Arp, dove tutto inizia, le giornate si fanno pian piano sempre più dure. Sveglia alle 6 del mattino o giù di lì, pelli e sciolina fino alle 16, poi sosta. Se serve in tenda, dove la zanzariera deve restare aperta per evitare che tutto condensi, se si può in rifugio. Giorno dopo giorno, per ventidue albe e tramonti, corrono sotto le lamine La Thuile, il Rutor, la Valgrisa e il col Bassac Déré, il rifugio Benevolo, la Val di Rhêmes con la Punta Basei, la Valsavarenche con i Piani del Nivolet, il Miserin e Champorcher, Gressoney e il Colle Bettaforca, Champoluc e il Col di Nana, Torgnon, Saint Denis, Saint Barthélemy e il col Vessona, la Valpelline, il Gran San Bernardo e il Col Malatrà. La birra finale evapora qui, seduti fianco a fianco ad ammirare i 4.810 metri che sovrastano ogni cosa. E la mente corre veloce a tutto quel che è stato in così poco, ma anche tanto tempo: la salita durissima verso La Thuile e il Deffeyes, la volpe che curiosava in tenda e poi accettava uno spuntino, il caldo opprimente della Valgrisa. La giornata di relax totale sul ghiacciaio Goletta, all’ombra del Granta Parey. La voglia di uscire di rotta e salirlo, la decisione di farlo davvero. La fatica della parete dura e ripida. La bellezza della sciata fuori programma. E poi la polvere che solleticava le ginocchia sotto il Città di Chivasso, la durezza della salita al Miserin, la tappa a Chamois e Antey, con la grigliata a casa di Shanty e la parentesi di una notte nel letto di sempre. La polverella fine al Vessona, le tracce di lupi verso la Valpelline. Tutto si accavalla, tutto torna. Ma è tutto troppo caldo ancora. E giù dal Bonatti scalpita la voglia di dire basta alla fatica. «Era ora di arrivare  - ricorda Simon -. E ho tirato giù una linea dritta sulle pigne del bosco. Era fatta».

Venticinque minuti di film, poco più di un minuto per ogni giorno, un anno dopo sintetizzano e fermano nel tempo quelle emozioni. Campi larghi, silenzi, parole scelte con attenzione. E un racconto che non risparmia dettagli sulle difficoltà. Shanty e Simon che osservano la mappa, che scendono a fuoco nell’immenso del bianco. Che attendono in tenda. Che scherzano sul cibo. Sono i momenti televisivi. Dietro ai quali si nascondono le discussioni sulla scelta dell’itinerario, le rotte decise in base alle condizioni del momento, i consulti con gli amici di ogni valle, gli sguardi ai bollettini valanghe. La consapevolezza di percorrere una linea logicamente contraria all’usuale, sempre in partenza da ovest per scendere ad est, dal cemento del mattino alle insidie del pomeriggio. La speranza che il tempo regga, la fortuna di vedere che sarà così. I tratti più critici, i traversi a rischio. I momenti di confronto sulla scelta delle inquadrature. I tempi di assetto del regista nei punti strategici e più magici. Ma la neve si offre stabile. Perfetta. Ed è lei a legare ogni pezzo all’altro. Un giorno, due. «La camminata fin da subito si rivela più lunga e faticosa del previsto - recita Shanty, voce narrante sullo sfondo delle immagini -. Ma ormai non si torna più indietro. Adesso siamo qui, solo noi con le nostre forze». Ed è lì, nell’attimo della consapevolezza, che il vero sogno di Guido, Ruggero e Carlo riprende forza. «Gli spazi si fanno sempre più ampi - spiega Shanty -. E noi ci sentiamo piccoli». Puntini nel bianco. Proprio come cinquant’anni prima, pur sorretti da materiali, idee, attitudini e propositi molto lontani, i pupilli del CAI Guido Fournier, Carlo Vettorato e Ruggero Busa avevano immaginato. «Il nostro non voleva essere solo un esercizio fisico - ricorda Guido quasi cinque decenni dopo -. Era qualcosa di più. Che aveva in sé anche una componente estetica e naturalistica». Un’esperienza. «Un ricordo fantastico - chiarisce Carlo -. Che se avessi cinquant’anni meno, o anche solo 30 o 40, rifarei subito. Anche se so che non sarebbe più la stessa cosa».

© Achille Mauri

Anche Shanty e Simon lo dicono. È passato un solo anno, ma la voglia di rifare tutto è già forte. «Un rewind? Potendo farlo, mi muoverei a tappe - spiega il maestro di Antey -. C’è tanto, così tanto da sciare in quei luoghi che scorrere via veloci, in una sola linea di passaggio, sembra un peccato». E allora, chissà. Forse sarà domani, forse tra qualche tempo. Forse ci penserà di nuovo qualcuno tra cinquant’anni. Intanto il bello è ormai dentro al cuore e alla memoria. Una lotta contro il «freddo, il vento, la stanchezza, la fame, la condensa, gli scarponi ghiacciati». Con un finale che non ti aspetti. Perché «quando sei lassù a guardare le stelle, a sentire il silenzio, a vedere la luce del mattino, ti rendi contro che, nonostante tutto, ne è valsa la pena». E forse, a due passi da casa, ne varrà sempre la pena.

1.300 metri al giorno

La traversata scialpinistica della Val d’Aosta portata a termine nel maggio 2017 da Shanty Cipolli e Simon Croux è durata 22 giorni. Queste le tappe: Courmayeur Arp la Balme; La Thuile e Rutor; Valgrisa e Col Bassac Déré; Rhemes e Punta Basei; Valsavarenche e Piani del Nivolet; Miserin e Champorcher; Gressoney e Colle Bettaforca; Champoluc e Col di Nana; Torgnon; Saint Denis; Saint Barthelemy e Colle Vessona; Valpelline e Valle del Gran San Bernardo; Col Malatrà e Courmayeur. I due freerider valdostani hanno coperto circa 1.300 metri di dislivello al giorno, con alcune varianti e soste rispetto al classico percorso del Tor des Géants, facendo affidamento su mappe, cartine e telefonino, oltre a un GPS che però è stato utilizzato solo nei punti più critici. Membri del team Mammut, supportati da alcuni sponsor, hanno percorso la traversata con sci da freeride: per Simon Croux i Line Francis Bacon (104 mm sotto il piede) con attacchi Marker Kigpin; per Shanti Cipolli i Movement Go Strong (106 mm), sempre con Kingpin. Con loro il filmaker Michel Dalle, che ha seguito la traversata con una tavola split. Al seguito, quattro batterie da un chilo l’una, un corpo camera da cinque chili, un computer, caricatori, treppiedi e ottiche, per un totale di circa 20 chili di materiale video. Nel 1970 un itinerario analogo era stato percorso da Carlo Vettorato, Guido Fournier e Ruggero Busa: partiti da Champorcher il 17 aprile, arrivarono a Gressoney il primo maggio, chiudendo la linea in tredici tappe, con una sosta di due giorni per maltempo. Percorsero 37.257 metri di dislivello, di cui 17.842 in salita e 19.415 in discesa.

© Grobeshaus Production

Il film

Disponibile online su YouTube, La Promenade (25’ 48”) è il film che racconta i 300 chilometri e 20.000 metri di dislivello percorsi da Shanty Cipolli e Simon Croux nella loro avventura scialpinistica. Prodotto da Grobeshaus Production di Aosta, il video è stato scritto e diretto dal filmaker Michel Dalle, maestro di snowboard. Al suo attivo da un paio d’anni anche il film cAPEnorth, realizzato con la comproprietaria di Grobeshaus, Francesca Casagrande, per raccontare il viaggio su un’Ape Piaggio di due giovani aostani fino all’estremo nord della Scandinavia.

