François D’Haene, in vino veritas

È di questi giorni la notizia che François D'Haene ritornerà all'UTMB nel 2020. Noi siamo andati a trovarlo a casa sua dopo l'ultima, indimenticabile, vittoria nel 2017, davanti a Kilian Jornet. L'articolo è stato pubblicato sul numero 115 di Skialper.

Non è vero, ma ci credo. Oppure, se volete, non ci credo, ma è vero. A volte le coincidenze sono solo coincidenze, ma nel caso di François D’Haene potrebbero non esserlo e c’è un sottile filo magico che lega i suoi successi a un luogo: Domaine du Germain, comune di St.-Julien-en-Beaujolais, dipartimento del Rodano. Dopotutto ci troviamo a pochi chilometri da Lione, che con Torino e Praga forma un noto triangolo dell’esoterismo. La terra rossa argillosa di queste colline famose per il loro vino allegro e fruttato sembra avere avuto un magnetismo positivo sulla vita e la carriera sportiva del più forte ultra-trailer del mondo. François e la moglie Carline hanno completamente cambiato le loro vite nel 2012 quando hanno messo tra parentesi le precedenti occupazioni per prendere in affitto le vigne della famiglia di Carline. Da fisioterapista e vignaiolo. Da atleta di buon livello a trail runner più forte del mondo. Guarda caso Il 2012 è il primo dei cinque anni magici. Cinque - altro legame esoterico - come i tralci di ogni vigna di Gamay che possono essere potati ogni anno secondo il contratto di affitto firmato da François e Carline. Prima una bella carriera, con il terzo posto alla CCC del 2006, il podio sfiorato a La Reunion e ai Templiers, il secondo posto alla TNF Australia. Risultati che ognuno di noi farebbe carte false per ottenere, per carità. Ma manca quel numero - uno - nelle gare che contano veramente. Sei uno tra i tanti. Poi improvvisamente nel 2012 arriva la vittoria all’Ice Trail Tarentaise e all’UTMB, il secondo posto all’Endurance Challenge 50 in California, nel 2013 la vittoria alla 80 km du Mont Blanc e alla Diagonale des Fous, nel 2014 il trittico Mt Fuji, UTMB e Diagonale, nel 2016 ancora la Diagonale e la Hong Kong 100, nel 2017 Madeira, Maxi Race d’Annecy e soprattutto l’UTMB dei record, quella che lo consacra, se ci fosse stato ancora bisogno di una prova, come il più forte ultra-trailer del mondo. Di sempre. Questo paesino di 800 abitanti, questo domaine con le case di pietra rossa e le vigne basse sembra essere il primo segreto dei successi di Dr Jekyll & Mr. D’Haene. Chi lo ha frequentato nei giorni di gara ha conosciuto Dr Jekyll. Di poche parole, quasi altero, quasi burbero. Non è uno dei simpaticoni della tribù del trail, vive nel suo mondo. Si dice che questa primavera, a Madeira, non sapesse che aspetto avesse Pau Capell che doveva tenere d’occhio perché era uno degli avversari più pericolosi. Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo au calme, al domaine, ha conosciuto il vero Mr. D’Haene: molto ospitale, simpatico, spontaneo, semplice e con due valori sopra a tutti: la famiglia e la condivisione. Condivisione delle esperienze e dei piaceri della vita con gli amici. Quegli stessi amici che lo hanno accompagnato nel record del GR 20 o sul John Muir Trail e che vengono ad aiutarlo a vendemmiare. Chi lo conosce bene dice che Mourinho non è tanto diverso: burbero fuori, amico in famiglia e con la squadra. Forse sono le virtù dei vincenti.

© Federico Ravassard

Giovedì 9 novembre, ore 10 in punto. In una uggiosa mattina autunnale passiamo Lione e lasciamo l’autostrada per spingerci verso le colline. Superiamo un paesino che sembra uscito da una cartolina, con una mairie mignon ma impeccabile nel suo abito, con tre bandiere tricolori a sventolare. Imbocchiamo una stradina di campagna. Il cartello dice Domaine du Germain. Tutto intorno solo vigne basse, con le foglie gialle e rosse. Ci sono quattro o cinque casette di pietra rossiccia. Nessun citofono, nessun cognome. Proviamo a salire su una stretta e lunga scala. Suoniamo il campanello. Si apre una porticina e, chinando il capo, esce un gigante. «Bonjour François».

La prima domanda è d’obbligo, che bottiglia hai aperto per festeggiare la vittoria all’UTMB?
«Tutte».

L’UTMB 2017 ti ha cambiato la vita. C’è un prima e un dopo?
«Sicuramente, sono più conosciuto. Nei giorni scorsi ero ospite a Grenoble Montagne e hanno dovuto aggiungere 400 sedie. Qui in paese però non è cambiato molto. Mi conoscono tutti e si sono sempre interessati ai risultati alle gare. Con tanta passione. C’è gente che non sa cosa sia la corsa e il trail, ma ha seguito ora per ora l’UTMB e quando mi incontra, magari seduta sul trattore, mi fa cento domande».

Al Domaine c’è tanta pace, un’atmosfera molto diversa dalle gare, come vivi questo contrasto?
«Sono solo alcuni giorni o ore, poi torno qui, fa parte del gioco. In tanti mi chiedono informazioni o autografi, ma trovo che oggi ci sia soprattutto questa mania del selfie, li vedo tutti pronti con quel braccio allungato, sorridenti».

 E poi non sempre c’è la folla e la pressione dell’UTMB…
«Alle gare con poca gente le persone hanno più tempo per chiederti un selfie e parlare, c’è meno frenesia, nel bene ma anche nel male, preferisco l’UTMB. Però quello che trovo difficile da accettare è la superficialità. Da fuori sembra tutto facile, diventa tutto banale. Tra l’UTMB e la Diagonale des Fous mi ha chiamato Xavier Thévénard. Voleva chiedermi come mi ero trovato a fare la Diagonale dopo l’UTMB perché non si sentiva in forma, voleva capire se aveva senso per un top provare due cento miglia così vicine a fine stagione. Poi è andata come è andata e ho sentito gente dire che ha accettato l’invito solo per farsi una vacanza. Ma come si può pensare che uno come lui che ha scritto la storia dell’UTMB abbia bisogno di questi espedienti per andare a farsi una vacanza?». 

Jim Walmsley all’UTMB scappava via e poi vi aspettava ai posti di rifornimento, è vero?
«Sì, arrivava magari con tre minuti di vantaggio, sulle discese andava a tutta e poi voleva ripartire con noi per non tirare da solo. Forse questa strategia lo ha un po’ prosciugato, ma in realtà credo che si sia davvero trattenuto, secondo me è solo una questione di tempo, e non di chilometri, fino a 12-13 ore conosce bene il suo fisico e le sue reazioni, oltre no».

Mentre parliamo attorno all’isola della grande cucina di casa, François ci offre un caffè. Non sarà come quello italiano però. Invece nella tazzona c’è una miscela piacevole, certo non nelle piccole quantità di un espresso. L’ho presa negli Stati Uniti, ha un retrogusto di cacao.

Sei settimane dopo l’UTMB hai fatto registrare il record sul John Muir Trail, uno dei trekking più popolari degli Stati Uniti. Come hai potuto recuperare così in fretta?
«Impossibile recuperare così velocemente, infatti la stanchezza si è fatta sentire, però le avventure come il John Muir o il GR20 in Corsica me le scelgo attentamente, sono qualcosa di diverso da una gara. Non mi interessa il record fine a se stesso, ma correre in posti magici con i miei amici e condividere una bella esperienza con la famiglia. Infatti a farmi da pacer c’erano quattro amici una volta e cinque l’altra. L’orologio lo guardo solo alla fine, al John Muir ero abbastanza tranquillo perché avevo dodici ore di vantaggio».

Più duro il GR20 o il John Muir?
«GR 20, in 31 ore ho fatto 180 chilometri, il meteo era variabile, i tempi di riferimento nelle varie sezioni non erano affidabili. Al John Muir provi altre sensazioni, la solitudine, il caldo del giorno in contrasto con il freddo della notte. Penso di avere attraversato una sola strada in più di 300 chilometri. A volte ti ritrovi a pensare che è meglio non forzare troppo perché se ti fai male dovrai comunque camminare 30 ore per trovare qualcuno, non ci sono rifugi. Di giorno, anche a quote sopra i 3.000 metri, si stava bene in maglietta, la sera faceva meno cinque. Finché corri non lo senti, ma se ti vuoi fermare a dormire è dura, ecco perché, quel poco che ho dormito, l’ho fatto soprattutto di giorno. E la notte è lunga, perché il buio durava 13 ore».

Dormire. All’UTMB non si chiude occhio, su 300 chilometri e oltre sì. Che strategia hai usato?
«Mi sono fermato 12 ore circa, ma in totale non ho chiuso occhio più di 3 ore. La testa viene invasa dai pensieri: quanto manca, mi faranno male le gambe? Una volta ho provato a dormire di notte: mi avevano acceso un fuoco, ero ben coperto, ma era impossibile per il freddo. Il John Muir mi ha fatto pensare. Le cento miglia, almeno per il mio corpo, sono una barriera accettabile, ho trovato un buon equilibrio arrivando a farne due o tre a stagione. Oltre credo che la mancanza di sonno sia un fattore importante da tenere in considerazione. Dopo una UTMB ci vogliono mesi per recuperare, ma dopo un Tor? Forse avrebbe senso, oltre una certa distanza, stabilire delle pause obbligate per fare dormire gli atleti top, diciamo tre da un’ora. Quando partecipi ai raid è così».

Non c’è dubbio che i fisici reagiscano in parte in maniera diversa e anche il recupero cambia da persona a persona.
«A volte è importante liberare la testa. Me ne sono reso conto dopo l’UTMB. Finita la gara ho festeggiato per qualche giorno e poi, già la settimana dopo, qui abbiamo vendemmiato. Non ho avuto modo di pensare quanto ero stanco o se mi facevano male le gambe, c’era da lavorare, da correre, in un altro senso. E dopo una settimana stavo bene».

Dopo queste considerazioni arriva la seconda domanda d’obbligo. Che poi sono due domande: farai l’UTMB 2018? E il Tor des Géants?
«No, non sarò a Chamonix, non l’anno prossimo, è una delle poche decisioni già prese per il calendario 2018. Non escludo di tornarci, ma non subito. Il Tor? Una volta nella vita lo voglio fare, ma ora è molto difficile perché capita proprio nei giorni della vendemmia».

Il calendario quando lo decidi? Come fai a trovare le motivazioni dopo avere vinto tanto?
«L’autunno è la stagione della riflessione, ci sto pensando proprio ora e di solito lo rendo pubblico a metà dicembre. Mi aiuta molto cambiare, correre in posti diversi. L’anno scorso ho inserito la Maxi Race di Annecy perché era vicino a casa e potevo allenarmi con Michel Lanne, volevo fare la Lavaredo Ultra Trail perché non conosco le Dolomiti, ma purtroppo ho dovuto rinunciare per un infortunio. Poi Madeira, un altro posto nuovo e con una densità di atleti forti al via che è stata inferiore solo all’UTMB. L’UTMB? Volevo tornarci dopo qualche anno e poi quando ho visto che c’erano tutti quei top al via ho pensato che difficilmente ci sarebbe stata ancora una gara così».

E i record?
«Cerco luoghi e itinerari particolari, ma non necessariamente famosi: il prossimo potrebbe proprio essere un sentiero da inventare, dove non sono già stati registrati fastest known time».

Hai già qualche idea?
«No, dopo la Corsica ci ho impiegato sei mesi per avere la testa libera di pensare a un’altra avventura. Non è semplice: bisogna badare alla logistica, a chi verrà con te, a quando andare. Pesa tutto sulle mie spalle».

Hai corso poco in America, ci andrai quest’anno?
«Forse la Hardrock, ma non so, in America non hai la certezza di riuscire ad avere il pettorale e poi magari ti ritrovi a correre con pochi atleti top».

I cavalli nel motore non mancano, hai mai fatto un pensierino alla Marathon des Sables?
«Una volta mi ero anche iscritto, poi non sono potuto andare. No, però ora non credo che ci andrò più, in quel periodo voglio sciare e poi è ben diverso da un trail tradizionale, in effetti è un po’ un unicum nel calendario ITRA».

François scalpita dalla voglia di mostrarci il Domaine. Abbiamo tre ettari e mezzo di vigne qui e uno a 40 minuti di auto, dopo ve le faccio vedere aveva detto accogliendoci. La nostra giornata prosegue dunque passeggiando tra i bassi filari di Gamay. Passeggiando, non correndo. Vedi, qui sopra produciamo La Germaine, un Beaujolais Village leggero e fruttato, lì sotto il Calvaire, più complesso, dai profumi intensi di frutta e più tanninico. Vedrai quando li degusteremo, sono diversi, eppure le vigne sono a pochi metri una dall’altra. Ma ci sono anche altri fattori da tenere in considerazione. Il primo lo produciamo con una macerazione veloce, il secondo invece rimane di più nella cisterna di fermentazione in cemento. François si inerpica su per i dolci declivi di questo angolo di Beuajolais. Ci vuole mostrare le vette più alte della regione, dove spesso va ad allenarsi. Qualche sparuto grappolo non è stato tolto durante la vendemmia. Gli acini sono piccoli e scuri, potrebbero anche essere dei grandi mirtilli. François ne strappa uno e lo schiaccia tra le dita. Dentro il succo è chiaro, volendo si potrebbe anche fare del vino bianco, ma noi produciamo giusto un rosè estivo. Questo vitigno si chiama Gamay ed è il principale della regione del Beaujolais. le viti sono basse, i grappoli e gli acini piccoli, non è certo uva da tavola.

© Federico Ravassard

In quanti siete al domaine?
«Due, io e Carline».

Come fate, non avete una formazione legata alla viticoltura?
«Ci siamo subito appassionati, amiamo il buon vino, Carline, dopo che siamo arrivati al Domaine, ha fatto studi enologici e all’inizio ci ha aiutato Laurent Gobet, il vecchio vignaiolo del Germain».

Solo due, il lavoro non manca…
«Sì, oltre alla vendemmia bisogna prendersi cura delle viti e poi vinificare. Guarda questo filare: qui ho già potato cinque tralci, da contratto ne possiamo tagliare solo cinque all’anno e siamo in due a farlo sui quasi cinque ettari del Domaine».

Come è la tua giornata tipo, quando trovi il tempo di allenarti?
«Non ho una giornata tipo. Nessuna è uguale all’altra. Quando carico vado a correre su queste colline, faccio un’ora e mezza, due ore, posso pestare solo sterrato e prati e arrivo a 700 metri di dislivello, poi una volta la settimana e nel week end salgo in montagna e allungo, anche cinque, sei ore. Ma non c’è una regola, a volte corro la mattina, altre il pomeriggio, salgo in montagna il mercoledì oppure un altro giorno. Anche nella scelta dei percorsi cerco di variare».

Corri da solo?
«Quasi mai, ho un bel giro di amici runner».

Ascolti musica?
«No».

Che cosa vuol dire correre?
«Prendere aria, stare nella natura».

Usi il cardiofrequenzimetro?
«No, guardo solo distanza, tempo e dislivello».

Conosci i tuoi parametri?
«Solo altezza e peso, uno e novantadue e 70-75 chili, piede 10 e mezzo, non mi è mai interessato sapere altro».

In questa stagione corri?
«Molto poco, giusto per il piacere di farlo quando ne ho voglia. Poi in inverno mi alleno soprattutto con lo scialpinismo e lo sci di fondo, non mi dispiace anche la bici».

Giusto, l’anno scorso alla Pierra Menta sei arrivato undicesimo. Ti piace pellare?
«Molto, quest’anno abbiamo preso una casa proprio vicino a dove si corre la Pierra, vorremo andarci nei fine settimana ma anche due o tre mesi durante l’inverno. Ho sempre sognato di svegliarmi con la neve attorno e stiamo organizzandoci per mandare i bimbi a scuola lassù».

Quante Pierra Menta hai fatto?
«Undici. Tutte con Alexis Traub, mio cognato, come le altre gare in coppia. Ho anche pellato qualche volta con Laetitia Roux. È buffo, abbiamo fatto entrambi la stessa scuola di fisioterapia e ora nessuno dei due fa il fisioterapista. E Matteo Eydallin, sta ancora vicino a Gap? Da quelle parti ho anche io dei parenti».

Per le cronache, Alexis Traub non è ‘solo’ il cognato di D’Haene, ma è stato anche nazionale francese di corsa campestre e di corsa in montagna. Un ambiente, quello della corsa campestre, che ha frequentato anche François.

Come hai scoperto il trail?
«Ho fatto atletica da sette a 17 anni, ma quel modo di interpretare la corsa mi stava stretto, nel trail ho trovato subito la libertà».

