La Sportiva annuncia la mascherina per lo sport e posticipa di un anno il lancio della collezione estiva

La Sportiva, dopo avere chiuso i suoi stabilimenti prima che il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri rendesse obbligatorio lo stop alla produzione e avere riconvertito parte della catena alla realizzazione di mascherine ha deciso di posticipare di un anno il lancio della collezione estiva 2021 e ha annunciato un nuovo modello di mascherina con filtro sostituibile, adatto per chi fa sport. A seguire il comunicato stampa ufficiale che annuncia il nuovo prodotto e quello sul lancio della collezione estiva.

 

La Sportiva presenta la prima mascherina igienica per lo sport

Lo aveva annunciato Lorenzo Delladio presentando due settimane fa il progetto di riconversione di una parte del sito produttivo di Ziano di Fiemme allo scopo di produrre mascherine chirurgiche per la Protezione Civile di Trento: «Stiamo cercando di proporre soluzioni innovative anche in questo campo per risolvere principalmente un problema sino ad ora sottovalutato, ovvero quello dell’impatto ambientale causato dalle attuali mascherine monouso oggi in commercio». La sfida è stata lanciata proprio da Delladio al suo reparto di Ricerca e Sviluppo: trovare una soluzione che aumenti il comfort e l’ergonomia di un prodotto che saremo tutti costretti ad indossare per lunghi periodi, dando la possibilità di sostituire unicamente l’elemento filtrante e quindi di riutilizzare il prodotto nella nuova quotidianità che tutti noi ci troveremo a vivere nella seconda fase dell’emergenza da COVID19.

Si chiama Stratos Mask la nuova mascherina igienica sportiva di protezione generica realizzata in tessuto con filtro interno intercambiabile e facilmente sostituibile. È un prodotto lavabile, riutilizzabile e comodo da indossare grazie ad una perfetta ergonomia studiata per fasciare il volto in maniera sicura e confortevole. La messa a punto è avvenuta nell’ultima settimana grazie ai primi prototipi realizzati a partire dai tessuti tecnici della linea abbigliamento La Sportiva. Terminata la fase di collaudo l’azienda ha già

provveduto a depositare la domanda di brevetto e valuterà in una seconda fase se precedere con la domanda di certificazione sanitaria, al momento Stratos Mask è a tutti gli effetti una mascherina igienica di protezione generica perfettamente utilizzabile per praticare sport quando i decreti lo permetteranno a fine emergenza.

«Fino ad oggi giustamente le mascherine avevano principalmente il ruolo di proteggerci in una fase di emergenza e l’attenzione ad elementi quali comfort ed impatto ambientale era stata messa in secondo piano. In azienda abbiamo però iniziato a ragionare sul lungo periodo, cercando di limitare il più possibile gli sprechi a favore dell’ambiente – dice Delladio – e pensando alla praticità di utilizzo continuativo di un oggetto che entrerà nella nostra quotidianità. Ne è uscita una soluzione molto smart, che permetterà ad ognuno in maniera semplice e veloce di rimuovere e sostituire autonomamente il filtro accessorio interno, lavare la mascherina e tornare a re-indossarla in tutta sicurezza».

Ulteriori informazioni circa le modalità di commercializzazione saranno disponibili nelle prossime settimane. Nel frattempo l’azienda conferma che al momento della ripresa della normale attività, la produzione di mascherine sia chirurgiche sia generiche sportive si affiancherà a quella delle scarpette outdoor e scarponi da montagna per le quali il marchio La Sportiva è conosciuto in tutto il mondo.

 

La Sportiva posticipa di un anno il lancio della collezione estiva

L’emergenza causata dal diffondersi dell’epidemia di COVID19 non appare vicina alla sua soluzione immediata, di conseguenza La Sportiva dopo aver deciso in anticipo sui tempi voluti dal Governo per la chiusura dello stabilimento di Ziano di Fiemme, e dopo la riconversione di parte dell’impianto produttivo a favore della produzione di mascherine e dispositivi sanitari per la Protezione Civile di Trento, adotta ora una misura importante a sostegno dei negozianti e della propria rete vendita mondiale.

Preso atto che la chiusura prolungata della maggioranza dei negozi italiani ed europei, cominciata proprio nella fase iniziale della stagione spring/summer 2020, porterà  ogni operatore del settore a fare i conti con giacenze di prodotto molto alte, prodotti che nella maggior parte dei casi non hanno nemmeno avuto il tempo di essere presentati al mercato e che non possono quindi essere tra qualche mese considerati “superati”, La Sportiva ha deciso di posticipare il lancio di circa il 90% della collezione abbigliamento estiva 2021 e della gran parte delle novità calzature previste.
Lo scopo di questa decisione è di preservare il valore dei prodotti della collezione che si trovano attualmente nei magazzini dell’azienda e dei negozianti in un’ottica “slow fashion” che permetterà ai partner di non essere costretti a svalorizzare la merce e a continuare a proporla con maggior respiro nei prossimi mesi.

La nuova collezione apparel che sarà presentata a maggio alla rete vendita mondiale e che sarà nei negozi a Primavera 2021 (circa 74 i mercati serviti), riproporrà quindi gran parte della collezione attuale 2020, arricchita da alcune nuove capsule prodotto aggiuntive e non sostitutive di precedenti prodotti. Stessa decisione coinvolge anche diversi nuovi progetti relativi alle collezioni Footwear Mountain Running® e Climbing, con l’identico obiettivo di non rendere prematuramente obsolete grandi quantità di prodotto invenduto a causa della prolungata chiusura.

«In questo momento così difficile per tantissimi nostri negozianti in tutto il mondo, non ci sembrava responsabile presentare, come siamo soliti fare e come il mercato impone normalmente, decine di prodotti nuovi che avrebbero immediatamente appesantito gli assortimenti dei negozianti, in un anno dove è probabile che l’invenduto sarà tendenzialmente elevato. – Dice Giulia Delladio, Strategic Marketing Manager de La Sportiva - La nostra azienda si impegnerà di conseguenza ad investire le risorse di Marketing sostenendo in ogni modo possibile un corretto e completo processo di sell-out delle collezioni già attualmente nei magazzini dei nostri partner».

Si tratta di un segnale forte che l’azienda ha deciso di lanciare nella profonda convinzione che possa aiutare tutta la filiera a creare le migliori condizioni possibili per una pronta ripresa nel post emergenza. Il motto aziendale di questi giorni è sempre lo stesso: «Uniti, seppure divisi, scaleremo anche questa cima».


Ripresa agonistica? Troppo alto il rischio giuridico

L'elenco delle gare annullate, o rinviate, si allunga di giorno in giorno. Ma quando si potrà realisticamente tornare a correre in un trail o una sky marathon? Difficile a dirsi, di sicuro fino alla fine dello stato di emergenza, cioè il 31 luglio, appare improbabile che possa svolgersi una gara, alla luce anche dei rischi giuridici ai quali andrebbero incontro gli organizzatori. A questo proposito la FISKY, una delle federazioni coinvolte nell'organizzazione di eventi, ha preso una posizione chiara comunicando che «fino al 31 luglio 2020 non sono autorizzate manifestazioni che fanno riferimento alla nostra Federazione, salvo eventuali nuove disposizioni delle competenti autorità». Sull'argomento abbiamo chiesto un parere all'avvocato Flavio Saltarelli.

 

La ripresa agonistica per l’oudoor running non è dietro l’angolo. Sino a che il Covid 19 rappresenterà un probabile pericolo, anche giuridicamente sarà assai sconsigliabile gareggiare, se non a condizione di enormi rischi ed improponibili sforzi, anche economici, delle organizzazioni. Questo è ciò che ho in estrema sintesi risposto in questi giorni ai numerosi organizzatori di competizioni di trail e skyrunning i quali mi hanno interpellato domandandomi: Quando potremo riprendere a correre in gara? Che cosa eventualmente si rischia?.

La responsabilità degli organizzatori (come costruita dalla giurisprudenza) a tutela degli atleti si configura allorquando in gara gli atleti medesimi incorrano in pregiudizi non imprevedibili e riconducibili, secondo la miglior scienza ed esperienza, al comportamento colposo degli organizzatori. Ad oggi l’unica certezza per garantire la salute dal Covid 19 pare essere il mantenimento di un’adeguata distanza di sicurezza; distanza di sicurezza che non sarebbe ipotizzabile tenere ed assicurare in tutti i momenti delle competizioni di trail e skyrunning. Infatti, anche eventuali partenze a cronometro, non impedirebbero frazioni di gara caratterizzate da estrema vicinanza tra gli atleti (pensiamo ad esempio ai sorpassi); senza poi voler considerare le difficoltà di poter fruire della necessaria e tempestiva assistenza medica in loco.

Solo, dunque, attraverso un quasi impossibile monitoraggio temporalmente aggiornato con relativa certificazione della salute degli ammessi alla partenza gli organizzatori potrebbero tutelarsi, dimostrando di non essere in colpa in ipotesi di successivi sintomi da virus accusati dagli atleti partecipanti, sintomi la cui eziologia potesse essere riconducibile all’ambito della gara.

In via preliminare va ricordato che la colpa (intesa come imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, ordini, regolamenti e discipline) è l’elemento costitutivo della responsabilità civile e penale; colpa che viene meno - di fatto - solo quando gli organizzatori sono in grado di dimostrare di aver assunto ogni precauzione a garanzia della salute degli atleti.

Sotto il profilo normativo, ai fini della responsabilità civile rileva l’art. 2043 del Codice civ. laddove obbliga il risarcimento di ogni danno conseguente a fatti lesivi ingiusti patiti; per quanto attiene la responsabilità penale le fattispecie di reato ipotizzabili sono, invece, quelle di lesioni ed omicidio colposo.

Più difficile - ma non impossibile - , inoltre, configurare a carico degli organizzatori, in ipotesi di scoppio di focolaio in seguito alla gara organizzata, il gravissimo reato di epidemia di cui all’art. 438 Codice Penale, il quale prevede: Chiunque cagiona un'epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l'ergastolo. Trattasi di delitto che ha come elemento costitutivo il dolo (la volontarietà e la consapevolezza di cagionare l’epidemia) ma non impossibile da configurarsi anche nel caso di evento non voluto, ma frutto di comportamento gravemente imprudente, in quanto nel nostro ordinamento esiste anche il cosiddetto dolo eventuale che ricorre ove un soggetto - pur non volendo cagionare specificatamente un evento - essendo consapevole del pericolo, o dovendo esserlo, corre il rischio di cagionarlo e l’evento si verifica.

Da ultimo, non è remota la possibilità di finire alla sbarra per delitto colposo contro la salute pubblica, fattispecie prevista e punita dall’art. 452 del Codice penale che punisce con la reclusione da uno a cinque anni chiunque commette, per colpa, appunto, uno dei fatti preveduti dall’articolo 438 Cp., cioè contribuisce anche per imperizia o imprudenza al diffondersi di un’epidemia.


Ski Trans Alt Tirol

Novembre 2017. Attenzione, quella che avete sotto gli occhi non è la solita proposta.  È la sintesi di un percorso durato diversi anni... qui dentro c'è tutta l'essenza della mia personale chiave di lettura dello scialpinismo. C'è la mia formazione di geografo, la passione per la storia, il piacere di perdersi tra le montagne, il valore della condivisione e il vizio di documentare l'esperienza per non perdere un giorno i ricordi e le emozioni vissute…
Avrei potuto tenere questo viaggio per me, invitare solo qualche amico intimo, invece ho deciso di provare a realizzarlo in quella che sento essere la mia veste più naturale, e cioè quella della Guida alpina. Se qualcuno raccoglierà il mio invito e vorrà unirsi anche solo per un tratto di questo lungo viaggio, ne sarei onorato!

Dopo diverse stagioni di incubazione, nell’autunno scorso finalmente il progetto sembrava delinearsi in maniera chiara nella mia mente ed era pronto a essere partorito. Così mi sono deciso a prendere la tastiera stendendo le specifiche minime per spiegarlo alle persone che intendevo coinvolgere e ho inviato il file, accompagnato dal messaggio di cui sopra. È questo il gioco che mi attira dell’alpinismo: prendere un’idea, un sogno, una visione, per quanto balzana o assurda, valutarla da ogni angolazione, magari scartarla, oppure digerirla, metabolizzarla, pianificarla, attendere il momento opportuno, agire e infine trasformarla in qualche cosa di concreto, tangibile, vero. Un po’ come rubare piccoli lembi da una dimensione fantastica e immaginaria e portarli nel mondo reale. Una chiave di lettura che può essere applicata alle vie nuove, o alle discese con gli sci, e che in questi anni ho spesso provato a portare anche all’interno del mio lavoro di Guida, con proposte o progetti un po’ particolari e insoliti. Per quanto riguarda questa traversata del Tirolo Storico, credo che l’idea sia nata davanti a una carta, anzi una piccola mappa in rilievo delle Alpi che tengo appesa alla parete di casa. Un giorno ho posato l’attenzione sulla zona di massima estensione dell’arco alpino sull’asse Nord-Sud, segnalata in basso giusto dall’inconfondibile goccia del Lago di Garda, e da lì sono partito alla ricerca di un percorso dove il rilievo subisse meno interruzioni possibili e permettesse di rimanere in quota. Ho sempre avuto il desiderio di perdermi dentro alle montagne, di starci il più tempo possibile, per godere quelle sfumature che le gite mordi e fuggi spesso non lasciano il tempo di cogliere e niente meglio dello scialpinismo di traversata si adatta a questo proposito! Quel che è successo dopo è pura fortuna. Mano a mano che seguivo con gli occhi questo ipotetico percorso, mi sono reso conto che la linea più logica dal Garda correva attraverso la Catena del Lagorai, dove sono cresciuto, e poi sulle Dolomiti, per proseguire sulle montagne dell’Alta Pusteria e quindi fino in Austria. Ho provato a figurarmi il percorso in inverno ed ho capito di aver trovato la vena d’oro: un vero e proprio regalo della natura che sembrava concedere un viaggio con gli sci in un contesto scenografico unico per varietà e spettacolarità. Dagli uliveti di un piccolo angolo di Mediterraneo incastonato tra le montagne ai mastodontici ghiacciai degli Alti Tauri, attraversando zone non certo molto frequentate, ma sempre provvidenzialmente provviste di strutture in grado di fornire il necessario supporto logistico.