© Achille Mauri


White out

Esiste un posto, dall’altra parte dell’Atlantico, dove la neve è diversa. Voglio dire, è pur sempre fredda e bianca come la nostra, di neve, ma è diversa. È talmente leggera che quando vedi uno sciarci dentro sembra che stia cavalcando una nuvola di fumo, per questo la chiamano cold smoke. Una neve così, sulle Alpi, non può cadere. Una neve così ha pochi uguali nel mondo, qualcuno dice che solo in Giappone si trovi di meglio, ma nel Nuovo Continente, e neanche nel Vecchio, non c’è niente di così perfetto. Magari da qualche parte la si trova ancora più leggera, ma qui lo è al punto giusto, conservando quel tocco di corposità tale da permettere agli sci di acquistare portanza e velocità.

Tutto ha origine nel Pacifico, da cui ogni inverno una ventina di perturbazioni salpano verso gli States. Salutano le spiaggie della California e poi passano sopra le montagne della Sierra Nevada, dove le nuvole che le formano perdono progressivamente umidità. Poi, in vista dei Wasatch, avviene la magia. Il Great Salk Lake è lì che le aspetta. Manco a dirlo, è un’enorme pozza di acqua di mare: profondità media quattro metri o poco più, estensione di 4.400 chilometri quadrati e una concentrazione salina di 50g/l, più degli oceani, per intenderci. Sopra queste acque le nuvole continuano ad asciugarsi e a raffreddarsi e, una volta sopra le cime del Little Cottonwood Canyon, puf!, asciano cadere fiocchi perfetti. Tecnicamente si chiamano dendriti e sono fatti esattamente come quelli che disegnerebbe un bambino, o come se li tatuarebbe uno skibum sul sedere: cristalli di ghiaccio a forma di stella, insomma, quelli che scendono ad Alta sono i Fiocchi di neve, con la f maiuscola.

Alcuni viaggi uno se li programma, o magari se li coccola come sogni nel cassetto per anni, anzi, per autunni interi, che è la stagione in cui la scimmia della neve inizia a risvegliarsi dal letargo estivo. Ad Alta invece ci sono finito quasi per caso, vittima di una serie di fortunati eventi. Ne avevo già sentito parlare, attraverso il web e i video di sciatori che arrivano proprio da qui: gente come Johnny e Angel Collinson (Jim, il padre, lavora da queste parti come snowpatroller), o Pep Fujas, giusto per nominarne un paio. Ma non mi era mai passato per la mente di venirci a sciare. Comunque, meno di un mese dopo aver preso il biglietto, mi sono ritrovato nella hall degli arrivi dell’aeroporto di Salt Lake City, in cerca della persona che mi avrebbe dovuto dare un passaggio su per il Little Cottonwood Canyon. Si è presentata nel modo più yankee possibile, a bordo di un suv dalle dimensioni tali da far impallidire un gruppo di attivisti ambientali. In pochi minuti ci siamo lasciati la città alle spalle, addentrandoci nella vallata in cui un secolo e mezzo fa arrivarono i primi minatori alla ricerca di argento.

Il primo impatto non è dei migliori, anzi. La maggior parte di questa cittadina di 300 abitanti è composta da edifici in cemento con le linee squadrate, i classici ecomostri che andavano di moda nelle stagioni sciistiche degli anni ’70. Qua e là qualche cottage si staglia orgoglioso, ma nulla lascia pensare che qui la media annuale di sciatori tocchi il mezzo milione. Il perché è presto spiegato: da quando ho caricato le borse in auto all’aeroporto a quando le ho depositate all’entrata del lodge sono passati a malapena tre quarti d’ora, questa vicinanza fa sì che il mezzo milione di frequentatori annui sia composto per lo più da sciatori che vengono qui in giornata da Salt Lake City, che può vantare più di una decina di comprensori a meno di un’ora di viaggio.

© Federico Ravassard

La prima notte non dormo benissimo, il cuore non ne vuole sapere di rallentare. Nonostante i boschi di conifere, infatti, Alta si trova a 2.700 metri, una quota dove solitamente gli impianti sulle Alpi finiscono, mica cominciano. Non nevica da una settimana, così il mattino seguente lo si dedica alla scoperta delle piste battute, i groomers. Già dalle prime curve capisco che qui c’è qualcosa che non va, anzi, che va fin troppo bene: la bassissima umidità evita infatti che la neve geli di notte anche dopo il passaggio dei gatti, niente a che vedere con i lastroni che si trovano da noi al mattino. Dopo un’accurata indagine di mercato, compiuta in coda alla seggiovia, noto che la maggior parte degli sciatori utilizza aste da 90-100 millimetri al centro: il manto, sempre morbido, rende inutili attrezzi più cattivi e quello che da noi viene ancora considerato uno sci da freeride, qui diventa un all-mountain. Si può dire che la concezione stessa dello sciare sia differente. Non si fanno distinzioni tra mazinga e freerider, o tra pista e fuoripista. I gestori stessi considerano come aree sciabili tutto ciò che rientra all’interno del resort, compresi boschi e i tratti tra una pista e l’altra. Questo vuol dire che l’intero comprensorio viene quotidianamente controllato e messo in sicurezza da un esercito di patroller, una situazione ben diversa dagli standard europei, dove, essenzialmente, al di là delle reti di bordo pista sono fatti tuoi. Non esiste l’idea che uno vada a sciare solo dentro o solo fuori. Ci si fa un giro a tirare pieghe in pista e il giro dopo, tutti insieme, ci si butta in un canalone, bonificato nei giorni precedenti dai patroller. Non esiste il freeride e non esiste neanche il carving. Esiste solamente l’andare a sciare, in una visione della pratica più globale della nostra, costruita a compartimenti stagni in base a come ti vesti e a quali sci utilizzi.

Tantissimi scendono sotto le seggiovie, su pendii ormai tritati e coperti di gobbe. Da noi il ‘sottoseggiovia’ è un terreno per pochi, in genere sventurati che, dimenandosi tra un dosso marmoreo e l’altro, vagano in cerca del bastoncino caduto. Qui non è così. Come detto prima, la neve non gela, ergo, i mogul sono sciabili e, giuro che è vero, è anche divertente farlo. Bisogna solo fidarsi a prendere velocità, con la spatole che affondano in curva assorbendo i colpi. Più vai veloce e più galleggi, come nelle whoops del motocross, anche se poi al fondo ci arrivi con le cosce che bruciano chiedendo pietà. Un pomeriggio puntiamo a un must di Alta: la Main Chutedel Mt. Baldy, un ripido canalone che si raggiunge con una breve camminata, sci in spalla, dall’arrivo della seggiovia Sugarloaf. Dalla cima la vista sul Little Cottonwood Canyon è spettacolare, per quanto sia impossibile non notare la cappa di smog su Salt Lake City, in inverno onnipresente a causa della morfologia della zona.

Con me, insieme ad altri, ci sono Marcus (Caston) e Connery (Lundin), due local con i quali scierò anche nei prossimi giorni. Marcus è, in una sola parola, impressionante: ha gareggiato per anni in discesa e super-g, importando poi la tecnica garaiola nel freeride. Il suo stile è un mix di agilità e potenza, scia esattamente come scierebbe uno slalomista di Coppa con un paio di fat nei piedi. Connery, invece, arriva dal freestyle, che gli ha dato un imprinting di fluidità e scioltezza. Uno alla volta entriamo nel canale, segnato dai numerosi passaggi, più per non intralciarci a vicenda che per ragioni di reale sicurezza. È strano da dire, ma qui nessuno scia fuoripista con il kit antivalanga. Questo perché i patroller bonificano continuamente tutti i pendii, segnalando con cancelli e pali quali pendii sono già stati messi in sicurezza e quali, invece, sono ancora da far brillare. Marcus molla gli sci dritti, assorbendo i colpi tenendo il baricentro bassissimo e sfruttando le gobbe per impostare le curve saltate. Dall’uscita del canale fino all’entrata in pista non tira neanche più le curve, prendendo subito velocità. Io rimango lì, in mezzo al pendio, a fissarlo con la bocca spalancata. Non avevo mai visto qualcuno sciare in questo modo, così composto e dinamico allo stesso tempo. Mentre torniamo al lodge il cielo comincia a coprirsi. Oh già, stanno arrivando le magiche nuvole dal Pacifico e i prossimi giorni saranno fenomenali. Dall’ufficio dei patroller cominciano a diramarsi i bollettini meteo, mentre i primi fiocchi iniziano a scendere, dando origine in pochi minuti a una copiosa nevicata. Il mattino dopo la sveglia è condita dai botti dei cannoni. Dico cannoni, e non gasex, perché negli States, dove è consentito usare esplosivi, per il controllo delle valanghe effettivamente usano proprio quelli. Obici perfettamente funzionanti, ottenuti in prestito dalla US Army. Ad Alta ce ne sono sei, posizionati sulle vette più panoramiche; per bonificare i pendii più nascosti, invece, si ricorre a un altro metodo ancora più pratico, lanciando granate a mano direttamente dalle creste. È tutto così americano che non mi stupirei di sentire anche il rombo delle pale di un elicottero Apache.