Come si fa a diventare François D’Haene, voglio dire, hai fatto trail per diventare il più forte al mondo, avevi un programma e delle idee ben precise?
«No, passo dopo passo. Quando ho iniziato a correre fuori le gare lunghe non esistevano quasi, facevo 20-30 chilometri. Poi ho cominciato a provare i 70 chilometri e mi sono reso conto che dopo qualche ora, quando gli altri erano cotti, davo il mio meglio. Anche quando sono entrato nel Team Salomon, mi sono detto: vediamo, passo dopo passo, io continuo ad andare per la mia strada».

Quando hai capito che potevi diventare forte?
«Anche questo passo dopo passo, la prima pietra è stata la vittoria nel 2006 al Tour des Glaciers de la Savoie, i famosi 70 chilometri».

Si avvicina l’ora di pranzo e, prima di portarci in paese, da Chez Audrey, l’unico bar-ristorante di Saint-Julien, François ci scorta in cantina. Carline ha preparato una verticale di Beaujolais del Domaine. Inutile dire che, a digiuno, è stata peggio di un ultra-trail. E naturalmente ha vinto François. Abbiamo potuto apprezzare i diversi aromi e le diverse densità. Già, proprio quella densità che François ha utilizzato per descrivere l’alto numero di atleti top al via. Dopo pranzo abbiamo fatto un altro salto a casa D’Haene. Una scusa per curiosare nella cantina privata.

Bevi anche birra?
«Certo, eccola qui, dopo le gare non so resistere».

Hai qualche vino italiano?
«Guarda queste due bottiglie, sono italiane, sono buone? Credo che me le abbia regalate Marco De Gasperi».

Sono due vini di Valtellina, uno un Sassella. In un angolo scorgo una lastra di marmo con il profilo della Corsica e dei nomi incisi. È un ricordo del GR20, me lo ha regalato un runner locale e ci sono i nomi e i tempi di tutti quelli che hanno fatto il record.

Dove tieni coppe, medaglie e trofei, ce li fai vedere?
«Eh sono un po’ sparsi, dai miei, dai parenti».

E l’ultima UTMB, ce l’avrai il trofeo? Ma poi, in cosa consiste?
«Sì quello dovrei averlo, aspetta che lo cerco».

Traffica in cantina, ma niente. Ci spostiamo nel locale vicino. Qui facciamo la vendemmia. Di solito si svolge in una settimana. All’inizio prendevamo delle persone che pagavamo alla giornata, ma poi abbiamo pensato che doveva essere un momento per condividere le cose belle della vita e vengono i nostri amici. Una quarantina di persone per finire tutto in tre-quattro giorni. La buttiamo sul divertimento, con vari giochi goliardici e premi. Sulle pareti ci sono ancora il regolamento e la classifica dell’ultima vendemmia. Finalmente François tira fuori da un ripostiglio il trofeo dell’UTMB 2017. Diavolo d’un François, ha vinto la gara del secolo e la coppa la tiene nascosta, quasi si è dimenticato dove l’ha messa. Dopotutto la sua ricetta del successo è proprio questa: semplicità, lavoro, uno stile normale, non monastico come quella di tanti pro, tanta varietà nel suo menù, dalla scelta dell’allenamento a quella della gara, famiglia, condivisione. E un buon bicchiere di vino rosso. Ci ha confessato che anche il giorno prima dell’UTMB non se l’è fatto mancare. In vino veritas.

Miti e riti

Se non fosse già stata assegnato tempo fa a Julien Chorier, che nella vita è veramente ingegnere, l’appellativo ingénieur sarebbe stato perfetto per François D’Haene, che è uno dei trail runner più precisi e flemmatici. All’ultima UTMB agli uomini dell’assistenza Salomon ha consegnato un foglietto con la lista di quello che voleva trovare pronto a ogni stazione di rifornimento. In tutte le gare a un certo punto si mette una maglia tecnica Salomon di qualche anno fa, con delle grandi tasche davanti e la vestibilità attillata. Ne ha due o tre esemplari. Mi trovo bene perché non lascia grinze e per questo non diventa mai umida e non prendi freddo. Proverbiale anche il suo scatto felino quando arriva l’alba. Guarda caso le sue vittorie più belle iniziano tutte con una notte in gruppo e la fuga con il sorgere del sole. Prima dell’ultima UTMB ha confessato di non amare correre da solo nella notte. In allenamento mi piace, ma una notte interamente da solo sulle montagne non la auguro a nessuno: a me è successo sul Monte Fuji, cento chilometri da solo…

A ogni gara il suo vino

Abbiamo giocato ad abbinare tre vini del Domaine du Germain a tre gare vinte da François. Lui si è prestato molto volentieri. «La Germaine è l’UTMB, quello che ti aspetti dal trail classico, senza sorprese: montagne, salite, discese, boschi, pascoli, panorami alpini. Il Calvaire lo paragonerei alla Diagonale des Fous, non è un vino e non è una gara facile, tanti saliscendi, salite ripide, sbalzi climatici, un calvario. Il Moulin-à-Vent è un’altra cosa, è più complesso, con un invecchiamento di 18 mesi accompagna carni in umido e formaggi nelle cene con gli amici, come l’avventura al John Muir Trail o al GR20». François realizza ogni due anni un cartone speciale con tre bottiglie dei migliori millesimati dedicate a tre vittorie. Al Domaine du Germain produce circa 14.000 bottiglie all’anno su un totale di poco meno di cinque ettari di vigne. I suoi vini possono essere acquistati online: domainedugermain.com

© Federico Ravassard

 


Neve: sempre meno, sempre più in alto

Le informazioni che arrivano attraverso i mass media parlano di climate change e di aumenti medi delle temperature annue. Guardando nello specifico alla neve e all’innevamento, qual è la fotografia della situazione attuale rispetto al passato?

«Il manto nevoso è estremamente sensibile ai cambiamenti climatici. Quando le temperature aumentano, la neve cade più frequentemente sotto forma di pioggia oppure quella già caduta fonde con maggiore frequenza e rapidità. Tutto questo può causare variazioni a livello di estensione, spessore e densità del manto nevoso. Per poter quantificare questi cambiamenti e classificare correttamente i singoli inverni con poca o tanta neve, è importante disporre di serie pluriennali di misure. Ad esempio uno studio dell’ARPA Piemonte pubblicato nel 2013 ha evidenziato nelle Alpi Piemontesi nel periodo 1961-2010 una generale riduzione delle precipitazioni nevose, particolarmente accentuata alle quote inferiori ai 2.000 metri. Sempre nello stesso periodo lo studio ha evidenziato una diminuzione dello spessore medio stagionale del manto nevoso, più accentuato nelle ultime decadi. Anche la durata della copertura nevosa ha mostrato trend negativi in tutte le stazioni analizzate, più accentuati nelle stazioni alle quote prossime ai 1.500 metri».

E in altri continenti la situazione è simile?

«Uno studio recente di Beniston e colleghi, pubblicato sulla rivista internazionale The Cryosphere, ha evidenziato come la riduzione dello spessore del manto nevoso e della sua permanenza al suolo sia un fenomeno che sta interessando in maniera generalizzata tutte le Alpi europee, in particolare sotto i 2.000 metri di quota. Anche in questo caso le cause sono riconducibili alla prevalenza di eventi piovosi rispetto a quelli nevosi, così come all’incremento della velocità di fusione del manto nevoso, entrambi i fenomeni causati dall’aumento delle temperature nel corso dell’inverno e della primavera».

Fatta la fotografia della situazione attuale, quali sono le proiezioni per il futuro?

«Lo stesso articolo pubblicato da Beniston e colleghi nel 2018 riporta come numerosi studi scientifici siano concordi nel prevedere sulle Alpi a quote intorno ai 1.500 metri una riduzione dell’equivalente in acqua del manto nevoso (un parametro che dipende dallo spessore e dalla densità della neve) compreso fra l’80 e il 90% entro la fine di questo secolo. Le stesse simulazioni indicano un ritardo nell’accumulo del manto nevoso di due-quattro settimane e un anticipo della fusione primaverile di cinque-dieci settimane rispetto alla media registrata nel periodo 1992-2012, sempre a 1.500 metri di quota. Per le quote al di sopra dei 3.000 metri è invece attesa una riduzione dell’equivalente in acqua del manto nevoso di circa il 10%, anche nel caso di scenari che prevedano un incremento delle precipitazioni nel corso dell’inverno. Questi scenari climatici implicano anche l’assenza di un manto nevoso permanente alle quote più elevate nelle Alpi, con importanti ripercussioni sulla dinamica dei ghiacciai».

Si parla di aumenti medi della temperatura annua, un valore spesso incomprensibile ai più. Quanto questi dati sono direttamente collegabili all’innevamento? Esistono studi e tabelle specifiche?

«Uno studio di Valt e colleghi pubblicato nel 2008 sulla rivista Neve e Valanghe afferma che il limite della neve sicura per le attività sciistiche (criterio dei 100 giorni con più di 30 cm di neve al suolo) è confinato in Italia ad una quota prossima ai 1.500 metri. In un sistema climatico in riscaldamento, è stato stimato che la linea della neve sicura sia destinata ad aumentare di 150 m di quota ogni grado di aumento della temperatura media e sulla base di questa analisi vengono effettuate le valutazioni sulle stazioni sciistiche che saranno a rischio nel futuro, sia per la minor presenza di neve naturale che per la difficoltà di produrre neve programmata. Uno studio di Abegg e colleghi pubblicato nel 2007 all’interno di una ricerca dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sul turismo invernale, ha evidenziato come con un aumento di 1°C di temperatura nel 2050 in Italia il numero di comprensori sciistici in grado di garantire il limite della neve sicura si ridurrebbe del 12%, mentre con un aumento di temperatura di 2°C la percentuale salirebbe al 27%».

Qual è l’aspetto più evidente dei cambiamenti in corso che uno studioso come Michele Freppaz osserva?

«La mia famiglia è originaria di Gaby, un paese valdostano situato a 1.000 metri di quota. Negli anni ’70 la neve era una presenza ricorrente nel periodo invernale, ricordo magnifiche giornate di sci nei prati dietro casa. Si saliva a scaletta e si scendeva lungo pendii accuratamente preparati da noi bambini, con tracciati a diversa difficoltà. Ricordo anche una manovia a offerta libera. Oggi ciò non è praticamente più possibile e anche la pista di fondo viene aperta decisamente di rado. Se devo fare un confronto con un passato ancora più lontano, mi piace spesso citare un episodio legato all’attività dell’illustre climatologo e glaciologo Umberto Monterin. Nel suo contributo al Manualetto di Istruzioni Scientifiche per Alpinisti del CAI, pubblicato nel 1934, lo studioso invitava i frequentatori della montagna a svolgere la raccolta di dati meteorologici, con una strategia che oggi definiremmo di citizen science. In particolare suggeriva che l’alpinista che avesse avuto occasione di osservare pioggia al di sopra dei 3.500 metri durante la stagione estiva avesse cura di prenderne nota e di darne comunicazione. Oggi probabilmente dovrebbe invitare gli alpinisti a segnalare episodi piovosi sopra i 4.000 metri di quota, in quanto alle quote inferiori questi fenomeni sono ormai molto frequenti».

Quali effetti avranno i cambiamenti climatici o stanno già avendo sulle valanghe? 

«Gli studi che hanno trattato la frequenza e le caratteristiche delle valanghe nel passato, tra i quali ad esempio quello di Pielmeier e colleghi, presentato all’ISSW di Grenoble nel 2013, hanno evidenziato come nel corso degli ultimi decenni la frequenza di valanghe di neve umida sia aumentata, anche in pieno inverno (dicembre-febbraio), con particolare riferimento alle valanghe di fondo per scivolamento (glide-snow avalanches). La tendenza all’aumento della frequenza di valanghe di neve umida dovrebbe continuare anche in futuro, in particolare alle quote più elevate e all’inizio della stagione invernale.

I vecchi dicevano che sotto la neve c’è il pane. Quale funzione ha la neve, a parte renderci tutti felici e darci l’occasione di scivolare a valle?

«Il manto nevoso che si deposita nel corso dell’inverno, se di sufficiente spessore e non troppo denso, è un ottimo isolante termico. Maggiore è il contenuto d’aria al suo interno, maggiore è la sua capacità di mantenere al caldo il suolo sottostante, indipendentemente dalla temperatura dell’aria. Nei pressi della stazione di ricerca dell’Istituto Scientifico Angelo Mosso, a una quota di 2.901 metri nel massiccio del Monte Rosa, nel corso dell’inverno se è presente uno strato di neve di almeno 80 centimetri, la temperatura del suolo rimane prossima agli 0° C, anche se quella dell’aria scende a -25° C. Se il manto nevoso non è di sufficiente spessore, il suolo non viene adeguatamente protetto e può andare incontro a fenomeni di congelamento, con effetti sul ciclo degli elementi nutritivi del suolo e sulla vitalità degli apparati delle radici. La neve è inoltre un ottimo sensore della qualità dell’ambiente, in grado di incorporare specie chimiche nel corso della precipitazione, ma anche una volta che si deposita al suolo. Ne corso della fusione primaverile il rilascio delle sostanze che sono state inglobate non avviene con gradualità ma nei primi giorni del disgelo arriva al suolo un’acqua di fusione estremamente concentrata, in base a un fenomeno conosciuto come ionic pulse. Evidentemente le specie vegetali hanno interesse a sfruttare questi nutrienti e per questo spesso iniziano la ripresa vegetativa quando ancora sono coperte dalla neve, in modo da poter sfruttare questa fertilizzazione naturale. I processi all’interfaccia suolo/neve sono fondamentali per capire l’ecologia delle aree montane, e solo un approccio interdisciplinare è in grado di comprenderne a fondo i fenomeni. Non è facile, ma solo l’unione di due discipline quali la nivologia (la scienza della neve) e la pedologia (la scienza del suolo) permette di indagare con successo i delicati equilibri che caratterizzano le aree stagionalmente coperte dal manto nevoso».

Ci sono evidenze di problematiche nel comportamento della fauna legate a quelli relative all’innevamento?

«Numerosi studi hanno evidenziato come cambiamenti nella durata e spessore del manto nevoso possano avere un significativo effetto sugli ecosistemi alpini. Negli ambienti di tundra alpina un ritardo nell’accumulo di neve in tardo autunno può determinare congelamenti del suolo in grado di alterare il ciclo degli elementi nutritivi anche nell’estate successiva. Una fusione anticipata del manto nevoso in primavera può indurre una ripresa vegetativa anticipata tale da alterare la sincronizzazione fra la disponibilità di foraggio e l’attività degli erbivori».

 

La ricerca in quota

La rete LTER Italia (www.lteritalia.it) è un insieme di siti di ricerca nei quali si conducono ricerche ecologiche su scala pluridecennale. In Italia sono ben 25 i siti e ci sono altre 26 reti nazionali a livello europeo con oltre 400 siti di ricerca, 40 quelle sui cinque continenti. Michele Freppaz è responsabile scientifico LTER Istituto Mosso, nel massiccio del Monte Rosa. Fulcro del sito di ricerca è lo storico Istituto Scientifico Angelo Mosso, a 2.901 metri di quota, al confine fra i comuni di Alagna Valsesia e Gressoney La Trinité. Di proprietà dell’Università di Torino, i laboratori scientifici al Col d’Olen furono inaugurati nel 1907, quando apparve ormai evidente che la capanna Regina Margherita, come centro di ricerca d’alta quota era diventato insufficiente alle sempre più numerose richieste di utilizzo da parte della comunità scientifica internazionale. L’Istituto Mosso, realizzato in soli tre anni, superava per grandiosità, per numero e disposizione di ambienti, per ricchezza di arredamento scientifico tutti quelli che al tempo sorgevano sulle Alpi e su altre catene montuose d’Europa e d’America. Era il primo laboratorio d’alta quota che provvedeva una sistemazione confortevole a studiosi di svariate discipline: medicina, biologia, botanica, geologia, glaciologia e meteorologia. L’attività di ricerca è attualmente condotta da differenti gruppi di ricerca con particolare interesse allo studio delle caratteristiche della neve e dei suoli e vegetazione d’alta quota.

 

I giorni della neve

«Da tempo mi chiedevo come fare per comunicare al meglio e al di fuori della cerchia degli studiosi o appassionati le mie ricerche: la neve, i suoli d’alta quota, i ghiacciai, i cambiamenti climatici, mi domandavo, potevano diventare una narrazione accessibile a tutti, magari avvincente e capace di coinvolgere anche persone che fin lì non si erano mai interessate a certi temi?». Nasce da questa esigenza I giorni della neve (192 pagine, Dea Planeta 13,60 euro), il romanzo scritto da Michele Freppaz con Francesco Casolo. «C'erano le atmosfere di certi luoghi e una serie di storie che potevano essere raccontate come quella di figure pionieristiche come Angelo Mosso e Umberto Monterin, le cui vite erano state di per sé stesse un romanzo - continua Freppaz -. Ci pensavo senza sapere bene da che parte girarmi; organizzavo conferenze e incontri con la sensazione di potere e dovere fare di più. Poi un giorno di un paio d’anni fa a Gressoney ho conosciuto uno scrittore, Francesco Casolo che già aveva lavorato su storie legate alla montagna e, fra una gita all’Istituto Mosso e una al ghiacciaio del Lys, abbiamo deciso di provarci. Cercando di unire il piacere del raccontare alla divulgazione scientifica, l’incanto di uno sguardo che va a posarsi su un ghiacciaio con il rigore dei dati che ne raccontano l'evoluzione».

