Chantel Astorga, la donna forte

A Chantel non piace far rumore, forse è proprio per questo che a volte ricerca la solitudine nel suo modo di andare in verticale. Confesso che il suo nome per me era legato alla recente prima solitaria femminile della Cassin Ridge al Denali con uno stile a dir poco fantastico: minimale e sci per avvicinamento e discesa. Un numero come questo del Denali del giugno 2021 però non è alla portata di tutti: avevo capito che Chantel non era soltanto una forte alpinista, ma prima di tutto una donna, una donna forte. Una donna preparata e appassionata per la quale la molla dell’avventura prima di tutto nasce dal piacere di stare  – in modo totalizzante – in montagna. 

Chantel Astorga, atleta del Team The North Face USA, è americana, classe 1985: un’antenata di origine italiana e una vita da vera montanara. Oltre che una delle migliori alpiniste al mondo. Nel curriculum un elenco di salite dall’Alaska all’Himalaya e allo Yosemite che si distinguono non solo per la difficoltà, ma anche per lo stile e il livello di impegno. Non solo sciatrice, ma soprattutto una delle alpiniste top sulla scena mondiale: arrampicata su ogni terreno, dal ghiaccio e misto tecnico in quota alle grandi big wall dello Yosemite. Esattamente dieci anni fa, nel settembre del 2011, insieme a Libby Sauter, a soli 26 anni, ha stabilito un nuovo record di velocità femminile sul Nose a El Capitan, nello Yosemite, salendo la via in 10 ore e 40 minuti. 

Solitamente quando si parla di velocità su The Nose, si pensa ai fantasmagorici record maschili in simul climbing, ma anche queste ragazze avevano voluto dire la loro, polverizzando il record precedente del 2004. Quelli che la conoscono e i suoi partner tecnici dicono che Chantel è sempre rilassata e naturale, quasi non sembra che si stia impegnando molto: la puoi vedere salire su tiri di ghiaccio strapiombanti, attraversare difficili creste incorniciate al buio e arrampicare per oltre 30 ore con un sorriso sul viso. Ed è così che ci ha accolto, con un bel sorriso. Genuino.

Ciao Chantel, prima di parlare dei tuoi più recenti exploit, ci piacerebbe far scoprire ai nostri lettori chi è la Chantel di tutti i giorni; insomma, cosa fai, come vivi la montagna nella tua quotidianità, come è nata la Chantel alpinista di punta che stiamo imparando a conoscere. 

«Beh ecco, la montagna è una presenza di tutti i giorni. Vivo in Idaho, nel nord-ovest degli Stati Uniti, dove lavoro come previsore valanghe per la rete autostradale (e questo la dice lunga sulla quantità di neve che cade in quelle zone, ndr) e per il dipartimento dei trasporti locale. L’autostrada è importante per le comunità rurali, è un passaggio che consente di raggiungere la città, per esigenze anche primarie. Questo lavoro mi permette di trascorrere molte giornate in montagna e sugli sci. Però sono molto attratta dalla scalata in ambiente e mi sono dedicata molto all’arrampicata in velocità, specie nello Yosemite. È pericoloso, ma fa parte della cultura del posto. Nel 2014 ho portato a termine la salita solitaria del Nose in poco più di 24 ore, per la precisione 24 e 39 minuti. Sempre in valle, ho anche chiuso il primo concatenamento femminile in giornata del Nose a El Capitan e della North West Regular Route dell’Half Dome». 

La tua passione è un affare di famiglia o personale? 

«Penso che l’approccio qui sia diverso che in Europa, proprio da un punto di vista culturale. Personalmente non sono nata come climber, ma con i miei genitori praticavo solo escursioni e vita all’aria aperta, fino a quando, da adolescente, mio padre mi portò in Alaska, non lontano dal Denali. Lì l’emozione fu grande, qualcosa cambiò. Iniziai a interessarmi, andavo a comprare libri per documentarmi. Dai 18 anni ho iniziato a trascorrere la maggior parte del mio tempo in montagna, prima lo scialpinismo, poi le salite su ghiaccio in autosicura. C’è un incontro che è stato fondamentale per la mia evoluzione alpinistica, quello con i fratelli gemelli Damian e Willie Benegas. Sono due alpinisti con una grande esperienza in Patagonia e Himalaya e hanno salito un numero incredibile di vette in tutto il mondo. La loro curiosità per l’arrampicata è stata innescata dal padre, Rafael Benegas, che, durante i lunghi e freddi inverni argentini, li intratteneva con le foto e i racconti delle sue avventure in Patagonia. Loro sono stati i miei mentori, mi hanno aiutato a essere meno approssimativa, specie con il materiale. Mi ricordo che quando avevo 19 anni giravo con scarpette da arrampicata non esattamente del mio numero: pensa che a quell’età mi ero messa in testa di sciare il Denali e lo volevo fare con scarponi che erano due numeri più grandi del mio!». 

Dunque quella per la montagna è una passione allround... 

«Esattamente, prima lo sci e poi l’alpinismo e via via terreni sempre più tecnici. Ma l’importante è sempre stato l’essere in montagna». 

Come scegli i tuoi obiettivi, soprattutto quelli più importanti? 

«Principalmente per la loro estetica, per qualcosa che mi colpisce della linea, della montagna, meglio se hanno il fascino del non ancora percorso. Per esempio, per quanto riguarda il Denali, ci avevo trascorso e speso già un sacco di tempo negli anni passati. Gli obiettivi magari se ne stanno nella testa per tanto tempo». 

Come ti prepari per questi obiettivi? 

