Un asino sul Gran Paradiso

10 settembre 2019 133 giorni / 2.169 km

La Becca di Monciair è la cima che più mi ha colpito di tutto il gruppo del Gran Paradiso. Camminando sul sentiero a mezzacosta che si addentra nella testa della Valsavarenche era davvero singolare il contrasto tra questa vela di roccia e ghiaccio, appuntita ed elegante, e i meandri della Dora del Nivolet nel pianoro sottostante, così tortuosi da ricordare il Rio delle Amazzoni. Giunti al rifugio Città di Chivasso, a pochi metri dal confine con il Piemonte, ci siamo presi un’ultima coppa dell’amicizia valdostana, colma di caffè bollente, bucce d’arancia e grappa; alla fine eravamo più amici che mai.

La mensa era affollatissima, alle pareti c’è una vera e propria biblioteca. Mentre aspettavo una zuppa di farro mi sono perso nella storia del prete Joseph-Marie Henry che, a inizio Novecento, allo scopo di certificare la facilità dell’ascensione al Gran Paradiso (e attrarre così i turisti nella povera valle), ebbe una sensazionale pensata: scalare la cima insieme a un asino. Se ce l’avesse fatta anche un somaro... Arruolatone uno di nome Cagliostro, gli ramponò gli zoccoli e insieme, nello scalpore generale, compirono l’ardita impresa. Leggenda vuole che sulla vetta Cagliostro lanciò un formidabile jodel e depositò un profumato souvenir, a imperitura memoria. Rock’n’roll.

Dopo cena il gestore del rifugio, Sandro, ha preso parola e, nel silenzio degli avventori, si è scatenato in un’invettiva contro l’eterna fretta della società moderna. Si definisce anticonformista, eretico e ribelle, una sorta di Fra Dolcino delle Alpi. Le camerate erano piene, così ci hanno sistemati nel piccolo locale invernale, all’esterno. Faceva freddo e ci siamo messi tre coperte a testa sopra il sacco a pelo. Non avendo sonno dopo il caffè dell’amicizia, né sapendo cosa fare (non c’era luce nel bivacco), abbiamo tirato fuori dallo zaino il portatile e abbiamo guardato un film, il primo da chissà quanto: La pazza gioia. Siamo andati a dormire commossi. Alla mattina, quando siamo usciti dal bivacco, tutto era coperto di bianco. Durante la notte era caduta una spolverata di neve e i Laghi del Nivolet si erano trasformati in fiordi norvegesi.

5 ottobre 2019 158 giorni / 2.595 km

Non ero mai stato nelle Alpi Marittime: a duemila metri ritrovi i colori della macchia mediterranea. Anche l’odore dell’aria è diverso, a volte sembra sappia di timo. L’estate è finita, ma le giornate sono ancora belle e regalano grandi vedute. Da settimane il Monviso compare a ogni cima o valico, comincio a capire perché i Romani pensavano che fosse il più alto delle Alpi.

Stamattina siamo partiti dal rifugio Garelli prima che sorgesse il sole, un vento freddo spazzava l’aria e rendeva tutto nitidissimo. Passando per lo stretto Canale dei Torinesi abbiamo risalito la Nord del Marguareis, la vetta più alta delle Alpi Liguri. Mentre affrontavamo la rampa finale, ci è sfrecciato accanto un branco di camosci, tanti da non riuscire a contarli: in mezzo minuto hanno coperto la stessa distanza che noi abbiamo fatto in mezz’ora.

Dalla vetta, per la prima volta dalla partenza, abbiamo rivisto il mare, come i soldati di Senofonte. Ho provato una strana sensazione, come tornare a casa. In realtà non ci siamo accorti subito che fosse il mare, vedevamo solo una grande piana luccicante. Poi abbiamo intravisto dei puntini e ci siamo resi conto che fossero navi.

Laggiù, oltre l’immenso specchio d’acqua e le sottili nuvole di vapore marino, spuntavano le sagome di alcune montagne: erano quelle della Corsica, dove tutto questo è cominciato. Dove, per un curioso paradosso, la mia vita ha preso una direzione smarrendo la via per il Monte Cinto.

3/continua

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131 


Smarano, Sfruz e il Sentiero Roma

14 giugno 2019 46 giorni / 707 km

Guardandola dalla rocca di Haderburg, la valle dell’Adige sembra disegnata con il righello. Una distesa di meleti e filari paralleli la cui linearità è interrotta dal flusso sinuoso del fiume. A Salorno si parla l’italiano, un paio di chilometri più a Nord il tedesco. Alla sera le vie si riempiono di risate e di giovani. Bicchiere di vino in mano, uno di loro mi ha raccontato di un sentimento particolare chiamato heimat: l’attaccamento ai luoghi della propria infanzia, quelli in cui si sono vissuti i momenti più belli.

Ieri ci siamo svegliati sulle rive del piccolo lago di Favogna, tempestato di ninfee. Sembrava un quadro di Monet. Ero ancora stordito dal sonno e ho pensato di farmi una nuotata. Dal pontile di legno, nudo, mi sono tuffato nel lago deserto. Grazie al fondo torboso l’acqua era a temperatura ideale e mi è venuto da urlare di felicità. Più tardi abbiamo raggiunto la cima del Monte Roen. Non è stato solo il nome a ricordarci il Signore degli Anelli. Da lassù, a Ovest, scintillavano i grandi ghiacciai dell’Ortles-Cevedale, sormontati da vette che parevano scolpite nel cielo. Ai nostri piedi la parete orientale del Roen volava in picchiata per centinaia di metri.

Lungo la discesa verso il rifugio abbiamo allungato per la Malga di Smarano e Sfruz. Volevamo toglierci lo sfizio di vedere se esistono davvero due tali con dei nomi simili, da Stanlio & Ollio altoatesini. Alla malga non c’erano né Smarano né tantomeno Sfruz (che abbiamo scoperto poi essere dei paesini a valle), ma due cani con il manto chiazzato che ci hanno guardati arrivare in attento silenzio, senza scomporsi né abbaiare. Erano Pastori del Lagorai. Un ragazzo dagli occhi gentili ci ha offerto birre e cacioricotte fresche di minuti, sapevano ancora di erba tagliata. Lui e sua moglie (Alan e Roberta) salgono qui ogni primavera con le loro vivaci bimbe e le tante caprette. Ce ne hanno anche fatta mungere una. Mi ha colpito la loro serenitа. Roberta aspetta un altro bimbo e, mentre mi preoccupavo della loro sussistenza, guardandoli ho realizzato di come fossero spontaneamente al di sopra di ogni tipo di preoccupazione, concentrati a vivere il presente come un dono. A fine tappa, mentre ci rilassavamo a piedi scalzi sul grande terrazzo del rifugio Oltradige, il Latemar, il Catinaccio e le Odle si sono tinti di rosa. È stata l’ultima grande vista delle Dolomiti, un bellissimo arrivederci.

Tra i prati tempestati di ranuncoli gialli, stamani siamo scesi a Fondo, un paese della Val di Non. La piazza era affollata di persone che gremivano i tavolini dei chioschetti. Sopra le tante voci allegre scandiva i secondi un rumore incessante: un grande orologio ad acqua, una macchina prodigiosa fatta di leve e mulini meccanici. Abbiamo preso a fissarlo per diversi minuti, senza riuscire a capire esattamente quale fosse la chiave del portento.
Ho chiesto alla ragazza dei gelati cosa succede d’inverno, quando l’acqua all’interno dell’orologio si ghiaccia. «Il tempo si ferma» ha sorriso.

20 luglio 2019 81 giorni / 1.279 km

Il Sentiero Roma è probabilmente il tratto più difficile di tutto il nostro viaggio. Ieri alla Bocchetta Roma per poco non abbiamo perso Sara, la fotografa della spedizione. Si stava calando da una corda fissa, sospesa su un salto di venti metri; una pietra si è staccata dalla parete e le è rimbalzata verso la faccia. Sara si è abbassata di riflesso e l’ha schivata per pochi centimetri. Ci siamo zittiti. Stamattina avremmo dovuto affrontare il Passo Cameraccio ma ci hanno detto che le corde fisse, ancora seppellite dal ghiaccio, sono inutilizzabili. Non avendo con noi ramponi e piccozze, siamo stati costretti a stravolgere i piani e raggiungere il rifugio Allievi con una lunga deviazione, passando per la Val di Mello.

Questa valle ha un valore speciale, per me: ho ricevuto qui il mio battesimo della montagna. Quando ero piccolo con mio padre venivamo in quella che chiamano la piccola Yosemite, tra le marmitte d’acqua verde smeraldo e le pareti di granito luminoso, e provavamo a raggiungere il rifugio Allievi, cioè la tappa di oggi. Tentammo in più occasioni senza mai riuscirci, ogni volta per ragioni diverse: vuoi la pioggia, la stanchezza, la tarda partenza. La montagna rimaneva qualcosa di cui non capivo il senso, un non-luogo in cui si camminava per non arrivare mai. Tuttavia durante l’ultimo di quei tentativi - avrò avuto una decina d’anni - superammo la quota degli alberi e dall’imbocco di un vasto circo glaciale, per la prima volta, avvistammo il rifugio. Ricordo quel momento come fosse ieri. Una piccola macchia rossa e squadrata, ben sopra le nostre teste. Il sole stava ormai tramontando e così, a malincuore, convenni che fosse prudente tornare indietro e rinunciare ancora una volta alla meta agognata. Mi era bastato averlo visto, era là, il rifugio esisteva davvero: la montagna cambiò significato e coordinate nella mia mappa mentale.

Oggi, per uno strano scherzo del destino, ci siamo trovati a percorrere proprio quel sentiero, la stessa salita che da bambino mi aveva ostinatamente respinto. L’ho affrontata di petto, sotto il sole di luglio, come si affronta l’incontro di una vita, i piedi che volavano e il cuore a ruota. Mi sembrava di riconoscere i tornanti del sentiero, una roccia levigata, una lapide.

Mentre ci avvicinavamo allo svaso del circo glaciale, laddove ci eravamo spinti tanti anni fa, ho visto da lontano un uomo seduto di spalle con un cappello da pescatore, che guardava in su appoggiato a un grosso bastone di legno. Dopo qualche minuto l’ho raggiunto e quando, sorpreso dal rumore dei passi, si è voltato, mi sono accorto che era papà.Stava andando all’Allievi per farmi una sorpresa, non si immaginava di incontrarmi proprio lì. Era incredulo e commosso, come me. Gli altri sono andati avanti e noi due, più lenti, ci siamo incamminati insieme verso il rifugio, riprendendo la marcia proprio da dove l’avevamo interrotta più di vent’anni fa, questa volta a parti invertite, io a spronarlo, lui a dire vai avanti, poi ti raggiungo. Quando siamo arrivati, ci siamo abbracciati e ci siamo presi due birre a testa, in un momento di rara felicità, con la consapevolezza di aver chiuso un cerchio.

2/continua

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131 

© Sara Furlanetto

Va' Sentiero

Non ne potevo più di tutto quel rumore. I corridoi della tube brulicanti di umanità, i lavori perennemente in corso, i fischi delle ambulanze ogni cinque minuti. Ero finito a Londra un paio d’anni prima, in autostop, inseguendo il sogno di fare musica. Sembrava il posto giusto, ma il chiasso della città inghiottì il mio estro e rimasi intrappolato in una grande bolla: mi sentivo l’ennesimo tra milioni di esuli, senza riuscire a trovare quel che cercavo. Avevo 29 anni e già da tempo il mio grillo parlante aveva preso a fare discorsi circa un posto nel mondo dei grandi. Mi stavo incattivendo. Così, sul finire dell’estate 2016, feci i bagagli e lasciai l’Inghilterra con la sgradevole sensazione di aver perso tempo e l’ennesimo treno.