© Matteo Pavana

In seconda battuta ho realizzato che la linea ideale correva giusto lungo il confine di quello che fino al secolo scorso era il Tirolo Asburgico, ovvero la regione più meridionale dell’immenso impero Austro-Ungarico. I primi ordinamenti che sanciscono l’estensione del territorio tirolese dal Lago di Garda fino alla zona montuosa del Kaisergebirge risalgono agli inizi del 1500: da quel tempo lontano, i confini del Tirolo storico rimasero pressoché invariati fino al termine della Prima Guerra Mondiale, quando le province di Trento e Bolzano vennero annesse al Regno d’Italia. Le genti che abitano questa regione transfrontaliera risultano pertanto accomunate da secoli di storia, con tratti distintivi comuni che ancora oggi sopravvivono nonostante l’appartenenza a nazioni diverse, e la suggestione di poterle idealmente riunire con questa traversata mi sembrava un ulteriore valore aggiunto. Certamente non volevo dare alcuna connotazione politica dell’iniziativa, ma questo collegamento dettato al contempo dalla geomorfologia e dalla storia mi è sembrato avere quasi un valore di messaggio universale, ovvero quello delle montagne come spazio d’unione, piuttosto che elemento di separazione come spesso si vorrebbe far credere. Il caso ha voluto che durante la traversata il Tirolo Storico fosse sempre presente, da un vecchio calendario di stampo asburgico trovato in un bivacco sul Lagorai alle stampe storiche dei bed & breakfast dove abbiamo dormito. In ogni modo, l’entusiasmo e l’apprezzamento che ho raccolto ancora prima di partire mi ha sorpreso e gratificato ed è stato lo stimolo decisivo per buttarsi a capofitto in quest’avventura. La traversata è stata pianificata a tappe di tre giorni ciascuna, da svolgersi ogni due settimane in maniera da poter sfruttare i periodi con le condizioni presumibilmente ottimali. Le tappe in programma erano sette, per un totale di 21 giornate sugli sci su uno sviluppo di poco inferiore ai 400 chilometri. Giovanna e Alberto sono stati i temerari che si sono offerti di seguirmi in tutti gli appuntamenti, dall’inizio alla fine, mentre tanti altri amici si sono aggregati a una o più tappe, ognuno compatibilmente con i propri impegni. Viste le ambiziose premesse, ci voleva una partenza in grande stile e dai connotati simbolici: così siamo partiti direttamente con gli sci in spalla dal centro storico di Riva del Garda, un tempo estremo avamposto sud-occidentale della Mitteleuropa, e abbiamo preso una barca a vela per navigare sul ‘fiordo’ del Garda fino a Malcesine, dove la funivia del Monte Baldo ci ha portati in quota, permettendoci di calzare gli sci in direzione Monte Altissimo di Nago.

La prima giornata si è conclusa a Festa di Brentonico e l’indomani per portarci sul Monte Stivo abbiamo inforcato le E-bike, giusto per adattarci allo stile vacanza outdoor che tanto caratterizza l’Alto Garda. Dal rifugio Marchetti la terza giornata ci ha visto seguire la lunga cresta che conduce alle Tre Cime del Bondone, raramente percorsa d’inverno, per poi riprendere le biciclette e scendere fino in Piazza Duomo a Trento, per un aperitivo in grande stile all’Aquila d’Oro, dove anche la statua del Nettuno pareva guardarci perplessa. Due settimane più tardi abbiamo iniziato a fare sul serio e, nonostante il maltempo, siamo salpati per la mitica traversata del Lagorai. Devo dire che da quando ho memoria scialpinistica ho visto davvero pochissimi gruppi, forse tre-quattro in tutto, portare a termine il percorso integrale che dal Monte Panarotta porta al Passo Rolle o viceversa. La carenza di punti di appoggio lungo il percorso obbliga a tappe lunghe e complesse e di certo scoraggia l’approccio a questa magnifica Haute Route che attraversa vallate silenziose e fuori dal tempo. Vista la quantità di neve fresca presente e la scarsa visibilità, anche noi abbiamo dovuto deviare dal tracciato ottimale ed evitare diverse cime, ma è stato comunque un punto di orgoglio riuscire a portare a termine queste due tappe difficili dove serve anche spirito di adattamento e lavoro di squadra.

© Matteo Pavana

A marzo siamo approdati in Dolomiti, dove la presenza antropica cambia radicalmente, ma come tutti sanno la scenografia è talmente grandiosa da lasciare sempre a bocca aperta. Nei primi tre giorni dal Rolle a Corvara abbiamo ancora pagato pegno con il meteo, sebbene con dei risvolti positivi, come la possibilità di affrontare la Val Mezdì, alias il fuoripista più famoso e gettonato delle Alpi Orientali, in perfetta solitudine! Quando è stato il tempo di ripartire dalla Val Badia, però, ai piani alti hanno deciso che dopo tante bastonate era il tempo della carota, e ci sono state regalate tre giornate da cineteca, con neve commovente e un susseguirsi ininterrotto di scenari mozzafiato: Lagazuoi, Fanes, Sennes, Croda Rossa d’Ampezzo, Tre cime di Lavaredo… per rubare le parole all’amico e collega Marco Maganzini, «SciAlpinismo con la A maiuscola, tra pareti di disperante verticalità!».

In aprile abbiamo provato a sfuggire all’avanzare della primavera alzandoci di quota e inoltrandoci nel gruppo delle Vedrette di Ries, inseguiti da un caldo feroce ed esagerato… qui per la prima volta siamo dovuti tornare sui nostri passi e rinunciare a svalicare sul Collalto, visto che alle 9.30 del mattino a 3.000 metri c’erano quindici gradi. Il gran finale, ovvero i tre giorni conclusivi, ci hanno visto invece impegnati sugli Alti Tauri. Da programma inizialmente avevo pensato di spingermi fino al Grossglockner, ma il tempo splendido e le condizioni strepitose ci hanno invogliato a chiudere in bellezza con tre belle cime: in ordine Picco dei Tre Signori, Großer Geiger e GroßVenediger, prima di scendere fino a Matrei e quindi a Lienz, con prati e alberi ormai in fiore ad annunciare il cambio di stagione.

© Alessandro Beber

Mi sono chiesto che cosa resterà di questa fantastica cavalcata da Sud a Nord. Sicuramente gli incontri lungo il percorso, perché una traversata di questo tipo è fatta anche per conoscere persone, prima fra tutti i tanti rifugisti con i quali abbiamo condiviso fantastiche serate. E poi tre momenti emergono sopra a tanti ricordi. Dal punto di vista paesaggistico la lunga tappa dal Lagazuoi al rifugio Sennes, nel cuore delle Dolomiti, davvero una di quelle scialpinistiche che ti rimangono nella testa a lungo. Per quanto riguarda lo sci, non dimenticherò i mille metri di dislivello su perfetto firn, tutti tra i 25 e 30 gradi, dal Collalto, sopra Anterselva, e la lunghissima discesa dal GroßVenediger, con oltre 2.000 metri di dislivello. Col senno di poi, direi che meglio di così non poteva andare: al di là delle 14 giornate di bel tempo sulle 21 totali e delle ottime condizioni d’innevamento, la traversata è stata letteralmente al di sopra delle aspettative, e questo soprattutto grazie al fattore umano, ovvero la passione che tutti i partecipanti hanno messo in questa piccola grande sfida. Come ha detto giustamente Barbara, siamo stati trascinati in un turbine di emozioni e amicizia. Per questo sarò eternamente riconoscente a tutti gli amici che ci hanno creduto e mi hanno aiutato in tante maniere diverse, dai sopralluoghi preventivi ai carichi di viveri da portare in bivacco, fino al grosso lavoro fatto con foto e riprese per documentare adeguatamente l’esperienza. A nome di tutti, credo di poter dire che la prima attraversata scialpinistica del Tirolo Storico sia stata e rimarrà un’esperienza indimenticabile: ora la strada è aperta, e auguriamo a quelli che in futuro vorranno ricalcare il nostro cammino di divertirsi almeno quanto noi! E io, finalmente, ho potuto tagliarmi la barba. Sì, perché me l’ero tagliata appena prima della partenza a gennaio e durante la prima tappa mi hanno detto: adesso lasciala crescere per tutta la traversata. Così ho fatto, aspettando l'ultimo giorno per tagliarla!

Traversata del Tirolo Storico

Tappe 1-3: dal 12 al 14 gennaio 2018, da Riva del Garda a Trento via Malcesine, Monte Grande, Monte Altissimo di Nago, Monte Stivo, Cima Alta, Cornetto del Bondone, Viote.

Tappe 4-6: dal 2 al 4 febbraio 2018, dalla Panarotta alla Val Campelle via passo della Portela, lago di Erdemolo, rifugio Sette Selle, passo dei Garofani, Passo Cadino, lago delle Buse, forcella Montalon, forcella Valsorda, Colle di San Giovanni, Malga Conseria.

Tappe 7-9: dal 23 al 25 febbraio 2018, da Malga Sorgazza a San Martino di Castrozzavia forcella Magna, Malga Val Cion Alta, passo Copolà, rifugio Refavaie, cima Paradisi, cima Fossernica, Malga Miesnotta di sopra, forcella Valzanchetta.

Tappe 10-12: dal 9 all’11 marzo 2018, da Passo Rolle a Colfosco in Badia via Monte Mulaz, Falcade, Passo San Pellegrino, Forca Rossa, Malga Ciapela, Marmolada, Porta Vescovo, Passo Pordoi, rifugio Boè, Val Mezdì.

Tappe 13-15: dal 23 al 25 marzo 2018, da passo Falzarego alla Val Fiscalina via Lagazuoi, forcella del Lago, rifugio Fanes, forcella Ciamin, Fodera Vedla, rifugio Sennes, Ra Stua, forcella Colfiedo, passo Cima Banche, Lago d’Antorno, rifugio Auronzo, rifugio Locatelli, valle di Sasso Vecchio.

Tappe 16-18: dal 6 all’8 aprile 2018, da Santa Maddalena in Val Casies a Riva di Tures, via Hoher Mann, forcella Hexenscharte, Passo Stalle, lago di Anterselva, Schwarze Scharte (respinti!), trasferimento con mezzi pubblici a Riva di Tures, salita al triangolo di Riva e discesa per la Valle dei Dossi.

Tappe 19-21: dal 20 al 22 aprile 2018, da Predoi a Matrei, via Picco dei Tre Signori, Reggentörlscharte, Essener und Rostocker Hütte, Großer Geiger, Kürsinger Hütte, Venediger Scharte, GroßVenediger, Gschlosstal, Tauer.

Mezzi di trasporto utilizzati: Barca a vela, funivie e seggiovie, E-bike, furgone Fiat Ducato, treni, autobus.

Lunghezza tappe: tra i 900 e i 2.300 metri di dislivello, gradualmente in crescendo.

Dislivello medio giornaliero: 1.300 metri.

Sviluppo medio giornaliero (solo sci, senza i trasferimenti): 22 chilometri. 

Sponsor: Scarpa, Millet, Völkl, Marker, Julbo, APT Valsugana, Guide Alpine Mountime-Outdoor Adventures

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 118

© Alessandro Beber

Tour de La Meije quattro giorni au refuge

Continua la pubblicazione dei più interessanti articoli di viaggio di Skialper per non dimenticare che gli sci sono la migliore scusa per partire alla scoperta del mondo.

1893. È già passato un po’ di tempo se ci riflettiamo. Una storia racconta che quattro persone tra cui Cristophe Iselin si incontrarono verso sera fuori dal paese di Glarus, quasi di nascosto, per non stuzzicare la curiosità e l’ilarità dei vicini: da lì partirono con sci verso il colle Pragel. Uno era con le racchette ma le cronache giustamente non lo citano troppo volentieri. La salita in sci al suddetto passo, quota 1.554 metri, nel Canton Glarona, in Svizzera, è da considerarsi la prima vera scialpinistica sulle Alpi. A scanso di fake news, si può dunque pensare che quel giorno sia iniziata la storia dello scialpinismo. Mi è sempre piaciuto pensare che questa disciplina non si sia mai allontanata troppo dalle proprie origini: gli sci rimangono il miglior modo di muoversi in montagna in ambiente innevato. Non ce n’è. Sono fatti per sostenere, distribuire il peso sul manto nevoso limitando la fatica dei nostri spostamenti, aiutandoci e agevolandoci. Non saremmo lì in mezzo alle bianche alture senza di loro. O forse ci saremmo, magari con un paio di ciaspole, ma forse a quel punto avremmo pantaloni attillati, zaini enormi, pile rossi, calli sulle caviglie e sui polpacci e insomma… addio stories su Insta, salamini gratis da parte del salumificio dello zio che ci sponsorizza e zero tipe rimorchiate in ufficio mostrando le discese del weekend mentre ululiamo giù da vertiginosi pendii cercando di avere l’espressione delle Guide di Cham.

© Federico Ravassard

Forse diamo troppo per scontata l’importanza dei nostri sci. Ma è la loro natura intrinseca di mezzo di trasporto che ci consente di fare i fighetti. E come ogni mezzo di trasporto sono fatti per permetterci di affrontare un viaggio. Uno spostamento che si compie da un luogo di partenza a un altro distante dal primo. Una linea che collega due punti sulla neve. L’occasione per riscoprire l’essenza dello scialpinismo è stata del tutto inaspettata. Il cellulare si illumina: messaggio. È Mathias, un collaboratore di una rivista francese sempre del settore sci e outdoor. Mi informa che i rifugisti degli Écrins e l’ente turismo dei Pais des Écrins, nelle Alpi del Delfinato, in Francia, stanno organizzando un viaggio stampa per promuovere e far scoprire il loro meraviglioso massiccio. Un raid a sci negli Écrins! Meraviglia! La risposta è ovvia. Il massiccio transalpino lo conosco abbastanza bene, da Torino non è così distante e offre un terreno selvaggio con infinite discese, canali, pareti. Una mecca dello sci, selvaggia e spesso isolata. Negli anni però l’approccio è sempre stato un po’ mordi e fuggi. Quando ho cercato di ricordare tutte le volte che ero stato da quelle parti, la sequenza che mi veniva in mente è stata sempre più o meno la stessa:

  • Uno: sveglia ad orari in cui la Convenzione di Ginevra vedrebbe certamente la violazione dei diritti umani;
  • Due: caffè e biscotti in automatismo;
  • Tre: macchina, motore, fari, cassa dritta propedeutica all’occhio aperto;
  • Quattro: appuntamento tipo scambisti in qualche parcheggio autostradale o meglio di centro commerciale… con le quattro frecce;
  • Cinque: auto, velocità elevata;
  • Sei: arrivo, salita, sciata;
  • Sette: birra, Pastis, nutrimento, guarda foto, guarda parete, discuti, sogna;
  • Otto: auto, velocità elevata (ma in senso contrario);
  • Nove: ritardo;
  • Dieci: fai cose, dimostrati disponibile con i tuoi cari, sei in ritardo, dimostrati collaborativo.
© Federico Ravassard

Una sorta di decalogo, operazioni automatizzate. Che è un po’ quello di chi si spara le gite in giornata. Qualche menoso dirà che è un modo consumista figlio dei nostri tempi. Sì. Ma siamo un po’ tossici dell’aria aperta e della neve, con la faccia abbronzata delle Guide di Cham, sempre loro, ma magari abitiamo a 200 chilometri da dove vorremmo sciare, lavoriamo in ufficio, cantiere, ospedale o in università: quindi appena possiamo settiamo quella maledetta sveglia ancora un quarto d’ora prima perché magari ci scappano altri 300 metri in più. Un raid però è diverso. È un viaggio, ci si sposta in montagna, si entra in sintonia, si rimane ovattati dall’ambiente che ci circonda. Si riesce ad entrare in esso, passando attraverso diversi stati d’animo, ascoltando il proprio corpo, specie il giorno in cui le gambe andranno meno. Da un punto a un altro, una linea, con gli sci. Un sogno. Dopo gli ultimi consulti sul meteo, non proprio stabile dopo un inverno secco e avaro di precipitazioni come quello di quest’anno, il raid viene confermato.  Il tour della Meije, giro classico del massiccio. Quattro giorni La Bérarde to La Bérarde: nel mezzo tutti i rifugi e i loro gestori che accolgono alpinisti e scialpinisti in queste vallate remote. Si parte! Dopo una notte a La Grave in un posto degno di un film di Tarantino, con Federico arriviamo a La Bérarde sorprendentemente in orario. Si conosce il gruppo, si fa un piccolo briefing con le due Guide, Julia e Mathilde, e si parte in direzione del vallone di Etacons, dominato dal versante meridionale della Meije. Nei viaggi, oltre ai chilometri, al dislivello e alle discese, sono le persone che si incontrano, spesso per la prima volta, a caratterizzare la linea del percorso. Le impressioni che riceviamo da questi incontri diventano un tutt’uno con quelle del nostro movimento, creando l’esperienza. In questo caso abbiamo avuto l’occasione di condividere il rifugio quasi sempre con i soli rifugisti, complice la poca gente in giro e le previsioni non così definite. E fu così che…