© Federico Ravassard

Ho appuntamento con Julian Carr, un personaggio fuori dalle righe e fuori di testa. Freeskier professionista, attivista ambientale, imprenditore, runner… uno che sa come ammazzare il tempo, in poche parole. Capelli lunghi sotto le spalle, tratti orientali, una calma zen, è letteralmente cresciuto qui, figlio di un jazzista di Salt Lake City. Sugli sci è conosciuto per l’altezza dei suoi drop, che gli hanno fruttato due Guinness World Record, tra cui quello per il più alto front-flip: 210 piedi, circa 70 metri. Circa due tiri di corda, o un palazzo di venti piani. Facendo il mortale in avanti. Quando non è occupato a fare trick da videogioco, Julian manda avanti il suo marchio di abbigliamento streetwear, Discrete Clothing, organizza un circuito di gare di trail proprio qui in zona, la Cirque Series, e tiene discorsi sul surriscaldamento climatico per POW (Protect Our Winters), l’ente no-profit fondato dallo snowboarder Jeremy Jones. A essere sincero, non mi stupirei se nei tempi morti si occupasse anche di fisica quantistica e letteratura bulgara.
Prendiamo la prima seggiovia, chiacchierando del più e del meno. Io faccio il vago, cercando di sopravvivere. Non mi sono tolto lo zaino e in America, sulle seggiovie, non ci sono le sbarre di sicurezza. Mentre lo ascolto con un sorriso tiratissimo, Julian mi racconta delle sue attività per POW, di quanto tutto ciò sia diventato ancora più importante dopo la vittoria di Trump. Lo Utah è uno stato in cui un florido movimento attivista e un innegabile patrimonio naturale devono fare i conti con una maggioranza repubblicana e conservatrice, in un braccio di ferro il cui premio in palio sono ettari di foreste, montagne e deserti. Poche settimane dopo il mio viaggio, la notizia che ha scosso gli animi è stata quella dell’abbandono dell’Outdoor Retail Show (l’equivalente del nostro Ispo) della sua sede a Salt Lake City in segno di protesta e di coerenza nei confronti di uno Stato che non si impegna nella salvaguardia ambientale.

La prima run della giornata per me è anche la prima che faccio nella cold smoke. Realizzo nel giro di poche curve che quello che si dice di questa neve è tutto vero. È leggera, unica. Gli sci scorrono veloci nonostante si affondi fin quasi al bacino. Da noi, oltre un certo spessore, non c’è fat che tenga. Se è troppa è troppa, non puoi fare altro che tirare giù dritto. Qui invece no, sei il passeggero di te stesso mentre giochi a variare l’ampiezza delle curve, modulando la velocità in modo imbarazzantemente facile. Anche dove è già stata tracciata, la neve ti copre comunque la faccia a ogni dosso, sciare in questi boschi è la cosa più goduriosa di questo mondo. Seguo Julian per tutta la mattinata, dopo un paio di giri ci avviamo in direzione dei secret spot di Alta. C’è da camminare un attimo, ma ne vale la pena. Scendiamo nell’anfiteatro chiamato Wolverine Circus, dove sono state girate numerosissime sequenze di skimovie. Di fronte a noi, dall’altra parte della valle, si trova uno dei kicker naturali più famosi al mondo, il Chad’s Gap. Quaranta metri di aria sotto i piedi che ti sparano tra due colline originatesi da depositi minerari, resi famosi da Candide Thovex e, soprattutto, da Tanner Hall, che in un tentativo andato male si spezzò entrambe le caviglie. Per ore non facciamo altro che sciare e scattare fotografie. In una pausa caffè (ops, meglio chiamarlo brodone. Qui sotto il mezzo litro è già un espresso) parliamo di POW e di come, in fondo, degli sportivi siano i più adatti a diffondere il messaggio che se non si fa qualcosa subito, di neve non ce ne sarà mica più tanta in futuro. Come altri skier locali, Julian si reca spesso nelle scuole a tenere seminari agli studenti: per un adolescente sentirsi un sermone sull’effetto serra recitato da un capellone in jeans e trucker hat dev’essere decisamente più cool che ascoltare un professore.

Nel tardo pomeriggio le nuvole si aprono, lasciando Julian libero di farmi da cicerone su quelle che sono le gite scialpinistiche di Alta. La più succosa è proprio di fronte a noi, il Mt. Superior: mille metri esatti di pendio la cui entrata è caratterizzata da un’enorme cornice, così grossa che per oltrepassarla bisogna letteralmente scavarci un tunnel da parte a parte. Poco più in là ci sono le discese di Cardiff Bowl e Toledo, più tranquille, solitamente usate come allenamento. I loro nomi derivano dalle vecchie miniere d’argento dismesse che si trovano alla base. Il mattino seguente avrei di nuovo un gancio con Julian, ma verso le 8 del mattino un messaggio cambia i piani. «Too much snow, the canyon is closed. See you tomorrow!»Proprio così, la nevicata, ricominciata con americana ingordigia nella notte, ha costretto i Ranger a chiudere la strada di Little Cottonwood e a mettere in azione i cannoni nella parte basse della valle. Facendo colazione i vetri del lodge vibrano per lo spostamento d’aria provocato dallo scoppio dei colpi di bonifica, mentre un cameriere mi racconta ghignando di quella volta in cui un colpo ha mancato il bersaglio, regalando un bello spavento a una famiglia di Snowbird. Solo, mi avvio verso la partenza della Wildcat (una seggiovia) aspettando che succeda qualcosa. Incontro Bob, il cuoco del lodge. Anche lui è senza compagni, ma non sembra curarsene. Nevica tantissimo e il resort è per noi e pochi altri.«If you’re not skiing everyday you’re living in the wrong place» mi dice in coda facendo l’occhiolino. Ieri sera, comunque, si stava sciogliendo i muscoli con un intruglio a base di tequila, miele e te caldo. Un paio di run dopo faccio pausa caffè, nevica come Dio comanda e ci sono -10 gradi. Hanno riaperto la strada, ma è già mezzogiorno e oggi salgono solo gli infognati, quelli a cui un paio d’ore possono essere sufficienti a mettersi l’anima in pace. Un gruppo di ragazzini vestiti da skateboard si infila nell’atrio del Rustler e si cambia lì, in mezzo ai fiocchi di neve portati dagli spifferi d’aria. Età media 14 anni, qualcuno arriva ai 16, che è poi quello che ha guidato fino a qui stamattina.