Dovevo trovare il modo di prendermi una pausa da quel genere di pensieri. Mi avevano parlato del GR20, un lungo trekking che percorre tutta la dorsale montuosa della Corsica. Proposi al mio amico Toni di farlo insieme; a fine settembre ci incontravamo al porto di Bastia, nel Nord dell’isola. Durante la seconda tappa Toni si azzoppò malamente, peraltro su uno dei rari tratti in piano. Non poteva più proseguire. Fu un brutto colpo per entrambi, ma decisi di continuare anche senza di lui. La prospettiva di affrontare quel viaggio da solo mi spaventava un poco e al contempo mi eccitava: in ogni caso non potevo accettare di perdere in partenza anche quella mano. Lasciai le mie cose al Refuge d’Ortu di u Piobbu, mi caricai il sacco di Toni in spalla e lo accompagnai lentamente a valle, fin dove arrivava una stradina, in prossimità d’un campeggio. Trascorremmo un bellissimo pomeriggio con i piedi a mollo nel torrente gelido e la mattina dopo tornai su.

Dopo qualche giorno stavo avvicinandomi lentamente alle pendici del Monte Cinto quando in pochi minuti calò una nebbia pesante. Malgrado i miei sforzi, finii presto col perdermi. Vagai a casaccio cercando un ometto di pietra e, mentre cercavo di decidere, per l’ennesima volta, se quello sotto i miei piedi fosse un sentiero, la traccia di un rivolo o di un qualche animale, ecco spuntare nel muro d’aria biancastra tre tipi alti e biondi. Erano dei ragazzi svedesi che percorrevano il GR20 in direzione opposta. Sparpagliandoci ritrovammo il sentiero e, per suggellare il brillante episodio di cooperazione internazionale, mangiammo assieme un boccone. Uno di loro, con una bandana gialla al collo dello stesso colore della barba, mi chiese: «tu che sei italiano conosci il Sentiero Italia?». «Sentiero Italia... no. Mai sentito».

Passarono i mesi. In una fredda sera d’inverno quel cassettino della memoria si aprì all’improvviso e decisi di cercare Sentiero Italia su Google. Trovai qualche informazione in un blog con un’estetica da anni ‘90, ma fu comunque abbastanza: un sentiero di 7.000 chilometri lungo tutte le montagne italiane, Alpi e Appennini, ormai dimenticato. Cominciai subito a fantasticare di una spedizione alla scoperta del cammino misterioso.

13 maggio 2019
13 giorni / 184 km

Fotografa, videomaker, responsabile logistico, filosofo cambusiere e guida: la spedizione Va’ Sentiero. Ci siamo messi in testa di percorrere tutto il Sentiero Italia per documentarlo e farlo rivivere. Due settimane fa siamo partiti dal Golfo di Trieste. Era il primo maggio, ci sembrava il giorno giusto per coronare il lavoro degli ultimi anni, tutte le pene e le notti insonni per arrivare a essere lì, a tagliare quel nastro. Nonostante le previsioni maligne, la mattina della partenza c’era un gran sole e il mare era tutto un riflesso. Prima di incamminarci abbiamo letto ad alta voce Itaca di Kavafis, a mo’ di augurio.

Dopo le depressioni del Carso e i vigneti del Collio, oggi per la prima volta abbiamo superato i mille metri di altitudine sul monte Kolovrat. La sua schiena è bucata da decine di trincee e dentro gli stretti camminamenti coperti tirava un’aria gelida. Le feritoie dominano l’Isonzo, un lungo serpente d’acqua turchese, e la cittadina slovena di Kobarid: un tempo si chiamava Caporetto. Siamo sul confine tra le Valli del Natisone e la Slovenia, uno dei fronti più caldi di tutto il Novecento. La Grande Guerra, la Seconda, la Guerra Fredda... non ce n’è stata una che lo abbia risparmiato.

Dopo una lunga discesa tra i frassini, il sentiero si è trasformato in una stradina lastricata di ciottoli e siamo entrati nel borgo di Topolò. Il nome viene dallo sloveno topolove, cioè pioppeta, anche se di pioppi non ce n’è neanche l’ombra. Tra le vecchie case coi ballatoi di legno si udiva solo il singhiozzo nervoso di un rio in lontananza, sembrava un paese fantasma. Eppure su alcuni muri splendevano delle curiose targhe di metallo: Ufficio Postale per Stati di coscienza, Ambasciata dei Cancellati, Ostello per i suoni trascurati, Accademia del Passo Ridotto.

Donatella, una signora dai capelli rossi e le mani piccole, ci ha indicato un ostello ricavato da un fienile. La sua intelligenza pratica e tagliente mi ha ricordato le donne dell’Europa dell’Est. Cercando un posto tra le stanze ho notato un libro di poesie aperto: Il confine insegna a stare fermi / e non gli importa della tua natura / ma anche a lei non importa di lui / come due innamorati che fanno finta / di non amarsi - tengono la posizione.

Prima di infilarci nei sacchi a pelo abbiamo votato per il bicchiere della staffa e, proprio in quel momento, è spuntato in ostello un signore dall’aspetto elegante e scapigliato, con il sorriso giovane; ci è venuto spontaneo proporgli una bevuta con noi. Abbiamo scoperto in fretta che, oltre al sorriso, anche l’animo di Moreno è instancabilmente giovane. Lui e Donatella sono gli artefici di un evento artistico che negli anni ha assunto rilevanza internazionale: la Stazione Topolò - Postaja Topolove. In quei giorni, ci ha raccontato Moreno mentre lo ascoltavamo seduti per terra come bambini, il borgo diventa un laboratorio creativo a cielo aperto. Artisti da ogni dove si esibiscono nei vicoli, nelle vecchie rimesse, al limitare dei boschi, senza una vera distinzione col pubblico. Non ci sono orari fissi nei programmi, solo indicazioni generiche: al tramonto, pomeriggio presto, col buio.

Ci è venuto spontaneo chiedere a Moreno come sia stato realizzare un progetto così stravagante in un luogo segnato per decenni dalla tensione e dal sospetto. Per un attimo il suo sguardo scanzonato ha tradito un lampo di fierezza, mentre inghiottiva l’ultimo sorso: «Fare arte da queste parti è stato un atto politico». È notte fonda, ormai.

Yuri Basilicò

1/continua

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131 


La rinuncia di Kilian e David

«No, no, no. No, non abbiamo scalato l’Everest. Finalmente, dopo aver atteso tanto che passassero i cicloni tropicali e che la neve smettesse di cadere, abbiamo lanciato un tentativo, ma mentre stavamo raggiungendo il Colle Sud abbiamo deciso di fermarci entrambi». A scrivere è David Göttler sui suoi account social nella giornata di ieri. Dunque, dopo settimane complicate a causa del meteo e della pandemia, il duo Kilian Jornet - David Göttler non ha raggiunto la vetta dell’Everest nella finestra di tempo lasciata dal passaggio del ciclone Yaas. Una rinuncia nata non solo per cause esterne come il meteo, ma soprattutto ‘interne’. Kilian è partito dal campo base e David dal campo 2 e, dopo avere scalato tutta la notte, si sono ritrovati al Colle Sud. «Tutti e due non ci sentivamo bene e non avevamo le forze necessarie . «È stato un momento bizzarro quando ci siamo ritrovati al Colle Sud e ci siamo detti che non stavamo bene, entrambi abbiamo vissuto esattamente la stessa esperienza. Quindi è stato facile decidere di non proseguire. Sarebbe stato folle continuare a salire più in alto in quelle condizioni. Non puoi scalare l’Everest nel nostro stile se non ti senti al 100% e per fortuna entrambi sappiamo benissimo come dovremmo sentirci a quelle quote. Per questo siamo scesi. Anche se potevamo dare la colpa al vento per averci impedito di proseguire (al Colle Sud ce n’era abbastanza), non è stato per il vento o il maltempo o le cattive condizioni sulla montagna. La causa i nostri corpi e come ci sentivamo, ed è altrettanto importante ascoltare il proprio corpo e saperlo rispettare». Kilian e David sono saliti dalla via normale. Durante il loro allenamento in quota erano arrivati fino a sfiorare quota 8.000 sulla via per il Lhotse. Tra le ipotesi iniziali del duo sembrava esserci proprio la traversata Everest - Lhotse. 


Transap

C’è chi si porta in spalla il fornelletto e prepara l’asado, chi gira in bretelle. C’è chi cammina tutta la notte senza fermarsi mai e chi non vede l’ora che finisca. La Transappenninica è una prova di avventura e di montagna attraverso l’Appennino, lungo le antiche vie che l’uomo ha usato per centinaia di anni per trasportare il sale necessario alla conservazione dei cibi verso la Pianura Padana e sui sentieri dei Partigiani tracciati durante la Seconda Guerra Mondiale, dalle colline della bassa padana fino al Mar Ligure. Tutti percorsi che toccano i crinali e non le valli come le strade moderne, per sfuggire a briganti, interminabili guadi dei fiumi o soldati tedeschi. Non è una gara di trail running. Non è a pagamento. Ciò che conta non è vincere. La Transap è una corsa al mare, un’intensa esperienza di strada. Si fonda su valori di resistenza alla fatica, ironia, fair-play, sostenibilità e un pizzico di follia. La sfida si svolge durante l’ultimo weekend d’estate (che quasi sempre coincide con il terzo fine settimana di settembre) e prevede di coprire ampie distanze in poco tempo, con notevoli metri di dislivello (da 3.000 a 7.000 tra salite e discese) e chilometri di sviluppo (dai 55 ai 110), variabili a seconda dell’itinerario scelto.

Per essere classificati è fissato un tempo limite, all’incirca 32 ore. Chi, pur sforando l’orario massimo, giungesse ugualmente all’arrivo, può in ogni caso considerarsi un vincitore. Solo che le birre saranno già finite. La partecipazione è gratuita e a proprie spese: ogni squadra, composta obbligatoriamente da due persone, deve procurarsi da sé tutto l’equipaggiamento necessario. L’organizzazione stabilisce solo i punti di partenza e di arrivo, variabili di anno in anno. Alcuni luoghi del campo di gara sono segnalati come checkpoint e stabiliscono il punteggio che determina il risultato finale della squadra» si legge sul sito. È necessario fornire le prove dell’avvenuto passaggio ai checkpoint, attraverso selfie, disegni, video… L’elemento sorpresa è fondamentale: partenza, arrivo e checkpoint vengono comunicati solo poche ore prima del via. 

La scelta del percorso, assolutamente libero, dipende dal gusto personale e dalla capacità di lettura dei sentieri. Per partecipare è necessario munirsi di mappe dettagliate della zona, che sono fornite via mail agli iscritti. La prova non consente l’utilizzo di GPS, navigatori e applicazioni di navigazione di altro tipo. Il primo premio della Transappenninica è riservato alla squadra che totalizza il maggior numero di punti, in considerazione dei checkpoint raggiunti. A parità di punti, vince la squadra che impiega meno tempo. Ogni anno cambiano il percorso, i checkpoint e le regole (non tutte) e varia leggermente il numero delle coppie in gara (tra le 40 e le 45). Sono ben accetti contributi spontanei, anche di beni in natura, per coprire i costi della festa inaugurale e della logistica. Ci si iscrive a coppie. I posti sono limitati e si è ammessi per ordine di iscrizione. Per partecipare basta spedire il modulo che si trova sul sito (https://transap.tumblr.com/iscriviti) all’indirizzo transappenninica@gmail. com. Gli ammessi vengono contattati telefonicamente o via mail.

© Nicola Damonte

Marinai d’Appennino.
Transap 2018

Sono quasi le otto di sera e osservo Giulio tuffarsi in mare a Sori. Lo guardo e sono contento. Il senso di tutta questa corsa era racchiuso nel farla insieme, cavandosela, sostenendosi e continuando ad andare avanti fino a mettere i piedi sulla spiaggia e poi in acqua. È stato come essere un piccolo equipaggio in una minuscola barchetta tra le onde verdi dell’Appennino. Eppure abbiamo rischiato di saltare e di andare alla deriva quasi subito per colpa mia, per le gambe vuote e per lo stomaco sottosopra. Ma abbiamo tenuto, un po’ per la testa dura e un po’ per un pizzico di fantasia, o sana follia, chissà… I detrattori direbbero che non si fa, ma va bene lo stesso per noi. Non abbiamo mollato nello sconforto della nebbia che il mitologico Alfeo ci buttava addosso, carica di pioggia, di vento e di pessimismo. 