© Federico Ravassard

Sandrine - Refuge du Promontoire

Oggi il menù prevede solo salita. Non c’è fretta, abbiamo tutta la giornata per arrivare al Refuge du Promontoire. Il set-up che preferisco per i raid classici non è leggero, lo sci è largo e lo scarpone un onesto 1.400 grammi. Piuttosto si alleggerisce lo zaino con meno cambi e pazienza per i vicini di branda. Le nuvole in cielo intanto si dissipano e arriviamo al Refuge du Châtelleret proprio dove il piatto vallone inizia a impennarsi in direzione Brèche de La Meije. Charles, occhi blu, mascella squadrata e abbronzatura non certo timida, ci accoglie con la sua compagna in questa isola spersa nel sole del vallone circondato da picchi che ben superano i 3.500 metri. Dopo una meravigliosa omelette, ripartiamo alla volta del Promontoire dove le nuvole che ci avevano avvolto con del nevischio lasciano posto a un bel sole. La gestrice è Sandrine, una gentile ragazza bionda. Giovane, con sorriso che lascia trasparire timidezza e una luce irrequieta negli occhi. Quelle persone che sembrano scappare da qualcosa. Le primissime rughe intorno agli occhi blu confermano che in realtà sta vivendo la vita che ha scelto: nata a Chamonix, sono sei anni che gestisce dei rifugi dopo aver lavorato per quattro come aiuto al Refuge Albert 1er ai piedi dell’Aiguille de Chardonnet, nel Bianco. Sandrine serve tutti, sparecchia, rassetta la cucina e poi mangia anche lei in sala. Convincerla a fare qualche foto si scontra con la sua timidezza, ma ce la facciamo e le strappiamo una risata quando ci improvvisiamo come sui set con le modelle e le chiediamo prima uno sguardo imbronciato e poi una mano nei capelli e uno più sexy. Ci perdonerà, credo. Ah, sappiate che Sandrine vi scatterà anche lei qualche foto: con una piccola automatica bianca, ruberà un momento del vostro passaggio per ricordo, senza chiedervi di mettervi in posa, quasi di nascosto. È timida, l’ho detto.

Jeff - Refuge de l’Aigle

Il giorno seguente, se non sarete trascinati a valle dal compagno che si dovrà legare con voi e se scamperete le insidie della conserva corta con gente poco avvezza ai ramponi risalendo il budello del Serret du Savon, ai piedi dei seracchi della parete Nord della Mejie, arriverete in quel magnifico nido d’aquila (appunto!) che è il Refuge de L’Aigle. Siamo su un cucuzzolo ai piedi della Meije Orientale che domina il caleidoscopico Glacier de l’Homme e il vasto Glacier du Tabuchet. Jeff è il rifugista: sulla cinquantina, sorriso da marinaio. A sedici anni è scappato da Parigi, biglietto sola andata per le montagne del Sud della Francia. Un richiamo a cui non ha saputo resistere. Ha lavorato prima come portatore, poi al Refuge du Viso e quindi al Refuge des Écrins. Fino all’anno scorso quando… Chiacchierando, ho collegato questo dettaglio subito e ho capito che mi trovavo davanti alla voce che per anni mi ha risposto al telefono quando chiamavo il Refuge des Écrins per chiedere info sulle condizioni e nevicate di fine primavera. Tutto per capire se sarebbe stato il giorno buono per scendere integralmente i 4.102 metri della Barre des Écrins per il versante Nord. Mai una volta che all’accento italiano rispondesse con info certe: solo pessimismo, desolazione e condizioni catastrofiche. Poi puntualmente il giorno dopo almeno una pulminata di francesi scendeva la parete. Eccolo davanti a me il maledetto! Non sembra neanche così scorbutico, anzi è simpatico, tanto che alle mie rimostranze la serata si anima e finiamo con una risata davanti a una birra. Accidenti a te Jeff!

Sabine - Refuge Villar d’Arène

Dopo la notte all’Aigle, il risveglio sul mare di nubi dopo una lieve nevicata fa sorgere qualche dubbio sul fatto di essere effettivamente svegli. Forse si sogna ancora e il dubbio permane anche durante la discesa del Tabuchet, intonso fino a Villar d’Arène. Dopo un provvidenziale passaggio a Pied du Col il nostro gruppetto riprende a salire in direzione del rifugio per la notte. La giornata è primaverile e la luce sulle pareti nord dell’Agneaux, in fondo al Cirque d’Arsine, fa capire che sarebbe il momento buono per sciarle. Questa notte dormiremo al Refuge Chamossière. Essendo però un viaggio alla scoperta dei vari rifugi che potrebbero fare da appoggio a questo raid, è d’obbligo una tappa enogastronomica al rifugio di Villar d’Arène, situato a circa cinquanta metri lineari dal Chamossière. Qui facciamo la conoscenza con Sabine, 20 anni trascorsi in questo angolo di paradiso. E arriva anche il momento critico del viaggio: la tarte au chou di Villar d’Arène. Una torta-sformato di cavolo, castagne e carni assortite che Sabine ci presenta con un sorriso sfidante. Ragazzi dimenticatevi tutte quelle barrette, cibi, gel che riportano la scritta energetica. Qui si gioca in un altro campionato. Eccellenza contro Champions League. Un’iniezione calorica e di fiducia in se stessi. Sabine si ripresenta al nostro tavolo solo dopo più di un’ora. A raccogliere i cocci di un gruppo disfatto dalla sfida appena sostenuta e a condividere ancora un dolce e un sorso di vino. Menzione per Federico a tavola: testa altissima.

Seb - Refuge Chamossière

Se qualcuno dicesse che Seb Louvet è uno che fa 1.300metri/ora non penso che si vedrebbero molte mani alzate di saputelli contestatori o diffidenti. Lo si capisce subito. Entri nel rifugio, curato come una spa, e ci si imbatte in una cyclette con i pedalini. Si allena dunque anche col brutto. Quindi si allena sempre. Seb è magro, molto magro. Persino le mani, seppur decisamente forti, sono magre. Seb corre, pedala, scia. E non lo fa piano. Seb è colui che ha organizzato il tutto per promuovere il giro della Meije e i suoi rifugi. Ha capito che i rifugi funzionano e rendono se costituiscono una rete tra di loro. Negli Écrins ci sono due associazioni di rifugi in base ai dipartimenti regionali, Hautes Alpes e Isère, ma sarebbe meglio che si ragionasse nell’ambito del massiccio e non secondo suddivisioni burocratiche. Il rifugista ci fa notare che l’attenzione è sempre maggiore, anche da parte della politica e degli enti turistici. Ci confessa che sua madre quando era giovane gli avrebbe dato dei soldi per dormire in un albergo piuttosto che saperlo in un rifugio. Erano luoghi più spartani, un punto di ricovero tra il parcheggio e la cima prefissata. Ora è diverso, il tempo dell’alpinismo vero in questa parte di Écrins secondo Seb è finito. Si lavora molto più con il trekking e il trail running. Il rifugio è diventato una meta a se stante al pari di una cima. Il Chamossière è un gioiellino molto curato con tanto legno e materiali naturali utilizzati per la ristrutturazione. Vale la pena di venirci anche solo per vederlo e cenare. A Seb piace chiacchierare e ci confessa che non sente alcuna competizione con il vicinissimo rifugio di Villar d’Arène di Sabine, anzi collaborano e si aiutano. La cucina di Sabine è super, ma lui ci va solo a prendere il caffè perché se no addio ai sacrifici che fa con l’allenamento. Per Seb quella del rifugista non è stata una vocazione, ma uno scherzo del destino: la prima cosa che aveva iniziato a sorvegliare era una rifugista dell’Adèle Planchard. La vita è strana.

Fanny - Refuge Adèle Planchard

Oggi si torna alla Bérarde, ma allunghiamo il giro verso il Col della Casse Désert per passare a conoscere il nuovo gestore del rifugio Adèle Planchard. Ventitre anni, riccioli d’oro e occhi azzurri: Fanny sorride nel suo piccolo regno al cospetto delle più belle montagne degli Écrins, ai piedi della Grand Ruine. Non ci fermiamo molto, ma quanto basta per capire che, seppur così giovane, ha trovato il suo mondo. La sua pace. Serenità, se dovessi scegliere una sola parola per descriverla. Ad aiutarla Cristophe, un omone timido che d’estate fa il malgaro in un altro massiccio transalpino. Omelette di rito e salpiamo a riprendere la nostra linea immaginaria che chiuderà il cerchio alla Bérarde. Oggi le gambe van da sole. La discesa sui pendii Ovest della Casse Déserte passa dalla farina alla neve trasformata senza praticamente nessuna zona di transizione. Ambiente Écrins, l’aria in faccia, sole. Ognuno un po’ per sé, liberi. Perché fare scialpinismo? Perché è bello.

TOUR DE LA MEIJE

Il raid in sci de La Meije è uno dei più classici e famosi delle Hautes Alpes. Un percorso vario, in alta montagna, riservato a scialpinisti preparati, a loro agio anche con ramponi e qualche basilare manovra alpinistica. Un itinerario che si può prestare a numerose varianti, regolando i tempi di percorrenza in funzione delle ambizioni e delle condizioni del momento. Il periodo migliore generalmente è ad aprile. Gli Écrins e i loro rifugi vi sapranno stupire. Quello che i nostri inviati hanno percorso è l’anello con partenza e arrivo alla Bérarde, sperduto paesino francese, vero cuore del Massif des Écrins.

 Giorno 1: La Bérade (1.720 m) – Refuge du Promontoire (3.092 m)

Milletrecentosettandue metri di sola salita per raggiungere uno dei più iconici e famosi rifugi del massiccio, arroccato ai piedi della cresta del Promontoire. Dalla Bérarde risalire il vallone des Etacons, superare il Rifugio Châtelleret (altro punto d’appoggio) e dirigersi verso la Brèche de La Meije. Giunti sui pendii che la precedono, svoltare verso destra riportandosi in direzione delle rocce della cresta del Promontoire, dove sorge il rifugio.

D+ = 1.372 m

Difficoltà = 2.3 E1

Giorno 2: Refuge du Promontoire (3.092 m) – Brèche de La Meije (3.357 m) – Serret du Savon (3.399 m) - Refuge de L’Aigle (3.450 m)

Dal Promontoire, prima con le pelli e poi con i ramponi, reperire la Brèche de La Meije (100 m, 45°), quindi a seconda delle condizioni scendere il ghiacciaio lato La Grave per circa 300 m e ripellare quindi costeggiando la parete Nord del Gran Pic della Meije fino in corrispondenza dell’attacco del Couloir Gravellotte (sceso da Tardivel nel 1997); proseguire in discesa svelti sotto i seracchi del Corridor fino alla base del Couloir del Serret du Savon che si risale per circa 250 m (massimo 45°) e poi brevemente con le pelli si arriva al Refuge de l’Aigle.

D+ = 900 m circa in funzione del punto delle ripellate

Difficoltà = 3.3 E3 (tratto sotto ai seracchi, couloir a 45° in salita, tratto alpinistico in discesa o possibile doppia dalla Brèche della Meije)

Giorno 3: Refuge de L’Aigle (3.450 m) - Meije Orientale (3891m) - Villar d’Arène (1.600 m) – Pont de l’Arsine (1.700 m) – Refuge Chamossière (2.106 m)

Dal Refuge de l’Aigle salire alla sella Nord della cresta a sinistra della cima della Meije Orientale, percorre tutta la cresta con passi di misto facile in funzione delle condizioni e giungere in vetta. Una volta tornati al luogo dove si sono lasciati gli sci è possibile scegliere tra la discesa del Glacier de l’Homme (soluzione più diretta e che vi porta già più vicino al Rifugio Chamossière senza bisogno di passaggi) o quella del Glacier du Tabuchet da noi percorsa fino a Villar d’Arène. Da qui in autostop raggiungere il parcheggio nei pressi del camping di Pont d’Arsine e in circa un’ora e mezza raggiungere il rifugio con comoda salita.

D+ = 800 m

D- = 2.200 m

Difficoltà = 3.3 E1

Giorno 4: Refuge Chamossière (2.106 m) – Col de la Casse Déserte (3.483 m) – La Bérarde (1.720 m)

Dal Rifugio salire il pianeggiante e lungo vallone di Valfourche passando sotto all’evidente canale Nord della Roche Faurio, poco prima di giungere al canale della Brèche Charrier, ben visibile davanti a voi, svoltare sulla destra e rimontare il vallone via via più ripido (ultimi 100 m a 45°) fino al Col de la Casse Déserte. Da lì scendere i pendii ovest (primi 100 m ripidi, possibile doppia) fino a reperire il vallone di Etacons poco sotto al Rifugio Chatelleret e di qui alla Bérarde.

D+ = 1.400 m

D- = 1.700 m

Difficoltà = 3.3 E2

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124

© Federico Ravassard

Great Himalaya Trail, 24 giorni che ti cambiano la vita

In questi giorni in cui abbiamo tutti un po' voglia di evadere e andare lontano riproponiamo l'articolo sul Great Himalaya Trail e l'impresa del runner sudafricano Ryan Sandes. Per non smettere mai di sognare

Dopo ventiquattro giorni, quattro ore e ventiquattro minuti oppure 1.504 chilometri o ancora 70.000 metri di dislivello positivo su e giù per i sentieri dell’Himalaya con i tuoi piedi impari due lezioni che ti aiuteranno a trovare la strada giusta per il resto della vita. «Dobbiamo apprezzare le cose semplici, ci affanniamo per avere sempre di più e non ci godiamo la nostra famiglia e quello che abbiamo: se sei felice potrai inseguire i tuoi sogni, però se vivi per inseguire i tuoi sogni ma sei infelice, non li realizzerai mai». La prima lezione sembra (ed è) un insegnamento buddista. «Sono stato in villaggi minuscoli, lontani da tutto e da tutti, con tanta povertà, eppure sono felici e ti aprono la porta alle undici di notte, nel buio immenso, ti preparano da mangiare e ti fanno dormire senza chiederti chi sei, mentre noi abbiamo perso il giusto punto di vista e per ritrovarlo non ci rimane altro che scappare dalla civiltà e dal bombardamento di informazioni e social media, camminare nella natura, correre per ritornare in noi stessi». I Beatles andarono in India per ritrovare la loro ispirazione. Il trail runner sudafricano Ryan Sandes, il primo uomo a vincere tutte e quattro le 4 Deserts race, l’uomo che ha vinto una gara ultra-trail in ognuno dei sette continenti, tra le quali anche la Leadville e la Western States, non è nuovo a imprese da record nella natura, eppure il lungo viaggio del Great Himalaya Trail, da un confine all’altro del Nepal, lo scorso marzo in compagnia dell’amico e compagno di tante avventure Ryno Griesel, lo ha fatto tornare a casa diverso. È un viaggio incredibile, dalle vette più alte del mondo alla giungla. Ma è anche un viaggio alla scoperta di se stessi. «È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita, in positivo. Penso che sia stata la tappa finale di un percorso, la cosa più grande che abbia mai fatto e sono molto soddisfatto, ma non la ripeterei».