Con una certa delusione nel cuore constato che sono l’unico a non chiudere backflip. Mi guardo intorno e quello che vedo, tra una run e l’altra, è che il livello medio ad Alta è pazzesco. Sciano tutti benissimo, anche i vecchietti sotto la seggiovia vanno giù fluidi e sorridenti. E chi va forte, va forte davvero. Chi in Italia può reputarsi un discreto sciatore, qui non va oltre la media, che è una cosa bellissima perché fa capire veramente cosa vuol dire essere bravi a parole o sulla neve. In giro di poser ce ne sono pochi. C’è talmente tanta foga nel voler tracciare le metrate di polvere che di tempo per pavoneggiarsi all’arrivo della seggiovia non ce n’è mica tanto, ce n’è solo per accumulare più metri di dislivello possibile. Nel pomeriggio incontro Marcus. Immaginando che avrebbero chiuso la strada del Little Cottonwood, si è svegliato alle cinque per salire ad Alta prima che scattasse il blocco. Il tempo è leggermente migliorato e nel pomeriggio saliamo per qualche foto. Mi confida strizzando l’occhiolino che ha preso degli sci più stretti per affondare ancora di più. La luce è surreale, i fiocchi sono talmente leggeri che svolazzano nell’aria come polvere nei campi secchi. Marcus scia veloce, a ogni curva deforma all’eccesso i suoi sci da 95 millimetri per poter uscire dal manto. A un certo punto il meccanismo si inceppa e le spatole vanno giù, facendolo affondare fino al primo strato di neve compatta. Ergo, solo la testa spunta fuori.

L'ultimo giorno ad Alta è quasi surreale. Nevica di nuovo da 48 ore consecutive e fuori dalla finestra di camera mia il mondo è diventato una sfera di fiocchi grossi e bianchi, come quelle palle di vetro pacchianissime che vendono nei mercatini di Natale. Di sciare, purtroppo, non se ne parla. È scattata l'interlodge closure, l'ultima volta era stata tre anni fa. Significa divieto tassativo di uscire dagli alberghi e dalle abitazioni perché le bonifiche verranno fatte a ridosso dei centri abitati. Il personale del lodge ci raduna nella hall, mentre i vetri delle finestre vibrano di continuo a causa dei colpi di cannone. L'atmosfera è resa ancora più surreale da un cameriere che serve gin tonic da una caraffa nonostante siano le 10 del mattino. Qualcuno mi chiede del Rigopiano, siamo a ridosso dei giorni della grande nevicata in Abruzzo e la situazione è ironicamente molto simile. Dico ironicamente, perché tutto quello che non ha funzionato di là, di qua invece fa parte di un meccanismo ben rodato. I mezzi spazzaneve girano frenetici cercando di liberare almeno una corsia per far sì che pochi shuttle autorizzati possano portare a Salt Lake City chi non può perdere il volo, me compreso. Fuori dalla finestra si vedono dei puntini neri scendere veloci: sono i patroller che, finito il turno, si godono un comprensorio intero chiuso per troppa neve. In pratica, il sogno di qualsiasi amante della puffia, di quella neve così leggera e così polverosa che qui ad Alta trova la sua espressione più pura.

Questo articolo è stato pubblicato su Skialper 114, info qui

© Federico Ravassard

Suunto 5 fa sul serio

Per chi non ha bisogno di un orologio GPS multisport molto orientato alla performance come Suunto 9, ma è motivato oltre il fitness supportato dai programmi personalizzati proposti da Suunto 3, è da poco stato lanciato dalla finlandese Suunto il nuovissimo Suunto 5. Il target è ben definito: utilizzatori sportivi evoluti, non solo occasionali ma anche very addicted, magari col vizietto dei carichi intensi e dei grandi volumi, alla ricerca di uno strumento allo stato della tecnologia ma dall’ingombro limitato. Oltre che di un buon rapporto qualità prezzo. E pure bello, portabile 24/7. Operazione impossibile? Sicuramente non facile, ma sotto molti punti di vista Suunto 5 centra l’obiettivo.

In pillole

Il cuore di Suunto 5 è il monitoraggio dell’attività sportiva e di quella extra-sportiva, con rilevazioni davvero complete per atleti anche evoluti. È quasi come avere un person al trainer che, in base all’indicazione di obiettivi e livelli, monitora tutte le attività fisiche 24/7, qualità del sonno compresa, e rileva gli stati di forma e di affaticamento fornendo indicazioni sull’alternanza carico-recupero. Anche il singolo allenamento viene guidato in tempo reale per intensità e durata. I dati che servono durante le attività ci sono tutti e sono pre-configurate 80 modalità sport diverse, che si possono poi personalizzare ulteriormente. È possibile perfino crearne di originali, casomai vi inventiate un nuovo sport. In più ci sono rilevazioni e statistiche utili nel quotidiano, oltre allo sport e al pari dei più evoluti activity tracker: dal grafico della frequenza cardiaca 24/24 alla spesa calorica, fino agli orari di alba e tramonto e alle fasi lunari. La rilevazione cardiaca avviene tramite sensore ottico al polso, ma per utilizzi che richiedono massima precisione e valutazioni funzionali dell’attività elettrica del cuore è utilizzabile la fascia cardio Suunto Smart Sensor, acquistabile a parte. Suunto 5 è implementato dalla app Suunto, piattaforma per mobile iOS e Android sincronizzabile con numerosi altri servizi sportivi tra i quali Strava, Training Peaks e Relive.

  • Il prezzo: 329 euro per un prodotto completo, con un software affidabile
  • Il celebre design finlandese Suunto sobrio e pulito, sia con la ghiera color acciaio che bronzo, e le dimensioni accettabili anche su polsi piccoli
  • La completezza delle funzioni che ne fa un vero e proprio monitor del nostro stato di allenamento e di salute, con tanti dati e funzioni molto dettagliate
  • L’usabilità: dopo una veloce ricognizione delle funzioni disponibili (consigliabile, vista la loro quantità), la navigazione nei menù risulta semplice. Ma ci sono anche tanti tutorial su YouTube - Suunto Channel, molto immediati.
  • App Suunto completa e intuitiva, facile il collegamento, utilissime le heat map che mostrano gli itinerari di altri utenti nelle vicinanze
  • Profili di sport praticamente infiniti, inclusi alpinismo, scialpinismo, trail e trekking

  • La ricerca della posizione GPS non è sempre velocissima, ma in ogni caso negli standard di orologi simili e più che accettabile.
  • La leggibilità del display risulta difficoltosa in penombra se non viene attivata l’illuminazione (costante dallo start per tutto il move, oppure con un click al bisogno)

No

  • Non c’è altimetro barometrico, quindi le misurazioni verticali sono rilevate tramite satellite. La parte meteo è un plus integrato in Suunto 9 per chi si muove molto in montagna, ma incide sensibilmente su peso e dimensioni. Suunto 5 punta su compattezza e leggerezza.
© Stefano Jeantet

Paul Bonhomme, lo sci ripido come esplorazione

Dieci maggio 2018. La luce in fondo al tunnel è quella che ci coglie al termine del traforo del Frejus. Piove a dirotto sul lato francese, il che ci fa buttare un occhio alla temperatura riportata nel cruscotto della macchina: «Bene! Questa in alto attacca…». In primavera inoltrata, durante i giorni di pioggia, spesso il pensiero dei malati di sciva infatti alla neve che, con zeri termici abbastanza elevati, riesce a incollarsi sulle pareti tipicamente glaciali e rocciose. Oggi dopotutto stiamo andando a intervistare un personaggio che, senza temere di sbagliarci di molto, starà pensando esattamente la stessa cosa guardando tutta questa acqua che cade dal cielo sopra Annecy.

Come tutte le volte che capita di andare a conoscere davvero qualcuno di cui hai sentito parlare in maniera indiretta o attraverso i canali social, spesso ti immagini il primo istante in cui te lo troverai di fronte. Nessuna ansia particolare, per carità, solo un gioco che cerca di anticipare il tempo. Arriviamo ad Annecy nel luogo in cui ci siamo dati appuntamento probabilmente imboccando una corsia riservata ai bus; piove a manetta e questo non aiuta a interpretare le indicazioni di una circolazione urbana non esattamente ben studiata. Per farci riconoscere molliamo l’auto sul marciapiede di fronte al negozio di articoli sportivi dell’appuntamento: siamo gli inviati di una testa di sci italiana dopotutto, ed è più pratico che scrivere su Facebook un messaggio a Paul.