Ci siamo rincuorati e rimessi in sesto con i sorrisi e le parole di Giovanni e Giulia al rifugio Antola (anche con le birrette e i panini, ok...). E la strada passava, intrecciando le nostre storie con le memorie del passato, dei villaggi, dei boschi profondi e delle antiche speranze di chi si metteva in viaggio verso il mare. Poi incontrare un amico fa la differenza. Già, Davide, che ti aspetta vicino a Torriglia, dopo essere partito di corsa proprio dal mare per poi ritornare a ritroso insieme, con te. E così corri ancora, cammini, fatichi, corri di nuovo, corri in tutte le sue declinazioni possibili fino al limite del semplice un piede dietro l’altro e poi arrivi a Sant’Uberto al tramonto, con il sole che sfonda e spacca in un grido cremisi tutto quello che c’è in giro. Scalinate ripide, odori di fiori, le voci che arrivano dalla spiaggia; è la Liguria di chi sbuca dal retro bottega come noi ora, nell’incandescenza di una sera interminabile e preziosa come le cose rare. Siamo arrivati adesso, io e Giulio e Davide dietro che ci scorta, con cura. Magari non belli da vedere, ma efficaci, come quando sai dove stai andando e ci vai. Alla fine per terra c’era scritto ecco il mare. I marinai d’Appennino hanno bisogno di saperlo, sempre.

Niki Gresteri

Una canzone semplice.
Transap 2019

Le cose più belle della Transap sono quelle che non si vedono con gli occhi, sono quelle che non puoi toccare e quantificare materialmente. Credo sia un aspetto positivo non avere oggetti o riconoscimenti che definiscano il valore delle motivazioni e delle azioni. Non ci servono cose per essere e per fare. Nel caso della Transap, tutto ciò che ha un significato, almeno per me, rimane immateriale. A dare un senso alla Transap non sono certo i chilometri (non pochi), né tantomeno il dislivello (non male), anche se ci devi fare i conti, e magari dopo un po’ li maledici, come se fossero diventati delle vespe sotto la maglietta o delle tarme nelle scarpe bucate. Sudi e soffri, a volte sbocchi in mezzo al bosco, sbuffi come un vecchio motore a gasolio sfatto, ma vai avanti perché nella Transap c’è un perenne senso di attesa nei confronti di qualcosa che sta per accadere. Mi piace pensare alla Transap come a un viaggio ideale, che in realtà non si compie, ma ridefinisce ogni volta una meravigliosa aspettativa. Perché è sempre difficile cogliere il senso di un’attesa, visto che la sua magia è proprio il non compiersi, ma aspettare che nasca. Ci vuole impegno e il giusto atteggiamento per capire la semplicità.

C’è l’attesa che precede la partenza e poi quella di vedere il mare. L’attesa di un versante che cambia e della notte che ti avvolge. L’attesa che una crisi passi e che la strada termini il prima possibile, anche se poi alla fine ti dispiacerebbe. Ci sono incertezze e dubbi che si trasformano in scoperte. Ma so che, nonostante tutto - la fatica, i dolori e il dolce desiderio di abbandonarsi al sonno - so che vale sempre la pena arrivare in fondo. Perché la cosa più bella resta il momento in cui vedi brillare gli occhi del tuo compagno o dei tuoi compagni e hai vissuto per tutto il giorno l’attesa di vederli felici, ancor prima di esserlo per davvero anche tu. Così, al mattino presto, lentamente, ciascuno con la propria idea in testa di cammino e di sentiero, ci siamo diretti verso un’intuizione di orizzonte e di memorie marine, a Sud. Ognuno a suo modo è ispirato da qualcosa. E da qui, da Borgo Val di Taro, il mare è per davvero ispirazione, promessa e idea, ma in alcuni momenti del nostro viaggio ci è sembrato quasi un miraggio, una chimera e una condanna, soprattutto quando la testa ti porta in un loop di malessere e di pensieri negativi. È come essere impigliato nei rovi e nelle ortiche senza venirne fuori (e magari a qualcuno è successo, più zecche optional). Ma il momento nero passa sempre, basta saper aspettare. E si tratta di capire che fa parte del gioco mettersi a nudo, saltare per aria e ripartire. È questo il bello.

Alla fine siamo sempre rimasti in cinque, siamo partiti e arrivati tutti insieme: io, Giulio, Edoardo, Eva e Ombra. Una lunghissima giornata di condivisione, di sguardi, di parole e di silenzi, che quasi sempre raccontano perfettamente lo stupore. Sempre insieme, camminando nel respiro dei faggi più alti e poi correndo sugli assolati crinali battuti dal sole pomeridiano. Insieme a cercare acqua, non trovarne, aspettare, chiedere a un contadino, trovare una locanda aperta al passo e rinfrescarsi finalmente! Sempre insieme, con le gambe adesso più stanche, prima di arrivare in cima a Prato Pinello nell’ora d’oro e fermarsi a osservare l’arco ideale di montagne disegnate con i piedi fino a quel momento. Pensi alla generosità e alla dedizione dei tuoi amici, di chi ha razionato l’acqua e ne ha portata in più per gli altri e per Ombra, il fedele amico a quattro zampe. Pensi che sia il posto giusto e il momento giusto.

E diventa più facile correre di nuovo, almeno per un po’, incontro alla luna che cresce dietro montagne placide ma adesso oscure, relitti abbandonati in una terra di alberi a volte storti, a volte dritti e luminosi come se esplodessero di luce. Torni indietro con la mente fino al mattino quando, lungo un tratto di Via Francigena, una vecchietta ci ha chiamato da un pugno di case in pietra ed è uscita fuori. C’era il sole fragrante e l’odore dell’Appennino profondo, quello che scivolando nell’autunno ti lascia con un nodo alla gola. Abbiamo firmato il diario dei pellegrini e annusato i porcini essiccati al sole, poi siamo ripartiti. Era di nuovo il posto giusto e il momento giusto, era l’attesa che precedeva altre cose belle. La Transap porta ancora avanti la propria idea originale, pulita ed essenziale, spesso selvatica e anarchica, e chi si mette in cammino non cerca premi e classifiche. Chi si mette in viaggio non cerca di essere migliore, ma cerca di essere se stesso e di condividere un pezzo di strada (e di attesa) con qualcuno. È come una canzone semplice che ascolti di notte davanti al mare, con gli amici che si abbracciano e sorridono per tutte quelle cose che ci sono state e che non si possono vedere. È come una canzone semplice che avevi in testa e che hai saputo aspettare.

Niki Gresteri

© Nicola Damonte

Chi arriva per primo aspetta.
Transap 2019

Fine estate 2019. È molto buio. Sono le tre di notte e da diverse ore mia sorella e io camminiamo completamente sole nel bosco. State attente ai lupi ci hanno detto gli organizzatori alla partenza, anche se, in realtà, l’animale non è pericoloso per le persone, anzi tende a evitarle. Da queste parti può anche capitare che, tra la lapide all’eroe russo Fëdor e un paesino abbandonato, si incontrino gli occhi gialli di un lupo che sta seguendo il tuo stesso sentiero. Appena gli alberi lasciano spazio ai pascoli erbosi ci accoglie la luna piena. Camminiamo da diciassette ore e ci si chiudono gli occhi. Il suono del silenzio regna incontrastato e ci sembra, laggiù oltre le montagne, di intravedere il mare. Forse è solo un’allucinazione. Tiriamo fuori i sacchi a pelo e puntiamo la sveglia dopo mezz’ora.

Ci rannicchiamo testa contro testa: sembra che qualche folletto abbia modellato il sentiero sulla sagoma dei nostri corpi. È comodissimo! esclama mia sorella. Due secondi dopo sta già dormendo. Quando ci svegliamo inizia a piovere. Cerchiamo la traccia per la salita, ma di notte, sotto la pioggia, non la troviamo. Guadiamo più volte un fiume. La batteria della mia frontale è scarica, ne abbiamo una in due. Le cartine sono bagnate, scarabocchiate e spiegazzate. Ci perdiamo. Siamo partite alle 6,30 di ieri mattina da una cascina incantata, sulle colline dell’Emilia Romagna, che ci ha accolti e ospitati in tanti, curiosi, sorridenti e scalpitanti. Venerdì sera abbiamo picchettato le tende al buio, una vicina all’altra: la notte prima della partenza, quando si dorme tutti insieme sotto le stelle, e il ritrovo in spiaggia la domenica, sono dei momenti davvero magici. Intanto abbiamo trovato la strada. Siamo sole sul crinale.

Le prime salite, in verticale, sono state toste. Barcollo. Penso che sono tutti matti. Francesca mi dice che è importante chiacchierare per distrarsi: uso il poco fiato che ho per mandarla al diavolo. I gruppi che si erano formati alla partenza piano piano si dividono. Passo dopo passo il mio respiro si regolarizza: sto imparando la strada e mi piace un sacco. Attraversiamo parchi naturali, vette, fiumi e torrenti favolosi. Schiviamo un serpente e percepiamo i cinghiali che ci scrutano nella penombra del sottobosco. Sono le 8,30 di domenica mattina, siamo in vetta a un meraviglioso monte checkpoint e abbiamo fame. Rapida sosta rifocillante: focaccia ripiena di pomodorini secchi, scamorza affumicata e uova sode. Destra o sinistra? Rincomincia a piovere. Arriviamo al cimitero checkpoint, selfie al volo, e ci rimettiamo in marcia accompagnate dalle ultime gocce. I piedi fanno male e sono fradici. Ormai è una corsa al mare, tra salite e discese. Siamo partite insieme, camminiamo insieme, dobbiamo arrivare insieme. Viaggiare è la nostra passione, ma non avevamo mai viaggiato a piedi. Siamo molto puzzolenti, però quando arriviamo in spiaggia i nostri compagni d’avventura ci abbracciano lo stesso e ci mettono in mano delle birre ghiacciate. Francesca e io abbiamo camminato per circa ventisette ore. Arriviamo a un quarto d’ora dal termine, con diverse zecche su varie parti del corpo. Bottiglia di vino per tutti e rapida premiazione. Abbiamo fatto tante nuove amicizie e ci salutiamo con la voglia di ripartire. Il detto dice che l’avventura comincia sulla porta di casa: queste colline, valli e montagne, per me e per noi della Transap, sono diventate casa. Spero che lo diventino anche per voi. Buona strada!

Marta Manzoni

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131 

© Nicola Damonte

Il 28 agosto la prima edizione di SkyClimb Mezzalama

«È un progetto che era nel cassetto e che la particolare situazione che stiamo vivendo ha tolto dall’ombra» ha esordito il patron del Trofeo Mezzalama Adriano Favre presentando ieri sera in una diretta Instagram SkyClimb Mezzalama by Dynafit, la gara che sabato 28 agosto prenderà il via dalla frazione di Saint Jacques (Ayas) e porterà gli skyrunner fino ai 4.226 metri di quota della vetta del Castore. La partenza e l’arrivo saranno nella frazione di Saint Jacques, in Val d’Ayas. Il tracciato, impegnativo, severo e molto tecnico, misura 25 chilometri con un dislivello complessivo di oltre 5000 metri.

«La caratteristica principale della SkyClimb Mezzalama - ha raccontato Favre - sarà quella che le squadre si dovranno confrontare con un terreno alpinistico e in alta quota. Si dovrà affrontare quella parere Ovest del Castore che tutti conoscono per le immagini del Trofeo Mezzalama dove le pattuglie salivano ramponi ai piedi e sci nello zaino. Questa volta i team, che saranno composti da due elementi, utilizzeranno gli stessi strumenti, corda, imbraghi e ramponi, ma non avranno gli sci nello zaino».

«Il percorso, - ha detto Favre - dopo la partenza a Saint Jacques per raggiungere la vetta del Castore passerà per il Pian di Verra, il Lago Blu, il Rifugio Mezzalama, il Rifugio Guide di Ayas per immettersi nel percorso classico del Trofeo Mezzalama con il passo di Verra e infine la parete Ovest del Castore. Dopo aver toccato la quota di 4228 metri le squadre scenderanno lungo la cresta Est verso il ghiacciaio del Felik passando per il rifugio Quintino Sella. Da qui la lunga discesa porterà gli atleti al traguardo di Saint Jacques toccando, il passo della Bettolina, il Colle della Bettaforca, e i rifugi Ferraro e Guide Frachey».