Il Great Himalaya Trail non è un solo sentiero, ma la combinazione di vari itinerari sia nella parte montuosa del Nepal (GHT High Route) che in quella più popolata e ricoperta dalla giungla (GHT Cultural Route) e va da un confine all’altro del Paese, lungo la direttrice Ovest-Est. Per questo, sebbene Ryan e Ryno abbiano fatto segnare il FKT (fastest known time), non si può parlare di vero e proprio tempo record in quanto un crono di riferimento non esiste data la possibilità di alternative lungo il percorso e le varianti imposte dai tanti imprevisti. Quello seguito dai due sudafricani ripercorre fedelmente le orme del connazionale Andrew Porter dell’ottobre 2016 ma, per esempio, Lizzy Hawker, nel 2016, ha fatto segnare un tempo di riferimento lungo la parte in quota del GHT, tra le montagne. «Quello che volevamo non era un record a tutti i costi, ma un’avventura che unisse la bellezza delle vette più alte del mondo alla possibilità di conoscere la cultura e le città perché per me, che vengo da Città del Capo, trail running significa correre nella natura, ma non in montagna». Una lunga avventura… «Dopo la vittoria alla Western States 100 dello scorso anno cercavo proprio qualcosa del genere e l’Himalaya mi ha sempre attirato, però mi spaventava la lunghezza del percorso perché voglio anche continuare a partecipare alle gare ultra e devo avere il tempo di recuperare». Già, la lunghezza: muoversi a piedi per 24 giorni consecutivi, con una media di 16 ore di attività e poco tempo per dormire e ancora meno occasioni per farlo in un letto, è stato l’aspetto più duro del Great Himalaya Trail di Ryan. «Il ritmo era lento, più lento di quanto sono abituato, e anche questa è stata una sfida: ci sono stati giorni nei quali abbiamo camminato per 20 ore e altri per 12, notti passate nelle case dei nepalesi in villaggi isolati dal mondo e momenti nei quali ci fermavamo giusto una ventina di minuti ogni tanto per dormire sul sentiero o su qualche tavola di legno usata dai pastori, piuttosto che nei loro ripari di fortuna». Impossibile pensare di dormire all’addiaccio nella prima parte del percorso, in quota e in parte ancora innevata, più pratico farlo verso la fine, negli ultimi 300 chilometri, quando Ryan e Rino hanno camminato e corso nella giungla, con temperature che superavano i 30 gradi. Per trovare la motivazione in quei 25 lunghi giorni Ryan si è inventato degli obiettivi giornalieri, ragionando step by step, ma non è sempre stato facile.

©Red Bull Content Pool/Dean Leslie

L’altro aspetto che ha reso difficile il Great Himalaya Trail, soprattutto nella prima parte, è stato l’orientamento. Faceva freddo e il percorso era ancora in parte ricoperto dalla neve. «Ci siamo affidati al GPS, ma di tanto in tanto dovevamo fermarci dieci minuti per ritrovare la traccia; abbiamo calcolato che ogni giorni, in media, perdevamo fino a tre ore per orientarci e in una di queste pause Ryno si è procurato il congelamento di alcune dita della mano perché siamo saliti fino a 5.500 metri di quota con temperature di - 15 gradi e il vento che accentuava la sensazione di freddo».

Quella del cibo è stata la sfida nella sfida. Per scelta e per alleggerire gli zaini è stato deciso di fare tutto il Great Himalaya Trail procurandosi da mangiare lungo il percorso, come dei normali turisti: acquistandolo o facendosi ospitare dai locali. Solo in tre punti c’è stata la possibilità di cambiare gli zaini e i vestiti e nelle tasche trovava spazio qualche barretta, gel o lattina di Red Bull. «Alla fine il mio corpo mi diceva che non ne poteva più di quell’alimentazione e sono stato male un paio di giorni: i nostri pasti consistevano di frittata, riso e lenticchie quando avevamo la fortuna di essere ospiti, oppure di biscotti e cioccolato comprati alle bancarelle e non era proprio l’ideale durante una traversata di 1.500 chilometri».

La mattina del 19 marzo, a 40 chilometri da Patan, Griesel ha iniziato a soffrire di spasmi muscolari nella zona del torace ed è andato in iperventilazione. «Ho veramente temuto che da un momento all’altro cadesse a terra sul sentiero: aveva i battiti del cuore molto alti e la febbre» ricorda Ryan. Mai come in questo momento la fine dell’avventura è stata vicina. «Da una parte non avrei mai voluto che Ryno avesse dei problemi seri di salute, dall’altra so quanto ci teneva a portare a termine il Great Himalaya Trail e che il ritiro sarebbe stata la più brutta notizia per lui, è stato il momento più difficile per tutti». Ci sono mali fisici e mentali e i fantasmi hanno iniziato a popolare il cervello di Ryan. «Ho iniziato a pensare a mio figlio di 19 mesi e a come fosse cresciuto durante questi 24 lunghissimi giorni: quanto mi fossi perso!». Per non farsi mancare nulla, negli ultimi giorni Ryan si è anche imbattuto in una gang locale che, nella notte, li ha inseguiti tra le montagne, anche con le luci delle frontali spente, fino a quando i due non sono arrivati a una locale stazione della polizia. Questo ultimo contrattempo non ha impedito l’arrivo a Pashupatinagar, sul confine con l’India, alle prime luci dell’alba del 25 marzo.

Tre mesi dopo la grande avventura rimangono un centinaio di chilometri in più non preventivati, il messaggio di congratulazioni di Lizzy Hawker, tante energie, la velocità delle gambe ancora da recuperare. E la consapevolezza di avere vissuto 24 giorni che hanno cambiato le vite di Ryan e Ryno.

©Red Bull Content Pool/Dean Leslie

Il Great Himalaya Trail

Il Great Himalaya Trail (GHT) non è un vero e proprio sentiero ma una combinazione di itinerari. Quello seguito da Ryan Sandes e Ryno Griesel ha comportato la partenza da Hilsa, al confine con il Tibet, e l’arrivo a Pashupatingar, dove il Nepal confina con l’India, lungo la direttrice da Ovest a Est. Le stime prevedevano 1.400 chilometri e 70.000 metri di dislivello, ma alla fine la lunghezza totale è stata superiore di poco più di 100 chilometri. Questo percorso è quello seguito dal sudafricano Andrew Porter nell’ottobre 2006 e portato a termine in 28 giorni, 13 ore e 56 minuti. Ryan e Ryno si sono consultati a lungo con Andrew e sono passati da 12 precisi checkpoint che coincidevano con quelli di Porter. Cinque semplici regole hanno dato un senso all’impresa: autonomia nell’orientamento e nell’alimentazione, acquistando il cibo lungo il percorso o facendosi ospitare dai locali, nessun uso di sherpa e muli, pernottamenti all’aperto o nei lodge e nelle case per non appesantire lo zaino, utilizzo di una compagnia di trekking locale per cambiare gli zaini in tre occasioni e l’assistenza per i permessi. Il sito di riferimento per il Great Himalaya Trail, con tutte le informazioni utili per chi volesse percorrere anche solo una parte del GHT, è www.greathimalayatrail.com

I 12 checkpoint

  1. Hilsa
  2. Simikot - km 77
  3. Gamgadhi - km 150
  4. Jumla - km 193
  5. Juphal - km 280 o Dunai - km 290
  6. Chharka Bhot - km 380
  7. Kagbeni - km 444
  8. Thorang La Pass - km 463
  9. Larkya La Pass - km 561
  10. Jiri - km 928
  11. Tumlingtar - km 1.075
  12. Pashupatinagar - km 1.504

 

Gli altri record

  • Sean Burch (UK): 2010 - 49 giorni, 6 ore, 8 minuti (2.000 km - da Est a Ovest, combinazione dell’High e del Cultural GHT).
  • Lizzy Hawker (UK): 2016 - 42 giorni, 2017 - 35 giorni (circa 1.600 km - da Est a Ovest - prevalentemente sulla High GHT Route, evitando i tratti tecnici che richiedono passi di arrampicata).

 

I NUMERI

  • 70 km la lunghezza minima delle tappe giornaliere
  • 120 km la lunghezza massima percorsa al giorno
  • 500 m il dislivello minimo giornaliero
  • 000 m il dislivello massimo giornaliero
  • 124 palle di riso mangiate
  • 43 palle al curry
  • 300 barrette di cioccolato
  • 600 cookie
  • 46 donuts
  • 2 pizze
  • 24 lattine di Red Bull
  • 3 ore di sonno a notte in media
  • 2 le volte che Ryan e Ryno hanno potuto lavarsi i denti
  • 0 le docce fatte lungo il percorso
  • 24 giorni, 4 ore, 24 minuti il tempo fatto registrare da Ryan Sandes e Ryno Griesel

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 119, INFO QUI

©Red Bull Content Pool/Dean Leslie

Fast is the new trendy

Visto che la nostra diretta quotidiana su Instagram sarà con Denis Trento, abbiamo pensato di riproporvi l'articolo pubblicato su Skialper 124 sulle sue imprese in velocità nel massiccio del Monte Bianco in compagnia di Robert Antonioli. Così arrivate preparati ;)

Per tutti coloro che hanno vissuto negli anni avanti Kilian, partire dal fondovalle per scalare una montagna suonerà più blasfemo ancora dell’additare il catalano come una sorta di profeta. Anche io, pur essendo da sempre nel mondo delle gare, in passato poche volte avevo osato provare un simile approccio, se non per salire su vie facili, con la sola ottica di fare un lungo. Con Manfred Reichegger, nei nostri anni da atleti, partendo dal punto più alto raggiungibile con mezzi a motore avevamo salito le normali di Bianco e Jorasses. Una decina di anni fa, quando, sempre insieme, abbiamo scalato l’Innominata al Bianco, solo il fatto di aver snobbato i bivacchi Eccles in favore di una buona cena al Monzino, per l’epoca era sembrata una mezza impresa. Oggi tutto è diverso. Sono cambiati i materiali, i metodi di allenamento, ma soprattutto a essere cambiata radicalmente è la mentalità. Il successo commerciale delle gare di trail ha sdoganato l’idea che, per chiunque, sia possibile percorrere distanze lunghissime, senza per forza doversi fermare a fare tappa nei rifugi.

© Stefano Jeantet

I tempi sono maturati velocemente, mancava però ancora un illuminato che avesse la visione per portare tutto questo dai sentieri alle alte quote, passando però per vie con difficoltà non banali, e a questo ha provveduto Kilian Jornet. Storicamente, non si può dire che a livello alpinistico mancassero gli esempi di salite in velocità: negli anni ’80/’90 tutti i big dell’epoca si sono cimentati in salite lampo e concatenamenti, mettendo al centro del tutto la ricerca della difficoltà, meglio ancora se in quantità sproporzionate. In questi concatenamenti la performance alpinistica andò a comprimere un po’ gli spazi di stile ed etica, ammettendo qualsiasi mezzo per spostarsi da una nord all’altra. Dall’elicottero al deltaplano, l’importante era riuscire ad andare il più velocemente possibile a mettere il sedere nei calci. L’eredità di Profit, Boivin e soci è stata raccolta a distanza di molti anni da Ueli Steck. Purtroppo il suo ricordo rimarrà indissolubilmente legato a un cronometro, mentre il suo stile era invece connotato da un’etica molto severa e da una prospettiva in cui lo sviluppo della velocità era il fattore determinante per fare il passo successivo sulle montagne più alte del mondo. Pur avendo incentrato l’attività sul salire in velocità vie molto tecniche, nel suo ultimo periodo neppure un alpinista con la A maiuscola come Ueli ha potuto rimanere insensibile al nuovo stile che si stava affermando. D’altronde, esiste forse uno stile più logico ed elegante del partire dal fondovalle, scalare una o più montagne e tornare al punto di partenza con il minimo materiale indispensabile, in un solo, rapido, assalto? In questo stile la velocità rappresenta ovviamente una componente essenziale: senza di essa non sarebbe possibile fare così tanto dislivello. Senza di essa non si avrebbe la sensazione di cavalcare le montagne.

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Pur condividendo la ricerca della rapidità, gli approcci a questo tipo di salite sono molto differenti a seconda che si parta dal lato trail running oppure da quello alpinistico. A creare confusione, al di là delle basi culturali, è proprio la disciplina in sé: per la metà del tempo si corre su sentieri, per l’altra metà si scalano vie alpine. Nella prima parte della giornata si starebbe quindi bene in scarpette, pantaloncini e canotta; nella seconda ramponi, piccozze e friend diventano fondamentali per la riuscita. Quanti e quali materiali portare è ovviamente la questione cruciale. In questo caso non esiste una lista ideale, come ama imporre il sindaco di St. Gervais per la salita al Bianco. Il discorso è però molto semplice e, sia in alpinismo che nelle gare di corsa, ha radici antiche: la velocità è inversamente proporzionale al peso. Detto ciò, bisogna essere ben consapevoli che dovrò essere capace di compensare con le mie capacità la mancanza di ogni attrezzo della cui compagnia deciderò di fare felicemente a meno nelle ore di avvicinamento e di ritorno a valle. Come Guida alpina non posso prescindere dall’avere con me attrezzatura alpinistica adeguata e di autosoccorso, con qualche piccolo adeguamento magari sul materiale delle talloniere dei ramponi o sui millimetri della corda. Ma soprattutto, nonostante si vada di fretta, non posso tralasciare le procedure corrette di utilizzo dello stesso quando sono legato con qualcuno (nella fattispecie Robert Antonioli). Con procedure corrette intendo anche lo scegliere di percorrere senza la corda i tratti in cui non ci si può proteggere correttamente. A volte la corda, piuttosto che essere un fattore di sicurezza, comporta soltanto un duplicarsi delle conseguenze in caso di incidente. È quindi ovvio che la ricerca del record o della performance pura passi per lo scalare in solitaria, ma questo è un discorso con implicazioni troppo personali e che comporta un’accettazione del rischio troppo grande per poter essere trattato in poche righe. A ogni modo, anche se il cronometro per uno sportivo è il termine di paragone per eccellenza, fortunatamente nell’alpinismo è solo uno degli elementi per valutare un’ascensione e vale molto meno dell’estetica della via, dello stile con cui viene affrontata e delle difficoltà affrontate. Purtroppo però il tempo rimane l’unico fattore obiettivamente misurabile grazie a cronometri e gps. Va da sé che quindi entri in gioco un po’ di sana competizione ma, visto il numero crescente di praticanti, mi auguro di non arrivare a vedere anche segmenti dell’Innominata su Strava!

