Garmont in Sudafrica per Save The Rhino

Rhino Man – The Movie è il titolo del film-documentario realizzato da Global Conservation Corps(GCC), realtà no profit sudafricana che opera per coinvolgere ed educare le comunità locali al rispetto e all’importanza di salvaguardare la fauna selvatica. Un film che apre una finestra sulla realtà eroica dei ranger, che mettono a rischio ogni giorno la propria vita per difendere la fauna selvatica ed offrire alle future generazioni l’opportunità di vedere queste specie nel loro ambiente. Sono loro l’ultimo baluardo, l’ultima linea fra la sopravvivenza e l’estinzione di rinoceronti, elefanti ed altre specie iconiche. Garmont fornirà ai ranger calzature tecniche di alta qualità per garantire loro comfort e protezione durante le lunghe giornate di lavoro. Ma l’azienda italiana contribuisce in maniera concreta anche al progetto Future Rangers Program, lanciato ufficialmente da GCC nel gennaio 2019. Grazie a questo programma, GCC coinvolge ragazzi dai 5 agli 18 anni provenienti dalle comunità rurali al fine di stimolare consapevolezza ed amore per la natura, introducendoli alla realtà della conservazione, al valore della fauna selvatica e a come diventare custodi di questo patrimonio nazionale. Gli studenti più appassionati riceveranno l’opportunità di incontrare i ranger, partecipare a escursioni e incontrare per la prima volta gli animali simbolo dell’Africa selvatica. «Sembra incredibile, ma sarà un’azienda italiana che permetterà a migliaia di ragazzi sudafricani di formarsi sulla conservazione dell’ambiente e riscoprire il contatto con la natura selvaggia: è qualcosa di cui siamo davvero onorati e orgogliosi» ha affermato Pierangelo Bressan, Presidente di Garmont International. «Da oltre 50 anni, Garmont realizza calzature di qualità per l’escursionismo, il trekking ed altre attività outdoor. Senza natura, senza ambiente, senza quella wildness che ispira il nostro motto Stay Wild, non ci sarebbe Garmont: è qualcosa che non possiamo dare per scontato. Riuscite a pensare che i bambini nati dopo il 2026 potrebbero crescere senza sapere cosa sia un rinoceronte, se non scoprendolo sui libri? È cruda realtà, non finzione scenica: credo che noi tutti dobbiamo fare la nostra parte per evitarlo. È arrivato il momento di restituire qualcosa, alla natura e alle generazioni future».


Mario Poletti organizza la Orobie Experience

Nel 2005 Mario Poletti corse il Sentiero delle Orobie in 8 ore, 52 minuti e 31 secondi. Un’impresa che ricordano ancora in molti e che portò tante persone sul sentiero. Ora il product manager di Scott Italia, nell’anno in cui Marco Zanchi tenterà un’impresa simile, si è inventato una nuova avventura aperta a chi vorrà condividerla con lui: Orobie Experience.

L’appuntamento è per sabato 29 e domenica 30 giugno. La prima tappa è daVal Canale al Rifugio Coca: 42 km e 2700 m D+ - tempo percorrenza stimato 10 ore. La seconda dal Rifugio Coca al Curò, Rifugio Albani e ad Ardesio: 42 Km e 2300 m D+ - tempo percorrenza stimato 11 ore.

L’evento è gratuito e aperto a tutti coloro che, avendo compiuto i 18 anni alla data di svolgimento dell’Experience, sono in possesso di certificato medico sportivo di idoneità all’attività agonistica in corso di validità. Per la partecipazione però è richiesto il curriculum sportivo. Si richiede di aver concluso una skymarathon o un’ultra trail (dai 55 km in su) o edizione del GTO (Gran Trail delle Orobie ). Le iscrizioni si chiuderanno al raggiungimento dei 20 partecipanti e la logistica è curata da Fly - UP. Iscrizioni qui.

L'arrivo di Poletti. Alle spalle, a fare da pace, un giovanissimo Marco Zanchi ©Carlo Brena

Il viaggio sul filo delle frontiere di Jacquemoud e Bruchez

«Queste ultime tre settimane ci hanno permesso di mettere i nostri sci sul versante Est del Cervino, quello meridionale delle Grandes Jorasses e del Grand Combin de Valsorey, la Nord del Monviso e la Est del Monte Bianco». Scrive con soddisfazione Mathéo Jacquemoud in un post sul suo account Instagram. Le discese, che fanno parte del progetto Sur le fil des frontières (sul filo delle frontiere), in compagnia di Vivian Bruchez, porterà alla realizzazione di un video in prossimo autunno. Sulle Grandes Jorasses i due erano in compagnia di Thomas Guerrin e hanno dovuto rinunciare ad arrivare fino in vetta alla Walker a causa del rigelo insufficiente. La discesa sulla Est del Monte Bianco ricalca quella del 1988 di Pierre Tardivel, dal Col de la Brenva. Al Coolodge, sul Monviso, c’erano anche Leo Viret e Thomas Guerrin. La prima discesa, sulla Est del Cervino, è iniziata alla Cabane Solvay. Jacquemoud e Bruchez hanno anche sciato la cresta Ovest dell’Eiger.

© Instagram/Mathéo Jacquemoud
© Instagram/Mathéo Jacquemoud

Marcel Kurz, l'età d'oro dello scialpinismo

Lo svizzero Marcel Kurz non è stato solo fra i primi a introdurre lo scialpinismo sulle Alpi a fine ottocento, ma ne ha influenzato più di ogni altro lo sviluppo a partire dagli anni venti in Svizzera, Francia e Italia, soprattutto grazie al suo libro Alpinisme Hivernal del 1925. Pubblicato in Italia nel 1928, questo poderoso volume è stato l'indiscusso punto di riferimento per più generazioni di sciatori alpinisti, compresa la mia. Kurz è stato, anzi è, il grande ispiratore dell'attuale scialpinismo classico. Mio padre, come ogni appassionato scialpinista, possedeva una copia di Alpinismo Invernale. Ora il libro, ingiallito dal tempo, impreziosisce la mia collezione di opere fondamentali sullo sci. È curioso come nel titolo non appaia la parola sci, mentre tutto il volume, a parte il primo capitolo dedicato ai precursori, che andavano in montagna d'inverno a piedi, è un vero inno allo sci come  modo ottimale per vivere la montagna bianca.