«Ritengo che gran parte della preparazione risieda in realtà nella visualizzazione dell’obiettivo stesso. Trovo ispirazione dalla sfida mentale di una scalata alpina, dall’arrampicata veloce su big wall, dall’ignoto, dalla ricerca di target che non sono sicura che siano alla mia portata. Da un punto di vista tecnico, la preparazione consiste nel muoversi in montagna, trascorrere il più tempo possibile fuori». 

Quali sono gli spot preferiti per il tuo alpinismo? Visto che ci sei stata molte volte, mi sbaglio se dico Alaska? 

«No, assolutamente! L’Alaska è una delle mie destinazioni preferite. Ci sono spazi enormi, grandi ghiacciai, l’Alaska è spettacolarmente selvaggia. Sono molto affezionata anche alle montagne in cui vivo, in Idaho, il Sawtooth Range. È casa mia e ci passo un sacco di tempo ad allenarmi». 

Abbiamo parlato di Alaska e non posso non chiederti della tua ultima avventura solitaria sulla Cassin Ridge al Denali dello scorso giugno. Da dove è nata questa idea? Un sogno di lunga data? 

«In questi ultimi anni ho passato tanto tempo sola in montagna e non mi dispiace stare con me stessa. Lo faccio arrampicando e soprattutto sugli sci durante l’inverno. Ho iniziato a cercare un obiettivo che mi permettesse questo stile e che mi ingaggiasse allo stesso tempo, con un terreno tecnico e su una grande montagna. Volevo provare, capire come mi sarei sentita. La Cassin è una linea ultra classica, estremamente bella ed estetica.Ho pensato di usare gli sci per l’avvicinamento perché mi avrebbero permesso di essere più veloce e pertanto più sicura. Ci avevo già provato qualche anno fa, ma le condizioni meteo erano orribili. Poi altri obiettivi mi hanno allontanato dall’idea per qualche tempo». 

Come hai scalato, con gli scarponi da sci? Come hai gestito il materiale? 

«Ho scalato con gli scarponi da scialpinismo, degli Atomic leggermente modificati per renderli più rigidi e più caldi. Non ho usato la corda per autosicura, ho scalato tutta la via in free solo. Naturalmente avevo uno spezzone da 30-35 metri per eventuali emergenze e due viti da ghiaccio just in case, ma fortunata- mente non ho usato nulla. A quel punto è stato logico portare il materiale lungo la cresta e continuare fino in cima per poi usare gli sci in discesa. La parte alta della montagna era in pessime condizioni e il mio piano originale di scendere su una main line l’ho subito scartato e ho sciato sulla West Rib, che conoscevo e avevo anche già salito da sola». 

Il momento che porterai con te di questa salita? 

«I momenti clou sono stati l’avvicina- mento, la sciata dalla West Rib e dalla Seattle Ramp, una discesa in una seraccata decisamente complessa di circa 900 metri. Ho aspettato le 11 del mattino per avere neve morbida e infatti era perfetta, ma faceva caldo; ero un po’ impaurita, e in quel momento ho visto un’aquila enorme. È stato magico». 

Cosa ti spinge a salire in solitaria? 

«Mi piace la sensazione di poter essere leggera e voglio capire fin dove mi posso spingere come individuo, quanto posso salire di grado. Così arrivo a conoscermi meglio». 

Pensi che utilizzare gli sci per questo genere di salite o in alta quota porti dei vantaggi? 

«Ritengo che sia un bello stile. Figo! Non certo per terreni tecnici, ma rappresentano un buon compromesso quando ci si deve muovere su pendii o negli avvicinamenti. Mi piace l’alta quota, ci sono stata già due volte, su terreno tecnico, come nel 2017 sulla parete sud-ovest del Nilkantha, nel Garhwal centrale, in India. Vorrei tornare in Himalaya». 

Domanda secca: tre cose che cerchi in un’avventura in montagna. 

«Estetica. Stile. Partnership, che è un po’ strano per una che fa salite solitarie». 

Ultima. Prossimi obiettivi? 

«Preferisco non... ho origini italiane!». 


Winter Home

Gennaio 2021. Non è poi così freddo: meno dieci. È una notte più mite rispetto alle punte di meno venticinque che hanno graffiato la pelle arsa dal sole e dal vento dei loro volti. Il tempo è passato veloce, come gli altri giorni: pellata, sciata, ripellata, altra sciata. E poi a prendere l’acqua che, inspiegabilmente, scorre sotto la neve, anche a meno venti, per scaldare, lentamente, a bagno maria, la bombola, che così riesce a sprigionare tutta la sua potenza per cucinare sull’altro fuoco del fornello. Un po’ di zuppa e i kaminwurzen, i salamini affumicati, da sgranocchiare con flemma, come un sigaro davanti al camino. Una serata avvolti nel sacco a pelo a ricordare le curve più belle e poi d’improvviso quella nebbia che ti avvolge e ti trasporta nel sonno più profondo dopo una giornata nella quale hai dato tutto. Aaron e Matthias chiudono le lampo dei loro sacchiapelo, testati fino a temperature polari. Dentro però, se non metti prima qualcosa di caldo, si incunea il freddo, e non c’è altra soluzione per scaldarli se non quella di usare il calore del proprio corpo. Oppure di infilarci prima qualcosa di rovente, come la boule dell’acqua calda che Aaaron ha rubato a suo figlio o la borraccia tonda, a fiaschetta, di alluminio, che Matthias usava quando era bambino, di quelle che potevi ricoprire anche con la custodia di loden. I sogni si susseguono veloci, uno dietro l’altro, nella mente di Aaron. Poi il sole, appena sorto, buca prepotentemente la porta della tenda. Uno sbadiglio, la mano fuori dal saccoapelo. Per terra c’è uno spesso strato di ghiaccio. «Cosa è successo, è caduta dell’acqua?» chiede a Matthias con la voce ancora rauca. 