Per questa prima edizione il numero massimo di squadre ammesse sarà di 80, come succede per il Trofeo Mezzalama i curricula degli atleti saranno esaminati da Adriano Favre tenendo conto anche dei punti ITRA (600 per gli uomini e 450 per le donne) e dei piazzamenti nelle prestigiose competizioni de La Grande Course.

Durante la presentazione è intervenuta Rossella Monsorno, marketing specialist Dynafit per l’Italia, confermando che il rapporto di collaborazione tecnica con la Fondazione Mezzalama, per il trofeo invernale e la gara estiva, andrà avanti almeno fino al 2025. La data scelta prevede la possibilità di recupero il giorno successivo, domenica, in caso di maltempo. L’organizzazione non ha comunicato la cadenza dell’evento che sarà probabilmente biennale, come il Trofeo invernale, e alternato con il Trofeo Kima che solitamente si svolge nello stesso fine settimana, mentre quest’anno si sovrappone all'UTMB, che si rivolge in larga parte a un target di atleti diverso, Kilian escluso, che è uomo da UTMB e SkyClimb. Ma di Kilian ce ne sono pochi…  www.trofeomezzalama.org

IL PERCORSO (25 km circa - 2.533 mt D+)

Partenza da Saint Jacques, una prima salita in un bosco di larici porta al piccolo abitato di Fiery (1.878 m). Da qui la salita è meno ripida e di traverso verso destra si raggiunge il Pian di Verra (2.050 m). Attraversata la piana, la mulattiera conduce al Lago Blu (2.215 m). Si segue poi il ripido filo della morena glaciale che porta al Rifugio Mezzalama (3.036 m). Oltre, il terreno si fa tipicamente pre-glaciale e roccioso ed una facile lingua di ghiaccio pianeggiante conduce ai piedi delle ripide rocce di Lambronecca, alla cui sommità sorge il Rifugio delle Guide di Ayas (3.400 m).

Al Rifugio Guide di Ayas, primo rifornimento (organizzato nel rispetto delle norme anti COVID19) e cambio di assetto. Si indossa l’imbrago, si calzano i ramponi e ci si lega in cordata, pronti per affrontare il ghiacciaio con le sue insidie. Le pendenze sono moderate fino al raggiungimento del Passo di Verra (3.848 m). Teatro della parte più tecnica ed impegnativa della gara sarà l’ascesa al Castore (4.226 m) per la parete Ovest, sulle tracce del Mezzalama classico.

La discesa seguirà la cresta Est ed il ghiacciaio del Felik fino al Rifugio Quintino Sella (3.585 m). Zona rifornimento e cambio di assetto. Si tolgono corda e ramponi. Un’aerea cresta rocciosa ben attrezzata porta alle pietraie che rapidamente conducono al Passo della Bettolina (3.000 m circa).

Da qui si abbandona il comodo e frequentato sentiero che conduce al Colle della Bettaforca e per ripide tracce si guadagna il Pian di Verra inferiore, mille metri più in basso. Un bosco di larici offre riparo al comodo sentiero che conduce ai Rifugi Ferraro e Guide Frachey (2.060 m) a Résy, poi un’ultima ripida picchiata porta all’arrivo a Saint Jacques.


Finché c’è neve c’è Speranza

In montagna ho fatto più o meno tutto, più o meno bene: salite invernali, arrampicate in falesia d’estate, trekking, corse in quota, ciaspolate a non finire, sci su pista e sci da fondo. In quest’ultimo settore ho partecipato pure a qualche gara e ad almeno una dozzina di Marcialonghe, a partire dalla prima, quella del remoto 1971. Solo per farvi intendere l’età che ho accumulato. Mi mancava dunque lo scialpinismo. È un po’ che ce l’avevo in mente ma per smuovermi davvero ci volevano due cose indispensabili: l’occasione e la compagnia giusta. Adesso l’occasione l’ho trovata: la quarantena nella casa di montagna. E devo sfruttarla in fretta prima che anche qui, nelle terre alte piemontesi, arrivi l’ingiunzione di dover uscire solo con una Guida. Un po’ mi scoccerebbe, non tanto per i soldi, che in quanto extra da qualche parte dovrei far saltar fuori, quanto perché ero convinto che lo scialpinismo, a differenza degli altri sci, fosse l’essenza della libertà assoluta: vai proprio dove vuoi, seppur con la consapevolezza dei tuoi mezzi e dei rischi.

Poi ho trovato anche la compagnia giusta, le tracce da seguire, quelle di Speranza Vigliani, una signora del centro di Milano che tutto sembra tranne che una signora del centro di Milano. Speranza ha anche una casa alpina non lontano dalla mia, e non vede l’ora che cada la neve per mettere le pelli sotto gli sci e andarsene per monti e valli. Quelle vicine, per poi allargare man mano il giro. Scia scia, è arrivata a serpeggiare anche sui versanti del monte Ararat e perfino tra quei valloni scoscesi e ghiacciati che precipitano sui fiordi della Norvegia. Per il resto, non è che se ne sta con le mani in mano: fa triathlon, trail in mountain bike, traversate a nuoto di laghi e corse in bici sulle strade bianche. Vanta pure un brevetto di Accompagnatore di media montagna, così almeno gli aspetti culturali e ambientali del cammino li può raccontare e condividere in via ufficiale. Non può certo insegnare scialpinismo, è ben chiaro, ma non l’ho contattata per questo, ma perché conosce i posti giusti per cominciare vicino a casa nostra, per farmi dire come funziona tutto l’ambaradan per un principiante, cosa mi serve davvero. Insomma, finché c’è neve c’è Speranza.

«Prima di tutto, è necessario informarsi sul tempo che verrà, sullo stato della neve. Non chiederlo però ai local. Per loro la neve l’è semper bela, una farina anche se in realtà è molto più simile ai cubetti di ghiaccio del freezer. Ma loro scendono sempre e dappertutto, perciò non fanno testo».
«Ok, poi?».
«Poi l’attrezzatura giusta. Vai in un negozio qualificato, di qualcuno che conosci e fatti consigliare. Magari, all’inizio, è meglio noleggiarla».
Perfetto. Dalle mie parti, che sono defilate, c’è un negozio storico. Beh, più che un negozio è una specie di outlet-antiquario (nel senso che qui le cose nuove arrivano quando altrove sono già vecchie), beh, più che un outlet, un magazzino dove tutto è piuttosto confuso, ammucchiato.

Se vedi sbucare un paio di guanti che ti piacciono non toccarli! Lascia fare al padrone di casa, che sa come sfilarli delicatamente senza far venire giù tutto. Lui è un tipo convincente, l’autunno scorso sono entrato per prendere un paio di robusti guanti da sci e sono uscito con un paio di guantini di seta in colori mimetici, forse buoni per i cacciatori, che non metterò mai. In compenso stanno nell’astuccio degli occhiali, non si sa mai. Una volta ho visto dare a uno un paio di ghette di tela cerata con il pelo di volpe dentro, ammuffito alla perfezione, avanzate probabilmente dalla prima spedizione polare di Roald Amundsen. Non ero comunque l’unico nel suo antro; davanti a me c’era una signora (non so se milanese o meno) anche lei per prendere l’attrezzatura da scialpinismo. L’ho capito chiaramente verso il finale, quando le ha dato la scatola delle pelli. Lei l’ha aperta, ha guardato, ha palpato tra indice e pollice e ha esclamato con disappunto: ma non sono di foca!.
«No signora, gli ambientalisti ce lo vietano». Detto con un sorrisetto.
«Maledetti, anche qui sono arrivati» ha risposto madame con un ringhio.
Cosa volete, noi puristi dello scialpinismo un po’ âgée siamo così, ci piace la foca.
È toccato finalmente a me. Il negoziante mi ha scrutato un attimo, su e giù, giù e su, come fosse uno scanner, ha afferrato il primo paio di sci larghi a tiro e me li ha spiattellati contro una spalla: «Questi sono perfetti».

E io che mi aspettavo prove da galleria del vento. Poi però mi sono detto che Ottorino Mezzalama quando nel ’27 è salito e poi sceso vivo dal Monte Bianco aveva due strisce di legno con ganasce, molle, lacci e fermapunta in canapa. E se ce l’ha fatta Ottorino…
«Ok, Speranza, con la roba sono a posto. Dove si va?».
«Alla Dormillouse, salendo dalla Val di Thures».
Il posto mi piace. A partire dal nome, la Dormillouse, che mi dà l’idea di una figura adagiata su un fianco morbido. E così è. L’intera montagna, larga e polposa, alta 2.908 metri, è glabra, solo qualche arbusto che sbuca dalla neve qua e là ma non ci sono proprio alberi, quindi, una volta constatata la stabilità del terreno, si può galleggiare, planare, svolazzare, svoltare dove si vuole.
«Calma, non è detto che uno che sa sciare dignitosamente in pista se la cavi altrettanto decorosamente sulla neve naturale. Anzi. Perciò si parte più sotto, dalla Crête de la Dormillouse, dove il fondo è più compatto e la ripidità meno accentuata».
«Come dire che invece che partire dalla spalla della dormiente partiamo dalla coscia» aggiungo io per fare lo spiritoso.
«Più o meno. Comunque qui stiamo parlando di scendere. Però c’è un fatto: prima bisogna salire. Ricorda, sci-alpinismo, e quest’ultimo prevede che prima si salga».
La salita, giusto.

Non capisco perché certe signore milanesi quando sono in città, quando anche vanno di fretta, hanno un passo e quando sono in montagna ne hanno un altro. Non riesco a starle dietro. Nemmeno sulla strada di neve già ben battuta che dalle case di Rhuilles, dove abbiamo lasciato le auto, sale alle Grange Chabaud e al colle omonimo, un pianoro enorme che se lo percorri tutto sconfini sulle praterie francesi che scendono verso la solitaria valle della Cerveyrette, nelle cui microscopiche borgate non arriva ancora la corrente elettrica.
Decenni di passo alternato nello sci da fondo mi aiutano a coordinare i movimenti, ma un conto è andare in piano tra i binari ben tracciati delle vicine piste olimpiche di Pragelato, un conto è salire, salire, salire e cercare di stare dietro a Speranza che sembra andare con una lentezza esasperante e invece guadagna centimetri ad ogni scivolata. Lei scivola, io zampetto, qui sta la differenza. C’è anche da aggiungere che il sottoscritto, da neofita, ha portato nello zaino tutto quel che serve per proteggersi dal blizzard, dalla nevicata del secolo, dall’invasione delle locuste, dall’arrivo del vento dal Sahara, dall’alluvione e da ogni altra avversità dovuta ai cambiamenti climatici, sempre più imprevedibili. Speranza, che aveva controllato di nuovo le previsioni meteo, solo quel che serve davvero in una giornata di sole tiepido che fa rintanare il freddo del mattino nelle zone ombrose di fondovalle. Nello zaino ha la pala e la sonda, mentre l’Artva lo abbiamo addosso entrambi. Il mio l’ho naturalmente affittato insieme agli sci, ma Speranza mi raccomanda di acquistarlo nel caso intendessi proseguire l’attività dopo le prime lezioni. «Con il kit di sopravvivenza te la cavi con circa 250 euro, beh, poi c’è l’attrezzatura, poi ci aggiungi cinque o sei uscite con una Guida o un Maestro di sci…». Mentre sbuffo e sudo, bagnato come la Fontana di Tritone a Roma, con l’acqua che gli zampilla dalla testa e gli ricade addosso, faccio mentalmente due conti e concludo che il resto dell’inverno, altro che montagna; lo trascorrerò a passeggiare sul lungomare di Bordighera, come molti pensionati di professione, fermandomi a scrutare il mare ogni tre minuti, con la mano a visiera sulla fronte, anche se il panorama è sempre quello.