Sono piuttosto il titolo e il sottotitolo del secondo capitolo, rispettivamente Il trionfo dello sci e La seconda conquista delle Alpi, a definire bene i contenuti dell'intero volume. Alpinismo invernale è innanzitutto un manuale tecnico denso di consigli e una guida preziosa sui grandi itinerari in sci delle Alpi Occidentali, percorsi per la prima volta da Kurz e destinati a diventare dei classici, come la haute route Bourg Saint Pierre-Zermatt, il circuito del Bernina, i quattromila intorno alla capanna Britannia. Alpinismo invernale però non è solo questo. È anche e soprattutto un saggio sulla bellezza e sul fascino della montagna vissuta con gli sci. Per Kurz lo scialpinismo è un fantastico modo di vivere, è entusiasmo puro, piacere di fermarsi per contemplare un panorama, per bearsi con calma della montagna bianca, per crogiolarsi al sole. Il tutto senza l'assillo delle lancette dell'orologio. La fatica, il gusto della performance e anche le disavventure sono sempre in secondo piano. Alpinismo invernale ci riporta insomma a valori dimenticati, a un modo sereno e gioioso di vivere lo sci. Il libro mette in evidenza molto bene le due diverse anime di Kurz, che si completano alla perfezione. Il Kurz passionale, che ama la montagna perdutamente e si abbandona a essa, e il Kurz razionale, l'ingegnere topografo pignolo, talvolta addirittura pedante, lo scrittore esigente, meticoloso. Perfette, sotto quest'ultimo punto di vista, le pagine dedicate agli albori dello scialpinismo, a Wilhelm Paulcke, Christoph Iselin, Arthur Conan Doyle. L'intera opera ha un valore letterario e fa parte a pieno diritto di quella letteratura dello sci che annovera opere di grandi scrittori, da Doyle a Hemingway, da Calvino a Parise, da Buzzati a Marchi, senza dimenticare Balzac...

Figlio d'arte

Marcel Kurz nasce a Neuchâtel nel 1887. È suo padre Louis, insegnante di violino e noto alpinista nonché autore di carte e guide del Monte Bianco, a trasmettere al figlio la passione per la montagna. A undici anni compiono insieme la prima al Grand Darrey (3.515 m). La famiglia Kurz possiede uno chalet a Saleina, campo base ideale per esplorare le Alpi del Vallese. Marcel inizia lì a fare seriamente scialpinismo, nel 1907, effettuando la prima salita invernale con gli sci del Grand Combin, insieme al professor François Frédéric Roget di Ginevra (autore del famoso e raro volume Ski runs in the high Alps del 1913) e alla guida Maurice Crettez. Per la verità gli sci vengono lasciati ai piedi del Col du Meitin (3.426 m). Laureatosi ingegnere topografo, nel 1913 inizia a lavorare per l'Ufficio Federale di Topografia. Nel 1921 partecipa, con la moglie Lilette Morand, a una spedizione al Monte Olimpo in Grecia, dove scala l'inviolato Trono di Zeuss e redige una pregevole monografia e una cartina.

Nel 1922 lascia l'impiego sicuro per dedicarsi anima e corpo alla montagna, alla redazione di carte e di guide come libero professionista. Una scelta non facile che gli permette però di organizzare spedizioni in Nuova Zelanda con Ned Porter nel 1926/27, con salite al Tasman e al Cook, e in Himalaya con Günter Dyhrenfurth nel 1930. In questa spedizione, che ha come obiettivo il Kangchenjunga, Kurz realizza la prima carta dettagliata della zona e raggiunge la massima altitudine di quegli anni: la vetta del Jongsong Peak (7.459 m). Gli sci non mancano mai nel suo bagaglio di grandi viaggi. Purtroppo però, a causa di una caduta da cavallo nella fase iniziale della successiva spedizione di Dyhrenfurth, in Karakorum, del 1934, non può dividere con l'amico Piero Ghiglione la vetta del Golden Throne (7.250 m). A un'intensa attività alpinistica e scialpinistica Kurz affianca una pregevole attività editoriale, pubblicando una versione aggiornata della guida e della cartina del padre sul Monte Bianco. Prepara inoltre le quattro guide sulle Alpi del Vallese che ancora oggi costituiscono una fonte di informazioni fra le più complete e apprezzate. Nel 1957 pubblica il volume Chronique Himalayenne, una ciclopica e fondamentale opera sulla letteratura himalayana. Negli ultimi anni ritorna a percorrere in veste estiva le grandi traversate in sci attraverso le sue adorate Alpi Pennine. Purtroppo la sua mente brillante si offusca tragicamente negli ultimi tre anni di vita. Muore a Neuchâtel nel 1967. Non avendo avuto figli, la moglie Lilette dona tutto il suo vasto archivio alla fondazione che porta il nome di Marcel e del padre: la fondazione Louis e Marcel Kurz, con sede a Neuchâtel.

Uno scialpinismo gioioso

Lo scialpinismo di Kurz non è certo quello veloce mordi e fuggi in giornata. Ma non è nemmeno quello dei grandi raid senza punti d'appoggio. Neppure quello delle tutine. È uno scialpinismo lento, segnato dal piacere della sobria ospitalità dei classici rifugi alpini. Ossia dei veri rifugi, custoditi o incustoditi ma sempre aperti, alla svizzera per intenderci. Per Kurz e compagni l'arrivo in un rifugio è sempre un momento felice e importante, il raggiungimento «di un tetto ospitale e della sognata (e meritata, ndr!) cena» fa parte a pieno titolo dei piaceri dello scialpinismo. Di mattina Kurz non ha mai fretta di partire per arrivare in cima. Quindi niente levatacce notturne: si parte piuttosto tardi, quando si è pronti, dopo una buona colazione. Ritornare al rifugio o concludere la gita con una lanterna con dentro una candela accesa è di conseguenza una cosa piuttosto normale. Le soste per le ‘belle pipate’ durante le salite, anche quelle impegnative, sono un'altra caratteristica dello scialpinismo di Kurz. Fumare fa parte del gioco. Non ho contato quante volte nel suo libro nomina la pipa, ma sono davvero tante. Ovunque c'è un bel panorama, si ferma e si accende la pipa per godere pienamente della magia della montagna bianca. In particolare le albe e i tramonti sono considerati spettacoli sublimi da assaporare lentamente con questa prospettiva, per poi lasciarsi andare a descrizioni particolareggiate di quei momenti unici che grazie allo scialpinismo si ha il privilegio di vivere. Sempre con il «fumo azzurro che sale verso l'azzurro del cielo» si sognano altri colli, altre vette, laggiù all'orizzonte «puntando il cannello della pipa» verso di loro.