«Questa notte si è rotto il camelbag che avevo con me dentro il sacco a pelo» risponde impassibile Matthias. Quella sacca idrica che di giorno mette nello zaino e che la notte tiene nel sacco per mantenere l’acqua a una temperatura accettabile e bere di tanto in tanto, ha ceduto. Tutta la notte a rimanere immobile e fradicio. Con il dubbio di alzarsi e scendere a valle. Ore interminabili che tra le parole di un racconto scorrono come un lampo dagli accenti comici, ma che dal vivo assumono l’aspetto della tragedia. 

© Daniele Molineris

Flashback. Aprile 2020. Sotto il piumino, con le guance affondate in un morbido guanciale e la schiena che poggia su uno spesso materasso, la sensazione è molto diversa da quella di qualche centimetro di materassino pieno d’aria, di un saccoapelo e di un cuscino gonfiabile. Eppure è bello sentire l’aria fredda sul viso, vedere il sole sorgere dalla porta della tenda, sciogliere la neve con il fornelletto per fare colazione. E poi mettere le pelli fuori dall’uscio e partire alla scoperta di linee infinite. Aaron è nel dormiveglia, ha ancora negli occhi le emozioni dell’ultima uscita. Partenza quando in valle era buio, un po’ di portage, poi su con le pelli. 

E infine una notte in tenda, per sfruttare al massimo quella libertà così preziosa nel cuore di una pandemia. Non è una fuga dalla legge, perché questo è il lavoro di Aaron, ma c’è quell’adrenalina che solo la trasgressione ti sa dare. Quella stessa adrenalina che gli saliva nelle vene quando, da ragazzino, si allenava a Merano 2000 e guardava su verso le creste dell’Ivigna, dove lo zio Renato Reali aveva conosciuto Heini Holzer, che poi quella parete l’ha sciata, e sognava di mettere le sue lamine in quel groviglio di roccia e neve. Con gli occhi già chiusi ma la mente ancora connessa, Aaron inizia a pensare all’inverno 2021. Non si sa se si potrà viaggiare, è ancora tutto incerto. Lassù, proprio sopra casa, appena sopra il brusio di Merano, sembra di essere in Patagonia. Il contrasto tra giù e su è quello tra il mondo sviluppato e quello selvaggio, nel raggio di pochi chilometri. O di un volo in parapendio. Sarebbe bello ricreare le sensazioni delle spedizioni negli angoli più remoti a due passi dal proprio giaciglio e dalla propria famiglia. 

© Daniele Molineris

Novembre 2021. Hanno pedalato un po’. Giusto un po’, perché la neve è scesa fino in basso. Così con le e-bike sono riusciti a salire appena qualche tornante, diciamo dai 300 metri di Merano fino a quota 600. C’è il lockdown e Aaron e Matthias, anche se potrebbero muoversi in auto, visto che stanno facendo il loro lavoro, hanno deciso di spostarsi solo con mezzi alternativi, ed ecco spuntare le bici. Bisogna andare su fino a 2.100 metri e le due ruote lasciano presto il posto alle pelli. Per tutto il mese di ottobre sono saliti più volte ai Laghi di Sopranes, nel Parco Naturale Gruppo di Tessa. Un modo per tenersi in forma e allestire poco alla volta il campo base. Quell’idea nata nel dormiveglia ha preso forma nel progetto Winter Home, un campo base fisso sulle montagne sopra casa, dal quale sciare tutte le linee immaginabili. Ogni volta si portavano dietro degli zaini da 10 chili e il parapendio, per rientrare più veloce- mente. Ora è tutto in quota, protetto sotto un masso. Ci sono le bombole, il fornelletto, la tenda e un po’ di provviste. Eppure quando arrivano in quota sembra di essere sulla luna. Di quel masso di quattro metri non c’è traccia, è tutto piatto. Forse si intravede un comignolo. Sarà lui? L’inizio dell’inverno pandemico coincide con la stagione più bianca da quando si registrano le precipitazioni nevose e allestire il campo base è più difficile del previsto. L’idea iniziale di Aaron è di montare la grande tenda all’interno di un igloo, in modo che la temperatura non scenda sotto lo zero. Così, insieme a Matthias, lavora sodo a spalare neve e creare grandi blocchi. Aaron e Matthias non sono eschimesi e non sanno che gli igloo, dopo la costruzione, si assestano. Così quella volta possente piano piano scende. Non c’è verso di lasciarci dentro la tenda, ma almeno può diventare un’ottima cantina. Però, con il passare dei giorni, la volta scende sempre più e l’idea di vedersi franare quei blocchi pesanti come macigni sulla testa o sulle preziose provviste non è il massimo. Il campo base si riduce alla tenda, molto spaziosa e comoda. 

«In tutto l’inverno saranno passati al massimo trenta scialpinisti, mettere una tenda ai Laghi di Sopranes ci ha permesso di scoprire una zona selvaggia come i posti più lontani del mondo» dice Aaron ripensando a quei lunghi mesi a cavallo tra 2020 e 2021. Il perché il Gruppo di Tessa sia così poco frequentato è frutto di un’equazione semplice: il limite della neve spesso è tra i 1.300 e 1.500 metri, l’ultima strada finisce a 650 metri. «Per iniziare a divertirti devi fare anche 1.700 metri» sentenzia Aaron. Avere una base, uno ski lodge, a 2.100 metri, permette di partire ogni giorno alla scoperta di una linea nuova, salendo fino a 3.400 metri. «La zona di Merano è abbastanza ventosa e di solito la neve si trasforma velocemente e alcuni pendii diventano pericolosi, invece per tutta la prima parte dell’inverno le condizioni sono state stupende». 