3 GIRI IN MONTAGNA IN VELOCITÀ

Nella stagione estiva 2018 Denis Trento e Robert Antonioli hanno concluso ognuno dei tre raduni della squadra di scialpinismo del Centro Sportivo Esercito con un’uscita in quota con difficoltà alpinistiche affrontata in velocità. La prima tappa è stata la salita al Monte Bianco per la cresta dell’Innominata il 28 giugno con partenza e arrivo dal campeggio La Sorgente in Val Veny e rientro dal rifugio Gonella e dal Miage. Secondo step il 4 agosto concatenando la Courmayeur Mont Blanc Skyrace, chiusa al sesto e ottavo posto da Trento e Antonioli, con la cresta di Rochefort e la traversata delle Grandes Jorasses. La discesa è avvenuta dal Boccalatte e poi fino a Planpincieux. Terza e ultima tappa sul Monte Rosa il 25 agosto: partenza da Staffal, nella valle del Lys e giro che ha toccato Lyskamm, colle del Lys, punta Dufour e punta Zumstein. Ogni giro è stato affrontato in modalità fast & light ma con tutta l’attrezzatura alpinistica e di autosoccorso necessaria, seppur nella versione più leggera possibile.

1 — 3.442 M D+ / 3.442 M D- / 35 KM

Camping La Sorgente Monte Bianco (6h10’)

Rifugio Monzino (1h15’) Rifugio Gonella (7h40’)

Bivacchi Eccles (3h10’) Lago Combal (9h25’)

Col Eccles (3h40’) Camping La Sorgente (9h57’).

 

2 — 3.772 M D+ / 3.200 M D- / 24,5 KM

Courmayeur Punta Helbronner (1h52’ Denis Trento, 1h53’ Robert Antonioli) / 25’ cambio di assetto

Gengiva (3h13’) Aiguille du Rochefort (3h40’) Canzio (5h08’) / 10’ pausa punta Walker (8h40’) Boccalatte (10h40’) / 10’ pausa Planpincieux (11h30’)

 

3 — 3.831 M D+ / 3.831 M D- / 35 KM

Staffal Rifugio Sella (2h13’) / 20’ circa di pausa Lyskamm Occidentale (4h10’)

Lyskamm Orientale (4h43’) Colle del Lys (5h15’) Punta Dufour (7h37’) Punta Zumstein (8h31’) Rifugio Mantova (9h42’) / 10’ pausa Staffal (11h39’)

© Stefano Jeantet

QUATTRO CHILI IN MENO

Robert e io abbiamo approcciato questo tipo di salite in modo abbastanza dilettantesco, anche perché la nostra prima salita non era preventivata e l’unica cosa che ci interessava era passare una bella giornata in montagna. In occasione dell’Innominata infatti Robert aveva a disposizione soltanto materiale vetusto e pesante, ma nemmeno io ero veramente al top della leggerezza. Il che ha comportato diversi chili di peso supplementare. Nonostante ciò, quella rimane forse la nostra performance migliore. Nelle salite successive abbiamo prontamente corretto il tiro, riuscendo a selezionare con più precisione il materiale strettamente necessario. Eppure, sommando al materiale alpinistico il vestiario, l’acqua e il cibo, non siamo mai riusciti a partire con meno di otto chili sulle spalle. Per andare sotto quel peso, bisognava scendere a compromessi sulla sicurezza che non eravamo pronti ad accettare. In definitiva, per essere veramente leggeri in montagna bisogna andare da soli e senza corda. Meglio ancora se nudi e scalzi! Tabella comparativa tra materiale convenzionale (vale a dire quello che Denis avrebbe utilizzato lavorando come Guida alpina) e quello più leggero che è stato realmente utilizzato. Bisogna ricordare che adottando uno stile convenzionale, per queste salite al 90% bisogna aggiungere il materiale da bivacco: intimo di ricambio, fornellino, pentolino, posata, cibo liofilizzato. Il che aggiunge almeno un altro chilo al peso della zaino.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124

© Stefano Jeantet

Cresce il team RaidLight, in Italia e all'estero

Sono sempre di più gli atleti che hanno scelto le scarpe da trail running RaidLight, a conferma della validità della collezione lanciata solo un anno fa dal marchio francese. Una collezione che è stata progettata in Italia, nei laboratori del Gruppo Rossignol di Montebelluna, nel cuore del distretto della calzatura sportiva. Dopo Nathalie Mauclair, Christophe Le Saux e Maite Maiora tra i top internazionali si è aggiunto anche lo spagnolo Jordi Gamito, che in palmarès ha risultati prestigiosi come la vittoria al Grand Raid Réunion o il terzo posto all’UTMB-Ultra Trail du Mont Blanc e al MIUT-Madeira Island Ultra Trail. A livello italiano ritorna il Team Raidlight Italia con due nuovi ingressi – il bergamasco Donatello Rota e il sardo Sandro Solinas – che vanno ad aggiungersi a Nicola Bassi, Stefano Trisconi, Daniel Degasperi, Mauri Basso, Roberto Fregona, Tommaso De Mottoni, Roberto Scandiuzzo e Laura Palluello. Sono proprio gli atleti i principali collaudatori delle scarpe RaidLight che per la nuova stagione si presentano con nuovi colori molto cool e sempre fedeli all’hashtag no time for compromise. Quattro modelli di calzature che accontentano tutti i runner off road, dalla strada bianca al single track, dall’appassionato all’atleta elite. Revolutiv, Responsiv XP, Ultra e Dynamic sono inoltre le prime scarpe del mondo trail a utilizzare la tecnologia NFC: avvicinando lo smartphone alle calzature si possono visualizzare maggiori informazioni sui singoli modelli e su RaidLight.

 

MEDIE E LUNGHE DISTANZE: RESPONSIV ULTRA

La parola chiave per capire la Responsiv Ultra, nell’aspetto simile ad altre calzature massimaliste, è cushioning dinamico e durevole. Infatti l’idea RaidLight di cushioning non è legata solo alla morbidezza. Perché sulla distanza il piede deve essere sostenuto, perché quando si è stanchi c’è bisogno di un aiuto. Così l'intersuola è in EVA iniettata a bassa compressione per rilasciare con gradualità e nel tempo la giusta ammortizzazione ed evitare che l’intersuola ‘si sfondi’ dopo tanti chilometri. La forma RL Relax Last è ampia con un profilo della punta arrotondato per garantire comfort fino a distanze molto lunghe, quando i piedi si gonfiano e tendono ad allungarsi.

Drop: 6 mm

Peso: 270 g

Colori: Black/Lime Green - Lime Green/Blue (uomo) Pink/Light Blue (donna)

Prezzo: 140 €

Tecnologie

RL Relax Last: una forma studiata appositamente per garantire alla scarpa maggiore comfort, grazie alla punta arrotondata e al “relax fit” che evita anche nelle lunghe distanze il senso di costrizione del piede

Intersuola ad alto cushioning: in EVA iniettato di alta qualità capace di donare alla scarpa un’ammortizzazione duratura nel tempo

M-Lock Band: tecnologia che evita la costrizione del piede e aiuta l’equilibrio con la naturale dilatazione che si verifica dopo molte ore di corsa grazie a una fascia di compressione elastica (band) posizionata sopra la parte superiore, che dà sostegno senza limitare il flusso sanguigno

Sottopiede con tecnologia Sensor3: da un’idea sviluppata dal centro ricerche del Gruppo Rossignol, nasce la tecnologia Sensor3: un sottopiede di densità variabile dotato di tre zone destinate ad assorbire gli urti derivanti dall’impatto della corsa. Questo assicura un maggior ritorno di energia e si traduce in una migliore ammortizzazione e quindi in un maggior comfort durante la corsa, anche su lunghe distanze

Puntale rinforzato: per proteggere la parte anteriore del piede

Supporto anatomico del tallone: grazie a un supporto interno del piede la scarpa ha una maggiore stabilità

Sistema di attacco della ghetta sulla parte anteriore del piede

 

CORTE E MEDIE DISTANZE, TERRENI CORRIBILI: RESPONSIV XP

È una scarpa veloce per i sentieri e le strade bianche tipiche del trail running, dove si può aprire il gas la Responsiv XP. Nel suo DNA ci sono velocità, leggerezza e precisione. La struttura interna collegata direttamente con il sistema di allacciatura (tecnologia RL XP) avvolge completamente il piede, garantendo un fit su misura. Il piede è tenuto in una posizione stabile anche durante i movimenti laterali, senza applicare pressione o limitare il movimento all’altezza del metatarso e delle articolazioni delle dita dei piedi. L'intersuola e il plantare Sensor3 con diverse densità di ammortizzazione aiutano ad assorbire gli impatti tra il piede e il terreno, contribuendo a migliorare la dinamica di corsa.

Drop: 4 mm

Peso: 280 g

Colori: Lime Green / Blue - Light Blue/ Blue (donna)

Prezzo: 150 €

Tecnologie

RL Slim Last (Slim Fit / Technical, profilo arrotondato)

Tecnologia RL XP: sistema di supporto del piede: avvolge e fornisce supporto senza comprimere

Intersuola e plantare Sensor3: intersuola in EVA termoformata a doppia densità per un cushioning superiore

Puntale rinforzato: protegge la parte anteriore del piede

Supporto anatomico del tallone per una maggiore stabilità

Suola Sensor XP (battistrada 4 mm)

Linguetta anatomica per un maggiore comfort

Tecnologia NFC: avvicinando il cellulare alla scarpa si possono visualizzare maggiori informazioni sulla calzatura e sul mondo RaidLight

 

CORTE E MEDIE DISTANZE, TERRENI TECNICI: RESPONSIV DYNAMIC

In poche parole, per chi cerca grip, leggerezza, reattività per gare corte e veloci. E poi tanta traspirabilità grazie alla tomaia in mesh. La suola Dynamic Sensor con battistrada aggressivo con tacchetti da 6 mm rende questo modello ultra versatile e reattivo in tutti i tipi di terreno. È inoltre dotato di intersuola a doppia densità e plantare Sensor3. Diverse densità di ammortizzazione aiutano ad assorbire gli impatti tra il piede e il terreno, contribuendo a migliorare il dinamismo della corsa.

Drop: 6 mm

Peso: 290 g

Colori: burnt orange - lime (uomo), turquoise (donna)

Prezzo: 135 €

Tecnologie

RL Regular Last (Vestibilità regolare / Versatilità, Profilo punta asimmetrica)

Intersuola e plantare Sensor3: intersuola in EVA a doppia densità termoformata che supporta e ammortizza aree separate del piede per dinamismo e comfort

Barra di torsione nell'intersuola per una maggiore stabilità

Suola Dynamic Sensor3 (battistrada 6 mm)

Puntale asimmetrico: a forma di piede, protegge le dita dei piedi

Supporto anatomico del tallone: ​​supporto interno del piede per la stabilità

Lingua anatomica per un maggiore comfort

Sistema di attacco ghetta sulla parte anteriore del piede

Tecnologia NFC per ottenere ulteriori informazioni sulla scarpa semplicemente avvicinando lo smartphone

 

CORTE E MEDIE DISTANZE, ANCHE PER I TERRENI PIÙ DURI: REVOLUTIV

È parente della Responsiv Dynamic, con cui condivide intersuola e battistrada, ma la tomaia in materiale ‘chiuso’ la rende una scarpa diversa, che punta tutto su grip, protezione e precisione, perfetta per i terreni più impegnativi. La tecnologia TWS (Tendon Wrapping System) offre supporto ai piedi che diventano una cosa sola con la scarpa, mentre al grip ci pensa la suola Dynamic Sensor con tassellatura pronunciata (6 mm). La Revolutiv è inoltre dotata di intersuola a doppia densità e plantare Sensor3. Diverse densità di ammortizzazione aiutano ad assorbire gli impatti tra il piede e il terreno, contribuendo a migliorare la dinamica di corsa.

Drop: 6 mm

Peso: 290 g

Colori: Black - Black/Blue (uomo) - Light Blue/ Blue (donna)

Prezzo: 150 €

Tecnologie

RL Regular Last (Regular fit / Versatilità, profilo asimmetrico della punta)

Intersuola e soletta Sensor3: intersuola in EVA a doppia densità termoformata che sostiene e ammortizza

Suola Dynamic Sensor

TWS (Tendon Wrapping System): migliora il comfort e l’avvolgimento del piede all’interno della scarpa

Puntale asimmetrico: riprende la forma del piede e protegge le dita dei piedi

Supporto anatomico del tallone: supporto interno del piede per una maggiore stabilità

Allacciatura SpeedLace (nella confezione sono presenti anche i lacci tradizionali)

Stampe riflettenti (stelle RaidLight)

Sistema di aggancio per ghette sulla parte anteriore del piede

Tecnologia NFC (avvicinando il cellulare alla scarpa potrete avere maggiori informazioni sulla calzatura e sul mondo RaidLight)


Free republic of La Grave

Seduti sul divano, sogniamo nuove avventure. E allora, per iniziare a programmarle queste avventure, vi riproponiamo il nostro storico reportage su La Grave.

La Grave. Poco più di 500 abitanti, una manciata di hotel, due pub, una telecabina vecchia quasi quarant’anni e uno ski-lift sul ghiacciaio per salire da 1.400 a 3.600 metri, poco più o poco meno. Chilometri di piste battute: zero. Definire La Grave una normale stazione sciistica, almeno secondo i nostri canoni, sarebbe quantomeno inappropriato: qui si viene per sciare liberi, il più possibile. Nelle strade del paese non ci sono negozi di moda, non incontri signore con pelliccia e chihuahua al guinzaglio e i fighetti del freeride, quelli con tutoni colorati perfettamente puliti e sci da 130 mm al centro senza neanche una riga. In compenso conosci Guide in pensione che al mattino suonano il sax e bevono Pastis, ragazzi svedesi che passano qui la stagione con l’unico obiettivo di sciare e sciare ancora e americani che sfoggiano orgogliosi i portasci appartenuti a Glen Plake sulla loro auto. Ci si può innamorare di una manciata di case annidate ai piedi di un ghiacciaio? A noi, nei cinque giorni passati lì, è successo. L’esperienza dello sci in questo villaggio fuori dal tempo e dalle regole comincia con la sua telecabina. Trenta cabine, divise a gruppi di cinque, lente e scricchiolanti. Ci sali sopra sapendo che potresti anche rimanere lì per tre quarti d’ora, si può dire che il loro ritmo rispecchi quello degli abitanti, lento, rilassato e assolutamente noncurante di ciò che succede nel mondo esterno, al di là del Col du Lautaret. Arrivati in cima, quello che ti si para davanti non ha paragoni in nessun altro comprensorio sciistico: qui non lo si può neanche chiamare sci fuoripista, perché, di fatto, la pista non esiste. Neanche un chilometro di neve battuta. Solo itinerari liberi, su tutti i versanti e di tutti i tipi. Larghi valloni di facile accesso, canali con avvicinamenti alpinistici, tour di più giorni attraverso i ghiacciai, boschetti verticali cosparsi di cliff. E nel caso non si fosse sazi, sul versante opposto si trovano ancora altre discese, da cui si rientra poi sfruttando gli impianti di Les 2 Alpes, poiché il ghiacciaio sommitale è lo stesso. Le alternative sono letteralmente infinite, si possono mettere le pelli per arrivare all’imbocco di un canale polveroso, per poi continuare giù per ampi pendii in neve trasformata e scendere in paese rimbalzando su gobbe ghiacciate tra gli alberi. Il tutto ripetuto più volte dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio, che tanto del pranzo se ne può anche fare a meno.