Kurz non è un solitario, il suo è uno scialpinismo condiviso con amici fidati e con guide locali. Nei suoi scritti egli è molto discreto nel parlare dei compagni di gita, particolarmente avaro di notizie sulla loro vita privata, come sulla sua. Ad esempio, per mettere in evidenza l'autorevolezza di un certo Roget, premette sempre il titolo di signore o professore al suo nome, mentre per sottolineare l'amicizia che lo lega a De Choudens lo chiama affettuosamente Chouchou. L'atteggiamento da condottiero che contraddistingue la guida Crettez, nonché la sua forza e la sua determinazione, risultano invece da battute e comportamenti riportati nel volume. A proposito di guide e di portatori, Kurz si serve spesso di montanari locali. Ciò non significa che non sia esperto, forte e allenato. Prendendo a modello i grandi alpinisti inglesi di fine Ottocento è però favorevole a questa prassi, non solo per evitare la fatica delle marce di avvicinamento ai rifugi con zaini giganteschi ma anche per dividere con le guide locali le soddisfazioni di tante prime salite con gli sci. In quell'età d'oro dello scialpinismo le Alpi permettevano ancora l'emozione di essere i primi a scoprire stupendi itinerari ed era bello farlo condividendo queste emozioni con i montanari locali.

Nello scialpinismo di Kurz sono assenti le donne. È pur vero che siamo agli albori dello scialpinismo, ma grandi scialpiniste erano già in attività sulle Alpi, da Nini Pietrasanta a Livia Bertolini Magni, da Ella Maillart a Paula Wiesinger. Kurz dedica pochissime righe al gentil sesso nelle sue pubblicazioni. Abbiamo trovato una sola citazione di sua moglie, a proposito dell'acquisto di un quadro di montagna del pittore Abrate, nello chalet di Saleina. C'è poi un unico riferimento al fascino femminile quando si trova fra le tante belle donne presenti a una festa danzante presso l'hotel Kronenhof di Pontresina, alla fine del circuito del Bernina. Qui Kurz, stanco ma felice, si rende conto che l'attrazione irresistibile, la «malìa», come la chiama lui, che esse esercitano è «tanto quanto ve n'era lassù nelle solitudini ghiacciate». Infine notiamo la metafora donna-montagna utilizzata a proposito del Blindenhorn in Val Bedretto, paragonato alla «più bella ragazza del mondo» che non si dà interamente: egli non serba infatti un buon ricordo di questa bellissima montagna a causa della neve troppo dura! A parte queste eccezioni, in generale per Kurz le donne non sembrano per nulla interferire con le sensazioni forti che gli vengono offerte dalla montagna e dallo scialpinismo. Occorre però tener presente la discrezione e il pudore nel parlare di sensazioni e di passioni diverse da quelle per la montagna, come se queste ultime non fossero in alcun caso influenzate da altre pulsioni.

Lo sciatore Marcel Kurz

Secondo Walter Amstutz, che scrisse il necrologio di Kurz per la rivista dell'Alpine Club, non era uno sciatore raffinato. Probabilmente si tratta di un giudizio oltremodo severo, in quanto Amstutz, nativo di Mürren e grande amico di Arnold Lunn, fu uno dei più talentuosi ed entusiasti sciatori della sua epoca, vincitore di moltissime gare nonché imprenditore di successo ed editore di Der Scneehase, l'annuario dello Schweizerischer Akademischer Ski Club da lui fondato. Per Kurz invece gli sci erano soprattutto un mezzo per raggiungere un obiettivo, per salire le montagne e non solo per scenderle. Questo non significa che non fosse un appassionato sciatore. Nei suoi scritti non mancano molti apprezzamenti alla ‘scivolata’. Ecco alcuni esempi tratti da Alpinismo invernale. La discesa dalla Rosablanche è stata effettuata in «dieci-quindici centimetri di polvere leggera nella quale i volteggi diventano un gioco inebriante». Dai 4.206 metri dell'Alphubel, «appena calzati gli sci, addio contemplazioni: ognuno s'abbandona al piacere della sciata. La neve favorisce tutte le audacie... .era un gioco eccitante e voluttuoso che finiva per inebriare». Il gioco continua al Basodino, con un gran finale «tra le ombre allungate del crepuscolo, ... sulla neve scricchiolante e leggera, una fuga indiavolata, stordente...». Anche nella parte finale della discesa dal Grand Combin, mentre «il crepuscolo scendeva lentamente sulla montagna stendendo il suo velo uniforme, chiaroscuro... descrivemmo lunghe curve e questo movimento cadenzato ci inebriò deliziosamente». Il piacere della lentezza si ripete nella bellissima discesa sulla Cabane d'Orny dal Plateau du Trient dove, a differenza di Crettez che va «velocissimo, dritto verso il fondo del pendio», Kurz preferisce «le larghe serpentine così da protrarre il piacere il più lungamente possibile»: si tratta di un'affermazione importante, sulla quale i veloci scialpinisti del giorno d'oggi dovrebbero meditare... Infine c'è la discesa in neve brutta, che Kurz chiama cattiva, sulla quale «tutti i mezzi per discendere diventano buoni», sulla quale è «inutile fare dello stile come quando si vuol far colpo sulla platea di un Kurort». Quando la neve è cattiva meglio mettere «i bastoni tra le gambe» e andar giù diritti con l'intramontabile raspa. Con riferimento alla prima discesa in sci in pessima crosta dal Monte Leone, scrive: «io non dirò che la discesa sia stata deliziosa: sarebbe fare alla neve un complimento che non meritava». Malgrado grandi sforzi, non siamo riusciti a trovare una foto di Marcel Kurz in discesa con gli sci. Gli unici scatti in cui appare con gli sci sono quelli pubblicati in questo articolo: statiche, più o meno nella stessa posizione e con il medesimo abbigliamento, seppur in luoghi diversi.