© Mattias Fredriksson

La mia amica milanese tiene subito a precisare che questa che stiamo facendo è una scampagnata, tanto per guardarci in giro e assaporare il buon gusto della libertà e della solitudine e per far due scivolate su terreno sicuro, ma poi per imparare davvero e affrontare la polvere (si capisce da questo che lei ne sa, pur se the wild world of powder lo dicono solo quelli che hanno imparato il free ride tra le foreste della British Columbia) qualche lezione bisogna pur prenderla.
Alla base della Crête riprendiamo fiato prima di iniziare a salire (ancora!) tra quelle che sono delle collinette, le gobbe di cammello, avrebbero detto in una telecronaca sciatoria di qualche tempo fa. Qui sembra che di cammelli ce ne siano mandrie intere, il fianco della montagna pare la superficie di un panettone ricoperto di uvette, ce ne sono tantissime. Meglio, penso, tutti quegli avvallamenti serviranno a frenarmi. Davanti a me, molto davanti a me, Speranza sale con calma, con regolarità e scioltezza, anzi, naturalezza, e dà al movimento un perfetto tono armonico. Ogni tanto cambia direzione, si ferma, respira, osserva tutt’intorno, alza lo sguardo verso le creste.
«Grazie, che ogni tanto mi aspetti» le dico quando la raggiungo emanando vapori come una locomotiva d’altri tempi.
«Più che aspettarti – risponde ridendo mi godo la salita e la fatica, quella che regala benefici. E, a parte questo, lo scialpinismo richiede osservazione, attenzione, decisione, sensibilità. Bisogna cercare di entrar a far parte dell’ambiente intorno. Se non fai così, tanto vale restarsene a sciare sulle piste lisce e soleggiate del Fraiteve cercando di schivare le bande di ragazzini degli sci club».

Saliamo ancora un po’ fino a superare le gobbe di cammello, simili più a meringhe soffici cosparse di zucchero abbondante. «Direi di partire da qui – dice Speranza ma prima beviamoci un sorso di tè, copriamoci bene e immaginiamo un tracciato da seguire e soprattutto un punto di arrivo». Allaccio e stringo tutto quel che è allacciabile e stringibile. In alto c’è il sole ma dalla valle della Cerveyrette sale una lama di aria gelida. Il vento francese è sempre così, ce l’ha con noi italiani, avverte subito quando stai per avvicinarti troppo alla linea di confine.
«Naturalmente immagino che tu abbia curiosato su YouTube e avrai visto quei rider giapponesi che si immergono e riemergono da mucchi di neve fresca tenendo fuori solo la testa e la punta degli sci. Dimenticali! Avrai pure visto quelli del Mezzalama, che quando si buttano giù dai pendii sembra debbano sfracellarsi da un momento all’altro. Beh, dimentica anche quelli! Loro sono in gara e devono recuperare secondi preziosi. Per fare quelle cose ci vogliono anni di pratica e un fisico bestiale, e mi sa che tu…».
«Perciò?».
«Posizione centrale, niente uso degli spigoli, movimenti accentuati di flessione-distensione e appoggio dei bastoncini, che danno il ritmo. Fluidità, scioltezza, naturalezza. Niente lunghi diagonali, per non rallentare e rendere difficili le curve. Tutto qui».
Certo, tutto qui. Ora che mi concentro su ogni singolo elemento viene Natale 2021 ma in questo caso bisogna fare tutto insieme, contemporaneamente.
«Vado avanti, così vedi».
«Sì, vai, vai».

© Mattias Fredriksson

In effetti è un bel vedere. Punte subito a valle, curve sinuose e continue, piccoli sbaffi simmetrici sulla neve fresca, una danza soffice. Sono incantato e dall’incanto vengo svegliato da un agitare di bastoncini nell’aria, giù in fondo. Tocca a me, arrivo. Punte subito a valle, piccola spinta, provo la prima curva, provo la seconda, la terza, lasciando dietro di me solo sbavature di una linea retta che diventa sempre più minacciosa. Accentuo ancora di più la flessione/distensione, allungo il braccio in avanti/di lato ma le punte stanno sempre fisse a valle e vanno dritte verso una meringa. Beh, poco male, almeno mi fermo con la risalita e la neve fresca. Ma no, perché il versante Nord della meringa è più ghiacciato degli altri versanti, e prendo ancor più velocità. La meringa fa effetto trampolino, salto nell’aria e atterro una ventina di metri più in là, nella neve soffice. Di schiena, naturalmente, per via dello zainone (che però, pieno com’è di roba inutile, fa effetto airbag) e resto immobile con le gambe rigide nell’aria, come un passero abbattuto da un pallino. Speranza mi si avvicina: «tutto a posto?».
«Una meraviglia».
«Beh, passare dal freeride al freestyle è stato un attimo!» dice ridendo.
Ma io non demordo. Proviamo qualche altra inerpicata con conseguenti discese. Mi fa rifare i movimenti da fermo. «Perfetti» mi incoraggia.
Ci credo, da fermi son buoni tutti. Però nei successivi tentativi qualche curva a parentesi tonda (invece che a parentesi quadra come le precedenti) mi riesce, offrendo allo sguardo un paesaggio meno sconnesso, più lineare, e qualche brivido di piacere assoluto. Dopo un paio d’ore di su e giù riprendiamo la strada che ci riporta alle auto. È tutta discesa e, sul battuto, i miei sci scodinzolano stretti come quelli di un vecchio maestro dello storico Sci Club 18 di Cortina; tecnica, anche questa, d’antan. A valle ci salutiamo, dandoci appuntamento a un domani impreciso, vago, forse inesistente. La sera ci penso: in fondo non è stato un brutto giro, sono vivo ed è questo che conta. Quasi quasi chiamo Speranza per farmi dare il numero di un esperto autorizzato, per quelle lezioni base. Oppure prenoto a Bordighera?

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 134

© Mattias Fredriksson

Suunto 9 Peak è il più sottile smartwatch della storia della casa finlandese

Arriva Suunto 9 Peak: lo sportwatch più sottile, potente e resistente nella storia del marchio finlandese, ispirato a Suunto 9 Baro. Tra le feature, fino a 170 ore di capacità di registrazione GPS in modalità Tour, misurazione della saturazione dell'ossigeno e carica totale della batteria in un’ora. «Abbiamo scoperto che molti desideravano tutte le caratteristiche di Suunto 9 Baro, ma in un orologio più piccolo e semplice, senza rinunciare alla durata della batteria ed all’approccio tecnologico avanzato» ha detto Heikki Norta, presidente di Suunto. Suunto 9, più sottile del 37% e più leggero del 36% rispetto a Suunto 9 Baro, ha oltre 80 modalità sport come corsa, escursionismo, mountain bike, sci e nuoto, le schermate personalizzabili che mostrano i dati più pertinenti per il tipo di allenamento, un sistema di gestione della batteria intelligente, il monitoraggio accurato della frequenza cardiaca al polso, informazioni meteo dettagliate e funzionalità complete di navigazione nell'orologio. 

L'app Suunto si integra perfettamente con Suunto 9 Peak, consentendo agli utenti di programmare gli itinerari in maniera efficace con mappe di calore specifiche per lo sport e punti di partenza popolari, che possono essere creati e trasferiti nell'orologio per la navigazione offline. L'app per dispositivi mobili consente agli utenti di scoprire nuove località, creare punti di interesse e rivedere le attività precedenti con mappe di calore personali. Inoltre, la velocità di sincronizzazione tra Suunto 9 Peak e l'app Suunto è ora raddoppiata grazie a Bluetooth 5, la più recente evoluzione nella tecnologia Bluetooth. Suunto 9 Peak sarà disponibile in due diversi stili e quattro colori ispirati alla natura: Granite Blue Titanium e Birch White Titanium, realizzati con cristallo in zaffiro e cassa totalmente in titanio di grado 5, prezzo 699 euro; All Black e Moss Gray, realizzati con cristallo in zaffiro e cassa in acciaio inossidabile, prezzo 569 euro.


Ararat amaro per Nico Valsesia

Nico Valsesia ci ha abituati a imprese titaniche a suon di pedalate e passi di corsa per raggiungere le cime più alte della terra partendo dal mare. Imprese che il cinquantenne di Borgomanero con un secondo e terzo posto nella Race Across America di ciclismo ha sempre affrontato con disinvoltura. Solo il Monte Ararat l’ha respinto. Il D-Day era previsto sabato scorso, 22 maggio. Partenza da Hopa, una piccola cittadina affacciata sul Mar Nero, e dopo 500 chilometri e 8.000 metri di dislivello da pedalare in completa solitudine, arrivo ai 2.200 metri della base dell’Ararat, con ancora altri 3.000 metri di dislivello da scalare a piedi per raggiungere la vetta. Una montagna, l’Ararat, tecnicamente facile da salire in estate ma ancora ricca di neve e ghiaccio in questo periodo. Con in più le difficoltà della pandemia, con la Turchia sottoposta a pesanti restrizioni. Per non farsi mancare nulla Nico ha pensato bene di raggiungere la destinazione in auto, aggiungendo altri 4.000 chilometri non proprio agevoli. 

Cronaca di un tentativo

La partenza sabato alle 12.33. La strada, quasi sempre ben asfaltata, scorre prima in una valle e poi inizia una lunga e massacrante salita di oltre 100 chilometri, quindi prosegue su e giù per altipiani prima molto verdi e poi dalle tonalitа più aride. Il vero problema sono i cani randagi che attaccano più volte Valsesia, costringendolo anche a scendere dalla bicicletta e usare la stessa per difendersi. Poi sarа l’auto al seguito a mettersi in mezzo e a fare da deterrente per i tanti cani incarogniti contro il ciclista. La notte, fredda e molto ventosa di suo, con gli agguati improvvisi di questi branchi di pericolosi randagi, diventa un tormento. Alle prime luci dell’alba e con il cambio di zona il cielo diventa grigio e le temperature iniziano a salire. Una foratura e alcuni posti di blocco militari, in un’area contesa con la vicinissima Armenia, rallentano leggermente il ruolo di marcia, mentre bar, market e qualsiasi tipologia di negozio sono chiusi, mettendo a dura prova il pianificato reintegro alimentare. Arrivati a Dogubayazit, la piccola cittadina sulla piana ai piedi dell’Ararat, giа base logistica per la prima ascensione conoscitiva e d’acclimatamento con salita in vetta, dei giorni precedenti, si decide per un reintegro energetico importante. Dopo un riposo di un’ora e mezza, Valsesia cambia anche la bicicletta, una gravel, per gli ultimi 20 chilometri che portano allo spiazzo da cui partono tutte le ascensioni al monte. Una salita flagellata dal vento e con il cielo che diventa sempre più nuvoloso e scuro. La frazione ciclistica termina dopo 25 ore e 31 minuti. Dopo un paio d’ora di marcia, Nico, accompagnato dal figlio Felipe e da un Guida locale, è costretto a un riparo di fortuna sotto una roccia per evitare una forte grandinata e i tanti fulmini che saettano in cielo. Un altro spostamento verso l’alto in un momento di apparente calma, mentre il nero della notte si è impossessato della montagna e un secondo stop forzato da un’altra grandinata spinta da un vento fortissimo. A quota 3.200 metri l’ospitalitа in una tenda di un gruppo di escursionisti. anche loro bloccati dalle avversitа meteorologiche, un riparo che servirà per tutta la notte. Questa mattina, con il vento leggermente in calo e nessuna precipitazione, un ultimo tentativo fino ai 3.800 metri dove li avrebbe dovuti attendere una tenda di servizio, purtroppo distrutta dalla forza della natura. Restano comunque la vetta dell’Ararat conquistata nei giorni precedenti e un tentativo di record portato nuovamente al limite da un atleta che a 50 anni ha ancora qualcosa da dire.