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La nuova vita di sci e snowboard? Occhiali da sole e yurte

Che fine fanno sci e scarponi usati? Purtroppo nella maggior parte dei casi finiscono in discarica o nei termovalorizzatori. Il problema principale per i primi è legato alla difficoltà di separare le varie parti assemblate, mentre gli scarponi, pur essendo di materiale plastico, si perdono nelle decine di plastiche e non tutte vengono riciclate. Va meglio per i bastoni dove la parte in alluminio trova nuova vita nel riciclo. Però ci sono alcuni esempi interessanti di recupero dei materiali utilizzati. Due ragazzi italiani hanno aperto una start-up in Austria che realizza occhiali da sole e da vista a partire dalla serigrafia degli snowboard. Uptitude è nata in una soffitta del Trentino quando Ermanno Zanella ha pensato che sarebbe stato un peccato buttare tutti quegli sci e snowboard in discarica e si è costruito una montatura per i suoi occhiali. Poi l’incontro con Filippo Irdi, shaper in Austria, e l’idea di industrializzare quell’idea. La voce si sparge in fretta: un po’ con l’aiuto di Burton, un po’ di qualche amico, Filippo ed Ermanno vengono sommersi di snowboard. Le parti laterali sono utilizzate per le montature, quella centrale per realizzare portachiavi, punta e coda per gli espositori da negozio e Uptitude produce anche cover per smartphone con la stessa origine. Come nel maiale… non si butta via nulla. Un altro esempio di valorizzazione degli sci viene dalla Francia. Qui la Tri-Vallées di Albertville dal 2006 raccoglie sci e snowboard dai negozi e dalle piattaforme ecologiche di Savoia, Alta Savoia e Isère per recuperare ferro e alluminio e combustibile solido per i cementifici. Ne parliamo nel portfolio, all’inizio di questo numero. Un’altra case history interessante in chiave riciclabilità è quella dell’italiana Kastelaar che produce sci in legno certificato FSC (Forest Stewardship Council), marchio che identifica oggetti contenenti legno proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile, facilmente riparabili e al 95% riciclabili. E le scarpe da running? Esosport separa la suola dalla tomaia generando materia prima seconda che viene donata e utilizzata per la creazione di pavimentazione per i parchi giochi e per le piste di atletica (per informazioni sui punti raccolta: www.esosport.it). Questi sono tutti esempi virtuosi di recupero dei materiali o di riciclo, ma esistono esempi di riutilizzo, il fine più nobile? Per quanto riguarda i bastoni da sci, ci sono alcune piattaforme ecologiche, soprattutto in Austria, che li distribuiscono ai contadini e ai pastori che li impiegano come pali nelle recinzioni. Gli sci trovano spesso nuova vita in panchine e porta-abiti. Negli Stati Uniti Green Mountain Ski Furniture (www.recycledskis.com) realizza curiose sdraio, apribottiglia e casette per gli uccelli con gli amati legni. Qualche anno fa nell’ambito del progetto Architecture for refugees, Resilience Shelter Project di Marco Imperadori, professore di Progettazione e Innovazione Tecnologica al Politecnico di Milano, si era arrivati a realizzare un modulo abitativo per situazioni di emergenza simile a una yurta, la famosa tenda mongola, utilizzando 130 sci. Il progetto europeo transfrontaliero INTESE, che coinvolge l’area italo-francese del Monviso, prevede la reintroduzione degli sci e scarponi usati attraverso una rete di centri del riuso in aree distanti dalle stazioni sciistiche per non interferire con i mercati locali, ma aumentare la possibilità di accesso agli sport invernali anche per le persone meno abbienti.

Le 4 R dei rifiuti

Riduzione: cioè produrre meno rifiuti (utilizzando più a lungo sci, scarponi e abbigliamento, ma anche preferendo prodotti con imballaggi meno invasivi e riciclabili)

Riutilizzo: il prodotto trova un nuovo impiego (è il caso dei bastoni utilizzati come recinzione o di sci e scarponi donati per essere ancora usati per sciare)

Recupero: valorizzazione del rifiuto per ricavare materia seconda o energia (è il caso degli occhiali con montature a partire dalle serigrafie degli snowboard)

Riciclo: il materiale che non serve più al suo scopo viene trasformato (come le bottiglie di PET che danno vita ai pile)

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Scialpinismo (r)etico

Un passo, un altro, bastoncini in sincro, bastoncini che reggono tutto il tuo peso, le braccia stanche, le gambe dure. Il respiro, il solo suono del tuo respiro e delle pelli che si aggrappano all’elemento bianco e candido che ti riempie di gioia infantile e che allo stesso tempo cela i mostri della tua mente. Pensi di potercela fare? Le gambe, in loro risiedono saggezza e consapevolezza, ma il più delle volte non sei capace di ascoltare ciò che provano a sussurrarti. Sarà che sei impegnata a sentire il suono del tuo respiro e non puoi permetterti di perdere il ritmo.  Prima o poi spezzerò il fiato, prima o poi i muscoli si scalderanno. Il cuore batte all’impazzata e non sai più se è perché stai sputando sangue o se sei emozionata come una quindicenne imbarazzata e tremolante di fronte al ragazzo dei suoi sogni.

 

I tuoi gesti sono pesati, misurati, calibrati al dettaglio. Gesti che ancora non sono automatici e che richiedono la tua massima concentrazione. Batti il pendio, stacca gli sci. Metti il casco, leva le pelli.

Non una volta che le riattacchi dritte sulla plastica. Non una. Chiudi gli scarponi: troppo lenti, troppo stretti. Zaino in spalla, sci ai piedi. Inspira, espira. Vai. Sei qui per questo.

Butti le punte verso il basso e in momento tutto scompare: il dolore, la preoccupazione di non farcela, la paura. Senti le lamine rompere la neve sottile, fai una curva, poi un’altra, prendi velocità. Forse troppa? Non importa: stai planando. Sei la neve, sei una pernice, sei un gipeto.

Quattro. Quattro dannate curve e tutta la fatica non ha più senso, o forse ha finalmente senso. So perché sono qui. Come ci sono arrivata?

 

L’inverno è alle porte e mi chiedo come farò a trascorrere i prossimi mesi in furgone. Potrei installare un riscaldamento ma non ne ho molta voglia. Altro gasolio nell’atmosfera, oltre tutto quello che d’estate mi porta in giro tra passi alpini con salite in prima. Il mio stile di vita, per quanto semplice ed essenziale, richiede molto all’ambiente e sento di dover fare una pausa per restituire qualcosa a questo mondo.

Quest’estate sono andata a trovare i miei nonni nella casa di montagna di famiglia. Dopo cena tornavo a dormire nel furgone che avevo parcheggiato in giardino, chiudevo il portellone e tutto quello che c’era fuori svaniva per un’intera notte. Ero improvvisamente a casa con Ombra appallottolato a terra sul tappetino e mio padre che era venuto a trovarmi. Parlavamo, giocavamo a backgammon. Io perdevo il più delle volte e cercavo di rosicare il meno possibile.

 

Una mattina mia nonna, incuriosita come tutti dalla mia vita, mi chiese dove avrei preso casa l’inverno seguente. Bella domanda, non saprei - Beh, mica vorrai far dormire il tuo cane al freddo?

Così, grazie a questa simpatica considerazione di nonna Angela, avevo un’altra ragione per parcheggiare il furgone per qualche mese. Meno gasolio nell’atmosfera, più caldo per il povero Ombra.

Le mie priorità si sono subito delineate: quattro mura isolate dalla civiltà (non si può certo passare dalla vita in furgone alla vita in condominio), sciare ogni giorno e provare in punta di piedi a creare meno danni possibili al nostro pianeta. Ma nessuno ha la palla di vetro e ogni anno non sappiamo se la neve arriverà, quando arriverà e soprattutto dove. Chi vive come me, nomade della neve, ogni stagione invernale fa una scommessa e ne accetta le conseguenze. Prende la cartina delle Alpi, studia altitudini e statistiche, punta un dito e parte. Il mio furgone resterà coccolato dal clima tiepido del centro Italia, assopito per qualche mese. Io, invece, mi dirigo verso mete più frizzanti. Arrivo a Santa Caterina Valfurva il primo dicembre, alle porte dell’inverno meteorologico. Apro le porte della baita che mi, ci ospiterà per i prossimi mesi. È piccola, accogliente, perfetta sostituta della mia casa a quattro ruote.

Spesso mi viene chiesto se mi farò lo skipass stagionale. No. Questo sarà l’inverno del non chiedere niente alla natura. Sarà l’inverno in cui mi modello alla sua volontà. Sarà l’inverno del cuore gonfio e delle gambe stanche. Ha senso passare un inverno in una località sciistica senza usare gli impianti di risalita? Forse no, ma penso lo abbia per me.

 

I primi mesi sono quelli del vento e della difficoltà. Faccio fatica a riprendere confidenza con gli sci e sicuramente un po’ di ore in pista velocizzerebbero il processo. Ma questo è anche l’inverno della pazienza e del lasciare che le cose avvengano con i loro tempi. Arriverà anche la neve, ti sentirai più confidente. Aspetta. Vogliamo tutto e subito. Lavoriamo tutta la settimana come dei matti e il week-end prendiamo le nostre auto cariche di sci e bisogno di evadere e ci dirigiamo verso il resort più vicino. Abbiamo solo quei giorni per sciare e se la neve non c’è, poco importa: la compriamo. Proviamo anche a comprare il tempo, tutto il tempo che impiegheremmo per salire con i nostri mezzi, viaggiando su eco-mostri che un giorno, quando farà troppo caldo anche solo per sparare, resteranno dove sono.  Una ferita che non può più essere rimarginata.

 

Ammetto che sia bello poter fare 20 run in fresca senza dover batter traccia per ore, godendosi solo la discesa e sono certa che non posso chiedere a tutti di provare come me a trascorrere un inverno secondo i ritmi della natura.  Il tempo, quello no che non lo possiamo comprare. Sarò una scrittrice scannata, un’eterna principiante, ma ho un cuore gonfio e del tempo da investire sulle mie gambe. Ho salito tanti metri quanti ne ho sciati. Alcuni li ho solo scesi. Incapace per il dolore di impostare una curva decente. Ho pellato piano, in silenzio, attenta al respiro della natura. Ho visto le aquile volarmi vicino, ho visto Ombra annusare l’aria e rizzare le orecchie attento al movimento dei branchi di camosci.

Ho pellato veloce, a volte, e riso insieme agli amici. Ho visto Ombra sparire correndo in mezzo alla neve fresca, l’ho sentito piangere per la fatica e mugugnare dalla gioia pura del semplice andare veloce verso il basso.

 

Ora sento i rumori di una primavera che arriva precoce e che sta sciogliendo la neve che ho spalato intorno alla baita. Vorrei chiedere alla natura di rallentare un attimo e aspettarmi. Ma non posso, non voglio, questo è l’inverno che dedico a lei. E alle mie gambe. Quattro. Quelle quattro dannate curve mi hanno restituito già tutto.  Quattro curve tracciate su una tela immacolata. La luce del tramonto che colora il pendio. La neve fresca che ti innalza dal suolo. Stai planando. Sei tu, i tuoi sci, ma improvvisamente sei anche la neve e la luce e l’aria che ti sposta i capelli.

 

Il tempo non esiste più.

Il fondo valle nemmeno si vede.

La fatica è un ricordo lontano.

 

Non avevi bisogni di dare un senso al tuo inverno. Ma l’hai appena trovato.

Pensavi di restituire qualcosa alla natura ma anche questa volta è più quello che hai preso che quello che hai dato. In fondo cosa sono due gocce di sudore e un po’ di lacrime?

Non so dove sarò il prossimo inverno. Non so se sarò migliorata tecnicamente, né so se farò un po’ meno fatica in salita. So che non investirò i miei soldi in uno skipass stagionale. Certo è che le mie scelte non cambieranno lo stato delle cose. Verranno costruite nuove seggiovie, nuove funivie che portano dritte verso il cielo. Voleranno nel cielo elicotteri che vomiteranno turisti inconsapevoli su cime selvagge.

Ma io ho il mio tempo. E le mie gambe.

E questo basta.

 

© Andrea Salini/Outdoor Studio

Der Lange Weg

Primo aprile 2018. Pasqua. Nel tranquillo borgo di Trafoi tutto tace. Si sente solo il rimbombo dei passi degli scarponi sull’asfalto. Un rumore sordo, che risuona tra le case e le vie deserte di questo quieto villaggio altoatesino. Sono cinque rintocchi, uno dietro l’altro, regolari. Sono cinque scialpinisti, quattro uomini e una donna. Arrivano da lontano e sono diretti lontano. Vogliono salire allo Stelvio e hanno 80 chilometri di camminata con gli sci e gli zaini in spalla nelle gambe. Trovano un albergo, il Bellavista. Entrano per chiedere informazioni. Un signore sui 70 anni sta mangiando insieme alla famiglia e ai nipoti. È il proprietario dell’hotel ma, come se niente fosse, interrompe il pranzo pasquale, esce e si dilunga a spiegare la strada a questa insolita comitiva di scialpinisti. Quel signore all’anagrafe fa Gustav Thoeni ed è proprio lui, il campionissimo della Valanga Azzurra. I cinque scialpinisti non sono degli skialper qualunque. Si chiamano Philipp Reiter, Mark e Janelle Smiley, Bernard Hug e David Wallmann. Sono i cinque superstiti dei sette partiti il 17 marzo alle porte di Vienna alla volta di Nizza per la grande traversata delle Alpi, un’impresa riuscita solo nel 1971 a quattro austriaci. E l’obiettivo è proprio quello di arrivare almeno in quattro a Vienna e battere il tempo di Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher. La traversata più mediatica della storia dello skialp, non a caso con la regia di Red Bull. Un’impresa della quale si è parlato molto. E non sono mancate le polemiche.

Il modo migliore per capire che cosa è stata Der Lange Weg e che cosa lascerà è di guardarla con gli occhi dei protagonisti, di quei quattro uomini e quella donna che hanno macinato 1.721 chilometri e 89.644 metri di dislivello in 37 giorni (contro i 41 degli austriaci nel 1971) ovvero 375,08 ore in movimento. Per esempio quelli di Philipp Reiter, scialpinista e trail runner tedesco classe 1991. Il modo migliore per capire che cosa significhino queste spaventose cifre è di farlo a ritroso, a rebours, visto che il nostro viaggio parte da Nizza, dove Philipp si è tuffato nel mare con sci e scarponi.

«Sono passate tre settimane ormai dall’arrivo e lo stomaco si è allargato, ho sempre tanta fame ma, a differenza di quando eravamo in moto 15 ore al giorno, ora il peso aumenta. Per qualche giorno mi sembrava di essere un elefante quando mi muovevo, ero gonfio perché il corpo tratteneva troppi liquidi. Sto andando in bici e corrocchiando, non posso dire di non avere le gambe, ma manca la velocità. Dopo un’impresa del genere si pensa al recupero fisico, ma c’è un recupero mentale che è altrettanto importante. Per un inverno ti sei concentrato su quell’obiettivo. Poi per quasi quaranta giorni hai fatto sempre e solo quello: alzarti alle due di mattina, da tre a quattromila metri di dislivello al giorno, decine di chilometri. La giornata scorre nella routine della fatica, resa ogni giorno diversa da tanti imprevisti. Ma non hai altri pensieri, altre occupazioni. E ora? Bisogna tornare a pensare a se stessi, al lavoro, agli amici, cambiano completamente le prospettive e tutto quello per cui hai lavorato finisce in un secondo».

Philipp parla ansimando, mentre ha lo smartphone all’orecchio sta tracciando il percorso di un trail, tanto per continuare a muoversi. Ma non gli manca la lucidità per andare nelle profondità di Der Lange Weg, oltre i titoli dei media e i video promo di Red Bull.