Impossibile soffermarsi su tutti i fotogrammi di oltre sei mesi. Aaron e Matthias hanno dormito nella loro casetta invernale un totale di una trentina di notti. A volte una toccata e fuga, altre tre-quattro giorni di vacanza-lavoro. Tanti ricordi, ma ci sono due istanti cristallizzati nella mente di Aaron. Due momenti vissuti con altrettanti compagni, perché una casa vuol dire ospitalità e Winter Home è stata aperta tutto l’inverno a chi condivide la stessa passione di Aaron e Matthias. La linea più bella? La linea più bella è stata quella del Verdinser Plattinger, che Aaron ha sciato con Bruno Mottini. La partenza da una lunga cresta affilata, poi una prima parte ripida e a metà un salto di roccia da superare aprendo il parapendio, in speed riding, poi ancora un grande e dolce pendio dove giocare con curve in aria e sulla neve. La discesa perfetta, quella che neanche nei sogni o nei videogiochi. E Poi l’Ivigna, la montagna sopra Merano 2000, la prima discesa ripida sciata da Aaaron, quella dove lo zio Renato aveva incontrato Heini Holzer. Questa volta condivisa con Matthias. 

Febbraio 2021. Il bollettino valanghe recita pericolo cinque. Aaron ha montato la tenda dove in estate inizia il lago.
Tutto intorno una conca disegnata con il compasso. Il pendio più vicino sarà, a spanne, a 500 metri. È il posto migliore, più sicuro. Però con rischio cinque non si mettono le orecchie fuori di casa. Un rombo avvolge la conca. Parte tutto il pendio lungo 270 gradi di quella scodella bianca. Quando Aaaron e Matthias salgono ai laghi, della tenda non c’è traccia. È un mondo sommerso e devono lavorare a lungo con sonde e pale per tirarla fuori. Winter Home è stata raggiunta dall’ultimo soffio, quello meno potente, ma è sparita sotto la coltre bianca. La montagna ha mandato un segnale, lo spirito dice di rimontare tutto da un’altra parte. Questa volta la scelta ricade sulla zona del Monte Hirzer, 2.781 metri a dividere la Val Passiria dalla Val Sarentino. «In linea d’aria sono pochi chilometri, è proprio dall’altra parte della valle» dice Aaron. Smontare, trasportare e rimontare. Un lavoraccio. Questa volta i due decidono di passare dalla Val Sarentino in auto per essere più veloci a salire ad allestire la nuova Winter Home. Però poi, per raggiungerla, si sale solo by fair means. In bici fino a Tall, a 1.400 metri, e su fino in vetta con le pelli, a quasi 2.800 metri, infine giù con una vela da paraalpinismo da pochi chili e un imbrago leggero. «Ripensandoci, è stata una fatica, ma ne è valsa la pena perché ci ha permesso di esplorare un’altra zona». 

È sempre così. Quando parti per le vacanze prepari le valigie con cura, pregustandoti ogni momento e ogni avventura. I dettagli fanno la differenza. Quando finiscono hai solo voglia di disfarle velocemente e pensare alla prossima vacanza. Per smontare Winter Home è bastato un giro con un po’ di amici, a maggio inoltrato. Zaini da parapendio da 150 litri in spalla e giù a valle come degli sherpa, tutti insieme. Perché le cose belle della vita vanno vissute con gli amici. Come quelle serate
a vedere il tramonto e parlare delle sciate, quel disco rosso del sole che buca la porta della tenda la mattina, la zuppa calda dopo una giornata fredda, lo speck e il grana, il rumore della neve sotto le pelli,
il soffio della polvere profonda, il digrignare dei denti della volpe che ripulisce l’osso del pollo appena mangiato. «Niente di speciale, tante piccole cose speciali». Parola di Aaron. 

Aaron è Aaron Durogati e Matthias, Matthias Weger. Saranno protagonisti del cortometraggio Winter Home, diretto da Luca Curto e prodotto dalla Digital Lighthouse, in associazione con Blizzard-Tecnica e con la partecipazione di Salewa. 

La tenda usata è Salewa Alpine Hut III, il saccoapelo Diadem Extreme RDS e il materassino Diadem Extreme Mat. Aaron e Matthias hanno sciato con Blizzard Rustler 10 e 11, Zero G 105 e Zero G 95 per le discese di ripido, ai piedi avevano Tecnica Zero G Tour Pro, l’outfit di Aaron è il completo Salewa Stella. Appena dopo avere smontato Winter Home, Aaron è partito per la Red Bull X-Alps insieme a Bruno Mottini, che faceva parte del suo team di assistenza. Ne abbiamo parlato su Skialper 137 di agosto. 