Dall’altra parte della strada un uomo non troppo alto e minuto, piumino rosso e cappellino con la visiera, ci si fa incontro. È lui! È Paul, quello che vuole concatenare in giornata con partenza da Chamonix le quattro pareti dell’Aiguille Verte: sci de pente raidee alpinismo, per un viaggio di oltre 4.000 metri. Roba da atleti e mega allenamento, pensiamo. «Salut, je suis Paul!». Paul lascia uscire una boccata di fumo sotto la pioggia: sta fumando una sigaretta. Lo seguiamo in un caffè del centro non distante dalle rive del lago di Annecy, è mattina, non c’è quasi nessuno e possiamo stare tranquilli e chiacchierare. La skilometratada Torino per venire fino a incontrare questa Guida francese ha una ragione ben precisa.

Sconosciuto forse ai meno attenti, Paul Bonhomme, classe 1975, è un alpinista a tutto tondo e sta portando avanti una sua particolare idea di sci. Si è allenato tutto l’inverno sui pendii più difficili degli Aravis, seguendo le orme di Pierre Tardivel per un grande e personalissimo obiettivo: percorre a piedi in salita e in sci i quattro versanti di una delle montagne simbolo dell’alpinismo nel massiccio del Monte Bianco, l’Aiguille Verte. Proprio quella cima marcata indelebilmente da una delle più celebri imprese della storia dell’alpinismo ad opera di Gaston Rebuffat. «Avant la Verte on est alpiniste, à la Verte on devient montagnard» giusto per capirci. L’ambizioso progetto 4Faces* prevede la partenza da Argentière, la salita in cima alla Verte per il Couloir Couturier, la discesa sul versante sud-orientale della montagna per il canalone Whymper, la risalita per il Couloir à Y e la discesa della parete più austera e difficile: il Nant Blanc. Il tutto in giornata. Ecco perché i chilometri per venire a conoscere Paul li abbiamo fatti più che volentieri!

© Federico Ravassard

Chi è Paul Bonhomme? Cosa fa? Presentati ai nostri lettori.

«Allora, sono una Guida di alta Montagna, nato in Belgio ma con origini Olandesi, un bel mix! Con la mia famiglia ho vissuto fino a 18 anni a Parigi per poi trascorrere circa dieci anni con mio fratello Nicolas nel Briançonnais. Ho iniziato con l’arrampicata a tredici anni, gareggiando anche nel campionato nazionale. Gli sci li ho messi a due anni, ma non ho mai preso lezioni fin verso i 19, quando ho deciso di diventare maestro. Così mi sono avvicinato alla montagna, mi ritengo un appassionato prima di tutto. I primi compagni sono stati mio fratello Nicolas e il nostro migliore amico, Jean Noel Urban, due sciatori e alpinisti. Purtroppo Nicolas ha perso la vita sui pendii del Gasherbrum 6 nel 1998, mentre Jean Noel mentre era con gli sci sul Gasherbrum 1 nel 2008. Ecco perché il 2018 per me ha un significato particolare. Dopo la morte di mio fratello, nel 2000, ho deciso di diventare Guida alpina e ho di nuovo contattato Jean Noel, che era un po’ restio a venire in montagna e a sciare con me per quanto era successo a Nico. Insieme avevano sciato nel 1996 la Wickersham Wall sulla parete nord del McKinley: un versante pazzesco. Ho poi iniziato a sciare sul ripido. Non una passione totalizzante, mi piace fare diverse cose in montagna e variare».

Sciatore, alpinista, un appassionato a tutto tondo…

«Sì, assolutamente. Ad esempio ho fatto anche traversate come l’Annecy - Chamonix in meno di due giorni con alcuni compagni, però non mi piace pensare alla montagna solo come a uno sport. Anzi, non è uno sport, ma è esperienza, sperimentazione, è vita! C’è una grossa differenza rispetto alla performance pura».

Sei stato anche in Himalaya, vero?

«Ben nove volte. Quattro per dei trekking con i clienti. Nel 2005 con Jean Noel Urban e Nicolas Brun per provare a sciare il Cho-Oyu (8.201 m, sciato dal solo Jean Noel) e lo Shishapangma (8.027 m) per la parete Sud-Ovest. Nel 2007 sono stato sul Dhaulagiri. Come ti dicevo a Jean Noel non piaceva molto sciare con me per via dell’incidente di mio fratello. Su quel tipo di terreno ho iniziato a sciare con Nicolas Brun. E poi da quando non sono più vice-presidente del SNGM (Syndicat National des Guides de Montagne) per sciare ho più tempo!».

L’anno scorso il Couturier in giornata, poi grandi allenamenti di fondo, quindi gli itinerari più difficili degli Aravis… qui si fa sul serio.

«Devo dire che non mi alleno in modo specifico. Solo per questo progetto 4Faces, nelle giornate in cui tornavo in rifugio con i clienti, mi è capitato poi di rimettere le pelli e salire ancora e scendere per conto mio. Ma solo per il progetto! Ti basti pensare che fumo. L’anno scorso, durante il concatenamento con gli sci tra Annecy e Cham, mi sono sentito bene su terreno ripido e così ho iniziato a immaginare questo progetto. Ho partecipato all’UTLO (Ultra Trail Lago d’Orta) e mi sono allenato per quello, da novembre a gennaio ho avuto più tempo e ho curato forse un po’ di più questo aspetto. Poi ho iniziato la mia stagione normale con i clienti».

Hai altri progetti per il futuro?

«Non so, ho molti altri progetti, ma non ho niente da dimostrare agli altri. Ho una mia idea un po’ pazza, un viaggio con gli sci, ma su terreno ripido: è il mio concetto di evoluzione di questa disciplina. Il gioco consiste nell’essere sufficientemente preparato per salire, ma il vero obiettivo è essere ancora abbastanza concentrati per discese di quel tipo. Questo è il vero goal che mi sono preposto! È solo sci in fondo, ma dove la componente alpinistica diventa sempre più importante. Come scalare su terreno d’avventura. Poi per me lo sci estremo è in solitaria».

Cosa cerchi in una linea ripida, ti interessa più aprire o ripetere?

«Devo ammettere che non ho preferenze. Nel ripetere mi piace pensare a chi ha aperto e scovato quella determinata linea. Un modo per rendere omaggio al primo. Per esempio durante la mia recente ripetizione del Couloir Lagarde sulle Droites ho ripensato ad Arnaud Boudet nel 1995 e alla storia degli altri sciatori che ci sono passati. Vogliamo parlare di quando si è sulle discese di Pierre Tardivel?».

La mentalità è davvero cambiata oggi?

«Sì, a partire dai materiali, basti pensare all’avvento e alla diffusione della tecnologia low-tech degli attacchi e agli sci fat. Insomma, una serie di contributi derivanti sia dallo skialp classico che dal freeride. E poi circolano più informazioni sulle condizioni delle discese. È un insieme di fattori. Generalmente però per emergere nelle diverse discipline alpinistiche occorre essere più settoriali, mentre nello ski de pente è importante essere il più completi possibili, non solo buoni sciatori. Che per me vuol dire essere uno sciatore buono in tutte le condizioni che puoi incontrare. Quindi non solo tecnicamente. Alcuni dicono persino che Jean Marc Boivin non sciasse in modo eccelso, eppure… Sulla tecnica mi concentro molto quando sono su terreno ripido ed esposto, quando devo curvare».

Ti ispiri a qualcuno?

«È la storia stessa dell’alpinismo che mi affascina, per esempio personaggi come Berhault. In fondo questo mio progetto 4Faces è proprio un viaggio in montagna».

Credi di poter ispirare qualcuno?