Una corsa alla fine del mondo

Ero curioso di tornare nella valle Chacabuco e al lago Jeinemeni. Ma non era solo la natura ad attrarmi, piuttosto gli uomini e il loro rapporto con l’ambiente. Queste valli, questi monti, sono forse il luogo dove ho lavorato più a lungo come Guida di montagna, dove ho corso più lontano. Qui ho scritto record di salita e discesa in velocità su cime selvagge. Queste montagne le sento un po’ come mie, anche se non vivo qui, ma vicino a Santiago, nella valle Maipo. All’inizio del 2018, grazie alla donazione allo stato del Cile della terra della Valle Chacabuco da parte di Tompkins Conservation, la Reserva Nacional Lago Jeinemeni e la Reserva Nacional Lago Cochrane sono state unite nel Parque Nacional Patagonia. Queste valli sono state trasformate negli anni dall’allevamento e l’ecosistema, al di fuori dei panorami da cartolina, rischiava di essere compromesso irrimediabilmente, però la creazione del parco è andata contro alcuni degli interessi economici locali. Così, a distanza di due anni, volevo vedere come è stato accolto dalle persone che vivono da quelle parti e che effetto ha prodotto sull’economia locale. Volevo farlo a mio modo, tornando lì per correre. Allora ci sono ricascato. Come un anno fa, sono partito per il Sud. Questa volta ho scelto un Volkswagen T2. In realtà è lui che ha scelto noi: l’abbiamo trovato in un parcheggio e ce ne siamo subito innamorati.

Ho corso sul sentiero delle Lagunas Altas o al Mirador Douglas Tompkins per guardare dall’alto il Lago Cochrane, ho attraversato il Chacabuco sul lungo ponte pedonale, ho riscoperto la bellezza selvaggia del Lago Jeinemeni e i paesaggi extraterrestri della Valle Lunar e della Piedra Clavada, una roccia vulcanica alta 40 metri. Tornare a casa è stato speciale. Inutile dire che correre qui, ma anche semplicemente partire per un trekking lungo uno dei tanti sentieri segnalati, è un'esperienza unica. I guanacos (una specie di lama) sono una presenza costante, ma ci sono altri occhi che vegliano su di te, dal condor al flamenco cileno che volteggiano nel cielo, ai puma e agli armadilli, fino ai simpatici huemules, i cervi cileni. Per dormire ci sono i tre campeggi all’interno del parco, così il contatto con la natura ti rimane dentro ogni minuto della giornata. Però tutto questo lo sapevo. Tompkins Conservation è stata creata da Douglas Tompkins, fondatore di The North Face ed Esprit, e dalla seconda moglie Kristine per comprare terre in Sud America, creare parchi, proteggere la fauna e incentivare l’agricoltura rigenerativa. Nel 1968 Tompkins partì in auto dalla California per raggiungere la Patagonia insieme a Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia, e aprire una nuova via sul Fitz Roy. Ora che Douglas è morto, Yvon e sua moglie Malinda fanno parte del board direttivo della Tompkins Conservation. Il Parque Nacional Patagonia è una scommessa riuscita, un segreto che è sempre più difficile tenere nascosto per partire alla scoperta di una Patagonia meno frequentata e più autentica di altri santuari naturali, come per esempio il Parque Nacional Tierra del Fuego, a Ushuaia, in Argentina o il De Agostini, in Cile. Ma la sorpresa più bella è che il modello di turismo del parco e soprattutto di agricoltura rigenerativa che si sta sviluppando, anche fuori dall’area protetta, sta funzionando. Le persone del luogo iniziano a vivere di turismo e agricoltura sostenibile e si è messo in moto un volano che porta lavoro e benessere.

Gli allevamenti di bestiame e i danni all’ecosistema sono un ricordo. Le grandi valli modellate dal Rio Chacabuco e la steppa patagonica, dopo un secolo di pastorizia, ospitano un livello di biodiversità tra i più alti della regione di Aysén. Invece di produrre anidride carbonica, la catturano. E le montagne, i boschi di lengas e i grandi laghi sono lo scenario perfetto per questo film a lieto fine.

© Nacho Grez

Huerto Cuatro Estaciones

Mi ricordo il mio primo giorno di agronomia all’università, quando uno dei professori ci ha detto che saremmo stati responsabili di nutrire il mondo perché stavamo affrontando una fase di grande crescita demografica. Però c’era una contraddizione con quello che nella realtà ci insegnavano e produrre vino e frutta a buon mercato per i Paesi sviluppati perché potessero soddisfare il capriccio di avere tutte le primizie sulla tavola in ogni periodo dell’anno, senza preoccuparsi dell’origine e di come fossero prodotte. Con Javier abbiamo pensato di costruire un’alternativa. All’università non abbiamo imparato come coltivare la terra, ed eravamo agronomi. Così siamo andati in Ecuador, dove siamo diventati contadini. Poi con questa esperienza siamo venuti in Patagonia e siamo stati quattro anni nell’Estancia Chacabuco, nel Parque Nacional Patagonia, dove abbiamo adattato la nostra esperienza al clima patagonico. Qui il meteo è ostile e variabile, la stagione corta. La sfida da vincere era quella di poter produrre senza l’utilizzo di fertilizzanti chimici, ma soprattutto di dimostrare che fosse economicamente sostenibile. Così è nato Huerto Cuatro Estaciones (la fattoria delle quattro stagioni). Ora siamo sulle rive del lago General Carrera dove c’è un microclima favorevole per l’agricoltura. La regione di Aysén è una delle zone meno popolate del Cile e l’agricoltura intensiva qui non è ancora arrivata.

È un’opportunità unica per costruire il futuro di queste terre e della comunità locale. Ci ispiriamo al concetto dell’agricoltura rigenerativa che non cerca solo di rigenerare il suolo, ma anche di creare abbondanza e sviluppo, però è importante non essere fraintesi, non sembrare quelli che impongono le loro conoscenze alla comunità locale, che insegnano come coltivare il loro cibo. Di questa comunità abbiamo deciso di fare parte. Puerto Guadal è un piccolo villaggio, tutti si conoscono e vendiamo i nostri prodotti al mercato ogni settimana. È un’opportunità di condividere con loro il nostro lavoro e abbiamo ispirato alcuni abitanti a coltivare l’orto e a iniziare a vendere i prodotti ai vicini. Organizziamo corsi dove i giovani possono vedere e imparare come coltiviamo la verdura. La nostra idea è quella di dare loro l’esperienza per fare partire altri progetti. Il modo migliore di imparare è fare. Ci sono le lezioni teoriche, ma la cosa più importante è sporcarsi le mani, seminare, raccogliere, fare il compost e passare la giornata in un orto organico. Utilizziamo il metodo bio intensivo perché non richiede fertilizzanti e pesticidi e non dipende dai prodotti fossili. Si basa sulla vita del terreno e lo rende più fertile di anno in anno. Coltiviamo più di 30 diverse specie, usiamo i fiori per attrarre gli insetti benefici, aumentando la diversità. Sono molto fortunato a vivere in uno degli ultimi territori non devastati dall’uomo e voglio proteggerlo e dimostrare che è possibile vivere bene rispettando il mondo che ci circonda, la natura e gli uomini.

Francisco Vio

© Nacho Grez

Peninsula Mitre

Flashback. Gennaio 2019. Sono sui soffici ciuffi di erba, ma poco oltre c’è una bianca scogliera che precipita per centinaia di metri verso le onde del mare. Il vento mi fa barcollare. Di tanto in tanto arriva qualche provvidenziale goccia d’acqua. La Península Mitre è l’estrema punta meridionale del Sud America, quella punta dell’Argentina che guarda a Est. Ieri abbiamo provato a bere l’acqua degli acquitrini rendendoci conto che, anche bollita, è imbevibile perché inquinata dai castori. Sembra incredibile, ma questi roditori, introdotti dall’industria delle pellicce, hanno devastato l’ecosistema locale. L’alternativa era bere quel liquido disgustoso o l’acqua salata del mare, poi abbiamo capito che si poteva raccogliere l’acqua che ogni giorno cade dal cielo ed è stata la nostra salvezza. Essere qui, senza tutte quelle comodità del nostro mondo, a partire da un collegamento internet, mi ha obbligato a risolvere i problemi, tanti, facendo solo ricorso al mio intuito. Mi ha fatto capire che a volte devi avere fortuna. Ormai siamo in strada da quasi sette settimane io e la mia compagna. Ci siamo uniti al gruppo di Adolfo, un attivista che da 20 anni frequenta la Península Mitre e che sta portando degli scienziati a studiare le colonie di leoni marini. Loro vanno a cavallo, noi corriamo su questi tappeti morbidi e la sera ci ritroviamo. Qui ogni estate arrivano diverse specie migratorie. Da oltre 30 anni organizzazioni no-profit, scienziati, attivisti e abitanti di queste terre si battono per renderle un territorio protetto. Salvaguardare le torbiere e il loro ecosistema è importante perché coprono solo il 3% della superficie terrestre ma contengono 550 miliardi di tonnellate di carbonio organico, il doppio di quello di tutte le foreste del mondo, e sono uno dei migliori alleati nella lotta al cambiamento climatico. Correre qui, tra venti e maree, è stata una delle esperienze più speciali della mia vita, ma mi rimane da visitare l’isola di Navarino.

A dicembre lì, a Sud di Ushuaia, ho partecipato al trail più meridionale del mondo e ho conosciuto Fede e Facu, che mi hanno ospitato a Ushuaia, ma ora voglio tornare per correre anche sul versante Sud e andare a esplorare un grande lago. Lì finisce il sentiero più meridionale del mondo. Oltre ci sono solo le Wollaston Islands e l’Antartide. Dovremo aspettare due giorni per poter attraversare il Canale di Beagle a causa dei venti forti e del mare mosso. Puerto Navarino, in Cile, è il piccolo attracco sull’isola ed è piccola pure la barca per la traversata. Ho pensato di non tornare vivo, è stata un’esperienza difficile tra le onde. Poi da Puerto Williams ci spingeremo sulle montagne e al lago. Le nostre tende, al risveglio, verranno ricoperte da una spessa coltre di neve. Non c’è niente e nessuno al di fuori del piccolo villaggio di Puerto Williams, gli smartphone non prendono. Ushuaia e i suoi turisti sono lì di fronte, ma basta girare l’angolo per essere nel nulla. Prima di Peninsula Mitre e Navarino siamo stati a correre nel Karukinka Natural Park, un parco privato sull’isola della Tierra del Fuego, gestito dalla Wildlife Conservation Society, in pratica un laboratorio a cielo aperto per la difesa dei diversi ecosistemi della Tierra del Fuego. Karukinka significa ultima terra dell’uomo. Ed è stato così anche per noi perché la tappa successiva era il Yendegaia National Park, nel cuore della Cordillera Darwin. Questa terra ha una storia simile al resto della regione: sfruttata per l’allevamento, che ha incoraggiato il genocidio delle popolazioni indigene, è stata comprata dal Conservation Land Trust che nel 2014 l’ha donata al Cile ed è stata dichiarata parco nazionale. Però si tratta di un parco che esiste solo sulla carta perché è inaccessibile e per questo estremamente selvaggio. I militari stanno costruendo una strada per renderlo accessibile, ma questo posto non sarà più lo stesso. Così, a causa anche dell’uso degli esplosivi, utilizzo comunque regolamentato per non disturbare l’avifauna locale, l’accesso è vietato. Però credo che se hai degli obiettivi e ti guida la passione, devi prenderti qualche rischio e, approfittando di una pausa nei lavori e del rischio basso di essere scoperti, siamo riusciti a entrare. Sono stato spesso in zone remote, ma questa volta è stato diverso, oltre ogni aspettativa. Non esiste nulla, neppure una traccia nella vegetazione. Lì, fuori dal mondo, ho riflettuto sulla fortuna di essere uno degli ultimi a vedere dei posti così selvaggi. La strada sicuramente cambierà i luoghi, però pensando ai benefici portati dal Parque Nacional Patagonia credo che i cambiamenti positivi saranno maggiori di quelli negativi. Correre su sentieri è un modo diverso per connettersi con i luoghi e le persone che li vivono. Più impariamo dalla natura, maggiore è la probabilità di essere coinvolti e rispettarla. Se tutti potessimo capire che i parchi nazionali non servono solo a proteggere un posto meraviglioso, ma sono strumenti che abbiamo per salvare il nostro pianeta, penso che li guarderemmo con altri occhi. E la corsa è un ottimo punto di partenza.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131 

© Rodrigo Manns

Every Single Street

Le sterminate distese di sabbia e le gelide onde di Ocean Beach, a San Francisco, hanno qualcosa di catartico. E il gesto simbolico di Rickey Gates, che qui ha chiuso il primo agosto del 2017 la sua corsa da costa a costa degli Stati Uniti e da qui il primo novembre del 2018 è partito per il progetto Every Single Street, un’ultra-maratona per toccare ogni singola strada di San Francisco, è stato premonitore. O forse profetico. Passare dalle immense distese di uno dei Paesi più grandi del mondo alle 49 miglia quadrate di una città di poco meno di un milione di abitanti assume un significato ancora più profondo ora che, a causa delle restrizioni dei lockdown e delle conseguenze dell’era Covid, abbiamo riscoperto tutti una dimensione più local. E l’hashtag #everysinglestreet, oltre che un cortometraggio della Salomon TV, è diventato virale, con seguaci in ogni parte del mondo. Per correre dalla South Carolina a Ocean Beach, Rickey Gates ha coperto 3.700 miglia (poco meno di 6.000 chilometri), per raggiungere tutte le strade di Frisco, come i local chiamano la città del Golden Gate, 1.317 miglia (poco più di 2.100 chilometri) e 147.000 piedi di dislivello, quasi 45.000 metri.