L'inverno alpino

Secondo Luciano Ratto, curatore dell'ultima edizione di Alpinismo Invernale (Vivalda Editori, 1993), il capitolo più bello, più poetico del libro è il terzo, intitolato L'inverno alpino. Ha perfettamente ragione. In esso si trovano alcune pagine da antologia e alcune verità che tutti coloro che amano o si interessano di sci, compresi gli strateghi e gli operatori del moderno turismo invernale di massa, dovrebbero conoscere. L'inverno alpino, dice Kurz, è molto più lungo di quello del calendario. Esso conta tre fasi principali: una «di innevamento preliminare» spesso insufficiente; una centrale caratterizzata da periodi di «massima secchezza», da neve polverosa che viene lavorata e portata via dal vento; una terza e ultima fase con «un innevamento definitivo» che «precede immediatamente la prima estate alpina». Durante tutto l'inverno di calendario, cioè le prime due fasi, secondo Kurz «le alte Alpi (oltre i 2.500 metri, ndr.) non offrono nulla di molto seducente per lo sciatore propriamente detto, il quale farà meglio a evitare queste alte regioni fino a marzo». È invece la terza fase quella di gran lunga più adatta allo sci ed essa coincide con la primavera. La neve si consolida per effetto dell'azione del sole e del gelo notturno, diventando più facile e sicura, la superficie nevosa diventa un potente riflettore che, anziché assorbire il calore solare, lo respinge nell'aria, rendendo più gradevole la sciata. È quindi la primavera la grande stagione dello sci. Anche Arnold Lunn è d'accordo su questo: «mai le Alpi sono più meravigliose che in maggio, quando la loro bellezza è fatta di contrasti… non vi è vagabondaggio in sci paragonabile a quello di primavera sui ghiacciai». Kurz riporta nel suo volume questi pensieri dell'amico inglese, oltre al suo racconto di una traversata dell'Oberland Bernese, un massiccio che stranamente Kurz non visitò.

Un'eredità importante

Kurz descrive uno scialpinismo ricco di emozioni che sono in gran parte dimenticate ma non per questo superate. La scoperta della lentezza, della bellezza dei «campi di neve che giammai sciatore abbia sognato», le «partenze senza sveglia», l'atmosfera dolce del rifugio, le soste «deliziose» durante le gite, «l'apoteosi dello sci di primavera», il piacere di «crogiolarsi al sole» sulla neve e quello di «potersi attardare sulle vette, osservando le ombre della sera”, le sensazioni di libertà e di nostalgia che irrompono prepotenti quando meno ce l'aspettiamo, i piaceri dello sci di traversata, l'ottimismo dei «cuori gonfi di speranza». L'eredità importante che ci ha lasciato non è però solo questa. Il suo è uno scialpinismo basato su alcuni principi fondamentali anch'essi troppo spesso dimenticati dalla visione moderna che si possono riassumere in tre parole: riconoscenza, elasticità, ricerca.

Riconoscenza

Scrive nel capitolo Prime esperienze: «Io, allora, avevo diciannove anni. Mio padre mi aveva iniziato ai segreti della montagna e, a poco a poco, la passione ingigantiva dentro di me». Tre anni dopo, un Kurz in piena forma durante la traversata del Bernina, aggiunge: «Quanta riconoscenza noi dobbiamo a coloro che ci hanno fatto conoscere le montagne e le loro meraviglie». Il valore dimenticato della riconoscenza permea tutta la sua vita e dà spessore al suo scialpinismo.

Elasticità

Un altro messaggio importante che un Kurz maturo ci propone, prendendo lo spunto dalla salita non programmata alla Dent d'Hérens insieme a Crettez a fine gennaio 1920, è quello relativo all'elasticità dei programmi. Ecco cosa scrive: «Nella notte avevo cambiato i miei piani. Più corro attraverso le montagne, più constato che bisogna sapere adattarli alle circostanze del momento... una volta sul posto, bisogna essere molto elastici e non attaccarsi ciecamente alla prima idea». Se ne deduce che la vera avventura non è quella minuziosamente programmata, frutto di prenotazioni di mezzi di trasporto, rifugi e servizi vari, ma quella che, secondo esploratori del calibro di Eric Shipton e Bill Tillman, si può sintetizzare sul retro di un qualsiasi pezzo di carta».

Ricerca

Kurz ci invita a non ripeterci, a ricercare sempre nuove mete. «Lo confesso - scrive parlando delle gite effettuate fra il Sempione e il Gottardo nel gennaio 1911 - i miei sci hanno una tendenza spiccata a lasciare le tracce note; essi paiono calamitati: l'ignoto li attira ed essi si volgono volentieri verso luoghi nuovi». Per questo considera importante «estendere l'esplorazione invernale delle Alpi fino alla loro estremità... tracciare una haute route invernale, che si sviluppi lungo la cresta più alta delle Alpi, da Grenoble a Innsbruck, e verrà il giorno senza dubbio in cui qualche entusiasta percorrerà le Alpi from end to end, come ha fatto Sir Martin Conway». Ci penserà, non molti anni dopo, nel 1933, uno solitario sciatore vagabondo chiamato Leon Zwingelstein...

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 112 DI SKIALPER, INFO QUI

Marcel Kurz

Il 9 giugno c'è Fibrosi Walking

Una camminata per una buona causa. È questo lo spirito di Fibrosi Walking, l’evento organizzato domenica 9 giugno a Legnano (MI) da Roberto Bombassei, artista, illusionista e scrittore, in collaborazione con Lega Italiana Fibrosi Cistica Lombardia. Si tratta di una camminata nel parco del castello della cittadina lombarda con gli istruttori di Nordic Walking Alto Milanese. La partecipazione è gratuita ma sarà possibile sostenere l’associazione e conoscere le iniziative per la ricerca contro questa malattia. Il ritrovo è alle 10 e la camminata inizierà alle 10,30. Alle 12,30 la chiusura della manifestazione il concerto sotto gli alberi del tenore Lucia Tedeschi. Fibrosi Walking è l’ultima iniziativa ideata da Bombassei per la raccolta di fondi per la ricerca contro la fibrosi cistica, malattia genetica degenerativa. Da sette anni va in scena Magie per la ricerca, manifestazione alla quale partecipano illusionisti, artisti e personalità varie. 


Cazzanelli e Ratti ripetono la Cresta Cassin al Denali: poco meno di 19 ore dalla terminale alla vetta

Due volte in vetta al Denali (6.190 m), con tempi da fast & light. Queste le notizie che arrivano dall’Alaska dove François Cazzanelli, ben conosciuto dai lettori di Skialper, e Francesco Ratti (testatore della nostra Outdoor Guide) sono saliti il 23 maggio sulla West Rib (a un esatto dalla vetta del Lhotse di Cazzanelli in compagnia di Marco Camandona) e poi il 30 maggio sulla Cresta Cassin. La Cassin, salita da Cassin e dai Ragni di Lecco nel 1961 e solitamente percorsa in alcuni giorni, è una via lunga e impegnativa con circa 2.500 metri di dislivello. 