© Federico Ravassard

IL SINDACO GUIDA E LA COMMISSIONE Non esiste una località sciistica al mondo gestita come La Grave. Il sindaco, Jean-Pierre Sevrez, con un passato da Guida alpina (anche questa una notizia non comune…), risponde alle autorità nazionali in caso d‘incidente sulle montagne e per questo ha le sue responsabilità in un comprensorio dove si può scendere praticamente ovunque. Responsabilità delle quali si fa carico con l’aiuto della ‘Commissione’, un gruppo di volontari che si riunisce dopo le nevicate o quando c’è brutto tempo per valutare le condizioni della montagna. La TGM (Télépherique des Glaciers de la Meije), società che gestisce la telecabina, si occupa esclusivamente di portare in quota le persone. La decisione ultima sull’apertura o chiusura però spetta al sindaco. Un sistema che finora ha funzionato, con qualche scricchiolio. Nella scorsa estate lo skilift sul ghiacciaio, che garantiva l’apertura per lo sci estivo, non ha girato. Problema di responsabilità. Secondo Denis Creissels, presidente della TGM, non spettava alla TGM garantire la sicurezza. In passato le piste aprivano con l’avallo degli allenatori degli sci club che si allenavano ma per questa estate la società che gestisce l’impianto non se l’è sentita di accollarsi ancora la responsabilità.

L’ATMOSFERA: IL COVO DEGLI SKI-BUM Lo ski-bum è un tipo di individuo caratterizzato da un’età variabile dai 18 ai 99 anni e un’unica, dannatamente importante, priorità: sciare il più possibile. Per farlo, tutto il resto è secondario: basta guadagnare il minimo necessario facendo il lavapiatti alla sera, fare del riscaldamento in casa un optional costoso e della birra con genepì la principale fonte di nutrimento. L’aria che si respira a La Grave è unica. Sciatori di tutte le nazionalità, tantissimi nordici e americani e ovunque facce che ti sorridono, pronte a condividere una discesa o una cena insieme. Certamente nei giorni di powder nessuno è amico di nessuno, ma non c’è quella tensione permanente che si respira nelle località come Chamonix: qui è tutto più rilassato e i local sono i primi a volere essere ospitali. Un esempio? L’avere dormito due notti a casa di un barista conosciuto la sera prima.

© Federico Ravassard

LA COLONIZZAZIONE DI DOUG COOMBS Tra i personaggi che hanno il merito di avere reso La Grave quella che è, non si può non fare il nome di Doug Coombs (avete presente i K2 Coomback?). Famoso per avere vinto il primo World Extreme Skiing Championship nel 1991 a Valdez, Alaska, e avere dato anche il via all’heliski nella stessa zona, Coombs iniziò a organizzare camp di sci ripido a Jackson Hole dopo l’incontro con Patrick Vallençant, che aveva già avviato attività simili a Chamonix. Dopo pochi anni scoprì La Grave, dove si trasferì e spostò i suoi corsi, facendola conoscere al pubblico d’oltreoceano. Come una calamita, diversi sciatori decisero poi di seguirlo, tra cui Pelle Lang e Joe Vallone, che hanno raccolto l’eredità di Doug, scomparso nel 2006 insieme a Chad Vander Ham in un incidente nel Couloir Polichinelle, sulla montagna che lo aveva adottato. La figura di Doug è ormai entrata a fare parte della storia di La Grave: ovunque viene esposta la sua attrezzatura (ad esempio, una custodia per gli occhiali utilizzata come ancoraggio per una sosta, visibile allo Skiers Lodge). Oppure basti pensare alla grafica degli attuali Coomback, realizzata utilizzando una cartina topografica della zona da un’idea di Pelle per commemorare l’amico.

JOE VALLONE, FROM USA TO LA GRAVE Joe l’abbiamo conosciuto quasi per caso, una mattina al bar. La sua storia è pazzesca: newyorkese di nascita, negli anni ’80 si spostò in Colorado per iniziare una carriera in quello che era il freeski delle origini, fatto di gobbe e tute dai colori fluo. Poi la scoperta della montagna, quella vera, ad opera dell’amico e mentore Doug Coombs, che lo convinse a spostarsi in Francia e a diventare Guida alpina, finendo infine per prendere la residenza fissa a La Grave. Joe è stato protagonista di una delle migliori discese fatte durante il nostro soggiorno. La sera prima ci aveva chiesto se avessimo già programmi per l’indomani. «Not really» la nostra risposta. Così, quasi per caso, io e Margherita ci siamo ritrovati catapultati in un sogno, a sciare il Couloir La Voute in compagnia di Joe, Micah e Zahan, in un clima che non si sarebbe respirato da nessun’altra parte.

PELLE LANG E LO SKIERS LODGE Assieme a Joe, Coombs ha fatto arrivare a La Grave un altro ski-bum: Pelle Lang, Guida alpina svedese dai modi pacati, da annoverare fra coloro che hanno reso conosciuta all’estero La Grave. Nel 2003 Pelle mise le mani su un vecchio hotel che restaurò in gran parte da solo, dando forma a quello che oggi si chiama Skiers Lodge. Una struttura unica nel suo genere, poiché oltre ai servizi alberghieri può contare su uno staff di 15 Guide alpine di tutte le nazionalità che ogni giorno accompagnano gli ospiti dell’albergo. Durante la nostra cena una domanda ha fatto brillare gli occhi a Pelle. Quando gli ho chiesto se La Grave fosse cambiata dal suo arrivo negli anni ’90, lui ha risposto con un sorriso e una parola: «No».

LA GRAVE BY NIGHT Quando finisci di sciare, qui sei solo a metà dell’opera. Subito, con ancora gli scarponi ai piedi, dall’arrivo della funivia attraversi la strada ed entri al bar dell’Hotel Castillon, dove ritrovi tutti quelli con cui hai sciato nell’arco della giornata. Tutti con il sorriso stampato sulla faccia, dallo svedese che si è preso una pausa dal Freeride World Tour, alla signora austriaca di mezza età che una pausa l’ha presa dal suo lavoro come manager. Dopo cena le scelte non sono molte, ma non ne faranno rimpiangere altre. Il Bois des Fées si spartisce la piazza (e i fegati degli abitanti) con il K2 Pub. Quando trovate uno dei due chiuso, è perché i suoi baristi sono a fare festa nell’altro. La sera del nostro arrivo un prestigiatore stava segando una donna in tre al Bois des Fées, mentre Lambert, barista del K2, spillava birre al genepì dietro il bancone dei ‘concorrenti’. Qualcuno, non ricordo più chi, mi ha avvertito di non prendere il punch perché, a quanto pare, era corretto con LSD.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 108, SE VUOI RICEVERE TUTTI I NUMERI DI SKIALPER A CASA TUA ABBONATI

© Federico Ravassard

Le migliori birre après-ski

Visto che abbiamo lanciato il numero 129 #inspired by pizza power... con una buona pizza non può mancare la giusta berretta. Ed ecco che vi proponiamo il test che abbiamo pubblicato sul numero 109 ;)

Un classico di fine gara, una birretta. Sì, ma quale? Facciamo un test? Allora abbiamo chiamato Luca Giaccone, che non sono io, ma un mio omonimo che è anche uno dei più importanti esperti del settore, autore della guida Slow Food sulle birre. Io al massimo vi avrei detto: «a me piacciono le birre che sanno di birra». Lui sa tutto in materia. Così abbiamo cercato un po’ di birre in mezzo ai monti, quelle artigianali così come quelle ‘industriali’. Non tutte per carità, ma un po’ di valli sull’arco alpino le abbiamo toccate. Una sorta di edizione zero, senza pretese di avere trovato tutte le birre possibili, senza dare giudizi definitivi. Poi abbiamo chiamato un terzetto di ‘esperti’: un atleta, Pippo Barazzuol, che abbiamo scoperto che la birra se la fa in casa, una Guida alpina, Alessio Cerrina e un allenatore di sci, freerider e gestore di rifugio (il Valasco nelle Alpi Marittime), Andrea Cismondi, per avere anche un loro parere.

© Federico Ravassard

«Le degustazioni, quelle vere - ha subito messo le cose in chiaro Luca Giaccone - sono per pochi e interessano pochi. Alla fine ognuno beve la birra che preferisce. Ma una cosa è certa, fa bene e vi porto l’esperienza di mio padre che a 80 anni fa ancora tanti chilometri in bicicletta all’anno e tutti i giorni si beve una birra…». Luca ha spiegato le differenze tra le etichette, gli errori più comuni, ci ha insegnato a sentire i profumi, pensate, persino a riconoscere la provenienza dei luppoli. Ci ha raccontato migliaia di aneddoti, con una passione dentro che eravamo tutti lì assorti nei suoi fantastici discorsi. E poi Claudio Manoni, chef del Caffè Bertaina di Mondovì, dove siamo stati ospiti, si è fatto prendere con una serie di piatti incredibili, giusti per i vari abbinamenti. Cibo-birra, altra aspetto che pochi di noi prima avevano considerato. Cosa ne è venuto fuori? Che le birre si distinguono in due grandi famiglie, lager (a bassa fermentazione) e ale (ad alta fermentazione) e forse questo lo avevamo letto da qualche parte. Che quando si versa nel bicchiere la schiuma bisogna farla eccome, che il doppio malto è una dicitura tutta italiana che non esiste nel mondo, che più che la data di scadenza bisognerebbe inserire quella di produzione, perché molte birre maturano nel tempo. Che le birre industriali tanto male non sono, anzi: se prodotte con qualità all’inizio perdono pochissimo nel processo di pastorizzazione, prima dell’imbottigliamento. Che il livello dei birrifici italiani è molto alto (pensate che la birra Elvo di Graglia, nel Biellese, che – ahimè - non abbiamo bevuto, ha vinto tre premi all’European Beer Star, battendo anche i tedeschi nella categoria German style…), che molti propongono abbinamenti particolari e interessanti, persino il genepy. Abbiamo capito che c’è la birra ideale per il fine-gara che va giù leggera che è una meraviglia, quella che va benissimo con un piatto di ravioli, quella che serve nel relax davanti al camino. Insomma che ognuno può trovare la birra che preferisce. Qualcosa abbiamo capito, abbiamo un briciolo di consapevolezza di quello che beviamo e siamo pronti a un vero test, il più atteso della prossima stagione. E allora, mastri birrai, segnalateci le vostre birre, atleti e appassionati mandateci la vostra candidatura e soprattutto il vostro curriculum in materia...

© Federico Ravassard

IL TEST

ARTIGIANALI

 

TROLL Daü

Vernante (CN)

www.birratroll.it

Gradazione alcolica: 3.9

Descrizione: dal birrificio della Val Vermenagna una birra bionda e aromatizzata. L’abbiamo bevuta come aperitivo ed è piaciuta a tutti per la sua leggerezza tanto che alla fine l’abbiamo nominata come la più adatta per il dopo gara.

 

BEBA Toro

Villar Perosa (TO)

www.birrabeba.it

Gradazione alcolica: 6.8

Descrizione: una birra ambrata, molto profumata e corposa. Poca amara: viene consigliata con le carni rosse o i formaggi, noi l’abbiamo bevuta con i ravioli al plin: un abbinamento che è piaciuto tantissimo a tutta la tavolata.

 

LES BIÈRES DU GRAND ST. BERNARD Gnp

Etroubles (AO)

www.lesbieres.it

Gradazione alcolica: 8

Descrizione: il birrificio valdostano si trova sulla strada del Gran San Bernardo: tra le tante birre prodotte abbiamo scelto quella al genepy. Una pils con gradazione alcolica più alta, che va benissimo lontano dalla gara, nei momenti di relax.

 

REVERTIS 33

Caiolo (SO)

www.revertis.it

Gradazione alcolica: 5

Descrizione: il birrificio valtellinese utilizza il livello di amaro misurato in percentuale per nominare tutti i suoi prodotti. Abbiamo bevuto la 33: una pils piacevole che ha sorpreso tutti per i suoi profumi, facilmente riconoscibili.

 

BATZEN BRÄU Urporter

Bolzano

www.batzen.it

Gradazione alcolica: 5.5

Descrizione: un birrificio nel cuore di Bolzano nella storica Ca’ de Bezzi dove bere e mangiare. Da qui arriva la Batzen Bräu: noi abbiamo bevuto la Porter, birra ad alta fermentazione e di colore nero. Piaciuta a tutti, da bere a fine serata davanti al camino.

 

SUPERMERCATO

 

MENABREA La 150° bionda

Biella

www.birramenabrea.it

Gradazione alcolica: 4.8

Descrizione: la 150 è la birra prodotta per celebrare i 150 anni di fondazione del birrificio biellese. Abbiamo scelto la lager, una bionda sempre molto bevibile. Va benissimo dopo una lunga gita.

 

PEDAVENA

Pedavena (BL)

www.fabbricadipedavena.it

Gradazione alcolica: 5

Descrizione: una istituzione per i veneti, la birra Pedavena, insieme all’altra linea, la birra Dolomiti. Birra chiara e leggera che è piaciuta molto, anche in questo caso ideale per ‘consolarsi’ nel dopo gara.

 

FORST Kronen

Forst/Lagundo (BZ)

www.forst.it

Gradazione alcolica: 5.2

Descrizione: alzi la mano chi andando verso la Val Venosta non si è fermato a mangiare e bere alla Forst. Noi abbiamo bevuto la Kronen, una birra corposa, ma davvero gradevole.

 

ALTRE ARTIGIANALI

 

1816 LA BIRRA DI LIVIGNO Pils

Livigno (SO)

www.1816.it

Gradazione alcolica: 4.8

Descrizione: la birra più alta d’Europa, questo il lancio del birrificio di Livigno con si identifica nella quota di produzione. Classica bionda, fresca e leggera.

 

STELVIO Dahu

Bormio (SO)

www.birrastelvio.it

Gradazione alcolica: 6

Descrizione: l’azienda di Bormio che produce il Braulio ha anche la linea di birre, la Stelvio. Una birra rossa dove si sente la tostatura del malto. L’abbiano bevuta insieme ai formaggi: un ottimo abbinamento.

 

MASO ALTO Ruspante

Lavis (TN)

www.masoalto.com

Gradazione alcolica: 5.5

Descrizione: si chiama agribirrificio perché producono anche orzo e luppolo utilizzati poi nelle birre. Tra le tre birre trentine abbiamo bevuto la Ruspante: birra ambrata, ottima con i formaggi.

 

BIRRA DI FIEMME Weizenbier

Daiano (TN)

www.birradifiemme.it

Gradazione alcolica: 4.8

Descrizione: dalla Val di Fiemme, abbiamo scelto la Weizenbier. Poco amara e dal sapore fruttato dove si avverte l’aroma di chiodi di garofano.

 

UN'ALTRA BIRRA DA SUPERMERCATO...

 

CASTELLO La Decisa

San Giorgio di Nogaro (UD)

www.birracastello.it

Gradazione alcolica: 4.8

Descrizione: dal Friuli ecco la birra Castello. Abbiamo provato La Decisa: una lager a bassa fermentazione. Equilibrata e piacevole da bere.