«Nessuno di noi, quando siamo partiti, aveva realmente idea di che cosa avremmo dovuto affrontare, del fatto che andare da Vienna a Nizza in così poco tempo significa essere in moto anche quindici ore al giorno, percorrere fino a 4.500 metri di dislivello positivo con qualsiasi condizione meteo. E prendersi dei rischi. Perché il ragionamento non è quale percorso fare e come adattarsi alle condizioni meteo, ma in certe situazioni puoi solo decidere se prenderti quei rischi vale la pena. Se devi passare da una valle all’altra e c’è solo quel valico non hai molte alternative. La prima settimana è stata la più difficile. Ci siamo allenati solo un giorno insieme, a gennaio. Io conoscevo solo un paio di compagni. Abbiamo affrontato condizioni meteo molto difficili e in quei momenti viene fuori il nostro io più profondo, nelle situazioni estreme si vede chi sei veramente e non è sempre un fatto positivo. Poi però dopo i primi dieci giorni possiamo dire di essere diventati un vero team. E abbiamo dato il giusto valore all’impresa di Klaus Hoi e compagni. Quando ti trovi nel white out con il vento a cento chilometri all’ora capisci che chi ha vissuto queste stesse situazioni quasi cinquanta anni fa lo ha fatto senza GPS, attrezzatura e abbigliamento hi-tech».

© Red Bull Content Pool

Prendersi dei rischi. Quelli che non ha voluto prendersi la trail runner catalana Nùria Picas, che pure passa per una dura e ha lasciato il gruppo dopo 550 chilometri e 32.000 metri di dislivello positivo. «Ovunque andiamo ci sono grandi carichi di neve, è un anno meravigliosamente eccezionale, ma non sono disposta ad assumermi rischi maggiori di quelli che abbiamo già corso in questa settimana appena passata – ha scritto in un post su Facebook -. A casa ad aspettarmi ho i miei figli, la mia famiglia e gli amici e molte avventure che spero di condividere con tutti voi. Lo faccio perché penso che la vita sia uno sport meraviglioso!».

Trentasette giorni ad alzarsi alle due del mattino per evitare la neve molle e il rischio di distacchi, poi giù veloci al camper per mangiare e dormire qualche ora. Una vita con ritmi militareschi. Cosa rimane nella mente di chi a Nizza ci è arrivato?

«Due insegnamenti. Non bisogna fermarsi mai, fino al traguardo, nonostante i tanti imprevisti. Bisogna continuare a muoversi e guardare avanti. Non bisogna essere soli, è impossibile. È un’impresa che puoi fare in compagnia, perché oggi capita la mia giornata no e domani la tua e ci si aiuta. C’è un altro pensiero che mi ha accompagnato a lungo: se sia possibile immaginare una Der Lange Weg a piedi, in velocità. E sono arrivato alla conclusione che sarebbe molto più difficile. Perché con gli sci guadagni tempo in discesa e solleciti meno le articolazioni. E perché quando fai scialpinismo lo stomaco non è così delicato come quando corri. Non potrei mai mangiare una salsiccia prima di un trail, durante una scialpinistica sì». E se lo dice uno che ha portato a termine due volte la Gore-Tex Transalpine Run, andando anche sul podio, bisogna credergli.

Ci sono curiosità che vanno oltre le vette raggiunte e i metri di dislivello. E sono sulla vita di tutti i giorni alla Der Lange Weg. Quello, insomma, che non sta scritto nei comunicati stampa. «A parte tre notti in hotel, una in rifugio e una nel locale invernale di un rifugio, abbiamo sempre dormito nei camper. Eravamo in sette e dormivamo in tre diversi camper. La maggiore difficoltà è stata quella di doversi alzare sempre nel cuore della notte, alle due. Anche se sei stanco non riesci ad andare a letto tanto presto e poi non sei in una casa dove puoi oscurare bene le finestre. Lo spazio a disposizione in camper non è tanto e soprattutto i vestiti non ritornano perfettamente asciutti, rimane sempre un po’ di umidità».

Kilian Jornet ama gratificarsi con gli orsetti gommosi della Haribo nei momenti più difficili di una gara ultra-trail. E di momenti difficili in 1.721 chilometri ce ne sono stati tanti. L’orsetto di gomma (o la coperta di Linus…) di Philipp è una parola composta da cinque lettere, che si scrive uguale in tutto il mondo: pizza. E c’è una vecchia conoscenza di Skialper nel ruolo di pizzaiolo: «Avevamo proprio voglia di una pizza perché eravamo entrati in Italia, ma non potevamo permetterci di passare a casa di Manfred a mangiarla, così lui l’ha impastata e cotta a casa sua e ce l’ha portata il giorno dopo in quota». Lui è Manfred Reichegger, il senatore della nazionale italiana di scialpinismo da poco ritiratosi, che ha fatto da guida al gruppo nella sua valle Aurina, aiutando Philipp e compagni non poco nella nebbia».

Già, il cibo, croce e delizia in ogni gruppo che si rispetti. «Avevamo un cuoco, un ex tagliatore di legna che cucinava grasso, molto grasso. Ma andava bene perché bruciavamo tanto. Il suo compito era difficilissimo perché doveva preparare il cibo all’aperto, per una ventina di persone, inclusi autisti, operatori cinematografici, persone di servizio e, soprattutto, non sapeva mai quando arrivavamo perché era difficile calcolare i tempi con precisione. E quando arrivavamo avevamo fame, molta fame. Così i barattoli di Nutella e le noccioline sono andati a ruba. E durante le gite non ho mai mangiato tanti sandwich come in quei giorni».

© Red Bull Content Pool

Un lungo viaggio è fatto di tanti ricordi che la mente elabora meglio a distanza di qualche settimana o mese. Ce ne sono di belli e di brutti.

«Non posso dire di avere fatte delle belle sciate. Più che altro ci siamo spostati con gli sci, in velocità. Però quando siamo arrivati in Valle Aurina, dopo una giornata lunghissima, ci siamo goduti una discesa al tramonto sulla neve polverosa arancione. A Zermatt una bellissima alba ci ha subito avvolti mentre salivamo verso il Cervino, poi sul ghiacciaio si respirava un’atmosfera strana, durante una gita non ho mai visto così pochi scialpinisti in giro, eravamo praticamente soli a battere traccia, in quota e con il vento contro. Il meteo è cambiato velocemente e ci siamo ritrovati nella nebbia con raffiche a cento chilometri all’ora che ci spostavano indietro di cinque metri. Piedi e vestiti erano fradici. Quando siamo riusciti ad arrivare al bivacco a 3.700 metri ci siamo resi conto di essere dei sopravvissuti. In quel momento, quando nel video che ho caricato sulla mia pagina Facebook si vede entrare dalla porta uno dei mie compagni, la sua espressione parla più di mille parole. Ce l’avevamo fatta ed era l’unica cosa importante, poi avremmo pensato a come tornare indietro».

Già, tornare indietro. Come al Monte Bianco. «Eravamo a cento metri di dislivello dalla vetta, immersi nel white out. I nasi e le guance di alcuni erano bianchi, in cresta non si vedeva nulla e per cercare la strada abbiamo fatto partire un lastrone, non aveva senso rischiare. Per salire sul Monte Bianco abbiamo preso una Guida: ce n’erano solo tre o quattro disposte a portarci in un solo giorno però volevano 1.500 euro e per noi era troppo. Allora l’organizzatore Helmut Putz ha deciso di pagare lui la Guida perché voleva che arrivassimo in vetta. È finita che abbiamo dovuto letteralmente tirarla perché non riusciva a tenere il nostro ritmo e aspettarla continuamente. Alla fine voleva 1.200 euro perché non eravamo arrivati in vetta, ma un collega l’ha convinta a non farsi pagare per il buon nome della categoria».

Quando vai sul Monte Bianco con un cliente normale sai che hai margine, quando vai con chi attraversa le Alpi in 37 giorni no. Ecco un’altra lezione di Der Lange Weg.

Der Lange Weg

La lunga strada. Come quella che nel 1971 gli austriaci Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher hanno portato a termine, da Reichenau an der Rax, in Austria, vicino a Vienna, a Contes, una località vicino Nizza, in 41 giorni. A distanza di quasi 50 anni l’altoatesina Tamara Lunger, il tedesco Philipp Reiter, lo svizzero Bernard Hug, la catalana Nùria Picas, l’austriaco David Wallmann e gli statunitensi Janelle e Mike Smiley, marito e moglie, avevano l’obiettivo di arrivare almeno in quattro e in meno di 41 giorni. Non si può dire che le due imprese siano sovrapponibili e che il record sia stato battuto, anche se il tempo è nettamente inferiore: 41 giorni. Il percorso, che doveva essere uguale, tranne qualche tratto iniziale, è stato invece ridotto a 1.721 invece dei 1.917 previsti (con 85.000 metri D+, che sono diventati 89.644 nell’impresa odierna) a causa delle avverse condizioni meteo che hanno obbligato a tagliare alcuni tratti e saltare alcune vette (sono comunque stati raggiunti Grossglockner e Punta Dufour). Tamara Lunger ha abbandonato dopo la tappa 21 a causa di un infortunio, che l’aveva anche costretta a usufruire del bonus di 64 chilometri percorsi in auto, bonus pensato perché anche nel 1971 i protagonisti avevano percorso 64 km in auto. Non ha concluso il percorso anche Nùria Picas. La partenza è avvenuta il 17 marzo e l’arrivo il 22 aprile.

L’attrezzatura

Che cosa si usa per percorrere quasi 2.000 chilometri sulle Alpi? Philipp Reiter aveva due paia di sci, un Salomon Minim e un S/Lab X Alp. Il secondo, però, è rimasto nel camper. «Per il tipo di impresa conta più avere qualche grammo in meno da trascinare in salita che uno sci che faccia risparmiare energie in discesa» dice Philipp. Lo scarpone era uno Scarpa Alien, l’attacco ATK Trofeo e le pelli Geko con silicone. «Ne avevo anche una di scorta nello zaino, ma non l’ho mai usata, con la neve primaverile le Gecko sono ottime». Rotture? Zero, solo lo sci di Hug durante l’attraversamento di una valanga, ma niente di grave. E l’abbigliamento? Intimo in lana Merinos che ha doti antibatteriche naturali, strato termico e guscio.

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© Red Bull Content Pool

 

 

 

 

 


Magnini e Murada campioni italiani under 23 nell’individual

Vale il fattore casa per Davide Magnini, che nella sua Vermiglio ha centrato ieri il primo titolo italiano stagionale nella individual di sci alpinismo, rispettando il pronostico della vigilia. Il portacolori del Centro sportivo Esercito si è messo al petto lo scudetto tricolore under-23, imitato dalla compagna di squadra Giulia Murada sempre nella categoria Espoir, mentre fra gli Junior non ha tradito le attese il vicentino Matteo Sostizzo, con la trentina Lisa Moreschini che si è presa una rivincita sulla forte rivale Samantha Bertolina. Doppietta lombarda nella categoria Cadetti con Luca Vanotti oro al maschile ed Erika Sanelli al femminile.
Ha riscosso consensi l’organizzazione dello Sci club Brenta Team con il palio il trofeo Cavit, che ha proposto le sei sfide tricolori su percorsi con lunghezza diversa, ma con partenza e arrivo presso il Centro del fondo di Vermiglio, come due anni fa. E sono stati i numeri a darne conferma, visto che complessivamente si sono presentati al cancelletto oltre 300 partecipanti, compresi i Senior e Master, che hanno affrontato una gara promozionale, dove a trionfare sono stati Federico Nicolini del Brenta Team e Giulia Compagnoni del Centro sportivo Esercito.

LA CRONACA - Un Magnini senza rivali, dunque, al termine dei 1.384 metri di dislivello positivo, con quattro salite ed altrettante discese, capace di gestire le energie su un percorso che conosce alla perfezione, visto che aveva contribuito anche all'opera di tracciatura. Il suo tempo finale è risultato di 1h26’35”, una prestazione importante, visto che ha inflitto 5 minuti esatti al valtellinese Nicolò Ernesto Canclini, mentre il bronzo è andato al collo di Andrea Prandi, pure dello Sci club Alta Valtellina, a 53 secondi dall’argento.
Senza storia anche la sfida under 23 femminile: la valtellinese di Albosaggia Giulia Murada è rimasta sempre al comando, dal primo all’ultimo chilometro, concludendo la prova con il tempo di 1h18’23” dopo aver affrontato 1.098 metri di dislivello con tre salite e tre discese, precedendo di 5 minuti e 25 secondi la fassana Giorgia Felicetti, mentre in terza piazza, con un distacco importante, è giunta Marianna Mondini dell’Adamello Ski.
Perentoria l’affermazione del vicentino di Schio Matteo Sostizzo nella categoria Junior, dove ha lasciato sfogare gli avversari nel pianoro iniziale sullo stesso tracciato delle under 23 donne, per poi imprimere un ritmo irresistibile già nella prima salita, guadagnando la testa della corsa e mantenendola fino al traguardo, dove è giunto con un tempo di 1h07’33”, precedendo di 1’33” Pietro Festini Purlan dell’US Val Padola, mentre sul terzo gradino del podio si è piazzato Alessandro Gadola del Valtartano.
Giornata di rivincite invece per Lisa Moreschini di Peio, paese a pochi chilometri da Vermiglio, che su un tracciato di 714 metri di dislivello a lei congeniale e provato nei giorni precedenti, è riuscita a sfruttare al meglio le proprie caratteristiche. Ha imposto il proprio ritmo sin dalla prima salita, riuscendo a staccare la forte rivale valtellinese Samantha Bertolina. Sul traguardo la portacolori del Monte Giner ha chiuso con il tempo di 1h08’58”, precedendo di 3’28” l’alfiera dello Sci club Alta Valtellina, mentre terza, a quasi 8 minuti è giunta Silvia Berra della Polisportiva Albosaggia.

Passando ai Cadetti, Luca Vanotti dell’Albosaggia ha calato il tris al termine dei 714 metri di dislivello, aggiudicandosi il terzo oro su tre gare tricolori quest’anno. Sul traguardo ha preceduto di 55 secondi Gabriele Bardea dell’ASD Lanzada, quindi terzo si è piazzato Tommaso Colombini della Polisportiva Albosaggia. Fra le donne (520 metri di dislivello) primo titolo tricolore per Erika Sanelli del Premana, capace di concludere la sua prova con il tempo di 37’10”, precedendo di un minuto Noemi Gianola del Premana, con Nicole Valle della Polisportiva Albosaggia bronzo.

 


Lo Snow Safety Event Ortovox-Garmin a Livigno

Ortovox ormai da sette anni propone agli appassionati di montagna invernale, nell’ambito del suo programma Safety Academy, corsi ed eventi legati alla sicurezza su neve: i Corsi Safety Academy, le Safety Nights e i Safety Eventsportati avanti in collaborazione con i negozi più tecnici. Tutti questi sono coordinati e gestiti dalle guide alpine UIAGM partners di ORTOVOX, a garanzia della massima qualità e uniformità didattica e operativa su tutto l’arco alpino.

Il prossimo appuntamento è Livigno Snow Safety Event, in programma sabato 18 gennaio, organizzato da Ortovox in collaborazione con alcuni rivenditori tecnici:
Mountain Planet         https://www.mountainplanet.eu/
Silene Sport                http://www.silenesport.it/
Zinermann                  https://www.zinermann.it/

Il Livigno Snow Safety Event sarà uno degli eventi sicurezza della stagione invernale 2020, realizzati nell’ambito della collaborazione con Garmin che sarà presente con il suo staff tecnico per la presentazione dei suoi prodotti e in particolare dell’ultimo dispositivo nato, il GPSMAP 66i. Sarà l’occasione per scoprire in dettaglio il prodotto e per vederlo in azione in uno degli ambiti – la montagna – in cui il suo supporto può rivelarsi di vitale importanza.

La giornata prevede una parte indoor presso la sala conferenze di Plaza Plachéda (APT di Livigno) https://www.livigno.eu/plaza-placheda.

IL PROGRAMMA DI MASSIMA
Ore 8.00         Ritrovo dei partecipanti presso la sala conferenze.
Ore 8.30         Apertura evento e presentazione
Ore 8.45         Presentazione Garmin®
Ore 9.30         Teoria sui temi della sicurezza su neve su protocollo Ortovox Safety Academy
Ore 10.00       Fine parte indoor
Coffee break
Ore 10.30       Trasferimento sugli impianti di Carosello 3000 (https://www.carosello3000.com/it/) e inizio giornata sulla neve. Durante la giornata verranno effettuate discese fuoripista guidate dalle Guide UIAGM del Pro Team, esercitazioni di ricerca, sondaggio e scavo di sepolti in valanga e messi in pratica i protocolli dell’autosoccorso.
Ore 15.30       Chiusura dell’evento.

ISCRIZIONI
Le iscrizioni, limitate a un massimo di 25 persone, sono aperte fino all’11 gennaio. Potranno essere fatte presso i negozi partner negli orari d’apertura o inviando un’email di richiesta a: manuel@outback.it


Stian Hagen, i miei primi 40 anni

Stian Hagen è uno dei pro skier più anziani ancora in attività. Insieme a leggende come Mike Douglas e Chris Davenport fa parte di questo mondo da più di un ventennio e non sembra avere nessuna intenzione di rallentare. Stian Hagen è lo ski bum che non ha mai rinunciato al suo sogno. È arrivato la prima volta a Chamonix con i suoi genitori, Unn e Finn Hagen, quando aveva 12 anni.