© Francesco Ratti/Facebook

«Parliamo di tempi, con partenza e arrivo dal campo 4, abbiamo impiegato 26 ore e 45 minuti - scrive Cazzanelli in un post su Instagram -. Dalla terminale alla punta abbiamo impiegato 18 ore e 58 minuti. L’avvicinamento lo abbiamo fatto in 4 ore e 20 minuti risalendo prima verso la West Rib fino al colletto a 4.900 m (600 m di dislivello dal campo 4 situato a 4.300 m), dopo il colle siamo scesi per 1.200 m per la seraccata chiamata Seattle Ramp. Per la discesa ci sono volute 3 ore e altri 27 minuti circa, gli abbiamo spesi alla base per prepararci e sulla punta. Abbiamo sempre arrampicato tranne quando ci siamo riparati nella tenda mono telo, per 3 ore (dalle 23.00 alle 2.00) per riposare e rifocillarci; alla ripartenza la temperatura segnava -36° e il vento era di 45 km/h. I metri totali saliti sono stati 3.100. Nei primi 1000 m di via abbiamo trovato la traccia, nei restanti 1.500 la traccia l’abbiamo fatta noi, con la neve che arrivava tra le caviglie e le ginocchia. Tenuto conto anche di questo siamo molto soddisfatti del risultato!». In un altro post Cazzanelli esprime la soddisfazione per essere riusciti ad affrontare la Cassin in stile alpino e parla della meticolosa preparazione, durata tutto l’inverno. 

© Francois Zaccanelli/Facebook

Nella scorsa stagione estiva François aveva realizzato la traversata integrale delle Grandes Murailles con Kilian Jornet in meno di 11 ore da Cervinia e le quattro creste del Cervino in poco più di 16 ore, in compagnia di Andreas Steindl. In spedizione con Cazzanelli e Ratti ci sono anche Stefano Stradelli e Roger Bovard. 


Il meteo ostacola Mosetti, Grant, Briggs e Petersson in Alaska. Lo svedese trascinato per 800 metri da una valanga

L’obiettivo erano due linee nella catena del Denali, in Alaska. Ma il meteo non è stato favorevole ed Enrico Mosetti, Tom Grant, Ben Briggs e Jesper Petersson tornano a casa con «molte partite a scacchi, alcune delle notti più fredde mai vissute in montagna e un tentativo di salita sul Denali stoppato a 5.700 metri in quello che doveva essere ‘il giorno’ ma con gli dei della montagna che hanno deciso di spingerci giù con venti a 80 chilometri orari e – 25°» scrive Mosetti in un post sul suo account Instagram. Tom e Jesper sono poi riusciti a salire sul Denali un altro giorno e a sciare il couloir Messner. L’avventura in Alaska ha vissuto anche attimi di paura quando, sul Kahiltna Queen (3.773 m), Petersson ha fatto partire una lastra che ha generato una piccola valanga in un canale a 50 gradi. «Abbiamo raggiunto la vetta intono alle 12 e iniziato a sciare – scrive Petersson in un post Instagram – era una discesa tecnica ma siamo riusciti a farla senza doppie. Quando eravamo nella parte finale ho fatto partire una piccola valanga e non sono riuscito a restarne fuori, così sono stato trascinato per 700-800 metri in un canale di 50 gradi con neve, ghiaccio, rocce e un salto alla fine». Mosetti e Grant sono riusciti a raggiungere subito Petersson e a chiamare i soccorsi che hanno evacuato lo svedese in elicottero non appena i venti hanno permesso il soccorso. L’infortunio ha comportato fratture alle vertebre cervicali e alle costole. «Sono stato fortunato e sono felice di essere vivo, la sensazione è quella di avere avuto un’altra opportunità di vivere» conclude Petersson.


Le code sull’Everest e la questione ossigeno

La foto di Lydia Bradey, la neozelandese prima donna ad avere scalato l’Everest senza ossigeno, ripostata da Hervé Barmasse, ha fatto il giro del mondo, come la notizia che tra il 22 e il 23 maggio, complice anche una delle poche finestre di meteo favorevole, sulla vetta della montagna più alta della terra sono arrivate, dopo lunghe code alla balconata o all’Hillary Step, da 200 a 300 persone, sommando i diversi versanti. Una situazione, quella degli ottomila himalayani, che registra già quasi 20 vittime, alcune proprio in questi giorni sull’Everest. A fare le spese della situazione anche alcuni alpinisti di livello, come David Göttler, con cinque ottomila in curriculum, che ha cercato di raggiungere la vetta senza ossigeno, ma ha dovuto tornare indietro, rimanendo imbottigliato nelle code delle persone al rientro. «La mia decisione di partire tardi e sfruttare il calore del sole ha funzionato fino ad appena sotto la Vetta Sud quando il freddo è aumentato e sono rimasto intrappolato nelle code della gente che scendeva – scrive sul suo account Instagram – Ho deciso di rientrare da quota 8.650, dopo avere aspettato invano, perché sprecare energia non è un’opzione quando non hai ossigeno supplementare».

«L'anno 2018 aveva registrato il record con più salite in una sola stagione pre monsonica – ha scritto Barmasse sul suo account Instagram -. Più di 800 persone in vetta. Mercoledì scorso invece verrà ricordato come il giorno con più affollamento sulla cima del tetto del mondo. Circa 250 persone. La foto rende più delle mie parole. Per ogni persona si calcola circa 8/10 kg di immondizia per sempre abbandonata sulla montagna. Nonostante gli sforzi per ripulirla, la realtà ci propone una sola verità. L'alpinista insegue il proprio ego ed è disposto a sacrificare la montagna per un fatuo successo».

Il fotografo Dan Patitucci, riprendendo la notizia della rinuncia di Göttler, fa alcune riflessioni sul filo del paradosso sull’account Instagram @alpsinsight. «Non ho esperienza sull’Everest e so che la mia opinione vale poco. Ma mi disturba vedere tutte le persone che arrivano alla cima dell'Everest con l'ossigeno e essere messe nella stessa categoria di quelle che non lo usano. Gran parte dei media non fa più differenzia tra chi lo usa e chi no. Nel frattempo la maggior parte di chi non scala non sa nemmeno quale sia la differenza. Secondo uno studio, chi sale l’Everest con l’ossigeno vive le sensazioni che si provano tra 3.300 metri e 6.000 metri. La vetta dell'Everest è 8.848 metri. Io ho corso senza problemi a 5.300 metri. Pensateci. È come un Tour de France dove tutti pedalano su delle e-bike, tranne il concorrente in ottava posizione. Come si sentirebbe se nessuno menzionasse questo sforzo rispetto agli altri? È lui il vero vincitore? Il vero ciclista? E se gli e-biker non avessero la forza o le capacità per affrontare il percorso senza quel motore, farebbero parte della gara?». Una riflessione che, al netto delle prestazioni ossigeno-senza ossigeno che non sono così facilmente paragonabili con dati e numeri precisi, trova l’approvazione di Kilian Jornet e del trail runner Pascal Egli, che commenta come per salire in vetta sarebbe meglio basarsi sul curriculum alpinistico piuttosto che sui soldi. «Credo che se avessi pagato 70.000 dollari per scalarlo e mi capitasse di dovere aspettare a oltre 8.000 metri come in fila per un pellegrinaggio il mio sogno si trasformerebbe nel più terribile degli incubi» commenta la Guida alpina Alberto De Giuli. Everest, sogno o realtà? O piuttosto incubo? Rimane il fatto che la situazione sta degenerando e sarà sempre peggio.