Queso articolo è stato pubblicato su Skialper 138 di ottobre 2021

© Daniele Molineris

Lontano dal rumore

Marzo 2021. Per arrivare a San Vigilio ci ho messo meno del previsto: l’autostrada era deserta. Oh no – starete pensando voi – ecco che ci risiamo con l’ennesima tirata sulle località sciistiche deserte a causa del lockdown. E un po’ avrete anche ragione, ma l’inverno 2021 per me è stato di fatto quello in cui, finito di sciare, mi capitava di ritrovarmi in un albergo vuoto a fissare il muro di fronte perché i bar erano chiusi e la gente, in Alto Adige, non poteva letteralmente uscire dal proprio comune, quindi un po’ vi tocca beccarvelo. Di positivo, però, c’è stata la possibilità di godermi questa parte di Alpi da assoluto privilegiato, assieme a Guide alpine locali che mi mostravano i loro giardini in un’atmosfera stranamente tranquilla e intima per essere, appunto, nelle Dolomiti. San Vigilio è il punto di partenza del mio tour sciistico. Sono in Val Badia, nel cuore delle terre ladine. Il ladino mi mette allegria, con i suoi suoni che mi sembrano l’anello mancante tra il bergamasco, il norvegese e il tedesco dei bolzanini. E allo stesso tempo mi incuriosisce tantissimo, perché una lingua così ben preservata, sembra qualcosa fuori dal tempo e dallo spazio, almeno a me. Il bello del viaggiare nelle Alpi è anche questo: le differenze, tanto antropologiche quanto ambientali, che ci possono essere tra una valle e l’altra fanno sì che, pur spostandosi di pochi chilometri, si abbia l’impressione di aver coperto distanze ben maggiori. 

L’appuntamento a scatola chiusa è con Simon Kehrer, che al mattino si fa trovare direttamente nella hall dell’albergo. Già dalla sera prima avevo avuto modo di intuire quanto Simon sia il beniamino della valle, quel genere di persona di cui gli altri si limitano a dire il nome senza specificare il cognome: lui è, semplicemente, Simon. Mi fa spazio nel suo furgone e insieme iniziamo a risalire la valle. Per tutto il tragitto il mio compagno mi elenca entusiasta le salite fatte da quelle parti, di tutti i tipi: aperture dal basso, sportive, invernali, solitarie, e tutte le loro possibili varianti. A dover fare un resoconto della sua attività in montagna verrebbe da chiedersi se da casa passi mai, almeno a fare finta di dormire. Al rifugio Pederü incontriamo Miriam e Walter, i gestori, che oggi hanno deciso di prendersi un giorno di vacanza per accompagnarci. 

© Federico Ravassard

Iniziamo a pellare all’ombra, dopo qualche tornante si scopre davanti a noi una delle vallate più belle del Parco Naturale Fanes-Sennes-Braies, che si merita ampiamente la posizione all’interno dei siti Unesco. Non abbiamo un vero e proprio programma: l’idea è semplicemente andare a cercare i pendii a nord dove la polvere si è conservata dopo le ultime nevicate, protetta dalle grandi pareti di dolomia che rendono uniche le Dolomiti. Saliamo verso il Piz de Sant’Antone mentre il cielo azzurro sembra volerci suggerire di non prenderla con troppa foga. La discesa sul versante opposto è perfetta, una linea sinuosa che si svolge tra contropendenze, avvallamenti e spalle fino a quando si arriva al momento che più o meno tutti aspettavamo: si ripella?  Lo zaino è carico del materiale fotografico, di cibo e acqua ne sono rimasti pochini, ma il sorrisone di Simon non può non convincerti, assieme alla promessa di una seconda discesa nel vallone parallelo a quello appena sciato. Seicento metri più tardi siamo di nuovo in cima a una montagna, a crogiolarci sopra uno spiazzo erboso e a godere della vista intorno a noi. La valle che abbiamo percorso stamattina in macchina è proprio lì sotto, protetta da bastionate di roccia gialla che sembrano essere state messe apposta per accompagnarti lungo il tragitto. Sciamo su pendii che si fanno sempre più stretti, fino a inanellare le ultime curve su una cengia che di fatto è la cima della falesia in cui si allena d’estate Simon. Uno degli aspetti del farsi portare in giro da qualcuno sulle sue montagne è la confidenza con cui lo si vede scivolare tra le pieghe del terreno, proprio come faremmo noi per passare da una stanza all’altra in casa nostra. Con Simon è la stessa cosa: la sciata non è particolarmente tecnica o ricercata, ma in un modo o nell’altro le punte degli sci sono sempre girate dal verso giusto, specialmente nei tratti più ripidi e stretti. A fine giornata ci salutiamo con un arrivederci e una frase che, se in altri contesti può apparire come una remota eventualità, tra sciatori invece si rivela spesso una constatazione, perché poi succede veramente: ci si vede in giro. 