 

... PER LA PIERRA MENTA...

 

BRASSERIE DU MONT BLANC La Blanche

La Motte-Servolex (FRA)

www.brasserie-montblanc.com

Gradazione alcolica: 4.7

Descrizione: quando si va alla Pierra Menta si trova un po’ dappertutto la birra prodotta vicino a Chamonix. Tra le tante abbiamo bevuto La Blanche. Davvero piacevole, leggera, perfetta insieme ai formaggi.

 

ALPHAND Stout

Vallouise (FRA)

www.brasserie-alphand.com

Gradazione alcolica: 5

Descrizione: la birra prodotta da Luc Alphand, insieme al fratello Lionel, nei pressi di Briançon. Tra le tante birre in produzione abbiamo scelto la Stout che ricorda un po’ le irlandesi. Ottima per il fine serata.

 

... E INFINE UNA SPECIAL GUEST

 

BARAZZUOL Pippo

A casa sua

Gradazione alcolica: non si sa...

Descrizione: special guest, la birra di casa Barazzuol. Se la fa lui e se la beve solo lui, ovviamente. A Pippo piace e a noi? Sì, e ha anche passato anche l’esame di Luca Giaccone. Qualche piccola modifica da apportare nella produzione, ma ci siamo.

 

IL PARERE DEL MEDICO

Proibita per i top, ok per gli altri

Anche se dopo la gita è spesso una tradizione consolidata e socialmente molto coinvolgente, la birra, come tutti gli alcolici, non dovrebbe far parte della dieta standard dell’atleta. Prima e durante gli allenamenti o gare è assolutamente controindicata, nel recupero è spesso concessa anche se il suo poco alcol può essere sufficiente a compromettere questa importantissima fase della preparazione atletica. Non vorrei però neanche demonizzare la birra: per prima cosa ha poco alcol, meno della metà del vino per esempio, poi contiene una quantità di sali non trascurabile (potassio e fosforo, ma molto dipende dal tipo di acqua utilizzata per la preparazione) e non ultimo è ricca di folati, vitamine indispensabili al nostro organismo. Quindi? Per gli atleti di vertice, i professionisti che vivono del loro fare sport, la birra, come gli altri alcolici, secondo me è un piacere proibito, chi invece, come la maggior parte di noi, fa sport per il piacere di farlo e non ha sogni olimpici, può godersi tranquillamente la sua birra, senza esagerare, dopo una gita epica. Non siamo in fondo nati solo per soffrire anche se il piacere può avere un prezzo da pagare.

Alessandro Da Ponte

 

 

 


Lo sci come scusa

Continuiamo a pubblicare gli articoli di viaggio più belli usciti su Skialper per non perdere la voglia di sognare.

Essendo cresciuta a Salt Lake City, non ho mai avuto bisogno di viaggiare per andare a sciare. Le Wasatch Mountains sono piene di linee incredibili e per la maggior parte della stagione ricoperte dalla migliore neve della terra.  Lo sci è la mia scusa per partire alla scoperta di un mondo diverso. Così, quando scelgo di viaggiare, cerco solitudine e avventura in posti dove non molti altri sono andati. Quando hai tanta bella neve a casa, il viaggio vuol dire esplorare le vette spelacchiate dal vento delle Ande, affrontare i couloir vista oceano dell’Islanda. O sciare uno degli ultimi ghiacciai dell’Africa.

Montagne della Luna - Uganda

«A me sembra molto spaventoso - dice la nostra guida al Rwenzori, Enock, mentre scuote con decisione la testa - Tutti questi crepacci e la pendenza. Molto spaventoso». Faccio click nei miei attacchi sulla parte più alta del Ghiacciaio Margherita. Si tratta di un caos frammentato di ghiaccio soffocato dai detriti che precipita dalla terza cima più alta dell'Africa prima di fondersi in una lussureggiante giungla equatoriale e di fluire a valle per formare il Nilo. Nonostante si sia stia sciogliendo molto velocemente, il Ghiacciaio Margherita è il più grande rimasto in Africa. Il climate change ha ridotto quelli sul Kilimangiaro e sul Monte Kenya a minuscole schegge, semplici ricordi della loro originaria grandezza. Ed è per questo che siamo qui, dopo sei giorni di avvicinamento, a mettere gli sci ai piedi per la prima volta. Siamo arrivati sulle montagne dopo una settimana di marcia lungo un sentiero appena tracciato nella foresta pluviale dell'Uganda, dove le scimmie gridano nel verde intenso e i camaleonti passano pigramente il tempo su foglie più grandi della mia testa. Le foreste di bambù, vere e proprie ripide scale di fango tra mura di fogliame, sembravano essere state create con il preciso scopo di fare ingarbugliare le punte degli sci che sporgevano dai nostri zaini. Poi sono arrivate le famigerate torbiere verticali, vale a dire un bel trekking nelle pozzanghere che ha occupato i giorni rimanenti, mentre noi alternativamente sprofondavamo fino al ginocchio nella melma o saltellavamo tra i ciuffi d'erba che sporgevano dalla palude.

Quando finalmente siamo entrati nella zona più montuosa, il nostro sguardo per un istante ha catturato, in lontananza, delle creste ondulate, quasi dei marosi: le mitiche Montagne della Luna. Punteggiato da maestose cime innevate ma dalla vetta rocciosa, un po’ come i Nunatak, questo massiccio che supera di poco i 5.100 metri ha suscitato l’interesse dei viaggiatori già nel 150 d. C. quando Tolomeo, il geografo greco, lo identificò per la prima volta come la sorgente del Nilo. Nei secoli successivi scrittori, scienziati, alpinisti e alcuni sciatori hanno viaggiato per testimoniare quanto sono anomale queste montagne ghiacciate che si ergono sopra una giungla tropicale soffocante. La nostra salita verso la vetta è iniziata alle tre e trenta del mattino. La luce brillante delle stelle si rifletteva sulla cresta frastagliata mentre salivamo su strisce di roccia lucidate da migliaia di anni di scrub glaciale. Gli sci tintinnavano sulle spalle nel buio della notte. Con me c’erano altri tre sciatori con la vocazione di Tarzan: Brody Leven, Kasha Rigby e Robin Hill. Arrivati a un piccolo ghiacciaio piatto lungo la salita per il Picco Margherita, ecco che ci siamo trovati completamente avvolti nella nebbia e il cielo è diventato scuro. «Nove anni fa ci sarebbero voluti quarantacinque minuti per attraversare le nevi eterne in questo punto» spiega Enock, mentre segue i pali di bambù che segnano il percorso. Il ghiaccio si sta sciogliendo così velocemente che a noi ne bastano quindici. Dopo quello che abbiamo visto negli ultimi giorni, sembra incredibile essere arrivati finalmente su un ghiacciaio. Un bagliore arancione color fuoco filtra attraverso le nuvole mentre ci mettiamo i ramponi e iniziamo a salire verso il punto più alto dell'Uganda.

© Mary McIntyre

Il ghiacciaio conduce a una cresta sommitale insidiosa, dove facciamo scrambling fino a 5.109 metri di quota e al confine tra l'Uganda e la Repubblica Democratica del Congo. Guardando le valli popolate di foreste impenetrabili, i grandi laghi scuri e le file di cime scoscese e rocciose ornate da sbuffi di nebbia si capisce perché i gruppi estremisti abbiano usato questa regione per organizzare attacchi di guerriglia durante l'ultima guerra civile. È un luogo soprannaturale, spettrale e impenetrabile. L'aria umida proveniente dalla giungla viene trasportata in alto in raffiche calde e, mentre respiro il suo odore, il mio sguardo scivola verso il basso. È finalmente ora di sciare. Mentre taglio le prime curve sulla neve resa soffice dal sole, nella parte alta del ghiacciaio, la mia mente viaggia verso le prime parole che abbiamo scambiato in questo viaggio: «Potrebbe non esserci affatto la possibilità di sciare - ha detto ossessivamente Brody, assicurandosi che fossimo preparati per il peggior scenario possibile - Non voglio che nessuno abbia false aspettative su quello che troveremo». Eppure lo sci supera le aspettative e io sfrutto al massimo il dislivello che siamo riusciti a mettere insieme con tanta fatica. Vicino alla fine del ghiacciaio disegniamo curve proprio sotto formazioni di ghiaccio fantasticamente scolpite.

Mi avvicino alla punta del ghiacciaio: un passaggio ripido e ghiacciato che abbiamo salito legandoci. Brody accenna una curva saltata che porta all'amara fine. Le lamine stridono sulla sabbia e sulla roccia incastonate nel ghiaccio antico. Passiamo su lastre di roccia appena rivelate, nascoste sotto una guaina gelata dall'ultima era glaciale e osservando silenziosamente le gocce che si sciolgono formando rigagnoli, quindi ruscelli e laghetti color acquamarina nel loro viaggio a valle. Enock gesticola per mostrarci una scala bianca che ondeggia senza speranza sulle rocce, 15 metri sopra le nostre teste: «Tre anni fa siamo scesi sul ghiaccio, ecco quanto si è sciolto». Guardare questo rudere del recente passato ci lascia attoniti, nella vastità del ghiaccio che è svanita e nel tempo infinitesimale che è bastato per farla scomparire. Tornando al campo base, Enock spiega: «Per noi, è una questione di lavoro e di denaro che entra nella comunità. E ancora più importante, acqua». L’altra guida, Edison, ci dice: «Quando ero un ragazzino c'era sempre neve su queste colline. Se si può fare qualcosa per evitare che i nostri ghiacciai scompaiano completamente, se potessimo prenderci per mano e farlo insieme, sarei molto contento». I nostri sci sono al tempo stesso attrezzi e strumenti per creare una liaison con posti come questo. È un modo per incontrare la gente del posto e ascoltare le loro storie, per testimoniare i cambiamenti che stanno attraversando le comunità. L'Uganda è una scelta bizzarra per lo sci primaverile: si possono disegnare curve decisamente più belle con uno sforzo molto minore in quasi ogni altra parte del mondo. Ma questa esperienza è molto più di una discesa sugli sci e ti sbatte contro un muro profondo di tristezza tinta di stupore.

Dopo due giorni a ritroso sui nostri passi, inondati da incredibili acquazzoni, abbiamo raggiunto piccoli appezzamenti agricoli che punteggiano le ripide colline sopra il villaggio di Kilembe. I bambini urlavano, offrendoci il cinque e facendoci sorridere con il loro Hel-los! Il sentiero da qui in poi serpeggia sotto cespugli di caffè disseminati di bacche color viola e si aggrappa al fianco della collina tra raccolti di mais, zucca e patate. Le foreste impenetrabili, i fiumi impetuosi e la natura selvaggia svaniscono nel ricordo. Enock ed Edison avanzano con orgoglio, un’altra cima nel loro curriculum. Posso solo immaginare gli abitanti del villaggio che discutono sulle strane lance piatte che sporgono dai nostri pacchi ed Enock che risponde loro, forse nel modo in cui ha risposto a noi sulla montagna: «A me sembrava molto spaventoso! Questi muzunghi sono pazzi. Hanno portato quelle cose per otto giorni per rischiare di morire scivolando giù per il ghiaccio solo per qualche minuto!». Dentro di me sorrido e faccio vedere un video di Brody sugli sci per mostrare loro perché siamo venuti qui. Mi guardo indietro verso le montagne e mi rendo conto che questo momento è solo una parte della nostra avventura. Siamo venuti qui per esplorare, per testimoniare, per imparare. Le Montagne della Luna, e le persone che le chiamano casa, si sono dimostrate più che all'altezza dell’alone di leggenda che le circonda.

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© Mary McIntyre

La Sportiva converte parte della propria produzione per realizzare camici e mascherine per la Provincia di Trento

La Sportiva, dopo essere stata una delle prime aziende a fermare la produzione, aderisce all'invito della Confindustria trentina e converte parte del proprio stabilimento alla produzione di mascherine e camici per la Provincia di Trento nell'ambito dell'emergenza Covid-19. A seguire riportiamo il comunicato stampa dell'azienda.

Ziano di Fiemme – Prosegue l’emergenza Coronavirus e Confindustria Trento su richiesta del Presidente Manzana, chiede alle industrie del settore tessile Trentino uno sforzo di riconversione produttiva allo scopo di far fronte alla mancanza in regione di dispositivi medico sanitari quali camici e mascherine certificate. La Sportiva, azienda con sede produttiva a Ziano di Fiemme e leader mondiale nella produzione di calzature ed abbigliamento per la montagna, dopo aver fermato totalmente le proprie linee produttive già una settimana prima del decreto ministeriale che ha imposto la chiusura delle fabbriche di beni non necessari e non legati alla catena produttiva del sistema Italia, accetta la proposta del Presidente riconvertendo parte dei macchinari dello stabilimento produttivo pensati per il taglio e la cucitura di materiali quali pelle e gomma, per la produzione di mascherine e camici al servizio della Protezione Civile di Trento.

Venerdì scorso sono stati realizzati i primi prototipi e questa settimana, grazie ai tessuti tecnici forniti dalle aziende trentine Vagotex e Texbond è al via la realizzazione dei primi 1000 pezzi al giorno con obiettivo, a regime, di arrivare a quota 3000 al giorno. Attualmente nello stabilimento di Ziano di Fiemme che ospita normalmente 369 dipendenti ed all’interno del quale si producono circa 2000 paia di calzature al giorno, sono state richiamate dalla cassa integrazione 8 persone tra operai e tecnici R&D per realizzare i prototipi delle mascherine conformi agli standard richiesti dall’Istituto Superiore della Sanità di Torino. La produzione già avviata attende ora solo la certificazione ufficiale della quale si sta occupando il Dott. Cipriani della Allergo System di Rovereto, per essere definitivamente approvata affinchè l’azienda possa procedere alla distribuzione tramite i canali proprio della capocommessa Allergo System.

«Produciamo in Trentino dal 1928 avvertendo da sempre una forte responsabilità sociale nei confronti di un’intera comunità che fa della solidarietà e dell’aiuto reciproco una caratteristica fondamentale. - Dichiara Lorenzo Delladio CEO & Presidente di La Sportiva -  Con grande senso di responsabilità abbiamo dapprima contribuito allo sforzo collettivo nel contenimento del contagio, chiudendo in anticipo le nostre sedi produttive: ora siamo chiamati ad impegnarci per affrontare la seconda fase dell’emergenza, per farlo ci siamo dotati delle materie prime adeguate per poter produrre una prima partita di 55.000 mascherine che andranno alla Protezione Civile di Trento, tramite la Allergo System di Rovereto. Parallelamente stiamo cercando di far certificare in autonomia altri materiali in modo da renderci indipendenti anche con grembiuli e altri componenti di protezione e quindi passare ad una produzione industrializzata che permetterà nel brevissimo di raggiungere produzioni giornaliere ben più importanti. Chiaramente riconvertendo più macchinari e richiamando gradualmente più dipendenti presso lo stabilimento. Augurandoci che questo possa contribuire a mettere in sicurezza le centinaia di operatori sanitari che operano sul territorio Trentino e che oggi hanno bisogno di tutto il nostro sostegno. Uniti seppure divisi, scaleremo anche questa montagna, è quel che ho detto ai miei collaboratori all’inizio dell’emergenza ed il messaggio che voglio dare oggi anche a tutti coloro che sono in prima linea per combattere questa battaglia. La Sportiva c’è e vi sostiene».