«Era estate e facevamo hiking. Ero totalmente rapito dalle montagne ma allora praticavo prevalentemente salto con gli sci e sci di fondo e quindi il free skiing non faceva in alcun modo parte della mia vita».

Stian torna a Chamonix a 19 anni con gli amici per una settimana bianca e, questa volta, l’impatto è dirompente. L'inverno successivo carica i bagagli nella sua Fiat ridotta male e guida fino a Chamonix per la prima stagione invernale da ski bum nella valle.

«I primi anni ho vissuto in una tenda all’Argentière per alcun mesi ogni inverno; sciavo tutti i giorni e conducevo una vita molto semplice. Mi alzavo la mattina, raggiungevo gli impianti e disegnavo curve con chi incontravo in montagna. La maggior parte delle persone aveva a mala pena un telefono prima dell'avvento dei social media quindi tutto era molto più spontaneo».

«Sono molto grato per le esperienze vissute e per il modo in cui le ho vissute. È stato fantastico vivere le prime stagioni invernali esclusivamente per me stesso, senza alcuna pressione degli sponsor, dei social media o di chiunque altro; potermi concentrare sullo sci e lavorare sui miei progressi».

Stian sciava tanto, ogni giorno, diventando sempre più bravo. Molto bravo. Era un telemarker quando arrivò a Chamonix ma già alla seconda stagione passò a sci e scarponi tradizionali. Si rese conto subito che l’attrezzatura per il telemark non gli avrebbe permesso di migliorare il suo modo di sciare e di affrontare le linee di ripido che aveva iniziato a frequentare. Una decisione saggia, visto come sono andate le cose. A quel tempo era una delle poche persone che sciavano sulle discese classiche del ripido nel massiccio del Monte Bianco come Mallory, Gervasutti e Colouir Jager.

«Oggi sciare sulla faccia nord dell’Anguille di Midi o su qualsiasi altra classica discesa ripida non rappresenta più una grande sfida per le persone. È spaventoso come tutto sia cambiato nel corso degli anni. Non fa per me, non mi interessa rischiare che qualcuno mi piombi addosso».

Stian parla spesso del tempo di esposizione: se ti trovi in montagna per molto tempo, sei dentro un elemento pericoloso che non può essere controllato.

«È importante sentirsi a proprio agio nel dire di no ed essere orgogliosi di aver preso una decisione prudente, essere tornati indietro o avere scelto un percorso più sicuro».

«15 anni fa, ero completamente selvaggio, non c'è dubbio al riguardo. Ho corso molti rischi, cercando di mettermi in mostra e di farmi un nome. Tipico per un ragazzo sui 20 anni, credo. Non ero totalmente al sicuro e cercavo l'adrenalina».

L’industria dello sci ha vissuto alcuni momenti difficili durante gli anni Novanta, all'ombra dello snowboard che esplodeva, attirando tutta l'attenzione. Però, proprio mentre Stian iniziava a imporsi come uno degli sciatori più completi della valle di Chamonix, il boom del free skiing stava per decollare. E improvvisamente tutti i marchi hanno riscoperto l’enorme potenziale degli sci in versione freeride.

«Fu del tutto fortuito per me, non avevo mai pianificato o immaginato di diventare uno sciatore professionista, è accaduto per caso. Sono stato molto fortunato e ne ho approfittato. Oggi sembra che i bambini abbiano già un piano a 12 anni e che sappiano esattamente quello che vogliono».

Nel corso di più di 10 anni, Stian è stato il protagonista di alcuni film per la Matchstick Productions e per altri produttori. Era, ed è ancora, l'unico sciatore big mountain norvegese star del cinema off piste. Per più di 20 anni è stato uno degli sciatori preferiti da alcuni dei migliori fotografi di sci e non si contano le riviste in tutto il mondo che hanno realizzato copertine con lui. È ancora un freeskier, ma in questa fase della sua vita lavora più come consulente e come sviluppatore di prodotti per i marchi che rappresenta.

«Mi sono sempre interessato all’attrezzatura, quindi avere la possibilità di lavorare con alcune delle aziende leader nel settore dello sci per sviluppare nuovi prodotti è sia divertente che appagante».

Forse è stata solo una transizione naturale in una lunga carriera, ma probabilmente anche la famiglia ha avuto la sua parte in questa scelta. Stian ha incontrato sua moglie Andrea Binning già nel 1999 quando è venuta a Chamonix per trascorrere un inverno ai piedi del Monte Bianco. Anche lei era una pro skier e la coppia ha condiviso tante avventure in montagna per molti anni. Andrea ha deciso di abbandonare la vita da sciatrice professionista sei anni fa, dopo la nascita del figlio Aksel. Adesso la coppia ha anche una figlia, Camilla, di tre anni.

«Il mio atteggiamento verso le montagne e il rischio è gradualmente cambiato. Quando vedi morire amici e persone nella tua comunità, ovviamente, diventi sempre più consapevole. Con i bambini e la famiglia che ti aspettano la cosa più importante alla fine della giornata è tornare a casa tutto intero».

A un certo punto Stian decise di provare a diventare Guida alpina, principalmente perché un suo amico si era iscritto al corso.

«Era un po’ un piano di riserva, qualcosa da fare dopo la carriera da sciatore. Non avrei mai pensato che sarei stato in grado di continuare a essere un pro skier dopo i 30 anni e sicuramente non dopo i 40. Fortunatamente ho continuato a fare lo sciatore professionista quindi, sinceramente, non ho lavorato molto come Guida». (ride)

«Però è bello avere il patentino in tasca. Sarà sempre possibile guadagnarsi da vivere facendo la Guida alpina qui a Chamonix. Avere questa possibilità mi ha dato una sicurezza in più per continuare nella mia carriera come sciatore, specialmente ora che abbiamo due figli. Posso sempre passare a fare la Guida se qualcosa dovesse andare storto e continuare a mantenere la mia famiglia».

Stian ha certamente fatto buon uso della sua formazione come Guida alpina quando ha aperto la Jotunheimen Haute Route qualche anno fa. È una Haute Route che attraversa il massiccio più alto della Norvegia, toccando i punti più alti al Galdhøpiggen (2.469 m) e al Glittertind (2.465 m). Il percorso collega sei stazioni di montagna, misura 77 chilometri e 7.208 metri di dislivello positivo. Fu durante un viaggio sulla catena dell’Atlante, in Marocco, che Stian e un amico ebbero l'idea della Jotunheimen Haute Route.

«Ci siamo resi conto che la Norvegia, nonostante le enormi opportunità per lo scialpinismo, non aveva un tour che collegasse le nostre vette più alte. Era davvero giunto il momento di fare qualcosa, così abbiamo progettato un giro di prova e ha subito funzionato perché c’erano già i rifugi necessari tra una tappa e l’altra».

La Jotunheimen Haute Route è diventata velocemente una haute route di successo e, dopo quasi cinque anni, migliaia di persone la percorrono ogni inverno. Due anni fa Stian ha scritto anche una guida per la casa editrice Fri Flyt che ovviamente ha contribuito a fare conoscere il percorso e a renderlo ancora più famoso.

Stian, che ora ha 42 anni, si sta destreggiando tra il ruolo di pro skier e uomo di famiglia. E non immagina di modificare la propria vita ma di andare avanti nello stesso modo.

«Mi piace davvero trovarmi nel punto dove mi trovo ora e tra cinque anni penso che starò esattamente qui. Mi diverte partecipare allo sviluppo di un prodotto, testare i prodotti e, ovviamente, tutto ciò che riguarda lo sci. Penso che le aziende abbiano capito che hanno bisogno di diversi personaggi come ambasciatori, quindi anche una vecchia carretta come me potrà ancora avere un posto nell'industria dello sci».

Originario di Oslo, classe 1974, con un passato come atleta giovanile nel salto con gli sci e nel fondo, Stian è stato una delle leggende del freeski e dello sci ripido quando in pochi affrontavano i couloir più ripidi del Monte Bianco. Ha anche partecipato per un paio di anni al Freeride World Tour, ma si è subito trovato più a suo agio come star dei film off piste di case produttrici del calibro di Matchstick Productions o Warren Miller.

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© Mattias Fredriksson

C’era una volta il west

Monaco di Baviera, Ispo 2018. Ormai da qualche anno, se vai all’Ispo, vedi freeride ovunque. Non c’è marchio, non c’è padiglione in cui almeno una delle foto utilizzate negli stand non ritragga uno sciatore immerso nella polvere con un completo colorato addosso. Qua e là product manager impacciati che parlano di rocker e sci larghi a clienti che li ascoltano annuendo, ignorando il fatto che fino a ieri per loro lo sciatore di riferimento era Alberto Tomba, mica Shane McConkey. I più ribelli, al massimo, tifavano Bode Miller.

Nei comprensori la scena non cambia molto: appena nevica spuntano sciatori che in settimana si fanno la barba ogni mattina prima di andare in ufficio e che nel weekend, da un paio di stagioni, girano a bordo pista con le braghe larghe e i twin tip rubati ai figli ululando steep and deep, ma alla fine le tracce che lasciano sono le stesse serpentine che si facevano già negli ’80. Tutti che fanno i freerider, ma pochi in fondo accetterebbero di esserlo per davvero. A tanti, invece, del destino del freeride frega poco o niente, il suo spirito può essere sacrificato in nome di qualche like sui social.

SCKREEECH. Freniamo tutti un attimo, per favore. Consumatori, brand, addetti ai lavori, anche noi giornali. Intendo proprio tutti. Che se si continua così il freeride muore per davvero. Abbiamo perso la bussola, ci siamo dimenticati quali sono le cose che contano quando si va a sciare. Abbiamo cominciato a preoccuparci più degli abbinamenti tra gusci e pantaloni piuttosto che di come arrivare a quel pendio rimasto vergine dopo l’ultima nevicata. O a imparare a memoria le geometrie degli sci che usciranno fra cinque anni, scordandoci che quelli dell’anno scorso vanno ancora benissimo e un paio nuovo costa almeno quanto lo skipass stagionale di una qualunque località. Tranquilli, ci sono anche io tra di voi, ci si fa compagnia nello smarrimento causato dalle insidie del marketing e dall’ansia da follower su Instagram, che se alla domenica sera non si pubblica una foto di deep powder abbiamo sprecato il weekend e potevamo anche starcene a casa.

A fine febbraio ho deciso di curarmi. La meta del mio rehab era una valle nell’Ovest, dove il freeride esiste da più di vent’anni e non è stato inventato ieri da un marketing manager di una multinazionale, dove lo sci libero non lo si pratica, lo si vive in tutti i suoi eccessi e i sacrifici che ti richiede. Dove tra l’essere e l’apparire si sceglie lo sciare, e se la neve è bella magari al lavoro ci si va un’altra volta, pazienza se il conto in banca a fine mese piange. Così sono andato a disintossicarmi a Gressoney da Zeo e i suoi amici, alla Baitella.

The Baitella State of Mind

La storia della Baitella è legata strettamente a quella di Zeo, che a Ondro Lommato, la frazione nella quale si trova, ci arrivò nel 1994. All’epoca frequentatore dell’ambiente dei centri sociali, il milanese Zeo si innamorò del posto e assieme agli amici cominciò poco alla volta a trasformarla in una specie di casa comune, dove trascorrere l’inverno e ospitare chi passava di qua per sciare. È impossibile tenere la conta di chi ha soggiornato nel corso degli anni, magari risvegliandosi con la testa che rimbombava dopo una serata di bisboccia. La leggenda della Baitella si è accresciuta quando il proprietario, inconsapevolmente, si è ritrovato a ricoprire anche il ruolo di local di riferimento dei rider stranieri che venivano a filmare ski movie sul Monte Rosa, innamorandosi a loro volta della Valle del Lys. Appena dopo la porta di ingresso c’è un muro sul quale gli ospiti lasciano una dedica, seria quanto basta. In alto a destra ci sono quelle di Chris Bentchetler, di Sean e Callum Pettit (ski you later, ha scritto), quella di Eric Pollard che ha anche disegnato uno dei suoi alberi, gli stessi presenti sulle serigrafie dei Line Skis, quando era stato qui per alcune scene di After the Sky Fall. E poi ci sono quelle della troupe di DPS, che qui ha filmato il cortometraggio Reverie in condizioni nevose da antologia. Gli amici italiani, poco più in là sullo stucco bianco, gli hanno detto ciano firmandosi come Riders de noartri.

© Federico Ravassard

La Baitella è stata per me il posto giusto da cui ricominciare la disintossicazione. Se dovessi pensare a quali sono i valori del freeride, ammesso che li si possa definire tali, beh, tanti di questi li ritrovo in Zeo. La condivisione, prima di tutto: condividere con qualcuno le proprie idee e i propri luoghi. Portare i nuovi amici nei propri secret spot, sperando che poi l’ubicazione di questi ultimi venga divulgata solo ai più meritevoli (a proposito: in questo reportage non troverete i nomi delle discese fotografate, sarebbe troppo facile leggerle su un giornale e andare a ripeterle dopo una nevicata. Mi spiace, ma i local mi hanno detto che sanno dove abita la mia famiglia…). Ma anche la consapevolezza dell’ambiente che ci circonda, l’essere consci che le Alpi non sono messe bene, e che tutti dovremmo impegnarci un pochetto per preservarle. Perlomeno per permettere ai nostri figli di provare l’ebbrezza della powder nei boschi sotto i 2.000 metri, ecco. E, soprattutto, l’essere presi bene. Che è una forma più forte dell’essere entusiasti, senza sfociare tuttavia nell’essere ossessionati. Essere presi bene significa fare l’ultima pellata partendo alle cinque del pomeriggio, per il semplice godere della luce e della neve, e non perché bisogna accumulare dislivello a tutti i costi. E poi magari, i giorni in cui fa brutto, starsene a poltrire a casa senza sentirsi in colpa, lasciando gli ossessionati a perdersi nella nebbia al posto nostro.

Ho poi conosciuto l’ecosistema di Gressoney del quale Zeo fa parte: una tribù eterogenea di indigeni della Valle del Lys della quale fanno parte Maestri, Guide, aspiranti Guide, fotografi di montagna, ma anche amatori che nella vita fanno tutt’altro. Età indefinita, dai venti agli over sessanta. Se li vedi da fuori non lo diresti neanche che passano le giornate a sciare insieme: qualcuno gira con padelloni da 120 millimetri sotto il piede, altri con degli assi che avranno sì e no quindici anni e oggi andrebbero bene per le gare. Abbigliamento, idem: si va da un estremo all’altro, dal tutone alla tutina. Ad accomunarli, però, sono le scelte che hanno fatto per arrivare fin qui, tutte mirate al poter trascorrere il maggior tempo possibile in montagna, rinunciando magari ai lussi di una vita e di un lavoro normali in cambio del potersi svegliare col Monte Rosa fuori dalla finestra. Era qui che volevo arrivare: il freeride non è una pratica e nemmeno un modo di vestirsi o di sciare. Il freeride è un percorso di vita.

  1. Weissmatten

Spesso trascurata a favore degli impianti di Gressoney La Trinité, quest’area dispone di una sola seggiovia biposto e, apparentemente. di pochi pendii accessibili dalla cima. Ma basta aver voglia di mettere le pelli anche solo per pochi minuti che si sblocca un mondo fatto di ripidi lariceti, riparati dalla folla che gira a Punta Jolanda, decisamente più frequentata. Prima regola del freeride, cercare sempre il pendio vergine, giusto?

© Federico Ravassard
  1. Il trasformista Andrea Gallo

Climber, fotografo, pioniere giornalista, sciatore-autore, videomaker della scena rap italiana: Andrea Gallo è stato ed è tutto questo. Negli anni ’80 Andrea fu uno dei più forti arrampicatori italiani, autore delle prime salite di pietre miliari del freeclimbing sparse tra Piemonte e Liguria. Basti pensare che la sua Hyaena, gradata solo 8b+, fa notizia ancora adesso quando viene ripetuta. Fu poi uno dei primi a credere nel paradiso outdoor di Finale Ligure, contribuendo attivamente al suo sviluppo e aprendo il primo negozio di attrezzatura da montagna in quella che era una cittadina della riviera ligure. Poi tornò su nelle montagne di casa, a Gressoney, dove partecipò alla stesura della prima guida di freeride della zona, Polvere Rosa. Come il serpente dell’Eden, Andrea continuò a tentare il resto del mondo rompendo gli schemi. Intramontabile lo speciale Freerider che curò per la rivista Alp nel 1999, dove scrisse delle attività libere dagli schemi che in futuro sarebbero state catalizzatrici dello stantio mondo della montagna: in quel numero si parlava di bouldering, di skibum a Chamonix, di drytooling e, ovviamente, di Gressoney.