«Innanzitutto penso che sia fondamentale dire la verità quando racconti le tue esperienze. Mi piace molto poter condividere ciò che faccio, ma trovo importante spiegare bene tutto, per esempio gli aspetti tecnici, in modo che chi legge capisca bene le difficoltà e la mia impresa non diventi un incentivo a cimentarsi su certe pareti sottovalutandole. Come dicevo all’inizio, non è uno sport questo tipo di sci. Se uno ti chiede quando andare su determinati pendii, vuol dire che non è pronto perché non ha l’esperienza necessaria per valutare lui stesso quando trovare il giusto momento».

Da una parte Kilian, da una Jérémie Heitz e poi gente semi-pro che scia tutto, tutti i giorni e in qualsiasi condizione, come si vede dopo ogni nevicata su discese come la Mallory: tu dove ti collochi in questo universo?

«In mezzo, almeno così penso!». (ride)

Domanda classica, che materiali usi?

«Sci White Doctor LT10, 98 mm al ponte, 175 cm per circa 3,4 kg al paio. Sono prodotti da Eric Bobrowicz a Serre Chevalier. Non propriamente leggeri, cercavo uno sci robusto, in modo da non doverlo cambiare ogni anno! Un attrezzo polivalente che uso durante tutta la stagione con i clienti. Poi attacchi low-tech e scarponi Scarpa F1».

In conclusione, il sogno nel cassetto?

«Mah, molti in realtà: tornare a sciare sul Pumori prima di tutto. Ci avevo già provato nel 2011 e 2016, ma ero troppo stanco, quarantacinque minuti per calzare gli sci sull’enorme pendio finale per poi rendermi conto che con quella neve durissima non avrei potuto fare una curva e tenerla. Sarei morto. Ho fatto un traverso di cento metri e poi altri quaranta minuti per togliere gli sci e rimettere i ramponi: ero esausto. Mi piacerebbe riprendere con le spedizioni in quota, ma ho superato i cinquanta, ho quattro figli e devo pensare a loro. Il sogno sarebbe sciare il Couloir Hornbein all’Everest dopo averlo risalito. Lo ritengo fondamentale per capirne tutte le insidie. E poi il Laila Peak magari, una montagna dalle forme bellissime. Qui sulle Alpi? L’evoluzione passerà secondo me per pareti con tratti di misto che potranno essere percorse magari in condizioni di neve difficile, o non propriamente bella, perché solo in quel momento ricopre certi passaggi. Qualche idea futura? Preferirei non…».

 

* Il 18 maggio 2018 (poco prima che questa rivista andasse in stampa) Paul ha fatto un primo tentativo per realizzare il progetto 4Faces: partito poco prima delle 23 da Argentière ha risalito il Couloir Couturier, quasi 2.800 metri di dislivello e, alle prime luci dell’alba, dopo un piccolo riposo in cima, ha sceso il Couloir Whimper sul versante Telafrè della montagna. Una volta alla base, accompagnato da Vivian Bruchez, giovane Guida e sciatore di gran classe di Chamonix, ha risalito il Couloir à Y sul versante Ovest della montagna: terreno tecnico e alpinistico per ritrovarsi una seconda volta sui 4.121 metri della Verte. A quel punto è iniziata la loro discesa del Nant Blanc, discesa mitica del 1989 a opera di Jean Marc Boivin, ripetuta solo dieci anni dopo da Marco Siffredi in tavola. Terreno d’elite che ha visto cimentarsi, specie negli ultimi anni, i più fini sciatori del panorama europeo, a partire da quel Tardivel che ne ha aperto una variante più sciistica. Purtroppo le condizioni non sono state giudicate sufficientemente sicure per poter completare la discesa in quanto la neve dei giorni precedenti non aveva incollato a sufficienza. Paul e Vivian, ritornati in cima, sono scesi a valle per il Couloir Couturier (5.4 E4) a fine giornata con quasi 5.000 metri di dislivello nelle gambe… non un gioco da ragazzi.

Questo articolo è stato pubblicato sul Skialper 118, info qui

Bonhomme durante il tentativo di 4Faces ©Julien Ferrandez/UBAC Media

Luca Papi stravince il primo Tor des Glaciers

Il Tor des Glaciers, 450 km x 34.000 metri, ha il suo primo vincitore. Luca Papi, varesino naturalizzato francese, non solo ha tagliato il traguardo di Courmayeur ieri con il tempo di 134 ore e 10 minuti, ma ha lasciato il suo più diretto avversario, il belga Richard Victor, una ventina di chilometri più indietro. «Un viaggio faticoso ma bellissimo, dove ho visto paesaggi meravigliosi e ho incontrato sempre persone molto gentili - sono state queste le sue prime parole - Le difficoltà maggiori le ho provate in discesa, alcune davvero dure, ripide». E le prime notti di neve e vento? «Ho la fortuna di non soffrire Il freddo, sono sempre andato avanti in maglietta e pantaloncini; qualche volta ho indossato una giacca a vento e solo una volta i pantaloni lunghi». Percorso complicato? «Anche a fare gare seguendo semplicemente le tracce di un Gps sono piuttosto abituato, pure se in questi giorni ho attraversato territori davvero immensi e selvaggi e non sempre è stato facile individuare la strada giusta al primo colpo. Comunque Il Tor des Glaciers è una superba esperienza, da ripetere». Incontri lungo il percorso? «Tantissima gente gentile ai rifugi e anche sui sentieri alti. Al Rifugio Coda ho incontrato Olivero Bosatelli, Mi è stato poi di grande aiuto fare un po’ di strada con lui, fin quando i nostri sentieri si sono divisi».


A Giuliano Cavallo il Tot Dret, Silvia Trigueros sesta assoluta al Tor des Géants

Il Tot Dret è di Giuliano Cavallo. Il valdostano del Team Salomon – Courmayeur Trailers ha sempre tenuto le posizioni di vetta, alternandosi con Henri Grosjacques e Dino Melzani (ritiratisi entrambi a Oyace), ed ha poi preso il largo, arrivando al traguardo di Courmayeur in 23h01'25" e facendo segnare il record della corsa, scendendo sotto il muro delle 24 ore. «È stata dura - ha detto con la voce rotta dall’emozione- Non sapevo se ce l’avrei fatta, ho saltato anche le ferie per prepararmi, togliendo del tempo alla mia famiglia, anche perché ho avuto un infortunio a giugno e ho potuto allenarmi solo in bicicletta. Volevo arrivare, potevo spingere anche di più, ma ho imparato dall’errore commesso lo scorso anno, quando ero partito troppo forte. Spiace per i ritiri degli altri, io oggi in discesa andavo veramente forte». Al secondo posto Marco Bethaz e al terzo Michael Dola. Il podio femminile vede invece, nell’ordine, Marina Cugnetto, Marie Berna e Kaz Williams.

Intanto nel pomeriggio si è completato anche il podio del TOR X con gli arrivi del canadese Galen Reynolds, poco dopo le ore 18 (77h06’12”) e di Danilo Lantermino, alle 19.09 con il tempo di 79h09’49”. E ha tagliato il traguardo la prima donna, Silvia Trigueros, autrice di una prestazione impressionante che la posiziona al sesto posto assoluto. La sorpresa della giornata è rappresentata dal terzo posto di Danilo Lanternino, conquistato praticamente al fotofinish alle spese del francese Romain Olivier, andato in forte crisi nella discesa dal Col du Malatrà verso Courmayeur. Negli ultimi 20 km il cuneese che corre per l’ ASD Valle Varaita, 38 anni, ha letteralmente cancellato lo svantaggio che aveva nei confronti di Olivier, circa 1h30 al rifugio Frassati. Il francese ha invece chiuso al tredicesimo posto.