Il giorno successivo mi sposto verso ovest, fino a entrare in quella che è conosciuta come Val Ridanna, quella di Racines, per intenderci. Come scrivevo poche righe fa, in poco più di un’ora di viaggio sembra di essere letteralmente in un altro paese: la verticalità delle Dolomiti lascia spazio a cime e panettoni più dolci e il ladino è sostituito dal tedesco. Ed è proprio ai piedi di uno di questi panettoni che mi incontro con Alfons Fassnauer, la mia Guida per la giornata. Assieme a lui si presenta anche Christof, un suo amico di lunga data. Nella notte sembra aver fatto brutto un po’ su tutta la regione: una di quelle perturbazioni primaverili che lasciano il segno solo sopra una certa quota. Dal parcheggio, di sicuro, non si capisce granché. Saliamo nel bosco ripido con le pelli che gracchiano sulla neve rigelata, la luce che filtra tra i rami illumina i suoi grani grossi. Usciti dagli alberi, la vista si apre sulla meta odierna, che nell’aspetto sembra fare decisamente a pugni con il suo nome: Zunderspitze, ovvero Cima dell’Incendio. A dispetto di quanto suggerisce la toponomastica, non c’è un singolo angolo che oggi non sia coperto da quasi mezzo metro di neve fredda e polverosa, il regalo notturno della primavera altoatesina. E, come se questo non fosse abbastanza, le condizioni sono quelle ottimali per una sciata di classe: gli strati sono perfettamente coesi fra loro, e solo la parte più superficiale scorre verso il basso quando la si tocca. Sluff leggeri e felici come la spuma delle onde durante la bassa marea. Alfons non ci pensa due volte: per arrivare in cima oggi si può passare dalla cresta, normalmente più pericolosa della via normale. Casa sua è esattamente sotto di noi: Cima dell’Incendio è poco più che un’estensione del suo giardino e batte la traccia senza la minima esitazione, mentre mi spiega come questa valle sia particolarmente fortunata dal punto di vista meteorologico. Rispetto alla parte più orientale dell’Alto Adige, infatti, qui arrivano le perturbazioni da nord, quelle che in certi anni rendono gli sciatori austriaci i più invidiati dell’arco alpino. E le condizioni di oggi sembrano confermare il tutto, specialmente quando, dopo aver postato un paio di storie su Instagram, alcuni amici sembrano non credere alle risposte dategli sulla mia posizione. 

© Federico Ravassard

Mentre i pendii sciati ieri nel Parco Naturale Fanes-Sennes-Braies sembravano invitare a uno sci selvaggio, quelli di oggi sono agli antipodi: qui tutto sembra essere molto più godereccio, l’equivalente invernale di quella che in arrampicata si definisce una via plaisir. Un itinerario poco ingaggioso alpinisticamente ma su roccia buona e in un ambiente bucolico, in cui allo scalatore viene solo richiesto di godersela. Pure il fondovalle abitato sempre in vista non disturba, anzi. Probabilmente per la sua tranquillità: questa non è una valle di passaggio, seguendo la statale fino in fondo non si arriva da nessuna parte. Certo, il fatto di essere in zona rossa (ops, non volevo parlare di pandemie e decreti) aiuta a ovattare la situazione, ma da queste parti mantenere una certa distanza dagli altri non è che venga particolarmente difficile. I miei due compagni di gita sembrano fare parte dello stesso pacchetto: vanno in montagna insieme da così tanto tempo che fanno pure fatica a ricordarlo; non solo io non ero ancora nato, ma probabilmente i miei genitori erano due perfetti sconosciuti tra loro. Una volta in cima, Alfons si siede a pochi passi dalla croce di vetta, guardando per l’ennesima volta il panorama circostante. Qui le montagne non sono altissime, i nomi non particolarmente blasonati. Quelli che per alcuni sciatori possono essere difetti, per altri diventano pregi: magari si farà qualche curva in meno, ma con molto meno stress. A posteriori, l’atmosfera selvaggia di Fanes e quella rilassata della Val Ridanna sembrano aver fatto da anticamera per prepararmi alla prossima tappa del mio viaggio, dove troverò il meglio delle due. 

In Val Martello ci arrivo nel pomeriggio, quando la luce del sole ti permette di guardarti intorno durante il tragitto. Se c’è una cosa che mi spiace dell’inverno è il dover spesso guidare col buio, potendo solo immaginare come sia il panorama fuori dai finestrini. Come tanti altri luoghi in cui sono stato in questi giorni, nella mia mente era un nome e poco più, sentito spesso riferito alla gara di scialpinismo nota come Trofeo Marmotta. Guardando una cartina, però, le idee sono più chiare: mi sono avvicinato alla Lombardia, ma soprattutto, a separarci, c’è il gruppo Ortles-Cevedale, cime simbolo di questa parte di Alpi e del Parco Nazionale dello Stelvio. Poi beh, ci sarebbero le fragole, che la rendono famosa al di fuori del nostro ambiente, tanto da essere conosciuta anche come Valle delle Fragole, rese particolarmente dolci grazie alla maturazione lenta data dalle giornate calde e notti fresche tipiche delle quote a cui crescono. Quando vengono raccolte qui, a oltre 1.500 metri di altitudine, nel resto d’Europa la stagione è già finita. 

© Federico Ravassard

Oltre alle fragole, c’è un’altra caratteristica che può far gola a chi decidesse di buttare il naso da queste parti: in tutta la valle, infatti, non esistono impianti sciistici. Un fattore penalizzante in passato ma che, in alcune località, si è poi rivelato determinante per un’offerta turistica di nicchia, assolutamente non in termini economici quanto di interessi. Il paragone inevitabile è con la piemontese Valle Maira, nota ormai da anni come località simbolo dello slow-tourism montano. E, proprio come in Valle Maira, in Val Martello si fanno molto bene due cose in particolare: sciare e mangiare. A ospitarmi sono Alexander ed Hermann Mair nel loro albergo di famiglia, il Waldheim. Trent’anni fa è stato proprio Hermann a rilevare la vecchia locanda e a trasformarla, lavorando parallela- mente allo sviluppo di una delle principali attrazioni locali, la pista da fondo e biathlon, di cui sono entrambi Maestri.