Dopotutto in sette miglia per sette miglia ci sono ben 1.100 miglia (1.770 chilometri) di strade e per percorrerle tutte, anche se sei efficiente al massimo, devi coprire alcuni tratti più volte. «Correre su ogni singola strada di San Francisco in 45 giorni è stato come fare un’ultra ininterrotta tra le montagne, perché non puoi mai staccare con la testa, devi essere sempre concentrato e il dislivello è importante - dice Rickey - Però per altri versi è molto diverso, perché la nostra idea di trail running è spesso legata alla fuga, è semplicemente esistere in un posto e non essere perfettamente presenti e consapevoli in quel luogo: correre per le strade della città è l’opposto di fuggire». Ed è un rompicapo degno del cubo di Rubik, al quale si stanno appassionando centinaia di adepti che si ritrovano su citystrides, dove è possibile tenere traccia di tutte le strade percorse collegando il proprio account Strava o di altri servizi simili. «Si tratta di risolvere il problema del postino cinese e, si badi bene, non quello del postino americano. È un problema classico della matematica che consiste nel tracciare un percorso per raggiungere ogni lato di una strada e non semplicemente ogni indirizzo a cui va consegnato un pacco». Un problema di difficile soluzione pratica se è vero che Gates ha cercato di risolverlo elaborando un algoritmo con l’amico Michael Otte e alla fine ha dovuto ripiegare su un più empirico metodo fatto di mappe da tracciare con penne colorate. «È incredibile, sei in un quartiere e dici ancora un po’ e ho finito, e invece ti prende tutta la giornata». Every Single Street è la sfida e l’avventura dietro casa, dove non avresti mai immaginato. «Probabilmente ora è il momento migliore per partire alla scoperta della propria città, siamo uomini e il viaggio è nel nostro DNA, ecco perché accettare con curiosità la sfida è quello che abbiamo bisogno durante questi momenti di restrizioni».

© Rickey Gates

Naturalmente correre a Frisco non è esattamente come farlo in qualsiasi dannata città o cittadina, perché San Francisco, come dice Rickey dopo averne percorso in lungo e in largo tutte le strade, compresa Gates Street, è il mondo. «Per me correre è sempre stato un mezzo, per incontrare le persone, per conoscere i luoghi o me stesso: ci sono stati tempi in cui il cronometro mi motivava, ma ora a 39 anni la corsa è diventata molto di più e farlo in una città densamente popolata ti porta in contatto con volti, odori, rumori. Siamo creature abbastanza semplici, le persone vogliono solo un po’ di attenzione, che le guardi e che sorridi con loro e correre nella città ti mette nelle condizioni di andare in profondità nel concetto di empatia, di cercare di dare a ogni persona che incontri la stessa importanza, come se fossimo tutti nello stesso orologio e vivessimo allo stesso livello momenti ed emozioni». Correre in città è uno stimolo incredibile per la curiosità, quella stessa curiosità che ci muove verso obiettivi impensabili. Rickey Gates, correndo per le strade di Frisco, si è preso i ritmi e i tempi per fermarsi e curiosare, scattando migliaia di fotografie. Ci sono raccolte con titoli curiosi, come per esempio la scritta Jesus saves, i cartelli di animali domestici persi o le decine di Karmann Ghia, ma anche temi più seri come i tanti barboni che dormono per strada. «Alcune cose hanno attirato la mia attenzione come mai prima: Jesus saves l’ha scritto la stessa persona, su alcune strade vicine, mi sono divertito a immaginarlo seduto sull’asfalto a tappezzare l’asfalto di quella scritta; la Karmann Ghia è la macchina sportiva più sexy di sempre e il mio furgone VW del 1974 ha un motore molto simile». 

Correndo su ogni dannato chilometro di asfalto o di sterrato di una città diventi anche la migliore guida di quel luogo. E sai che a Frisco non puoi non fare un salto a Bernal Heights, dove ci sono dei murales e si vede dall’alto la skyline, o a Bayview, zona afro-americana perfetta per una soul session o un BBQ. «Quando esco a correre mi porto dietro qualcosa da mangiare, ma una delle piccole gioie di Every Single Street è stata mangiare cinese, messicano, arabo, provare il cibo di El Salvador: peccato che i migliori ristoranti etiopi siano fuori dalla città, a Berkeley e Oakland». C’è un altro aspetto di Every Single Street nel quale Gates è stato profetico: correre con una mascherina FFP2. Quando l’ho visto in una fotografia non volevo crederci: «C’era un grande incendio a circa 100 miglia di distanza, il risultato di una cattiva gestione delle foreste e della siccità. Spesso le città si credono lontane dalle calamità naturali e così ho pensato che fosse importante sperimentare la vibrazione di San Francisco durante questo periodo e l’unico modo per farlo era indossare una maschera. Non è così male, è difficile solo se vai forte, ma non faceva parte dei miei piani». Forse non ci voleva il Covid per riscoprire l’avventura in città e Rickey l’aveva capito in anticipo, ma dopo la pandemia la vita sarà la stessa e soprattutto, le città saranno ancora così popolate? «Penso che il mondo non tornerà mai più all’era pre-Covid e che sia un bene; avevamo bisogno di un tasto con scritto su pausa, anche se naturalmente sono addolorato per tutte queste morti. Credo che nelle città succederà quello che è successo al tempo della prima White Fight negli anni ’50 quando sono diventate un luogo più sicuro per gli afro-americani e i bianchi che potevano permetterselo si sono trasferiti nelle vicinanze, perché la minaccia di essere troppo vicini agli altri è un’autentica paura, però siamo un Paese in crescita demografica e anche le piccole città stanno crescendo, così la differenza tra i luoghi è sempre minore». L’idea di Rickey è diventata matura e ora c’è un sito interamente dedicato a Every Single Street con resoconti da tutto il mondo. E lui non abita più a San Francisco, ma a Santa Fe, nel Nuovo Messico, dove ha replicato il progetto. «È stato simile e diverso allo stesso tempo, simile perché è un modo per conoscere meglio un posto, diverso perché sono due città diverse. Santa Fe ha una lunga storia di poche persone che hanno combattuto per la terra e il potere, gli indiani Pueblo, gli spagnoli e gli americani, e questa tensione la senti ancora.

Ci sono strade pubbliche dove non sei benvenuto, perché chi abita lì le sente come proprie e ti lanciano contro i cani o chiamano la polizia». Se uno che ha corso a San Francisco lo ha fatto anche in tutte le strade di una sonnolenta cittadina del Sud inseguito da cani e polizia, allora ognuno di noi può provare a farlo a casa propria. Io ho iniziato subito dopo avere scritto questo articolo.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131 

© Jamil Coury

Translagorai Classic FKT Run

Ha senso creare un evento per stabilire un fastest known time che potrebbe venire facilmente superato da un atleta professionista lungo un percorso che tutto sommato è già conosciuto? Sì, ha senso, specialmente se nella propria vita e sfera sociale si attribuisce alla corsa un ruolo che va al di là dell’allacciarsi le scarpe e uscire a fare attività fisica, che è poi quello che pensa la maggior parte delle persone normali. Per iniziare a capire il perché nove semi-sconosciuti si siano trovati una sera a Passo Rolle per attraversare di corsa (o il più possibile di corsa, ecco) il Lagorai bisogna fare un passo indietro e partire dall’ideatore, Francesco Paco Gentilucci: uno che la corsa la prende parecchio sul serio e contemporaneamente ne rifiuta la mercificazione, una reazione comprensibile per qualunque cosa uno ami. Paco è quello che se ne va a correre cento miglia semi-sconosciute in California e non scatta neanche una foto, per intenderci: però è probabile che conosca per nome tutti i volontari incontrati lungo il percorso, o perlomeno quelli incontrati in uno stato di apparente lucidità mentale. Oltre che quella personale, la corsa per Paco ha anche una dimensione sociale: non importa solo quanti chilometri fai, conta anche con chi li fai e perché li fai.

Ecco che allora stabilire un fastest known time sulla Translagorai ha pienamente senso: primo, si dà una dignità propria a un percorso - e a un modo di percorrerlo, con un minimo di regole - che non c’era. Un po’ come stilare la relazione di una via alpinistica: non che prima non esistesse, ma da ora sarà più facile conoscerla e provare a percorrerla. E, contemporaneamente, si crea un archivio storico di tentativi con i quali confrontarsi o, semplicemente, per informarsi su tempi e logistica. Esattamente come i portali che raccolgono resoconti di ascensioni in montagna. Secondo, la scelta del luogo: la Translagorai non è un sentiero buttato lì in mezzo ad altri, messo in programma perché faceva comodo per la logistica o per le foto panoramiche. No, l’FKT in Lagorai serve anche per far parlare di un luogo controtendenza per gli standard trentini, dove impianti sciistici, strade e grosse infrastrutture turistiche non la fanno ancora da padrone. Potremmo parlare per ore dell’imponenza maestosa delle Dolomiti, ma sarebbe ipocrita descriverle come selvagge o incontaminate: il Lagorai, a fatica e forse ancora per poco, lo è. Il terzo motivo, forse intrinseco nella concezione stessa di corsa secondo Paco, era quello di voler prima di tutto creare qualcosa per condividere una passione con gli altri, non per forza persone già conosciute, e contemporaneamente cercare di trasmettere una visione di sport e di relazione con la natura che andasse al di là dei chilometri corsi tra Passo Rolle e Panarotta. Insomma, quello che si è fatto è stato lasciare una traccia: ora bisogna sperare che qualcuno la segua.

Federico Ravassard

© Federico Ravassard

Ossessione

Esistono le gare, o almeno, esistevano fino a qualche tempo fa e, a livello teorico, dovrebbero esistere ancora in futuro. Gare di cui spesso sento la mancanza, ma che - non l’ho mai nascosto - mi annoiavano già da tempo. Il problema è che l’atteggiamento bulimico dei corridori, sfruttato dalle leggi di mercato, ha portato alla nascita di tante, tantissime, troppe, gare mediocri, senza personalità né ragion d’essere, se non economica. Tolta la scusa di vedere un posto nuovo, il più delle volte la routine corro-faccio la doccia-torno a casa mi ha stancato. Insomma, l’annullamento del calendario agonistico mi è dispiaciuto fino a un certo punto e non mi ha destabilizzato più di tanto. Al netto di tutto soffrivo il fatto che in giro ci fossero tantissimi sbirri (in divisa e non) che potevano multarmi o fermarmi, sanzionando quello che ho sempre considerato come un diritto inalienabile per una persona nel 2020: correre da solo su un sentiero partendo da casa. Per il resto, tolta una 100 miglia nell’Oregon che sognavo da una vita, ho accolto la gran parte degli annullamenti del calendario con un’alzata di spalle. In Italia siamo ossessionati dalla competizione.

Per qualche ragione scegliamo le gare sulla base della classifica e degli atleti élite che le corrono e abbiamo bisogno di categorie, premi, medaglie, servizi e foto/video. In poche parole: abbiamo bisogno di acquistare sempre un prodotto e di sentirci appagati, fino all’acquisto del prodotto successivo. Perché questa premessa? Per il fatto che l’attitudine che vedo in giro verso i fastest known time sta prendendo la piega di cui sopra, che li priva del significato profondo che secondo me hanno.