Ripido, dalle nuove linee sul Brenta ai progetti extra-europei

Questa primavera che sembra più un inverno pieno, lascia qualche traccia sulle pareti ripide delle Alpi e le prime spedizioni stanno partendo anche per Himalaya e Canada. Che cosa è successo recentemente nel mondo del ripido e che cosa bolle in pentola? In Valle d’Aosta diverse discese di rito ma senza alcuna particolare novità, la più significativa sembra essere la prima ripetizione della parete Nord della Becca di Nona, proprio a picco su Aosta: itinerario aperto da Davide Capozzi e Pica Herry nel 2013 e ripetuto da Sandro Letey, Edo Camardella, Pierre Lucianaz e Yari Pellissier. Passando al Piemonte da segnalare che In Valle Orco Giorgio Bavastrello con la tavola ai piedi è sceso da una nuova linea sulla bastionata Sud-Est della Punta Galisia. Stagione senza dubbio migliore verso le Dolomiti in particolare in zona Brenta e Adamello-Presanella dove i fratelli Luca e Roberto Dallavalle stanno realizzando una prima dietro l'altra. Tra quelle più significative Cima Scarpacò parete Nord-Ovest, Cima di Bon parete Nord-Est, Cima del Vallon parete Nord-Ovest, Cima Tosa parete Est e Crozzon di Val d'Agola parete Nord-Est.Sempre in Adamello Claudio Lanzafame, Alessandro Beber e Marco Maganzini hanno sciato il Canale della Punta dell'Orco. Oltre confine, Tom Gaisbacher ha sciato alcune belle linee in Austria nella zona di Lienz (Hoher Tenn parete Est e la parete Sud-Est del Grosses Wiesbachhorn) e una classica alpinistica, la parete Nord del Gran Pilastro o Hochfeiler in Val di Vizze, Alto Adige. In Svizzera infine Seb de Sainte Marie ha continuato a inanellare alcune belle discese, come alcuni couloir al Gross Schiben, la Nord dell Vorab Glarner e del Piz Dolf e la Nord-Ovest del Piz Sordona. Mathéo Jacquemoud ha annunciato sul suo account Instagram di avere sciato una linea dalla Capanna Solvay, sul versante Est del Cervino, insieme a Vivian Bruchez, primo passo di un progetto tra Zermatt e Chamonix sul filo delle frontiere. Tutto questo mentre Enrico Mosetti, Tom Grant, Ben Briggs e Jesper Petersson sono in Alaska, sembra diretti al Mount Hunter. Poi a giugno il Nanga Parbat potrebbe vedere sia il tentativo di Cala Cimenti che del team francese che l’anno scorso ha sciato il Laila Peak: Chambaret, Duperier e Langenstein.


Dall'Italia alla Cina in bici e con l'obiettivo di salire una vetta in ogni paese

Da Livigno e da Fai della Paganella alla Cina. In bici e con l’obiettivo, lungo la strada, di sciare qualche bella cima. Questa in sintesi l’avventura Soul Silk, al via lo scorso aprile. I protagonisti sono il fotografo Giacomo Meneghello e Yanez Borella, innevatore e maestro di snowboard. Il progetto prevede circa 10.000 chilometri in sella in una cento giorni che li vedrà attraversare circa 12 stati e due continenti. Viaggeranno con un prototipo di e-bike dotata di carretto con pannello fotovoltaico che li aiuterà a ricaricare le batterie. Trasporteranno tutto il materiale necessario all’impresa, che hanno però voluto rendere ancora più speciale: non solo arriveranno in Cina pedalando, cercheranno anche di salire una vetta per ogni paese che attraverseranno, come la Punta Penia (3.343 m) in Marmolada fino al Pic Lenin (7.134 m) nella regione del Pamir. Questo viaggio, oltre che una grande sfida fisica, ha anche una valenza sociale e umana. Giacomo e Yanez pedalano per supportare l’Admo, associazione per la donazione del midollo osseo, portando una sua bandiera in cima ad ogni montagna che conquisteranno. Scott e Outdoor Research, brand parte del gruppo Scott Sports, partecipano con i loro prodotti a questo progetto con vari accessori tecnici che aiuteranno i due a raggiungere il loro obiettivo. In questo momento Giacomo e Yanez sono arrivati in Cappadocia, nel cuore della Turchia, dopo 3.300 chilometri e 30.000 metri di dislivello, ma la strada è ancora lunga.

www.facebook.com/SoulSilk2018/

Sul Monte Erciyes in Turchia (3.917 m) ©Giacomo Meneghello

Salewa Alpine Movie Night, il cinema di montagna nel cuore di Milano

Il cinema di montagna nel cuore delle movida milanese. È questo lo spirito di Salewa Alpine Movie Night che il prossimo 23 maggio porterà nel capoluogo lombardo una selezione di film dal Trento Film Festival. A partire dalle 18:30 l’area antistante il Salewa Store di Milano di Corso Garibaldi 59 verrà  trasformata in un cinema all’aperto. Playing with the invisible, con Aaron Durogati, Carega Punk, con Andrea Simonini, No turning back, su Hansörg Auer, e Lantang i film in programma. Il campo base di Milano accoglierà  gli spettatori con comode balle di fieno su cui sedere per godersi lo spettacolo, birra, speck, formaggi e prodotti tipici per trascorrere insieme una serata di ospitalità altoatesina. La partecipazione alla serata è gratuita. Basta recarsi a partire dal 21 maggio presso il Salewa Store di Corso Garibaldi, registrarsi e ritirare il proprio pass per la serata. L’orario limite per ottenere il pass in negozio il 23 maggio alle 17.