© Federico Ravassard
  1. Una Malfatta ben fatta

Il Vallone della Malfatta è una delle discese più conosciute che da Punta Indren scendono sul lato valsesiano del Monte Rosa. Solitamente vi si accede tramite un canale che richiede una calata, o perlomeno di essere disarrampicato. Solitamente. Con Zeo e il Camicia l’abbiamo sciato in tutto il suo splendore, accedendoci sci ai piedi e lasciando le nostre firme nello zucchero, in una giornata in cui il cielo era quello che gli americani - che hanno un neologismo cool per qualsiasi cosa - definirebbero bluebird. Discese classiche come questa in queste condizioni richiedono essenzialmente un requisito: essere lì, in settimana, dopo una nevicata e alla prima funivia… tutto il resto sono chiacchiere da bar.

© Federico Ravassard
  1. Il Circo Barnum al Lago del Gabiet

Più si è, meglio è. Un giorno ci siamo ritrovati a pellare dalla diga del Gabiet in undici, in una bolgia colorata con poche idee in testa ma molto chiare: trovare abbastanza pendii immacolati per tutti. In testa il solitario Camicia, che non solo voleva battere tutta la traccia da solo, ma respingeva anche chi si offriva di dare il cambio a questo intagliatore che un giorno, da solo e per sfizio, aveva pellato per 5.100 metri di dislivello. Dietro, a seguire, il carrozzone del Circo Barnum: il più giovane era il ventunenne rasta Mattia, che per l’occasione aveva un paio di Dynafit al posto dei twin-tip da park; il più, ehm, saggio era Paolo, ormai in pensione. Gente che aveva fatto il Mezzalama mischiata ad altri che in salita facevano le pause a suon di sigarette e vin brulé, mischiata ad altri ancora che le pause non le facevano proprio perché erano i giorni di Burian e la temperatura a dir poco tonica. Chiedetelo a Zeo, che si è dovuto far prestare un phon al bar per scaldare le pelli ghiacciate.

© Federico Ravassard
  1. Sciare la luce

È successo anche di partire per l’ultima pellata all’ora in cui il sole stava per scomparire, salendo con il filo dell’ombra che seguiva poco più a valle. Faceva così freddo che i cristalli di neve non si legavano l’uno all’altro, ma rimanevano lì, sospesi nell’aria a luccicare come polvere d’oro. Davanti a me a battere la traccia c’erano il Camicia e i fratelli Thedy, dietro Zeo e Mattia. Con me era rimasto Francio, che saliva con calma trascinandosi dietro scarponi da pista e sci da 124 mm al centro. Abbiamo spellato proprio mentre il sole stava calando, il primo a danzare nella luce è stato il Camicia, mentre Francio si gustava una sigaretta rollata a meno venti.

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© Federico Ravassard

Arnold Lunn, una vita per lo sci

L'evoluzione dello sci, dall'inizio del Novecento fino allo sviluppo dello sci di massa, ha avuto nell'inglese Arnold Lunn il suo massimo artefice. Lunn ci ha lasciato una mole di libri e di saggi sullo sci (e non solo: parecchie sono le sue opere di pensiero e di filosofia) di grande importanza. Inoltre, gli annuari del The British Ski Year Book, di cui è stato direttore dal 1920 al 1971, sono una fonte imprescindibile di informazioni per chi si interessa alla storia dello sci moderno. È anche stato il direttore di The Alpine Ski Club Annual dal 1908 al 1912. I suoi scritti coprono un arco temporale di oltre sessanta anni e riflettono i grandi cambiamenti avvenuti nello sci dalla fine dell'Ottocento al 1974, anno in cui ci lasciò, a ottantasei anni. Lunn giocò anche un ruolo molto fondamentale in questi cambiamenti: l'evoluzione dello sci risulta infatti intimamente collegata a quella del suo pensiero. Viene soprattutto ricordato per il forte contributo che ha dato al discesismo competitivo, con l'invenzione dello slalom speciale e dell'Arlberg Kandahar, la mitica gara di combinata fra discesa libera e slalom che fino agli anni Settanta ha rappresentato il trofeo più prestigioso per uno sciatore alpino. Noi vogliamo però ricordarlo anche come grande sciatore di montagna. È davvero peculiare che, mentre si batteva per fare della discesa e dello slalom una disciplina olimpica, sia stato anche un appassionato cultore dell'alpinismo con gli sci, con numerosissime imprese da inserire nell'albo d'oro dello scialpinismo: basti citare la prima all’Eiger (3.970 m) e al Dom de Mischabel (4.545 m). Si può dire che Lunn iniziò a sciare facendo scialpinismo e continuò a farlo ad altissimo livello per tutta la sua lunga vita.

Scialpinismo e gare di sci alpino rappresentano due mondi che, salvo eccezioni, risultano oggi piuttosto distanti. Ma per Lunn non era affatto così. Egli era uno sciatore completo, amava ogni cosa dello sci, salvo indignarsi di fronte alla piega consumistica assunta dallo sci di massa e non condividere le tendenze dell'agonismo negli ultimi anni della sua intensa vita. Peculiare, direi unica, rimane la sua capacità di essere stato l'appassionato artefice dello sviluppo di due modi di vivere lo sci che con il tempo si sono distanziati sempre di più uno dall'altro. Ricordando le principali tappe della sua lunga vita vediamo di capire il segreto di questa felice sintesi.

Dall’India a Mürren

Arnold Lunn nasce a Madras in India nel 1888, il padre Henry è medico e pastore metodista. Rientrato in Inghilterra nel 1892 con la famiglia, Henry organizza a Grindelwald in Svizzera un incontro fra pastori metodisti, anglicani e non conformisti per tentare un'utopistica unificazione. Ovviamente non risolve nulla ma scopre le sue indubbie doti di organizzatore di viaggi. Abbandona quindi la professione di medico e costituisce la Sir Henry Lunn Ltd, un'agenzia specializzata nell'offrire agli inglesi facoltosi soggiorni nelle prime stazioni invernali svizzere, da Adelboden a Wengen, da Montana a Mürren. Nel 1905 crea la Public Schools Alpine Sports Club, che sarebbe diventata la più importante agenzia specializzata nelle vacanze invernali della Svizzera. Lo sci è una novità che interessa i ricchi inglesi e Henry, che non è uno sciatore, ha subito grande successo. Il figlio Arnold inizia a sciare a dieci anni, a Chamonix. Nasce spontanea in lui una grande passione per la montagna e per lo sci che non lo abbandonerà più per tutta la vita. Studente a Oxford, a venti anni fonda l'Alpine Ski Club, del quale il celebre alpinista e critico d’arte Martin William Conway fu il primo presidente. Neppure un grave infortunio a 21 anni durante un'arrampicata in Galles, in cui rischia di perdere una gamba, che rimarrà per sempre più corta dell'altra, mette fine alla sua passione per lo sci. Appena cade la neve in autunno, Arnold si trasferisce a Mürren per rimanerci fino a tarda primavera. La meravigliosa stazione dell'Oberland Bernese in cui si arriva, come a Wengen, solo con il treno a cremagliera, diventa la sua patria adottiva. A Mürren la Henry Lunn Ltd acquista il prestigioso Hotel des Alpes, diventato poi Palace Hotel. La camera numero 4 diventa il celebre ufficio, caotico e disordinato, di Arnold.  In esso si svolgono le storiche riunioni che danno vita allo sci moderno.

Nel 1911 Arnold Lunn si reca a Montana (1.500 m), una stazione di sci del Vallese, su invito di Frederick Roberts, conte di Kandahar e Waterford, famoso vincitore della battaglia di Qandahār in Afghanistan e vice-presidente del Public Schools Alpine Sports Club, per collaborare al primo Roberts of Kandahar, la gara di discesa su terreno non battuto da lui inventata. Una gara di ben 1.500 metri di dislivello, con una parte di salita all'inizio per attraversare la Weisshornlücke (2.852 m) e il Rezlipass (2.830 m). Particolare da non sottovalutare: il punto di partenza, il rifugio Wildstrubel (2.791 m), viene raggiunto dai concorrenti in sei ore, il giorno prima della gara. Dieci membri del Public Schools sopra menzionato partecipano alla gara, vince Cecil Hopkinson in 61 minuti: è la prima volta che si misura il tempo in una gara di questo tipo. Lunn si rende subito conto del fascino e dell'importanza di una sfida così completa, antesignana di quelle attuali di freeride, e ottiene di effettuare il Roberts of Kandahar a Mürren nei successivi tre anni, immediatamente prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. Lunn intervalla l'attività di promotore dello sci in Svizzera e ideatore di nuove gare con un'attività scialpinistica di prim'ordine. Nel febbraio 1908 compie, senza guide, insieme a Cecil Hilton Wybergh, anche lui membro del Public Schools Alpine Sports Club, un raid in sci di quattro giorni da Montana a Villars, attraverso i massicci del Wildstrubel e dei Diablerets. Sono anni in cui si tracciano con grande entusiasmo nuove grandi traversate con gli sci, come la Chamonix-Zermatt ad opera della guida Joseph Ravanel, nel gennaio 1909, con altre tre guide e due clienti. Lunn non è certo da meno e dal 2 al 7 gennaio 1912 effettua una grande traversata delle Alpi Bernesi da Kandersteg a Meiringen. Sono con lui il famoso professor François-Frédéric Roget (compagno delle prime gite di un altro grande: Marcel Kurz...) e tre portatori: Arnold Schmid, Christian Gyger e ‘Adolf’. Per quest'ultimo Lunn non scrive il cognome: nella sua relazione The Oberland from End to End sul The Alpine Ski Club Annual lo descrive come «il peggiore sciatore (ski-runner) e il peggiore portatore che ho avuto la sfortuna di incontrare». Per completezza aggiungiamo che Theodor Lalbermatten ha portato lo zaino del prof. Roget da Kippel al rifugio sopra Lótschenlücke, oggi chiamato capanna Hollandia.

Nel 1910 Arnold Lunn pubblica il primo volume di The Alpine Ski Club Guides: The Bernese Oberland, il massiccio da lui prediletto in cui ritornerà a più riprese. Il magistrale resoconto di Lunn di un'altra traversata primaverile dell'Oberland, dallo Jungfraujoch (già servito dalla ferrovia, dal 1912) a Meiringen, viene pubblicato nel libro Alpinismo invernale di Marcel Kurz. Lunn e Kurz, i due grandi dell'età d'oro e d'argento dello scialpinismo, si conoscono e si stimano, ma il caso vuole che non riescano mai a fare una gita o una traversata insieme. Nel 1913 Arnold Lunn pubblica Ski-ing, in cui introduce nelle gare di discesa il divieto di frenare con i bastoncini. Erano i tempi in cui nei punti difficili si preferiva spesso cadere anziché frenare. Per questo Vivien Caulfield, autore di How to Ski and How Not To del 1910 aveva inventato le gare no-fall, in cui vinceva chi riusciva a cadere meno! Come ricorda Daniel Anker su Der Schneehase-Jahrbuch des Schweizerischen Akademischen Skiclubs vol 37, 2002-2007, in quegli anni, oltre a Lunn e Caulfeild, diedero una notevole spinta allo sviluppo dello sci Rickmers con il suo Ski-ing for Beginners and Mountaineers (1910) e Richardson con The Ski-Runner (1910).

Sempre nel 1913 Arnold Lunn sposa Mabel Northcote. Bella, dolce, elegante, Mabel non è un’alpinista ma si innamora presto dello sci. Inizia una bella vita di coppia nella montagna bianca, un lungo viaggio durante il quale nascono i loro tre figli: Peter, Jaqueta e John. Mabel è di fede anglicana, lui è agnostico ma non rimarrà tale per tutta la vita. Nel 1916 Lunn fa conoscenza con un ragazzo di Mürren di quattordici anni che scia velocissimo a telemark, lasciando sulla neve tracce perfette. Si chiama Walter Amstutz ed è destinato a diventare uno dei suoi più cari amici e uno dei più famosi sciatori di tutti i tempi. Ideatore del Kl (chilometro lanciato, oggi speed skiing o sci di velocità), Amstutz va anche ricordato per l’invenzione delle famose lunghe molle che, collegando la parte posteriore dello scarpone allo sci, permettono di controllare meglio il tallone: le famose Amstutz-Feder o molle Amstutz. Il 18 giugno 1917, insieme alla guida Josef Knubel, Lunn compie la sua scialpinistica capolavoro arrivando, sci ai piedi, sul Dom de Mischabel (4.545 m), la cima più alta che si trova integralmente in Svizzera. Ancora oggi il Dom rappresenta uno dei traguardi più ambiti per gli scialpinisti di alto livello.

Nel 1921, un anno dopo aver effettuato, sempre con la guida Knubel, le prime scialpinistiche al Weisshorn (4.506 m, lasciando gli sci alla base delle rocce della cresta a 3.450 m) e al Brunegghorn (3.833 m), Lunn pubblica uno dei suoi libri più belli e innovativi: Alpine Skiing at All Heights and Seasons. Si tratta di un'analisi dello sci nelle quattro stagioni, con la primavera che primeggia sulle altre, come epoca ideale per lo sci. Il terzo capitolo, Spring Ski-ing, è un piccolo capolavoro di fondamentale importanza per chi considera lo sci qualcosa più di uno sport. Sempre nel 1921, a dimostrazione dell'eclettismo di Lunn, escono i primi articoli e disegni sul suo slalom, come gara di destrezza e velocità fra un ostacolo e l'altro. Prima di allora Mathias Zdarsky aveva già organizzato, nel 1905, una gara con passaggi obbligati sul Muckenkogel di Lilienfeld in Austria: l'obiettivo in quel caso non era il mantenimento della velocità ma la sua riduzione. Il primo slalom moderno ha luogo a Mürren nel 1922 e un articolo di Lunn su The British Year Book ne sottolinea la filosofia e il successo. Nel 1923 Mabel fonda il Ladies Ski Club, destinato a esercitare una grande influenza nello sviluppo dello sci femminile e a portare la squadra inglese a dominare in tutte le gare dell’epoca. Il 18 maggio 1924, come reazione alla prima Olimpiade invernale di Chamonix in cui sono presenti solo le discipline nordiche, Lunn fonda il Kandahar Ski Club e organizza la prima gara internazionale di discesa e slalom. Nella stessa stagione sale con Amstutz, Richardet e Amacher l'Eiger (3.970 m), portando gli sci fino allo Nördliches Eigerjoch (3.607 m). È la sua ultima scialpinistica importante, a trentasei anni di età.

Nel 1927 Hannes Schneider, inventore della tecnica dell'Arlberg e fantasioso interprete dei film di sci di Arnold Fanck, invita Lunn a St. Anton: nasce così fra i due un'amicizia e un sodalizio importante che porta all'invenzione dell'Arlberg-Kandahar. Si tratta di una gara di discesa libera e di un successivo slalom in cui l'ordine di partenza riflette la classifica della discesa: in questo modo è possibile, sommando i tempi, individuare nella combinata lo sciatore più completo. Sempre nel 1927 Lunn pubblica la sua prima monumentale History of Ski-ing, una insostituibile fonte di informazioni sulla storia dello sci. Nel 1928 viene organizzata a St. Moritz la seconda Olimpiade invernale, sempre aperta alle sole discipline nordiche. E Lunn e Schneider inventano a St. Anton il primo Arlberg Kandahar, che assume subito il ruolo di maggiore competizione internazionale per le discipline alpine. L’Arlberg Kandahar viene disputato ogni anno dal 1928 al 1970, salvo l'interruzione durante la Seconda Guerra Mondiale, in stazioni diverse: St. Anton, Chamonix, Garmisch-Partenkirchen, Sestriere. All'inizio degli anni Trenta la continua ricerca spirituale di Lunn, che si ritrova nelle sue opere The Flight from Reason (1930) e Difficulties (1932), lo porta ad abbracciare la fede cattolica. La sua prima passione rimane lo sci: sulla copertina della traduzione italiana di Now I see, Ora ci vedo, pubblicata dai salesiani della Sei nel 1937, c’è lui che imbraccia gli sci come una croce.