Bosatelli nella leggenda: seconda vittoria nella decima edizione del Tor

Oliviero Bosatelli ha vinto la decima edizione del Tor des Géants, bissando il successo del 2016 e raggiungendo Franco Collé in questa speciale classifica dei plurivincitori (in palmarès anche un secondo posto). Il gigante bergamasco, portacolori del Team E-Rock e atleta Scott, ha tagliato il traguardo di Courmayeur questa mattina all’ora di pranzo, chiudendo in 72 ore 37 minuti e 13 secondi. Sul traguardo la moglie Nadia con una torta e due candeline. «Ho rischiato due volte di ritirarmi - ha spiegato Bosatelli all'arrivo - la prima notte a causa di un occhio appannato, il destro, e poi in seguito per una brutta bronchite e la conseguente difficoltà a respirare. Abbiamo tutti patito il grande freddo della prima notte in particolare». Il vigile del fuoco bergamasco ha stretto i denti e ha continuato la sua gara concentrandosi su ogni singolo metro da percorrere. «Ho capito che avrei vinto veramente solo qui, sul traguardo: molte persone ieri mi hanno detto che avevo un gran vantaggio ma io non ci ho creduto fino alla fine».

Per i primi 100 chilometri Bosatelli è rimasto a ruota dei battistrada Franco Collé e Peter Kienzl, entrambi poi costretti al ritiro dopo la prima notte di corsa per problemi fisici. Alla base vita di Donnas, appena prima del giro di boa del percorso, la svolta: il Bosa entra secondo, dietro il francese Romain Olivier, ma si ferma solo un quarto d’ora ed esce dal punto di ristoro al comando. Ha provato a dargli filo da torcere, fino a due terzi di gara, il canadese Galen Reynolds, capace di ridurre il suo distacco a un’ora soltanto, alla base vita di Valtournenche, per poi essere costretto a rallentare ieri a causa di grossi problemi respiratori. Ora è atteso a Courmayeur nel pomeriggio, viaggia con un ritardo di quattro ore dal leader della corsa. Al terzo posto il francese Romain Olivier, in recupero con un distacco che si attesta a un’ora da chi lo precede.

Al femminile resta sempre al comando una grande Silvia Trigueros Garrote, settima assoluta, con un vantaggio di svariate ore su Jocelyne Pauly, seconda, e Sonia Furtado, terza. Il suo arrivo è previsto all’alba di domani, giovedì 12 settembre.

© Andrea Chiericato
© Andrea Chiericato

Tor des Géants, Bosatelli verso Courmayeur

MERCOLEDÌ 11 SETTEMBRE, ORE 10,30 - Oliviero Bosatelli ha superato la Porta del Paradiso e ora per lui è iniziata la lunga discesa verso il traguardo di Courmayeur. Il bergamasco è transitato al Col du Malatrà alle 9.29 di questa mattina, saldamente al comando della decima edizione del Tor des Géants®. Dietro di lui il canadese Galen Reynolds, rallentato ieri da problemi respiratori e ora staccato di oltre quattro ore dal leader della corsa. Al terzo posto il francese Romain Olivier, in recupero con un distacco che scende a un’ora da chi lo precede. Quarto un Danilo Lantermino in grande spolvero, quinto la sorpresa di questo TOR, il sudafricano Erwee Tiaan, che ha approfittato del ritiro di Gianluca Galeati a Oyace, nella notte, per guadagnare un’altra posizione. Al femminile resta sempre al comando una strepitosa Silvia Trigueros Garrote, settima in posizione generale, con un vantaggio di svariate ore su Jocelyne Pauly, seconda, e Sonia Furtado, terza.

MARTEDÌ 10 SETTEMBRE, ORE 17,30 - Oliviero Bosatelli tiene: il bergamasco è l'unico concorrente arrivato a Cuney, alle 16.12. Da Valtournenche era uscito con un'ora circa di vantaggio su Galen Reynolds e tre ore su Olivier Romain. A seguire Lantermino e Galeati. Tra le donne Silvia Trigueros è l'unica arrivata a Champoluc. Alla base precedente aveva circa tre ore di vantaggio su Jocelyne Pauly e circa sei su Sonia Furtado.

MARTEDÌ 10 SETTEMBRE, ORE 8 – Continua la marcia di Oliviero Bosatelli al Tor des Géants. Il bergamasco è arrivato alle 6.19 a Champoluc, seguito alle 7.25 da Reynolds Galen. I due erano usciti da Gressoney con una decina di minuti di distacco in più. Il terzo concorrente, Olivier Romain, è arrivato a Champoluc alle 8.08. Più distanti e non ancora transitati da Champoluc Gianluca Galeati, Sebastien Raichon e Danilo Lantermino, mentre al settimo posto c’è John Kelly, seguito da Enzo Benvenuto, Tiaan Erwe e Cristian Ionel Manole. È abbastanza delineata la situazione nella gara femminile con Silvia Trigueros che a Balma aveva tre ore di vantaggio su Jocelyne Pauly e oltre cinque su Sonia Furtado. La Trigueros è l’unica ad essere transitata da Niel, alle 6.44. A seguire nella top ten: Chiara Boggio, Kaori Niwa, Melissa Paganelli, Elisabetta Negra, Patrizia Pensa, Zoe Salt, Darcy Piceu.

LUNEDÌ 9 SETTEMBRE, 0RE 16 - Altri cambiamenti nella testa della gara con Oliviero Bosatelli che è uscito per primo dalla base di Donnas, dove era arrivato dopo di Olivier Romain: una ventina i minuti di vantaggio, che si sono però assottigliati all'ingresso a Sassa a soli quattro minuti. Al terzo posto Reynolds Galen, attardato di un'altra ventina di minuti abbondante. Ha dovuto ritirarsi Franco Collé per problemi alla vista. L'unica donna arrivata a Donnas è Silvia Trigueros che aveva più di un'ora su Jocelyne Pauly e più di due ore su Sonia Furtado a Champorcher.

LUNEDÌ 9 SETTEMBRE, ORE 9,30 - Cambio alla testa della gara. Alle 9,12 l'unico arrivato a Champorcher era Olivier Romain. Da Cogne, al secondo posto, con 20 minuti di distacco, era uscito Galen Reynolds, seguito a sette minuti da Oliviero Bosatelli. Franco Collé è invece uscito da Cogne alle 6.59, con circa un'ora e 45 minuti di ritardo. Si è ritirato Peter Kienzl. Cambio anche tra le donne con Silvia Trigueros uscita da Cogne alle 8.01 con circa un'ora di vantaggio su Jocelyn Pauly. Terza Sonia Furtado, arrivata a Cogne alle 9.16 ma non ancora uscita.

DOMENICA 8 SETTEMBRE, ORE 19 - Il via questa mattina alle 12 da Courmayeur. Dopo il Tor des Glaciers, è partita anche la gara regina, il Tor des Géants e nelle prime sette ore di gara, in parte anche sotto la neve, la testa della corsa è per Franco Collé, uscito alle 18.56 dalla base di Valgrisa, seguito da Peter Kienzl (19.08) e da Oliviero Bosatelli (19.13). Da Valgrisa sono usciti anche Romain Olivier, Glen Reynolds e Francesco Cucco. Tra le donne al rifugio Deffeyes è passata per prima Sonia Furtado, seguita da Silvia Trigueros Garrote a circa 8 minuti e da Jocelyne Pauly a circa 12 minuti. Nella top ten anche Darcy Piceu, Amy Sproston, Giuditta Turini, Scilla Tonetti, Denise Zimmermann, Patrizia Pensa e Zoe Salt. Ritirata Lisa Borzani a causa di problemi al ginocchio. Edizione record quella del 2019 con 920 concorrenti al via. Intanto prosegue anche il Tor des Glaciers, la nuova gara di 450 km e 32.000 m D+. In testa Luca Papi su Javier Puit e Masahiro Ono. Tra le donne conduce Marina Plavan, seguita da Licia Madrigal, da Anouk Baars e da Ita Marzotto.