I FILM - «È nella solitudine luminosa dell'autunno nelle Dolomiti che Aaron Durogati, formidabile pilota e autentico esteta del volo, affronta il suo personale viaggio per imparare a rialzarsi. Una storia intima e potente sulla fragilità e la resilienza umana, per riscoprire il volo come gesto puro e autentica espressione di sé». Così viene presentato Playing with the invisible, di Matteo Vettorel e Damiano Levati, cortometraggio di 30 minuti. Andrea Simonini, regista di Carega Punk e scalatore Salewa, sarà  presente alla serata. Carega Punk è una via di arrampicata aperta sull’omonima montagna. Langtang, di Seb Montaz, è uno dei film della serie Summits of my life con Kilian Jornet ed è ambientato in Nepal dopo il terribile terremoto del 2015. No Turning Back, di Damiano Levati, è un omaggio ad Hansörg Auer, scomparso il 16 aprile scorso in Canada insieme a David Lama e Jess Roskelley.

Per informazioni sull’evento clicca qui.


Sulle tracce di Coomba

Considerato tra i pionieri dello sci ripido d’oltreoceano, Doug Coombs ha lasciato un’eredità che va ben oltre le prime discese, l’audacia delle linee scelte, la ricerca dell’adrenalina, i molti trionfi (ha anche vinto il primo Campionato del Mondo di Sci Ripido a Valdez, in Alaska, nel 1991). Tra le pagine del libro Sulle tracce di Coomba colpisce il suo aspetto umano, l’energia contagiosa, l’amore per lo sci e per la famiglia, il suo infaticabile lavoro di Guida. «Non faccio niente di impossibile. Rendo possibile quello che gli altri pensano non lo sia» amava ripetere. Una giornata passata con lui ti poteva cambiare la vita, il suo interesse era farti migliorare, vivere al meglio ogni esperienza e, soprattutto, farti divertire. Un visionario, un personaggio che ha fatto scuola a Jackson Hole e ha plasmato il concetto di sci ripido ed heliski in Alaska, portando poi il suo gusto per la vita a La Grave, dove perì tragicamente il 3 aprile 2006, cercando di aiutare l'amico Chad VanderHam. A La Grave, dove la montagna è sempre pronta a farti capire chi comanda, trovò amici sinceri e un ambiente autentico.

Sulle tracce di Coomba, il libro che fa parte della collana Lamine di Mulatero Editore, scritto da Robert Cocuzzo, va alla scoperta di una figura leggendaria, un sognatore che ha fatto della sua umanità e della sua passione sfrenata per lo sci uno stile di vita. Abbiamo intervistato l'autore.

Non hai mai conosciuto Doug Coombs, eppure sei riuscito a completare una biografia molto ricca e completa, dove traspaiono tutte le sue emozioni e il personaggio di Doug si apprezza nella sua interezza. Che cosa ha attirato la tua attenzione alla vita di Doug Coombs fino a spingerti a scrivere un libro su di lui?

«Prima di tutto mi sembrava una sorta di eroe ideale. Ero cresciuto guardando i suoi video che lo ritraevano sfrecciare nella neve soffice lungo discese mozzafiato: mi sembrava una storia degna di essere narrata. Ma solo quando ho saputo che avevamo varie cose in comune - crescere nella stessa zona e nello stesso ambiente, effettuare le prime discese sulla medesima collina, Nashoba Valley nel Massachusetts – ho capito che potevo essere io l’autore di quel libro. Si può dire che sia stata la sua storia a trovare me in un momento in cui ero pronto a scriverla».

C’era una sorta di connessione tra i vostri mondi?

«Io sciavo all’incirca due settimane all’anno e ogni tanto calzavo gli sci per andare nelle vicinanze: i nostri mondi non erano di certo gli stessi. Ero comunque curioso di capire le circostanze che diedero il via alla sua carriera, le motivazioni dietro al suo personaggio. Ho cercato così di ricalcare i suoi passi, chiedendomi dove sarei potuto arrivare, e questo mi ha dato la motivazione per scrivere un libro».

Per chi l’hai scritto? Per te stesso o per gli altri?

«Scrivere un libro è un viaggio che ti porta alla scoperta di emozioni anche nascoste. Mi sono reso conto ben presto, però, che il mio lavoro era per David Coombs, il figlio di Doug, che aveva due anni quando il padre è morto. Le persone si rivolgevano sempre a David con parole di elogio ed entusiasmo nei confronti del padre, ma lui non poteva capire a fondo, non poteva avere ricordi tangibili. Con questo libro ho cercato di delineare la figura di Doug mettendo in luce tutte le sue sfaccettature».

Perché hai voluto seguire le orme di Doug al punto di recarti nei posti dove aveva vissuto?

«Nel tentativo di ricreare il personaggio di Doug, ho capito che conversazioni telefoniche o messaggi scambiati con chi l’aveva conosciuto non potevano essere abbastanza per capire a fondo la sua personalità. Dovevo mettermi nei suoi panni, sciare le sue linee, assaporare l’atmosfera che aveva vissuto e conoscere le persone che avevano condiviso il suo cammino».

E tu? Che ruolo hai nel libro?

«Beh, all’inizio non volevo includere tutte le parti che mi riguardano, perché non mi sembravano appropriate; in seguito ho capito che seguendo la sua storia sono riuscito a creare una sorta di testamento dell’impatto che ha avuto sullo sport, sulle persone incontrate, dando ai lettori la possibilità di entrare a far parte del suo mondo e apprezzarlo di più. Aggiungere le mie impressioni avrebbe fornito un mezzo per identificarsi ancora di più con il personaggio».

Sei molto onesto con le tue emozioni, rivelando paure, ansie, gioie. Avevi qualche timore sulla reazione dei lettori nei tuoi confronti?

«Sì, molti. Non tanto dei sentimenti di paura o delusione che avevo messo a nudo, o del mostrare che in certe occasioni ero decisamente fuori forma: più che altro non volevo dare l’impressione di essere come i grandi sciatori di cui si parlava nel libro, né di far parte di questa vicenda quasi eroica. In fondo, ero solamente lì per raccontare una storia. Temevo anche la reazione della famiglia di Doug, in particolare di sua moglie Emily: avrebbero potuto chiedermi il perché della mia presenza nel libro. Alla fine, cosa c’entravo io con la vita di Doug Coombs? Non l’avevo nemmeno mai incontrato».

La famiglia invece lo ha giudicato molto interessante.

«Sì. Quando il libro è stato pubblicato, si era già creato un buon rapporto tra la famiglia di Doug e me, e a loro è piaciuto molto il mio modo di raccontare la storia, creando un parallelo tra me e Doug, dando un’altra chiave di lettura del grande personaggio che aveva riempito le loro vite».