Grazie alle sue battaglie, la discesa e lo slalom sono finalmente accolti ai Giochi Olimpici del 1936 a Garmisch-Partenkirchen. Siamo però in piena epoca nazista. Lunn partecipa ai giochi come referente per lo slalom e suo figlio Peter è capitano della squadra britannica. Nessuno dei due prende parte alla cerimonia di apertura e al banchetto offerto da Hitler. Nel 1939 Lunn riesce a far raggiungere gli Stati Uniti a Hannes Schneider e famiglia, dopo l'incarcerazione di quest'ultimo senza una chiara motivazione, sostanzialmente perché inviso ai maestri di sci nazisti. Lo fa fingendo di accettare un ricatto: possibilità di espatriare per Schneider e famiglia in contropartita al mantenimento dell'Arlberg-Kandahar a St. Anton. Schneider riesce a partire ma l'Arlberg Kandahar ritornerà a St. Anton con lui solo nel dopoguerra, nel 1949. Nel 1952 Lunn pubblica The Story of Ski-ing una versione aggiornata e parecchio rivista rispetto a quella del 1927. Nel libro cambia idea su molti punti. Prima di tutto sulla tecnica di discesa. Nello stesso anno, per i suoi meriti nel mondo dello sci, viene nominato baronetto. Nel 1959 muore Lady Mable. Due anni dopo Lunn si risposa con la sua segretaria Phyllis Holt-Needham, assistant editor del British Ski Year Book, che non è una grande sciatrice. Era stata Mabel a presentarla ad Arnold e ad affermare che sarebbe stata la persona adatta per prendere un giorno il suo posto nella vita del marito... Nel 1969 Arnold Lunn pubblica la sua ultima opera sullo sci: si tratta di The Kandahar Story: a Tribute on the Occasion of Mürren's Sixtieth Skiing Season. Un tributo alla grande gara da lui ideata e a Mürren, sua patria adottiva. Muore a Londra nel 1974, a ottantasei anni. Il suo ultimo scritto è una poesia che parla della fede, della gioia di sciare e dell'immensa bellezza delle montagne. La traduzione in tedesco dell'amico Walter Amstutz viene affissa nel porticato della chiesa di Mürren.

La storia dello sci secondo Arnold Lunn

La storia dello sci nelle Alpi a suo parere si può dividere in quattro fasi:

  1. l'età dei pionieri 1890-1896
  2. l'età d'oro 1897-1917
  3. l'età d'argento 1918-1927
  4. l'età moderna 1928-1970

La prima è quella delle imprese di fine Ottocento, dalle prime traversate di Christophe Iselin e Conan Doyle con i fratelli Branger, fino alla salita all'Oberalpstock di Wilhelm Paulcke. L'età d'oro si apre con la traversata nell'Oberland Bernese di Paulcke e si chiude con la salita con gli sci fino in cima al Dom de Mischabel dello stesso Lunn. Durante questo periodo Lunn è un fervido sostenitore dello sci norvegese, ossia del telemark, del quale il grande interprete sulle Alpi è senza dubbio Wilhelm Paulcke. Lunn si schiera inizialmente con lui nella querelle con Zdarsky, che con la sua tecnica di Lilienfield propone uno sci più facile da apprendere e più adatto ai terreni alpini ma molto meno elegante. Già nel 1905 si notano però tentativi di creare una tecnica ibrida, con un'attrezzatura che permette di sciare sia secondo la tecnica di Lilienfield che a telemark, quando le condizioni di neve e il pendio si adattano alla sciata norvegese. Una felice sintesi dei due modi di sciare si ritrova nel testo Der alpine Skilauf del 1910, dell'ufficiale dell'esercito austriaco Georg Bilgeri. Con il tempo anche Lunn, già difensore della tecnica norvegese, cambia parzialmente idea e in The Story of Ski-ing del 1952 considera «magistrale» la sintesi di Bilgeri da cui nasce lo sci alpino. Ne segue quindi l'evoluzione che lo porta alla tecnica dell'Arlberg dell'amico Schneider: i suoi talloni sono quasi bloccati per ogni tipo di curva e di neve. Questo cambiamento in Lunn non deve stupire. È giustificato dalla lunghezza dell'arco temporale di riferimento e dalla forte evoluzione che lo contraddistingue.

L'età d'argento è segnata dal successo delle opere di Marcel Kurz e dello stesso Lunn.  Di fondamentale importanza per fare il punto sullo sci di quegli anni sono i volumi Alpinisme hivernal del primo e Alpine Ski-ing at All Heights and Seasons e History of Ski-ing del secondo. Si può notare una perfetta sintonia in molte parti delle due opere. Il periodo d'argento si chiude con l'incontro fra Lunn e Schneider, che con la tecnica dell'Arlberg e i perfetti cristiania sembra avere definitivamente messo in cantina il telemark sulle Alpi. Nei film interpretati da Schneider, da Wunder des Schneeschuhs a Caccia alla volpe in Engadina, da La montagna sacra a L'ebbrezza bianca a fianco di Leni Riefensthal, Schneider mette in evidenza l'eleganza della sua tecnica dell'Arlberg a talloni bloccati. Egli peraltro non considera superato lo sci norvegese, ne riconosce gli aspetti estetici e si limita ad affermare che il suo cristiania si adatta a qualsiasi situazione. L'età moderna secondo Lunn si apre e si chiude con l'Arlberg-Kandahar, la gara perfetta che solo i grandi sciatori completi possono aspirare a vincere. Nell'età moderna lo scialpinismo si apre ai percorsi tecnici e al ripido: con riferimento al suo Oberland, Lunn ricorda la traversata dello Jungfraujoch con discesa sulla Wengernalp del 1939 e quella dell'Eigerjoch con discesa sulla Scheidegg del 1951. Senza dimenticare il raggiungimento con gli sci del Colle di Meade (7.160 m) in Karakorum da parte di Romilly Lisle Holdsworth nel 1931, record di altitudine dell'epoca.

L'età moderna rappresenta per Lunn un lungo periodo felice di soddisfazioni. Ciò non significa però che in questi anni della maturità, proprio lui non si renda conto che lo sci, accanto ai successi sia nel campo della competizione che nello scialpinismo, non stia correndo grossi rischi, con scelte di fondo che lui non condivide. La presa di distanze rispetto allo sci moderno, ossia alla sua stessa creatura, non è solo degli ultimi anni della sua lunga vita. Già nel 1941, in un simposio in cui si parlava di nuovi impianti di risalita, dice che ogni invenzione «dalle automobili alle teleferiche, rompe la barriera che ancora ci protegge dagli orrori della civilizzazione omologata». Lo storico Andrew Denning, nella sua approfondita ricerca Skiing into Modernity del 2015 interpreta le critiche e il pessimismo di Lunn sul futuro dello sci come «lamento di una élite che dallo sci ha avuto molto». Lunn farebbe insomma parte di quella esigua schiera di pionieri «saccenti ed entusiasti» che dovevano allo sci la loro celebrità. Sarà pure così ma non si può non essere d'accordo con Lunn quando afferma, nella sua autobiografia pubblicata nel 1941, che «lo sci è passato attraverso un ciclo spengleriano. È iniziato come cultura e contatto con la natura (...) sciavamo su nevi modellate solo dagli eventi naturali, dal sole, dal vento, da gelo e dal disgelo (...) oggi lottiamo in teleferiche gremite come i ghetti della civiltà metropolitana e la superficie su cui sciamo è dura e artificiale quasi come le pavimentazioni cittadine che nascondono la terra gentile». Frasi del genere, pronunciate oltre settanta anni fa da un uomo che amava profondamente lo sci, hanno il peso di una triste profezia...

Nel 1943 Lunn arriva a dichiarare che gli impianti minano il piacere di sciare. Se la prende anche con la specializzazione e il professionismo che interessa sempre di più il mondo delle gare, con gli atleti che sciano undici mesi all'anno, con le competizioni sempre più veloci e pericolose e sempre più distanti dal pubblico. In un'ultima intervista, rilasciata a Massimo di Marco per la rivista Sciare nel 1971, afferma senza mezzi termini che l'epoca dello sci che sta vivendo non gli piace. Pur dovendo molto del suo successo allo sviluppo dello sci e delle gare non manca di manifestare il pessimismo circa il rapporto fra sci e montagna. La sua negatività è legata in parte all'aver dovuto accettare la fine dell'Arlberg-Kandahar nella originale formula in cui era stato concepito, perché incompatibile con la Coppa del Mondo La sua passione a 360 gradi per il mondo bianco, dal grande scialpinismo alle gare intese come grandi feste dello sci, rimane genuina fino all'ultimo. Davvero un bell’esempio di un grande dello sci, sul quale val la pena meditare.


Miky's way

Riproponiamo l'intervista a Michele Boscacci pubblicata su Skialper 121 di dicembre 2018

«Alla Pierra Menta ho avuto un bel regalo, devo ammetterlo, senza Kilian è stato più facile, avrei preferito vincerla con lui in gara, però fa parte del gioco». Michele Boscacci sta tornando in auto dal Diavolezza, dove macina metri di dislivello e inizia a fare lavoro di qualità a metà di un mese di novembre che ha già alternato in pochi giorni nevicate copiose a temperature quasi estive e la mente va a quell’incredibile mese di marzo dell’ultima stagione quando, nell’arco di tre settimane, ha vinto Epic Ski Tour, Pierra Menta e Tour du Rutor. E prima c’erano stati la Mountain Attack vinta con record, la vittoria al vertical dei Campionati Italiani. Con la ciliegina sulla torta di una Coppa del Mondo overall portata a casa al fotofinish davanti a Robert Antonioli, della vittoria nel circuito La Grande Course e di una Patrouille des Glaciers da record. Altro che triplete. Che poi il tre ci sta, perché Miky arriva da un trittico di stagioni tutte ad altissimo livello, con una precisione da orologio svizzero.

Nel 2016 la prima overall, poi nel 2017 comunque un secondo posto nella generale e il Mezzalama. Nello sport professionistico confermarsi a questi livelli è impresa difficilissima, come fare dieci giri con lo stesso tempo in Formula Uno. «Nel 2016 non mi aspettavo di andare così forte, poi nel 2017 ero convinto dei miei mezzi e mi sono allenato al meglio, stavo bene, anche meglio dell’anno prima, e non si può dire, nella prospettiva di un atleta, che sia stata una brutta stagione, però a gennaio ho fatto una influenza e ho iniziato ad avere problemi ai denti - dice Miky - L’anno scorso mi sono allenato duramente ed è andato tutto perfettamente, fin nei minimi dettagli». Perché sono i dettagli che fanno la differenza. Gira tutto a mille nel motore del valtellinese di Albosaggia al via della stagione 2019, gli è arrivata anche l’Audi che la FISI riserva agli atleti top e La Sportiva, lo sponsor storico, ha rinnovato per altri cinque anni, ampliando la collaborazione alla stagione estiva della corsa tra i monti e coinvolgendolo nello sviluppo non solo dell’attrezzatura, ma anche dell’abbigliamento, oltre naturalmente a vestirlo total look, summer & winter (e a fornirgli gli accessori). Se poi aggiungiamo che si è fidanzato con Alba De Silvestro, cosa chiedere di più?

© Michele Pavana/La Sportiva

«Beh, effettivamente avere la fidanzata che fa il tuo stesso lavoro non è male perché quando vai ad allenarti, anche se non possiamo fare quattro ore insieme perché abbiamo ritmi diversi, però un po’ si sale insieme e poi durante il viaggio in auto possiamo parlare» scherza Miky. Si fa più professionale invece quando parla del rapporto con la casa di Ziano di Fiemme: «Con La Sportiva e soprattutto con Macha, Lorenzo e Giulia (Delladio, rispettivamente presidente e AD di La Sportiva e strategic marketing director, ndr) ho un rapporto che va oltre la collaborazione aziendale e ho praticamente sempre usato scarponi Laspo: mi hanno dato il primo modello in carbonio che ero ancora Junior e con l’ultima firma messa chiuderò la carriera di alto livello sempre con lo stesso marchio». Una dichiarazione d’amore che va oltre il reciproco interesse e una volontà, quella del rinnovo, che è stata subito messa su carta quando Boscacci ha ricevuto offerte importanti per cambiare casacca.

Ma i soldi, nella vita, non sono tutto. Ecco una prima regola della filosofia Boscacci. Poi, oltre al cuore, c’è la testa. «Il segreto per fare tre stagioni così al top? Ci sono tati dettagli, credo però che la testa conti tanto, conta soprattutto quando sei in un periodo no, perché per atleti come noi è veramente un attimo passare dal primo al quinto posto e quando succede è una botta pazzesca per il morale: non bisogna mollare e soprattutto riconoscere che gli avversari forti sono tanti e non si può sempre vincere». E poi c’è la preparazione, anche in questo Miky ha le sue idee, ben precise. Negli ultimi anni non ha cambiato molto, l’idea di fondo è allenarsi tanto soprattutto in autunno, con gli sci, macinare metri su metri per ridurre un po’ la quantità e andare verso la qualità soprattutto da metà novembre. Senza naturalmente sovraccaricare. Facile a dirsi meno a farsi. Eppure Miky è convinto che ci sia un collegamento tra il lavoro fatto e la capacità di mantenere un livello di forma elevato per un periodo relativamente lungo e nel cuore della stagione agonistica. E c’è tanta farina del suo sacco. «Non ho veramente qualcuno che mi segue, ho imparato ad ascoltarmi, a capire quando sono troppo stanco e quando lo sono troppo poco». I dettagli contano e da qualche tempo Boscacci cura particolarmente l’integrazione. «Ho iniziato a usare prodotti Enervit, che è un mio sponsor personale e anche della nazionale. È un dettaglio ma non di poco tempo: nel nostro mondo non c’è ancora la cultura dell’integrazione, invece ci sono momenti nei quali hai bisogno di aiutarti con proteine e sali minerali assimilandoli velocemente e spendendo meno energie». A tavola, però, non si fa mancare nulla, dai carboidrati (meglio a pranzo), a una buona colazione e alla carne (magari la sera). E, tolta la tuta del Centro Sportivo Esercito, non rimane con le mani in mano. Anche questo, dopotutto, fa parte della filosofia Boscacci.

© Michele Pavana/La Sportiva

«Mi sono sempre piaciuti gli animali ma, a parte mio bisnonno, in famiglia non avevamo una stalla, poi da quando sono nell’Esercito sono diventato anche allevatore e ora ho una decina di mucche: è un lavoro duro, ma mi aiuta a staccare perché altrimenti finisci sempre col parlare di allenamenti e poi è il mio modo di sentirmi legato alla montagna e di viverla in pieno». Tra le mucche della stalla ce ne sono alcune della razza Bruno Alpina, a rischio di estinzione e Michele può contare sull’aiuto di nonno Umberto: «Senza di lui, che mi segue anche alle gare più importanti, non ce la potrei fare…». Con tutti questi impegni, difficile pensare che a Miky rimanga troppo tempo per fare sul serio (si fa per dire) in estate, anche se, vista la versatilità tra le varie discipline dello skialp e il motore, potrebbe dire la sua anche nella corsa tra i monti. Per intenderci, fatte le dovute distinzioni, a partire dall’età, come Davide Magnini. «Ho sempre fatto attività, dalla bici alla corsa, ma non voglio bruciarmi: qualche gara ci vuole perché stare senza pettorale per così tanti mesi mi annoia e voglio mettermi alla prova con il motore che fa qualche giro in più di allenamento, per avere un obiettivo in più, ma preferisco dare il 100% in una stagione e l’altra usarla per allenarmi piuttosto che farne due all’85%». Appunto, e la prossima stagione come sarà? «Difficile darsi degli obiettivi, io però continuo a lavorare e non mi faccio influenzare emotivamente, se ci sarà qualcuno più forte mi inchinerò. Però un sogno nel cassetto ce l’ho: la medaglia individual ai Mondiali, mi manca ancora, mentre quella Europea c’è. Nella pratica è la stessa cosa, ma il valore è diverso. So che non sarà facile, perché è una gara secca in un giorno preciso, ma se devo mettere qualcosa prima di tutto questa è la mia scelta». Good luck Miky.

© Michele Pavana/La Sportiva

Tour de La Meije quattro giorni au refuge

1893. È già passato un po’ di tempo se ci riflettiamo. Una storia racconta che quattro persone tra cui Cristophe Iselin si incontrarono verso sera fuori dal paese di Glarus, quasi di nascosto, per non stuzzicare la curiosità e l’ilarità dei vicini: da lì partirono con sci verso il colle Pragel. Uno era con le racchette ma le cronache giustamente non lo citano troppo volentieri. La salita in sci al suddetto passo, quota 1.554 metri, nel Canton Glarona, in Svizzera, è da considerarsi la prima vera scialpinistica sulle Alpi. A scanso di fake news, si può dunque pensare che quel giorno sia iniziata la storia dello scialpinismo. Mi è sempre piaciuto pensare che questa disciplina non si sia mai allontanata troppo dalle proprie origini: gli sci rimangono il miglior modo di muoversi in montagna in ambiente innevato. Non ce n’è. Sono fatti per sostenere, distribuire il peso sul manto nevoso limitando la fatica dei nostri spostamenti, aiutandoci e agevolandoci. Non saremmo lì in mezzo alle bianche alture senza di loro. O forse ci saremmo, magari con un paio di ciaspole, ma forse a quel punto avremmo pantaloni attillati, zaini enormi, pile rossi, calli sulle caviglie e sui polpacci e insomma… addio stories su Insta, salamini gratis da parte del salumificio dello zio che ci sponsorizza e zero tipe rimorchiate in ufficio mostrando le discese del weekend mentre ululiamo giù da vertiginosi pendii cercando di avere l’espressione delle Guide di Cham.