Bargiel e Jornet sull’Everest

Si incrociano sulla montagna più alta della terra le storie di Andrzej Bargiel e Kilian Jornet. Mentre il primo è partito a fine agosto per tentare la discesa con gli sci dell’Everest (la spedizione si chiama Everest Ski Challenge), Kilian si trova in Nepal, in marcia verso l’Everest. Se il primo progetto era noto da tempo, sulla presenza di Kilian ai piedi dell’Everest non ci sono informazioni ufficiali anche se da qualche settimana iniziavano a circolare rumour. Secondo quanto ha potuto sapere desnivel.com l’idea di Kilian sarebbe quella di salire dal versante nepalese e non più tibetano, facendo base a Gorak Shep,a quota 5.164 metri, e non al campo base. Così affronterebbe la vetta più alta della terra in velocità, riducendo al minimo il materiale e senza bisogno della tenda per il campo base. Secondo alcune fonti interpellate dai colleghi spagnoli di Desnivel Kilian avrebbe anche un permesso per il Lhotse, mentre altre fonti parlano di una nuova via dal campo 2. Kilian era già stato all’Everest a maggio 2017, salendo due volte, la prima dal monastero di Rongbuk in 26 ore e cinque giorni dopo in 17 ore dal campo base avanzato, senza tuttavia battere i record di velocità da quel punto di Kammerlander (16h45’) e Stangl (16h42’). Sulle salite di Kilian all’Everest, come spesso avviene per gli ottomila, si sono anche succedute una serie di polemiche e dubbi sul fatto che il catalano sia realmente arrivato in vetta, in particolare da parte dell’alpinista statunitense Dan Howitt.


Al Delicious Festival Dolomiti c'è il primo Women's Trail by Scarpa

Appuntamento  il 21 settembre a Cortina d’Ampezzo per il primo trail dedicato al mondo femminile. L'azienda di Asolo organizza in occasione di Delicious Festival Dolomiti la prima edizione di Women’s Trail. Il programma di Women’s Trail si snoderà in un percorso di 7 km con 100/150 metri di dislivello positivo e sarà aperto a tutte le donne che si vorranno misurare con la meravigliosa cornice delle Dolomiti. Un trail non competitivo, che partirà dal PalaDelicious, procederà nella Valle d’Ampezzo e ha in previsione due tappe davvero invitanti. La prima a Malga Peziè de Parù, la seconda alla Baita Resch, dove gli chef dei rifugi prepareranno dei ristori speciali da assaporare e gustare con vista sulle Dolomiti.

Il Delicious Festival Dolomiti

Il Women’s Trail di Scarpa si inserisce, infatti, nel programma di Delicious Festival Dolomiti e ne rafforza lo spirito originario legato allo sport e alla cultura locale. L’Associazione Sportiva Dilettantistica L5T Sport organizza, nei due giorni 20 e 21 settembre 2019, il Delicious Festival Dolomiti, evento sportivo, culturale e gastronomico all’insegna dello sport e del divertimento.  L’obiettivo è di valorizzare il patrimonio storico, naturale, alpinistico ed enogastronomico di Cortina d’Ampezzo. Un evento che l’azienda di Asolo vuole valorizzare seguendo il suo stile imprenditoriale e innovativo attraverso un’iniziativa totalmente dedicata alle donne. Scopo dell’iniziativa è anche unire verso un obiettivo comune, la sensibilizzazione per la lotta contro il tumore al seno, sostenendo ADOS – Associazione Donne Operate al Seno Sezione di Cortina – Cadore – Comelico. Le iscrizioni al primo Women’s Trail di Scarpa sono ufficialmente aperte dal primo settembre sul sito www.delicioustrail.it. Il costo di partecipazione è di 20,00 €. Parte del ricavato verrà devoluto all’ ADOS – Associazione Donne Operate al Seno Sezione di Cortina – Cadore – Comelico.


Catherine Poletti, la mia UTMB è come un rock

Non ci sono solo le note di Conquest of Paradise di Vangelis nella compilation di Catherine Poletti, meglio conosciuta come la signora di ferro del trail. Madame UTMB è una che le suona a tutti e infatti nel suo passato e in quello del marito Michel, che sta sempre un passo indietro come il principe consorte, ma è in perfetta sintonia con Catherine, ci sono tante note. «Siamo imprenditori e abbiamo sempre lavorato insieme, gestendo per 20 anni un negozio di musica e dischi - dice mentre parla seduta alla scrivania del 36 di Avenue du Savoy, quartier generale dell’UTMB, naturalmente a Chamonix - Siamo complementari sia come forma mentis che a livello decisionale e questa nostra sintonia si è subito palesata anche nell’avventura dell’UTMB». Un’avventura iniziata lontano e accompagnata per 17 lunghissimi anni dalle note di Conquest of Paradise. «Agli inizi degli anni 2000 le competizioni sulle ultradistanze erano pochissime, almeno qui in Europa. E mio marito, appassionato fondista, le inseguiva da un luogo all’altro. E io seguivo lui, accompagnandolo e facendogli assistenza. È stato proprio dopo una di queste gare che io e lui, di rientro a Chamonix, abbiamo pensato sul serio, per la prima volta, all’UTMB». Ma se Michel era l’atleta, perché proprio Catherine è la direttrice di gara della più importante (e ricca) gara del mondo ultradistance? «È ridicolo, ma delle nove persone che facevano parte del comitato organizzatore, io ero l’unica che non l’avrebbe corsa e quindi quella che avrebbe potuto tenere, anche durante la gara, le redini della situazione». La fama non sempre fa rima con simpatia e questo Madame UTMB lo sa. Spesso le decisioni targate UTMB sono state impopolari e criticate, ma alla fine si sono rivelate giuste. «Non proprio tutti ci amano, ma la maggior parte sì, noi facciamo il nostro e lo facciamo al meglio, del resto poco importa, o meglio, non ci preoccupa. Quando per la prima volta abbiamo introdotto materiali obbligatori, molti non ci hanno visti di buon occhio. Fino a che tutti sono convenuti alla nostra stessa conclusione: correre leggeri come Kilian è il sogno di tutti, peccato che non tutti siano veloci quanto lui e quindi i materiali obbligatori non sono qualcosa di superfluo, ma un vero e proprio salvavita in caso di emergenza». La mente va ancora alle note di Vangelis, a Catherine che balla, incurante della folla e dello stile, a Catherine che abbraccia i concorrenti all’arrivo. «Alla sua prima vittoria all’UTMB Rory Bosio per la fatica si lasciò cadere a terra. Io andai a sollevarla e i media dissero che mi ero intromessa e che avrei dovuto lasciarle vivere questo momento da sola. Sulla scorta di queste critiche, l’anno successivo mi guardai bene dall’andarle incontro. Lei, memore di quanto accaduto l’anno prima, appena tagliato il traguardo mi fece l’occhiolino e si gettò letteralmente tra le mie braccia!». Da donna a donna, in un triangolo perfetto: Catherine, Rory, io. Ma qual è la differenza tra i due sessi in gara? «Non è durante la gara, ma soprattutto al traguardo. Dopo una fatica immensa le donne arrivano composte, dignitose. Sono più eleganti, più attente anche al lato estetico. Ricordi il poster di dell’edizione 2018? Quella è una finisher, una finisher vera: sorridente, raggiante, bellissima… Non abbiamo voluto appositamente usare Photoshop né alcun altro ritocco proprio per non rovinare l’immagine luminosa di questa donna fantastica». Lo scettro della scena internazionale del trail è saldamente nelle sue mani, ma chi sarà il delfino? «Io e Michel non ci saremo per sempre, questo è ovvio, non abbiamo ancora designato uno e dei successori, ma sicuramente ci stiamo già lavorando». Intanto si pensa già alla prossima UTMB perché, alla domanda su quale sia stata l’edizione migliore, Catherine ha risposto senza esitazioni: «La prossima!». Cento di queste UTMB, Madame Poletti.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 120 DI SKIALPER, SE VUOI ACQUISTARLO VAI QUI