Ed il sostegno alla sanità Trentina è già arrivato anche sottoforma di donazione grazie ai 50.000 euro donati ad inizio emergenza ai reparti di terapia intensiva di Trento e Rovereto su un conto speciale voluto sempre da Confindustria Trento.
Le prossime ore saranno decisive per l’ottenimento delle certificazioni ufficiali dei dispositivi di protezione: Delladio si dice fiducioso che l’Istituto Superiore della Sanità opererà velocemente in tal senso.


I sentieri effimeri dei Thule

Abbiamo corso su un terreno vergine. A malapena, se mai, calpestato da esseri umani prima; non c’era sentiero da seguire. Dovevamo semplicemente adattarci alla geografia del luogo: un gelido mare di cobalto alla nostra destra e lingue di vecchia neve che scendono tra scarpate e cavità, lasciando solo piccole strisce di tundra. Ogni nuovo passo era la ricerca del percorso nel suo senso più vero. Andavamo a caccia di macchie di vegetazione più liscia, costeggiavamo paludi e cercavamo di saltare sopra i gelidi ruscelli del disgelo, consapevoli di essere veramente nel bel mezzo del nulla. Non avevamo una città o un villaggio come meta, non c’era nessun segno di civiltà; nessuna comunicazione con il nostro pick-up, solo un tempo e un luogo prestabiliti per l’appuntamento e la speranza che la barca a vela fosse in grado di navigare tra i fiordi ghiacciati per venire a prenderci. La sensazione di evasione era palpabile, il senso di bellezza primordiale e di lontananza insuperabile. Però anche qui, sulla selvaggia costa orientale della Groenlandia, l’impatto dell’uomo sul mondo era evidente.

Il nostro piano era semplice. Vivere su una barca a vela di 60 piedi, utilizzandola per accedere alla costa selvaggia di Ammassalik. Sbarcare la mattina, correre dai 15 ai 40 chilometri ogni giorno fino al nostro punto di raccolta e sperare che il nostro capitano, Siggi - un uomo la cui esperienza è superata solo dalle storie che racconta - fosse in grado di navigare per venire a prenderci e che i fiordi non fossero troppo pieni di iceberg. Sulla terraferma ci aspettava un incredibile paesaggio. Il nostro piccolo gruppo completamente isolato per ore, a esplorare e giocare come ospiti temporanei nella natura selvaggia. Eravamo in balia dell’equilibrio precario del meteo: i venti chiudevano le insenature con il ghiaccio; fronti caldi scioglievano ciò che restava del ghiaccio marino costiero. Avevamo programmato la nostra visita per settembre, lasciando agire un’intera stagione calda per pulire i percorsi dove avremmo corso. Visto che le nostre mete erano indefinite, abbiamo avuto letteralmente centinaia di chilometri da esplorare. Il bello di avere un piano così semplice è che il viaggio diventa molto più che una corsa nella natura. Certo, spostarci a piedi era il modo più efficace per vivere questa terra così prepotente da vicino, ci ha permesso di interagire e giocare con un nuovo terreno. In quegli otto giorni vissuti insieme c’era un valore intrinseco molto più grande della mera esplorazione, una connessione con il luogo che non avremmo potuto raggiungere in meno giorni e con modalità diverse. Usare i nostri piedi come mezzo di locomozione ci ha dato il tempo di immergerci in quello che i nostri occhi vedevano. La vista non è stata l’unico senso, abbiamo potuto accarezzare con le mani i minuscoli fili d’erba sferzati dal vento, percepire ogni minima asperità di quella roccia forgiata dagli elementi sotto la suola delle nostre scarpe.

© Kelvin Trautman

Duemila anni fa la Groenlandia era disabitata. Le popolazioni nomadi e i coloni della preistoria avevano da tempo abbandonato i suoi aspri paesaggi. Mentre scendevamo dal tender che abbiamo usato per sbarcare nei luoghi più selvaggi, l’acqua di mare densa scivolava contro lo scafo a rompere il silenzio di un giorno tranquillo. Sette di noi, inclusa la nostra guida, Inga, sono scesi a terra. Anche se ci eravamo abituati alla routine di quella vita, il semplice atto di mettere piede su un lembo di terra nuovo era sempre una sensazione unica. Lo abbiamo fatto con trepidazione, pensando a quello che devono avere provato quei primi coloni, gli antenati dell’attuale popolazione Inuit, sbarcati per cacciare e raccogliere bacche, cercando di vivere della terra e magari alla ricerca di luoghi dove fermarsi definitivamente. Un vero senso di avventura ci ha pervasi, cercando ognuno di costruire il proprio percorso. Il cielo di un blu intenso ci ha permesso di essere parte per qualche istante di quel paesaggio così effimero. Il grande volume di esperienze ha richiesto un lavoro straordinario del fisico e della mente per adattarci. Spesso c’era una crudezza brutale, nuove lacrime che il paesaggio non aveva avuto tempo di addolcire. Il ghiaione sulle ripide discese era instabile, la roccia frantumata rotolava sotto i piedi. Anche le piccole valli sono state profondamente scolpite dalla potenza dei fiumi e delle cascate. Solo i fiori selvatici rompevano quell’aridità, il loro colore delicato era una macchia decisa in quel paesaggio, ma in qualche modo in armonia con la terra che li circondava. C’era poca fauna selvatica nell’entroterra e siamo stati contenti di non aver incontrato il più pericoloso degli abitanti: Inga aveva un fucile per tenere lontano gli orsi polari, ma ce ne sono sempre di meno, disorientati e affamati per il cambiamento climatico. Più calcavamo quella terra, più ci rendevamo conto che l’impronta dell’uomo raggiunge anche gli angoli più remoti del mondo e gli effetti sono ancora più dirompenti in questa primordiale solitudine.

Ritornare sulla barca ogni sera era come rientrare a casa, ci ha aiutato a metabolizzare quell’esperienza in un paesaggio così alieno. A differenza di una tenda o del dormire di rifugio in rifugio, ha creato in noi un senso di stanzialità nel flusso costante del viaggio. C’era un giusto contrasto tra i confini di quella piccola barca a vela e gli spazi infiniti che solcavamo di giorno. Anche quando la barca era ormeggiata, eravamo consapevoli che il nostro spazio minuscolo era ancorato sul bordo di un grande oceano, cullandoci dolcemente sopra all’abisso nero del mare. Abbiamo usato il tempo a bordo per rilassarci e resettarci. Abbiamo trascorso lunghe serate in cambusa a mangiare, bere e condividere storie. Un viaggio così, tutti insieme, ha un significato che va oltre la semplice compagnia. Ha voluto dire imparare dai punti di vista degli altri, arricchendo i propri pensieri ed esperienze. Sdraiato in coperta, le mani dietro la testa, mi sono trovato spesso a guardare il cielo nero. L’inverno arriva presto a Nord e l’aria fresca della notte pizzicava la pelle scoperta, in contrasto con l’intimità del mio sacco a pelo. Le luci del nord ballavano, cascate di luce fosforescente a fare lo slalom tra milioni di puntini di stelle. È stato un istante eterno, nel quale rendermi conto dell’assoluta meraviglia del mondo, senza volerlo imprigionare in un mirino, un’immersione totale nel momento, cercando di viverlo, piuttosto che catturarlo.

© Kelvin Trautman

La fotografia mi consente di visitare questi luoghi e toccarli con mano. Affronto con piacere la responsabilità di documentare quello che vedo e condividere storie. Spesso avviene tutto senza uno scopo più profondo che lasciare lavorare la mia ispirazione, ma a volte c’è un messaggio più importante da trasmettere. In Groenlandia siamo stati in grado di correre in molti più posti di quanto avremmo potuto fare anche solo pochi anni fa: il riscaldamento globale ha reso più veloce lo scioglimento della calotta glaciale. I ghiacciai si stanno ritirando dalla costa verso l’entroterra, lasciando vedere ogni anno un po’ di più di ciò che stava sotto. Nel breve termine questa potrebbe essere una buona notizia per i pochi che come noi si avventurano su queste terre a piedi, ma l’impatto sul resto del mondo è potenzialmente devastante. Le calotte glaciali della Groenlandia conservano l’otto per cento dell’acqua dolce del mondo. Quello che un tempo era in cassaforte sta rapidamente riempiendo gli oceani, cambiando il corso delle correnti e portando all’innalzamento del livello del mare. È una storia che tutti avevamo letto prima di venire qui, ma vedere con i propri occhi quello che sta succedendo e documentarlo mi ha segnato più di tante parole e numeri. Il segnale che il mondo sta cambiando e potrebbe non essere mai più lo stesso è visibile e tangibile, è soprattutto impossibile da ignorare.

La storia umana dell’isola è un flusso che si interseca con quello del clima, avanzando e ritirandosi nel corso dei secoli. Ai momenti di solitudine fanno da specchio periodi di boom demografico, con insediamenti lungo la costa, da Ovest a Sud, e infine sulla costa orientale che abbiamo esplorato. È incredibile pensare che le persone abbiano potuto vivere in questo luogo inospitale per circa sette secoli. Il popolo Thule è pieno di risorse e di spirito d’adattamento, è sopravvissuto alla piccola era glaciale, in estenuante equilibrio tra inverni rigidi e brevi estati, cacciando balene e foche. Un giorno abbiamo corso meno, Anna ed io abbiamo fatto un giro in kayak nelle acque dell’Artico, vicino alla barca. Il kayak è così radicato nella storia locale tanto da essere un vero e proprio simbolo nazionale. Facendo lo slalom tra gli iceberg condannati a morte, tutto ciò che potevamo sentire era il costante gocciolare del ghiaccio che si scioglie, interrotto dai rumori più forti e dal crepitio dei pezzi che si sgretolavano e si tuffavano nel mare, sollevando onde lunghe e minacciose verso le nostre piccole canoe. Abbiamo navigato per un po’ in questo cimitero di iceberg, ancora una volta comprendendo che l’apparente solidità di ciò che si erge come un monumento, che si tratti di un ghiacciaio, una montagna o un iceberg, è effimera.

© Kelvin Trautman

È innegabile che la terra sia in costante trasformazione, indipendentemente dall’intervento dell’uomo. I fossili di mare in cima alle montagne e le nuove isole vulcaniche sono lì a testimoniarlo. Mentre alcuni di questi cambiamenti sono lenti in rapporto alle nostre brevi esistenze, altri sono molto più rapidi, e il risultato diretto dell’attività umana. Siamo in un ecosistema collegato da ragnatele e le azioni delle persone dall’altra parte del pianeta hanno un impatto diretto e misurabile qui. Non solo misurabili attraverso le generazioni, ma in anni. Il fiordo di ghiaccio protetto dall’UNESCO vicino a Ilulissat si è ritirato di quasi dieci chilometri tra il 2001 e il 2004. Ma questa non è solo una storia di cambiamento del paesaggio: dagli orsi polari al bue muschiato e alle foche, qui la velocità catastrofica del cambiamento climatico sta facendo una selezione naturale e gli animali lottano per accaparrarsi il cibo e adattarsi al nuovo clima. Le conseguenze del climate change sono davvero globali. Più ghiacci si sciolgono, più il livello del mare sale e minaccia terre lontane come il Bangladesh e le isole del Pacifico. Dal macro al micro e viceversa, di nuovo, il nostro tempo in Groenlandia ci ha fatto riflettere su come tutto sia collegato. Ritornando al piccolo insediamento di Kulusuk, mi è stato difficile accettare l’impatto che gli uomini stanno producendo in questo angolo del mondo appena sfiorato dalla presenza umana. La Groenlandia e le regioni polari sono il campanello d’allarme del cambiamento climatico, una verità ancora più cruda in questa natura così primordiale. L’origine umana delle trasformazioni che abbiamo visto è duramente metabolizzata dal paesaggio incontaminato nel quale ci siamo immersi. Sono tornato a casa con un sospiro di sollievo, ma anche con il peso di una tremenda responsabilità sulle spalle. Non tutti potranno visitare la Groenlandia o vivere le nostre esperienze. Né quell’esperienza rimarrà cristallizzata e identica ancora per molto tempo. Il danno è già stato fatto e ogni giorno peggiora, minuto dopo minuto. C’è un rimedio? Forse ci sono degli indizi nella nostra storia per capire come gestire il climate change. La popolazione Thule si è adattata ed è sopravvissuta, lavorando in un ambiente che cambia frequentemente. Nella nostra breve esistenza su questo pianeta, sembra che vogliamo prosperare a spese di altre specie, o di quelli nella nostra che sono meno fortunati. Fa sorridere pensare che il termine groenlandese per definire queste lande desolate sia Kalaallit Nunaat, vale a dire la Terra delle Persone. Questa isola è stata disabitata così a lungo ed è ancora così vuota, eppure mostra più di tanti luoghi i segni pesanti delle azioni degli uomini. Forse riusciremo ad adattarci a un ambiente che cambia velocemente, c’è ancora molto da salvare, così tanto da combattere. Questa storia, queste immagini, sono più di un semplice reportage di una vacanza di corsa nella natura. Sono un fermo immagine su un luogo in metamorfosi artificiale, un esempio potente del perché abbiamo bisogno di uno sforzo ancora più grande come individui, collettività e governi per cambiare i nostri comportamenti. Potrebbe essere già troppo tardi e probabilmente troveremo un modo per adeguarci se così fosse, ma c’è qualcosa di più importante che combattere per la propria casa?

© Kelvin Trautman

LA GROENLANDIA È LA PIÙ GRANDE ISOLA AL MONDO

Circa l’80% della sua superficie è coperta da ghiacci, quella non occupata dalle nevi eterne è grande quanto la Svezia.

Il Northeast Greenland National Park è grande circa cento volte lo Yellowstone National Park.

L’Artico si sta scaldando a un ritmo due volte più veloce del resto del mondo con la Groenlandia sud-occidentale che ha visto il maggiore aumento delle temperature, di circa 3 °C negli ultimi sette anni.

Dopo la regione antartica, la Groenlandia è la seconda più grande zona ghiacciata. Il ghiaccio è vecchio fino a 100.000 anni, profondo fino a due miglia e rappresenta circa l’8% delle riserve di acqua dolce terrestri. Se si sciogliesse completamente, il livello degli oceani potrebbe salire fino a oltre sette metri.

La parola Tinu, che significa dietro, è utilizzata dagli abitanti della Groenlandia per descrivere la regione orientale, una delle più selvagge sulla faccia della Terra: i 2.700 chilometri di costa ospitano il più grande parco nazionale del mondo e tre baie con soli 5.000 abitanti.

Si pensa che gli Inuit (Eskimesi) siano arrivati nella parte nord-occidentale della Groenlandia dal Nord America tra il 2.500 a.c. e l’inizio del secondo millennio d.c., usando le isole dell’Artico Canadese come tappe intermedie.

Della spedizione in Groenlandia hanno fatto parte le trail runner Anna Frost, Stefanie Bleich e Kimberley Jacobs, insieme a Steve Chrapchynski, I glaciologi Tómas Jóhannesson e Pálína Héðinsdóttir, lo skipper Sigurður Jónsson, oltre al fotografo Kelvin Trautman.

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