Nel tentativo di ricalcare i passi di Doug, sei andato dappertutto, prima a Jackson Hole, poi a Valdez in Alaska e infine a La Grave. Ti sei mai trovato a un punto morto? Che cosa ti spingeva ad andare avanti in questo progetto nei momenti di sconforto?

«Scrivere un libro può incutere timore ed essere scoraggiante. Durante i tre anni che mi sono serviti per completare il progetto, c’è stato un momento in cui non avevo un editore, avevo già investito tempo e denaro in quest’idea e non mi sembrava di arrivare a nessuna conclusione. Sarei dovuto ancora andare in Alaska e poi in Francia e tutta questa strada da percorrere mi spaventava non poco. Uno scrittore ha sempre momenti di dubbio o incertezza e io ne ho avuti non pochi; continuavo a dubitare del fatto che quello che stavo scrivendo valesse veramente qualcosa».

Ci sono stati anche momenti oscuri, quando è stato complicato trovare informazioni utili?

«Sì, ad esempio le circostanze della sua morte. Mi sono ritrovato a parlare con persone che non volevano assolutamente rivivere momenti così tragici. Guadagnarsi la fiducia di individui che ti hanno appena incontrato, riuscire a farli parlare di eventi che li hanno segnati così profondamente, non è stato per niente facile».

Sei tornato nei luoghi che avevi frequentato durante il progetto del libro?

«Non sono tornato a Valdez e nemmeno a La Grave. C’era questa idea di andare a La Grave per l’anniversario della morte di Doug, cosa che poi non è successa. La Grave sarà sempre un luogo molto importante nella mia vita per l'ospitalità ricevuta, l’umanità delle persone, le sensazioni provate. Avrei quasi paura a tornarci e rovinare quella che è stata un’esperienza davvero speciale. C’era anche l’idea di creare un documentario sul libro e sarei dovuto tornare a La Grave per ripetere gli eventi descritti, ma poi non se n’è fatto niente e so che le sensazioni non avrebbero potuto essere le stesse. La magia, l’energia di Valdez e La Grave sono state tali che non mi viene nemmeno voglia di ritornarci. Si tratta anche di luoghi molti pericolosi e avrei paura a sciare di nuovo quelle linee».

In termini di attrezzatura e di approccio degli sciatori, che differenze hai notato tra gli Stati Uniti e l’Europa?

«Per quanto riguarda l’attrezzatura, a Jackson Hole, ad esempio, non vedresti mai nessuno sciare con un imbrago, chiodi da ghiaccio o una corda nello zaino, cosa invece molto frequente, direi essenziale, a La Grave. La cultura europea in luoghi come La Grave è molto meno incentrata sull’ego del singolo sciatore. A Jackson Hole il testosterone si tocca quasi con mano, c’è sempre una sorta di gara per dimostrare chi è il miglior sciatore; a La Grave sono tutti ottimi sciatori, non ci sono competizioni, tutti conoscono i propri livelli e lasciano che la sciata parli per loro. Certo, entrare a far parte delle cerchie ristrette di La Grave, guadagnare la loro fiducia e integrarsi non è stato molto semplice. Direi comunque che in Europa c’è uno spirito particolare che non trovi negli Stati Uniti».

È stato questo uno dei motivi che spinse Doug a trasferirsi lì?

«Sì, credo proprio di sì. Doug era un personaggio molto noto a Jackson Hole, mentre a La Grave poteva essere se stesso e godersi una vita molto più autentica. Lì lo sci è allo stato puro, non ci sono pisteur, corde, segnali o indicazioni che delimitano una zona di pericolo. Sta a te giudicare se una linea è in condizione e se è possibile sciarla».

L’aspetto umano traspare molto chiaramente nel libro, andando ben oltre gli exploit di sci ripido ed estremo e creando un interesse per la persona di Doug, non solo per il favoloso sciatore. Un’umanità che traspare nelle circostanze dalla sua morte, nel fatto che, come guida, era interessato a darti una bella esperienza, non solo a portare i clienti in giro e guadagnarsi da vivere.

«La magia nella vita di Doug non riguardava solo il suo essere uno sciatore fenomenale. Aveva un’energia contagiosa, un ottimismo incondizionato, avrebbe illuminato qualsiasi stanza nella quale entrava e lo sguardo delle persone che ho incontrato risplendeva quando parlavano di lui. Il suo modo di essere aveva un impatto sulla vita degli altri».

Una storia di vita quindi.

«Sì, questa biografia racconta la vita di uno sciatore, ma potrebbe essere applicata a una qualsiasi altra sfera umana. Il libro non si focalizza solo sul mondo dello sci estremo, ma vuole toccare gli eventi attorno all’esistenza di una figura così carismatica, morta facendo quello che amava di più, aiutando un amico in pericolo. Una vera e propria esplorazione nel potere dello spirito umano: lo sci è stato una sorta di scenario per poi esplorare la vita affascinante di Doug».

È con questo spirito che è stata creata la Doug Coombs Foundation. Ce ne parli?

«Sì, sua moglie Emily ha creato la fondazione nel 2012 e da allora ospita circa duecento bambini a stagione. L’idea è di insegnare ai ragazzi di famiglie non abbienti a sciare, dando l’opportunità di eccellere in un ambiente, con la speranza che portino la fiducia e la sicurezza acquisita anche in altri campi. Lo sci è solo una scusa, un trampolino di lancio per poi dare il massimo in altre sfere».

DOUG COOMBS - Nato a Boston nel 1957 e cresciuto a Bedford, nel Massachusetts, è stato un pioniere dello sci ripido prima negli Stati Uniti (Tetons, Chugach) e poi in Europa. Un grave incidente a 16 anni non ferma la sua passione per le discese e nel 1991 vince il primo World Ski Extreme Championship a Valdez, Alaska, spiazzando la giuria per l’audacia delle linee scelte. Insieme alla moglie Emily fonda la Valdez Heli-Ski Guides nel 1993, poi gli Steep Skiing Camps a Jackson Hole che porta successivamente a La Grave. La sua sciata veloce e sinuosa, unendo potenza, controllo e grazia, era ineguagliabile. Amava dire che «il miglior sciatore è quello che si diverte di più» e viveva la sua vita con passione ed energia. È morto il 3 aprile 2006 mentre cercava di aiutare un amico caduto da un dirupo, Chad VanderHam.

COME ACQUISTARE IL LIBRO - Sulle tracce di Coomba (Mulatero Editore, 264 pagine, 19 euro) è in vendita nelle migliori librerie oppure si può ordinare online a questo link.

©Ace Kvale