A cena conosco Hubert Wegmann, la Guida con la quale mi trastullerò in giro il giorno successivo. Nei nostri piatti c’è la trota affumicata cucinata direttamente da Hermann, che oltre a essere il gestore del Waldheim ne è anche il cuoco. Mi raccontano della passione che in valle nutrono per lo scialpinismo agonistico, che si sublima annualmente il giorno del Trofeo Marmotta, vinto quest’anno da Matteo Eydallin. La perizia con cui il percorso viene preparato è tale che, per minimizzare l’impatto sull’ambiente, ogni materiale viene trasportato a mano, facendo a meno dell’uso dell’elicottero. Il giorno dopo, come mettiamo gli sci, capisco perché gli occhi di Alexander e Hubert avevano quella strana luce parlando delle loro montagne: sopra il Rifugio Corsi, infatti, la vista si apre sulla mole del Cevedale e del Gran Zebrù, circondati da una serie infinita di pendii che sembrano in letargo, in attesa della primavera e delle grandi sciate in quota. Dal Corsi noi puntiamo a nord, verso la Punta Marmotta. L’ambiente è totalmente diverso da quello in cui mi sono mosso negli scorsi giorni: siamo in alto, a oltre 3.000 metri, e qua e là si intuisce la presenza di un ghiacciaio sotto i nostri piedi. Certo, Alto Adige significa Dolomiti, ma oltre a esse c’è ben altro, quell’altro che qualche ora più tardi contemplo con Hubert e Alexander mentre togliamo le pelli da sotto gli sci, affacciati sopra la Val di Pejo. Vicino a dove siamo partiti, mille e qualcosa metri più sotto, ci sarebbe un’altra chicca – se così possiamo definirla – per gli amanti del genere: l’imponente struttura razionalista dell’Hotel Paradiso, costruito nel 1935 dal maestro Gio Ponti come meta di villeggiatura per l’alta società fascista. Dal 1955 è rimasto sempre abbandonato, visitato occasionalmente da studenti di architettura e pochi altri. Nessuno, compresi i proprietari, ha mai pensato di trasformarlo in qualcos’altro, come se fosse un gesto inconscio della valle per rimanere pura il più a lungo possibile da un turismo fatto di grandi numeri e rumore di motori. Quel rumore che in questi giorni ho sentito poche volte. 

Per informazioni sullo scialpinismo in Alto Adige 

www.suedtirol.info/it/esperienze/inverno/sci-alpinismo 


Tea e il Baldo

«Oggi siamo così distanti da quegli esseri umani che vivevano con poco niente. Inutile tentare di tornare a quelle origini. La frenesia di immagini inutili e disturbanti, il sovraccarico di stimoli con cui il consumismo ci ipnotizza, i record da battere, il progresso tecnologico, i video di azioni epiche e inimitabili, gli idoli perfetti, la musica liquida, l’ultimo modello di sportwatch, i social media, i tablet, l’angoscia per il futuro, il peso sempre incombente del passato, il coprifuoco: ogni tanto bisogna chiudere tutte queste cianfrusaglie in un baule col lucchetto e farsi un giro leggeri dietro casa».

Scrive così Andrea Zocca nel racconto Tea e il Baldo, che pubblichiamo su Skialper 136 di giugno-luglio. Un giorno, durante l’ultimo lockdown, Andrea e Tea iniziano a parlare del Monte Baldo e di quanta biodiversità ci sia, di quanti paesaggi diversi si possano trovare in un’area così piccola e vicina a casa. Così ci impiegano poco a pensare di prendere una bicicletta, arrivare ai piedi del Baldo e traversare tutte le creste a piedi. «È tutto un sali e scendi, mai troppo difficile. Ci si affaccia un po’ di qua e un po’ di là, tra il lago e la Valdadige, come quando si cammina su una lunga muraglia, su una linea bianca tesa e scolpita dal vento. Qualche roccia e del pino mugo ci fanno da appigli nelle parti più tecniche, ma la neve è dura e i ramponi mordono bene. Tea si sporge su una cornice e ammira il paesaggio. Sta per tramontare il sole: inizia una nuova magia, le nuvole si infuocano e tutto si tinge di rosa. È diventato palloso e quasi un cliché dire quanto sia emozionante un tramonto. Sarà colpa dei social, sarà che abbiamo paura di essere dimenticati, ma per non fare la fine dei simulacri vuoti che ostentano sensibilità è meglio abbattere quel cliché putrido che riveste la bellezza di ogni tramonto soltanto guardandolo: è bello e non lo dobbiamo dimostrare a nessuno, non dobbiamo vantarci del nostro sentire».

Poi una notte al rifugio invernale del Telegrafo e il rientro a casa tutti sudati. «Tanto quel lucchetto salterà e tutti quei folletti impazziti torneranno ad assalirci, ma almeno abbiamo respirato un attimo, per capire cosa siamo veramente e cosa stiamo diventando. E sorriderci addosso. Credo che nei luoghi selvaggi dove ci si addentra nudi – anzi magari proprio nudi no, con qualche strato di Gore-Tex e piuma – poi si esca pieni di qualcosa. Qualcosa che va oltre il sudore, i calli, le zecche, le vesciche e la disidratazione. Usciamo pieni di risposte ovvie al senso incomprensibile della natura e della vita. Per questo vado in montagna con gli amici!».