Si chiamano FKT perché non sono gare

Un FKT non è l’esaltazione di un’impresa singolare. Per quello esistono gli avventurieri che tanto vengono utilizzati nei talk motivazionali delle aziende. Saltare da un aeroplano in paracadute e correre in un deserto non è un FKT e credo sia chiaro a tutti. L’idea di FKT è inoltre lontana da quella di atleti che come soldatini vanno a correre un segmento nel tempo più veloce che possono. Gli FKT esistevano molto prima che esistessero i segmenti di Strava, per capirci. Gli everesting sono un prodotto (molto interessante) nato da Strava in tempo di quarantena, ma tuttavia lontano dalla concezione classica dagli FKT nati nell’ultrarunning, ovvero l’obiettivo del dislivello a prescindere dal percorso, che invece negli FKT è una parte fondamentale.

Un FKT deve come prima cosa poter essere ripetibile, da tutti. Deve poter essere logico e, per quanto mi riguarda, non è volto all’obiettivo di ricevere pollici alzati dagli amici virtuali, visto che esistono già i record e i progetti personali. Trovo assurdo vedere striscioni e gonfiabili montati alla fine di un FKT perché, ancora una volta, sono record di un singolo atleta volti alla performance e non alla ripetibilità e condivisione. Gli FKT si basano infine sulla lealtà e onestà dei corridori. Potresti farne un pezzo in bici e nessuno lo saprebbe mai. Potresti fare registrare un record mondiale essendo un atleta dopato e in questi casi dovresti, secondo me, vergognartene.

Arrangiati

Translagorai Classic FKT Run nasce in modo piuttosto semplice. Ordino 50 adesivi pagandoli a mie spese e decido che sono il premio per chi arriverà in fondo alla traversata in meno di 24 ore. Servono a rendere l’idea che se sei a caccia di un riscontro materiale importante è meglio che aspetti che ricomincino le gare. Attenzione, la Translagorai esiste da sempre come percorso, io non ho inventato assolutamente nulla. Esisteva la traccia e, intuendo da ciò che in molti mi hanno scritto, in tanti hanno un cugino o un conoscente che aveva già stampato un tempo strabiliante.

Però mancava l’ufficialità, ma soprattutto qualcosa che rendesse questa traversata un vero FKT, un percorso condiviso, ripetibile e che facesse sognare anche i non local. Abbiamo quindi creato la traccia cercando di individuare il concatenamento più logico e lineare. Possiamo dire che è uno standard collaudato, non esclusivo, e ovviamente aperto alla creatività personale di ognuno.

Per me era la terza volta su questo percorso e non ero mai riuscito ad arrivare in fondo nell’arco di una giornata sola. Il nostro obiettivo è quello di creare un archivio degli intertempi, di consigli per chi vuole ripeterlo, oltre alla salvaguardia di questo posto che è perfetto così, nella sua imperfezione. In un FKT è giusto avere una visione diversa da quella che si ha su un percorso tracciato con le fettucce di una gara, senza pubblico e senza materiale obbligatorio: insomma, devi arrangiarti. 

Sabato 11 luglio 2020 - ore 22

Per chi si è posto la domanda, non c’è stato un motivo reale dietro la scelta di partire con il buio. Da un punto di vista della performance non ha senso, ma anche il fatto che ci fosse ancora neve sul percorso non ne ha se l’obiettivo è la velocità pura. In tutta onestà ho ritenuto che sarebbe stato più divertente e che avrebbe allontanato la possibilità di correre due notti se qualcosa fosse andato storto. Per qualche ragione in 9 persone hanno deciso di essere lì quel giorno, e in 9 siamo partiti, dopo esserci mangiati una pizza insieme e avere fatto due chiacchiere al parcheggio del Passo Rolle. Abbiamo passato una nottata memorabile. C’è chi si è perso, chi ha deciso di ritornare indietro superata la metà e chi è arrivato in fondo. Luca Forti ed Enrico Scanavin sono riusciti ad arrivare a Panarotta dopo 16 ore e 56 minuti; un tempone, soprattutto conoscendo i retroscena e l’atteggiamento scanzonato con cui hanno affrontato la Translagorai.

Il vero motivo per cui Luca Forti è, secondo me, la persona più rappresentativa della giornata però non è tanto il tempo, quanto il fatto che il giorno prima avesse fatto preparare da sua madre un chilo di pasta (il pasta party per l’arrivo) che ha servito a tutti sul parcheggio della Panarotta, insieme a una bella cassa di birre, che ci siamo bevuti raccontandoci la giornata passata sulle gambe. Quanto ci ho messo io? Posso rispondere meno di 19 ore, ma la vera risposta è: chissenefrega. È stata una giornata bellissima e spero che qualcun altro voglia provare questa esperienza, chiunque era presente quel giorno è pronto a mettersi a disposizione per aiutarlo. Questo è ciò che per me è un FKT. Poi chi sarà il più veloce si vedrà, ma conta fino a un certo punto.

Francesco Paco Gentilucci

© Elisa Bessega

Lagorai
Così perfetto nella sua imperfezione

Potremmo continuare a parlare del 2020 come dell’anno senza gare, oppure vederlo come l’anno del ritorno all’autonomia e della riscoperta del senso della corsa in montagna. Tolti i ristori, tolti i festeggiamenti all’arrivo, tolte le classifiche, quello che resta è anche ciò da cui tutto è partito: una ricerca di libertà e, soprattutto, un ambiente che ti permette di trovarla. E non c’è luogo più adatto della catena del Lagorai per mettersi alla prova in questo senso. Poche sere fa mi trovavo a Passo Rolle, limite orientale del gruppo che ospita la più vasta Zona di Interesse Speciale del Trentino, una delle meno antropizzate dell’intero arco alpino. Ho visto nove persone partire correndo e scomparire in pochi minuti nell’oscurità del sottobosco, decise a dimostrare a nessuno se non se stesse che avrebbero potuto percorrere l’intera traversata facendo affidamento solo sulle proprie forze. Meno di 24 ore dopo, all’estremo opposto di quegli 80 chilometri di quote, picchi e lastèi (lastroni di roccia inclinata), ne ho viste arrivare appena cinque sulle proprie gambe, ma non ce n’era una che non fosse estasiata, per quanto stanca. Non erano lì per caso, non è lo stesso essere in Lagorai o su una qualunque altra alta via con gli stessi chilometri di sviluppo e dislivello e non è difficile capire perché.

Il Lagorai non è bello, almeno non nell’accezione di bello che si è soliti dare a un territorio alpino. Le cime non superano quasi mai i 2.700 metri, i boschi, oscuro intrico di abeti rossi per buona parte distrutti dalla devastante tempesta del 2018, ti costringono a farti strada attraverso una perenne cortina di umidità. I sentieri, che i ragazzi del fastest known time non smettevano di definire poco corribili, si potrebbero dire addirittura poco camminabili: gran parte del percorso in quota che attraversa l’intera catena si snoda lungo una rete infinita di mulattiere e tracce non segnate di origine militare che spesso scompaiono, perdendosi tra i rododendri.

Vecchie linee di trincea ormai coperte da mucchi di rocce instabili obbligano a tenere un passo sempre cauto, si procede intimiditi e quasi oppressi a ridosso di strapiombi e oscure scogliere porfiriche mentre cumuli di nubi si alzano di continuo dagli oltre cento laghi incastonati tra i tanti ghiaioni e le praterie acquitrinose.

Niente che assomigli ai paesaggi idilliaci con i quali si è soliti promuovere una vacanza in montagna, eppure dopo due Translagorai per due anni di fila resto innamorata di ogni centimetro che separa passo Rolle dalla Cima Panarotta. Per me non è mai stata una corsa contro il tempo, mi sono sempre mossa con il ritmo del camminatore appesantito dalla tenda e dalle scorte di cibo, scarponcini rigidi e zaino in spalla, eppure sempre in totale autonomia, provando a non lasciare tracce del mio passaggio. Non ero un’appassionata di alte vie, ciò che mi aveva spinta a partire era la possibilità di trascorrere quattro giorni in cammino senza incontrare anima viva. E di vivere il rischio di essere una delle ultime a poterlo fare.

Da pochi mesi era infatti stato approvato il progetto di riqualificazione e valorizzazione dell’area. Provincia di Trento, SAT, magnifica Comunità di Fiemme e comuni limitrofi avevano firmato un accordo per Dare nuova vita e valorizzare il percorso Translagorai e [...] rimediare al problema dell’inadeguatezza dei punti-tappa lungo il percorso. Diversamente dalla maggior parte dei cammini di lunga percorrenza dotati di strutture ricettive al termine di ogni tappa, la traversata del Lagorai richiede di saper gestire autonomamente una media di tre o quattro soste. Lungo il percorso si incrocia un solo rifugio con pernotto, per il resto o si scende a valle oppure ci si affida alla tenda e ai tanti bivacchi non gestiti: una peculiarità che le amministrazioni locali e i progettisti definiscono inadeguatezza. Ecco perché è stata prevista la ristrutturazione edilizia di un rifugio già esistente e di altre sei malghe-bivacco per creare nuovi punti ristoro gestiti: i primi lavori sono iniziati e in breve tempo si potrebbero incontrare agriturismi e ristoranti lì dove al momento non ci sono che qualche pastore e molte praterie. Nessuno di questi, tra l’altro, sorgerà lungo l’unico tratto di percorso davvero sprovvisto di punti di appoggio, ma tutti strategicamente vicini a vie d’accesso percorribili in auto dal fondo valle così da garantire livelli di affluenza tali da giustificare l’investimento e, allo stesso tempo, condannare irrimediabilmente l’integrità dell’intera zona.

Un progetto di riqualificazione del genere non servirà a dare nuova vita alla traversata, anzi. Così come gli atleti della Translagorai Classic FKT Run sono sempre di più coloro che si dirigono verso quest’angolo del Trentino attirati dalla possibilità di vivere un’esperienza di outdoor forse più scomodo e più difficile da gestire, eppure proprio per questo più appagante e più reale, soprattutto oggi che gli ambienti alpini, saturi di infrastrutture, finiscono per assomigliarsi quasi tutti. Per quanto l’aura di wilderness che accompagna questi luoghi possa diventare motivo di attrattiva per un pubblico più vasto di visitatori, la stessa ostilità di queste terre sarebbe un filtro sufficiente a regolarne l’afflusso, stabilendo un equilibrio sostenibile tra turismo, ambiente ed economia locale.

Se invece il progetto verrà portato a termine, quella del Lagorai potrebbe rappresentare una delle più grandi occasioni perdute per sperimentare modelli alternativi di valorizzazione del territorio montano. Diversi comitati, collettivi e associazioni si stanno battendo perché questo non accada: già dagli anni ’80 il WWF proponeva alla provincia di istituire un parco provinciale. A livello locale i gruppi Giù le mani dal Lagorai e Vicini al Lagorai si sono da subito impegnati sul fronte legale e amministrativo e attraverso eventi di sensibilizzazione della popolazione, mentre i ragazzi di The Outdoor Manifesto continuano a sostenere e organizzare azioni dimostrative come Translagorai Classic FKT Run per mantenere alta l’attenzione sul tema e promuovere una cultura degli sport outdoor che non sia fatta di soli record e prestazioni. La speranza è che sempre più runner, scialpinisti, trekker e professionisti del settore diventino parti attive in vicende come questa, restituendo così qualcosa a quello stesso ambiente senza il quale non potrebbero vivere le proprie passioni.

Elisa Bessega

© Federico Ravassard

Si chiama Translagorai perché è il percorso della Translagorai, circa 80K e 5.000 metri di dislivello positivo, da Passo Rolle a Panarotta.

Si chiama Classic perché devi farla a piedi, in autonomia e perché è favorevole alla fruizione del Lagorai senza strutture per turisti e senza riqualificazioni inutili destinate a rovinare lo spirito selvaggio di questa catena.

Si chiama FKT perché devi arrangiarti e farla sulle tue gambe.

Si chiama Run perché se vuoi arrivare a farla in meno di 24 ore devi correre.

FB Translagorai Classic FKT Run

 

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131