© Federico Ravassard

Forse diamo troppo per scontata l’importanza dei nostri sci. Ma è la loro natura intrinseca di mezzo di trasporto che ci consente di fare i fighetti. E come ogni mezzo di trasporto sono fatti per permetterci di affrontare un viaggio. Uno spostamento che si compie da un luogo di partenza a un altro distante dal primo. Una linea che collega due punti sulla neve. L’occasione per riscoprire l’essenza dello scialpinismo è stata del tutto inaspettata. Il cellulare si illumina: messaggio. È Mathias, un collaboratore di una rivista francese sempre del settore sci e outdoor. Mi informa che i rifugisti degli Écrins e l’ente turismo dei Pais des Écrins, nelle Alpi del Delfinato, in Francia, stanno organizzando un viaggio stampa per promuovere e far scoprire il loro meraviglioso massiccio. Un raid a sci negli Écrins! Meraviglia! La risposta è ovvia. Il massiccio transalpino lo conosco abbastanza bene, da Torino non è così distante e offre un terreno selvaggio con infinite discese, canali, pareti. Una mecca dello sci, selvaggia e spesso isolata. Negli anni però l’approccio è sempre stato un po’ mordi e fuggi. Quando ho cercato di ricordare tutte le volte che ero stato da quelle parti, la sequenza che mi veniva in mente è stata sempre più o meno la stessa:

  • Uno: sveglia ad orari in cui la Convenzione di Ginevra vedrebbe certamente la violazione dei diritti umani;
  • Due: caffè e biscotti in automatismo;
  • Tre: macchina, motore, fari, cassa dritta propedeutica all’occhio aperto;
  • Quattro: appuntamento tipo scambisti in qualche parcheggio autostradale o meglio di centro commerciale… con le quattro frecce;
  • Cinque: auto, velocità elevata;
  • Sei: arrivo, salita, sciata;
  • Sette: birra, Pastis, nutrimento, guarda foto, guarda parete, discuti, sogna;
  • Otto: auto, velocità elevata (ma in senso contrario);
  • Nove: ritardo;
  • Dieci: fai cose, dimostrati disponibile con i tuoi cari, sei in ritardo, dimostrati collaborativo.
© Federico Ravassard

Una sorta di decalogo, operazioni automatizzate. Che è un po’ quello di chi si spara le gite in giornata. Qualche menoso dirà che è un modo consumista figlio dei nostri tempi. Sì. Ma siamo un po’ tossici dell’aria aperta e della neve, con la faccia abbronzata delle Guide di Cham, sempre loro, ma magari abitiamo a 200 chilometri da dove vorremmo sciare, lavoriamo in ufficio, cantiere, ospedale o in università: quindi appena possiamo settiamo quella maledetta sveglia ancora un quarto d’ora prima perché magari ci scappano altri 300 metri in più. Un raid però è diverso. È un viaggio, ci si sposta in montagna, si entra in sintonia, si rimane ovattati dall’ambiente che ci circonda. Si riesce ad entrare in esso, passando attraverso diversi stati d’animo, ascoltando il proprio corpo, specie il giorno in cui le gambe andranno meno. Da un punto a un altro, una linea, con gli sci. Un sogno. Dopo gli ultimi consulti sul meteo, non proprio stabile dopo un inverno secco e avaro di precipitazioni come quello di quest’anno, il raid viene confermato.  Il tour della Meije, giro classico del massiccio. Quattro giorni La Bérarde to La Bérarde: nel mezzo tutti i rifugi e i loro gestori che accolgono alpinisti e scialpinisti in queste vallate remote. Si parte! Dopo una notte a La Grave in un posto degno di un film di Tarantino, con Federico arriviamo a La Bérarde sorprendentemente in orario. Si conosce il gruppo, si fa un piccolo briefing con le due Guide, Julia e Mathilde, e si parte in direzione del vallone di Etacons, dominato dal versante meridionale della Meije. Nei viaggi, oltre ai chilometri, al dislivello e alle discese, sono le persone che si incontrano, spesso per la prima volta, a caratterizzare la linea del percorso. Le impressioni che riceviamo da questi incontri diventano un tutt’uno con quelle del nostro movimento, creando l’esperienza. In questo caso abbiamo avuto l’occasione di condividere il rifugio quasi sempre con i soli rifugisti, complice la poca gente in giro e le previsioni non così definite. E fu così che…

© Federico Ravassard

Sandrine - Refuge du Promontoire

Oggi il menù prevede solo salita. Non c’è fretta, abbiamo tutta la giornata per arrivare al Refuge du Promontoire. Il set-up che preferisco per i raid classici non è leggero, lo sci è largo e lo scarpone un onesto 1.400 grammi. Piuttosto si alleggerisce lo zaino con meno cambi e pazienza per i vicini di branda. Le nuvole in cielo intanto si dissipano e arriviamo al Refuge du Châtelleret proprio dove il piatto vallone inizia a impennarsi in direzione Brèche de La Meije. Charles, occhi blu, mascella squadrata e abbronzatura non certo timida, ci accoglie con la sua compagna in questa isola spersa nel sole del vallone circondato da picchi che ben superano i 3.500 metri. Dopo una meravigliosa omelette, ripartiamo alla volta del Promontoire dove le nuvole che ci avevano avvolto con del nevischio lasciano posto a un bel sole. La gestrice è Sandrine, una gentile ragazza bionda. Giovane, con sorriso che lascia trasparire timidezza e una luce irrequieta negli occhi. Quelle persone che sembrano scappare da qualcosa. Le primissime rughe intorno agli occhi blu confermano che in realtà sta vivendo la vita che ha scelto: nata a Chamonix, sono sei anni che gestisce dei rifugi dopo aver lavorato per quattro come aiuto al Refuge Albert 1er ai piedi dell’Aiguille de Chardonnet, nel Bianco. Sandrine serve tutti, sparecchia, rassetta la cucina e poi mangia anche lei in sala. Convincerla a fare qualche foto si scontra con la sua timidezza, ma ce la facciamo e le strappiamo una risata quando ci improvvisiamo come sui set con le modelle e le chiediamo prima uno sguardo imbronciato e poi una mano nei capelli e uno più sexy. Ci perdonerà, credo. Ah, sappiate che Sandrine vi scatterà anche lei qualche foto: con una piccola automatica bianca, ruberà un momento del vostro passaggio per ricordo, senza chiedervi di mettervi in posa, quasi di nascosto. È timida, l’ho detto.

Jeff - Refuge de l’Aigle

Il giorno seguente, se non sarete trascinati a valle dal compagno che si dovrà legare con voi e se scamperete le insidie della conserva corta con gente poco avvezza ai ramponi risalendo il budello del Serret du Savon, ai piedi dei seracchi della parete Nord della Mejie, arriverete in quel magnifico nido d’aquila (appunto!) che è il Refuge de L’Aigle. Siamo su un cucuzzolo ai piedi della Meije Orientale che domina il caleidoscopico Glacier de l’Homme e il vasto Glacier du Tabuchet. Jeff è il rifugista: sulla cinquantina, sorriso da marinaio. A sedici anni è scappato da Parigi, biglietto sola andata per le montagne del Sud della Francia. Un richiamo a cui non ha saputo resistere. Ha lavorato prima come portatore, poi al Refuge du Viso e quindi al Refuge des Écrins. Fino all’anno scorso quando… Chiacchierando, ho collegato questo dettaglio subito e ho capito che mi trovavo davanti alla voce che per anni mi ha risposto al telefono quando chiamavo il Refuge des Écrins per chiedere info sulle condizioni e nevicate di fine primavera. Tutto per capire se sarebbe stato il giorno buono per scendere integralmente i 4.102 metri della Barre des Écrins per il versante Nord. Mai una volta che all’accento italiano rispondesse con info certe: solo pessimismo, desolazione e condizioni catastrofiche. Poi puntualmente il giorno dopo almeno una pulminata di francesi scendeva la parete. Eccolo davanti a me il maledetto! Non sembra neanche così scorbutico, anzi è simpatico, tanto che alle mie rimostranze la serata si anima e finiamo con una risata davanti a una birra. Accidenti a te Jeff!

Sabine - Refuge Villar d’Arène

Dopo la notte all’Aigle, il risveglio sul mare di nubi dopo una lieve nevicata fa sorgere qualche dubbio sul fatto di essere effettivamente svegli. Forse si sogna ancora e il dubbio permane anche durante la discesa del Tabuchet, intonso fino a Villar d’Arène. Dopo un provvidenziale passaggio a Pied du Col il nostro gruppetto riprende a salire in direzione del rifugio per la notte. La giornata è primaverile e la luce sulle pareti nord dell’Agneaux, in fondo al Cirque d’Arsine, fa capire che sarebbe il momento buono per sciarle. Questa notte dormiremo al Refuge Chamossière. Essendo però un viaggio alla scoperta dei vari rifugi che potrebbero fare da appoggio a questo raid, è d’obbligo una tappa enogastronomica al rifugio di Villar d’Arène, situato a circa cinquanta metri lineari dal Chamossière. Qui facciamo la conoscenza con Sabine, 20 anni trascorsi in questo angolo di paradiso. E arriva anche il momento critico del viaggio: la tarte au chou di Villar d’Arène. Una torta-sformato di cavolo, castagne e carni assortite che Sabine ci presenta con un sorriso sfidante. Ragazzi dimenticatevi tutte quelle barrette, cibi, gel che riportano la scritta energetica. Qui si gioca in un altro campionato. Eccellenza contro Champions League. Un’iniezione calorica e di fiducia in se stessi. Sabine si ripresenta al nostro tavolo solo dopo più di un’ora. A raccogliere i cocci di un gruppo disfatto dalla sfida appena sostenuta e a condividere ancora un dolce e un sorso di vino. Menzione per Federico a tavola: testa altissima.

Seb - Refuge Chamossière

Se qualcuno dicesse che Seb Louvet è uno che fa 1.300metri/ora non penso che si vedrebbero molte mani alzate di saputelli contestatori o diffidenti. Lo si capisce subito. Entri nel rifugio, curato come una spa, e ci si imbatte in una cyclette con i pedalini. Si allena dunque anche col brutto. Quindi si allena sempre. Seb è magro, molto magro. Persino le mani, seppur decisamente forti, sono magre. Seb corre, pedala, scia. E non lo fa piano. Seb è colui che ha organizzato il tutto per promuovere il giro della Meije e i suoi rifugi. Ha capito che i rifugi funzionano e rendono se costituiscono una rete tra di loro. Negli Écrins ci sono due associazioni di rifugi in base ai dipartimenti regionali, Hautes Alpes e Isère, ma sarebbe meglio che si ragionasse nell’ambito del massiccio e non secondo suddivisioni burocratiche. Il rifugista ci fa notare che l’attenzione è sempre maggiore, anche da parte della politica e degli enti turistici. Ci confessa che sua madre quando era giovane gli avrebbe dato dei soldi per dormire in un albergo piuttosto che saperlo in un rifugio. Erano luoghi più spartani, un punto di ricovero tra il parcheggio e la cima prefissata. Ora è diverso, il tempo dell’alpinismo vero in questa parte di Écrins secondo Seb è finito. Si lavora molto più con il trekking e il trail running. Il rifugio è diventato una meta a se stante al pari di una cima. Il Chamossière è un gioiellino molto curato con tanto legno e materiali naturali utilizzati per la ristrutturazione. Vale la pena di venirci anche solo per vederlo e cenare. A Seb piace chiacchierare e ci confessa che non sente alcuna competizione con il vicinissimo rifugio di Villar d’Arène di Sabine, anzi collaborano e si aiutano. La cucina di Sabine è super, ma lui ci va solo a prendere il caffè perché se no addio ai sacrifici che fa con l’allenamento. Per Seb quella del rifugista non è stata una vocazione, ma uno scherzo del destino: la prima cosa che aveva iniziato a sorvegliare era una rifugista dell’Adèle Planchard. La vita è strana.

Fanny - Refuge Adèle Planchard

Oggi si torna alla Bérarde, ma allunghiamo il giro verso il Col della Casse Désert per passare a conoscere il nuovo gestore del rifugio Adèle Planchard. Ventitre anni, riccioli d’oro e occhi azzurri: Fanny sorride nel suo piccolo regno al cospetto delle più belle montagne degli Écrins, ai piedi della Grand Ruine. Non ci fermiamo molto, ma quanto basta per capire che, seppur così giovane, ha trovato il suo mondo. La sua pace. Serenità, se dovessi scegliere una sola parola per descriverla. Ad aiutarla Cristophe, un omone timido che d’estate fa il malgaro in un altro massiccio transalpino. Omelette di rito e salpiamo a riprendere la nostra linea immaginaria che chiuderà il cerchio alla Bérarde. Oggi le gambe van da sole. La discesa sui pendii Ovest della Casse Déserte passa dalla farina alla neve trasformata senza praticamente nessuna zona di transizione. Ambiente Écrins, l’aria in faccia, sole. Ognuno un po’ per sé, liberi. Perché fare scialpinismo? Perché è bello.

TOUR DE LA MEIJE

Il raid in sci de La Meije è uno dei più classici e famosi delle Hautes Alpes. Un percorso vario, in alta montagna, riservato a scialpinisti preparati, a loro agio anche con ramponi e qualche basilare manovra alpinistica. Un itinerario che si può prestare a numerose varianti, regolando i tempi di percorrenza in funzione delle ambizioni e delle condizioni del momento. Il periodo migliore generalmente è ad aprile. Gli Écrins e i loro rifugi vi sapranno stupire. Quello che i nostri inviati hanno percorso è l’anello con partenza e arrivo alla Bérarde, sperduto paesino francese, vero cuore del Massif des Écrins.

 Giorno 1: La Bérade (1.720 m) – Refuge du Promontoire (3.092 m)

Milletrecentosettandue metri di sola salita per raggiungere uno dei più iconici e famosi rifugi del massiccio, arroccato ai piedi della cresta del Promontoire. Dalla Bérarde risalire il vallone des Etacons, superare il Rifugio Châtelleret (altro punto d’appoggio) e dirigersi verso la Brèche de La Meije. Giunti sui pendii che la precedono, svoltare verso destra riportandosi in direzione delle rocce della cresta del Promontoire, dove sorge il rifugio.

D+ = 1.372 m

Difficoltà = 2.3 E1

Giorno 2: Refuge du Promontoire (3.092 m) – Brèche de La Meije (3.357 m) – Serret du Savon (3.399 m) - Refuge de L’Aigle (3.450 m)

Dal Promontoire, prima con le pelli e poi con i ramponi, reperire la Brèche de La Meije (100 m, 45°), quindi a seconda delle condizioni scendere il ghiacciaio lato La Grave per circa 300 m e ripellare quindi costeggiando la parete Nord del Gran Pic della Meije fino in corrispondenza dell’attacco del Couloir Gravellotte (sceso da Tardivel nel 1997); proseguire in discesa svelti sotto i seracchi del Corridor fino alla base del Couloir del Serret du Savon che si risale per circa 250 m (massimo 45°) e poi brevemente con le pelli si arriva al Refuge de l’Aigle.

D+ = 900 m circa in funzione del punto delle ripellate

Difficoltà = 3.3 E3 (tratto sotto ai seracchi, couloir a 45° in salita, tratto alpinistico in discesa o possibile doppia dalla Brèche della Meije)

Giorno 3: Refuge de L’Aigle (3.450 m) - Meije Orientale (3891m) - Villar d’Arène (1.600 m) – Pont de l’Arsine (1.700 m) – Refuge Chamossière (2.106 m)

Dal Refuge de l’Aigle salire alla sella Nord della cresta a sinistra della cima della Meije Orientale, percorre tutta la cresta con passi di misto facile in funzione delle condizioni e giungere in vetta. Una volta tornati al luogo dove si sono lasciati gli sci è possibile scegliere tra la discesa del Glacier de l’Homme (soluzione più diretta e che vi porta già più vicino al Rifugio Chamossière senza bisogno di passaggi) o quella del Glacier du Tabuchet da noi percorsa fino a Villar d’Arène. Da qui in autostop raggiungere il parcheggio nei pressi del camping di Pont d’Arsine e in circa un’ora e mezza raggiungere il rifugio con comoda salita.

D+ = 800 m

D- = 2.200 m

Difficoltà = 3.3 E1

Giorno 4: Refuge Chamossière (2.106 m) – Col de la Casse Déserte (3.483 m) – La Bérarde (1.720 m)

Dal Rifugio salire il pianeggiante e lungo vallone di Valfourche passando sotto all’evidente canale Nord della Roche Faurio, poco prima di giungere al canale della Brèche Charrier, ben visibile davanti a voi, svoltare sulla destra e rimontare il vallone via via più ripido (ultimi 100 m a 45°) fino al Col de la Casse Déserte. Da lì scendere i pendii ovest (primi 100 m ripidi, possibile doppia) fino a reperire il vallone di Etacons poco sotto al Rifugio Chatelleret e di qui alla Bérarde.

D+ = 1.400 m

D- = 1.700 m

Difficoltà = 3.3 E2

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© Federico Ravassard

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