SCARPA vede un futuro verde

Comprare meno, per inquinare meno. Che significa anche fare prodotti di qualità, perché la qualità dura nel tempo e riduce la necessità di nuovi acquisti. C’è un sottile equilibrio nell’approccio di SCARPA alla sostenibilità, un approccio che è nel DNA dell’azienda di Asolo, ma che da qualche mese è stato scritto nero su bianco e ha preso forma nel Green Manifesto. Un manifesto che ha tradotto le lettere dell’acronimo aziendale in altrettanti obiettivi verdi. S come sostenibilità, C come cura, A come aria, R come rispetto, P come performance, A come autenticità. «Produciamo scarpe da outdoor e scarponi da scialpinismo e da telemark, la natura ce l’abbiamo dentro e vorremmo lasciare un’impronta positiva, non creare soltanto rifiuti o sfruttare le risorse come l’acqua» esordisce Sandro Parisotto, presidente del marchio, parafrasando la A di aria. Mentre parla, la luce filtra dalle grandi finestre che richiedono l’utilizzo dell’illuminazione artificiale per poche ore e l’aria è piacevolmente fresca ma non fastidiosa. L’ultima ristrutturazione ha trasformato l’headquarter in un esempio di architettura green, con tetti ricoperti di erba per isolare meglio l’edificio e boschi verticali. Sul tetto dello stabilimento dal 1996 i pannelli fotovoltaici coprono circa il 40% del fabbisogno energetico, a breve, con l’ampliamento alla parte del magazzino e la sostituzione dei vecchi specchi, arrivati a fine vita, si dovrebbe passare al 60-70%. Da gennaio 2020 il 100% dellenergia elettrica utilizzata in Italia proviene da fonti rinnovabili certificate. È la S di sostenibilità, che si traduce non solo in numeri e impianti, ma anche in qualcosa di più sottile, impalpabile come l’aria. «Vogliamo che il luogo di lavoro, non solo lo stabilimento, ma anche gli uffici, sia un posto piacevole, dove i collaboratori possano trovarsi a loro agio e crediamo che il percorso della sostenibilità parta da ognuno di noi, per questo abbiamo individuato 16 ambassador, distribuiti in ogni funzione aziendale, per trasmettere a ognuno i migliori comportamenti per rispettare l’ambiente, a partire da una corretta organizzazione della raccolta differenziata» dice Parisotto.

Una missione ambiziosa quella di trasmettere il germe della sostenibilità, sia che si guardi ai collaboratori, sia ai consumatori. «SCARPA è un’azienda di vendita, ma anche di produzione - continua Parisotto - con l’85% delle calzature realizzate in stabilimenti di proprietà, perché è difficile trovare partner con i nostri standard di produzione e, controllando tutto il processo, siamo convinti di poter dare la massima qualità e al tempo stesso aumentare il ciclo di vita dei prodotti, però conta anche la sensibilità dell’utente finale che si traduce in cura del prodotto e attenzione ai piccoli dettagli che possono fare la differenza, a partire dalla risuolatura di alcuni tipi di scarpe. Per questo abbiamo una rete di un centinaio di risuolatori autorizzati in tutta Italia e invitiamo, per qualsiasi problema o dubbio, a contattare il nostro customer service». È la S di sostenibilità, ma anche la C di cura che dalle parti di Asolo non fa rima con obsolescenza programmata. Il fatto che la produzione avvenga per il 60% circa in Italia riduce inoltre gli spostamenti, con un impatto positivo sull’ambiente. Stabilimenti di proprietà, in buona parte in Europa e in Italia, ha qualcosa a che fare anche con la R di rispetto, non solo per la natura, ma anche per le persone, con un controllo diretto e puntuale sulle pratiche per la salute e la sicurezza dei lavoratori.

La sostenibilità è un percorso e non un punto d’arrivo. Questo in SCARPA lo sanno bene, però la nuova Mojito Bio della collezione Urban Outdoor è già un punto fermo. È il primo prodotto di SCARPA certificato 100% biodegradabile. Una volta che Mojito Bio ha raggiunto la fine del suo ciclo di vita, limpatto sullambiente di questa calzatura è praticamente pari a zero e dopo 450 giorni lassorbimento nel terreno arriva già all85%. «L’obiettivo è di aggiungere un prodotto bio e sostenibile all’anno, per ora mi sembra difficile salire troppo nella tecnicità della calzatura con queste scelte, diciamo che a breve vedo possibile un percorso fino al light hiking, per andare oltre sarà importante il contributo dei nostri fornitori, ma anche la ricerca e la collaborazione con enti universitari - aggiunge Parisotto - Più le condizioni diventano estreme, più dobbiamo essere sicuri di poter garantire un ciclo di vita lungo e per arrivare alla produzione abbiamo bisogno di testare intensivamente sul campo le soluzioni nate dalla ricerca». È la P di performance, che fa rima con ricerca, nella quale l’azienda di Asolo investe circa il 5% del fatturato.

Rimarrebbe un’altra lettera per spiegare il percorso che SCARPA sta facendo verso la sostenibilità, la A finale di autenticità. Autenticità che significa essere trasparenti, senza filtri. «Il prossimo passaggio è la certificazione B Corp che dovrebbe diventare effettiva tra fine anno e l’inizio del 2022, è una scelta che abbiamo voluto con tutte le nostre forze per tradurre i comportamenti virtuosi su base volontaria in pratiche codificate e certificate». Sulla homepage della B Corporation si legge: «Le B Corp certificate si distinguono sul mercato da tutte le altre perché, oltre a perseguire il profitto, innovano continuamente per massimizzare il loro impatto positivo verso i dipendenti, le comunità in cui operano, l'ambiente e tutti gli stakeholder. Infatti lazienda B Corp sceglie volontariamente e formalmente di produrre contemporaneamente benefici di carattere sociale e ambientale mentre raggiunge i propri risultati economici». Non ci sono altri calzaturifici italiani del mondo outdoor tra i marchi certificati e anche il mondo dell’abbigliamento con ramificazioni outdoor è poco rappresentato. «Lo step successivo potrebbe essere la modifica dello statuto aziendale in società Benefit, dedita non solo alla creazione di profitto, ma anche di benefici per il territorio, l’ambiente e il sociale» aggiunge Parisotto.

In fin dei conti scarpe che durano nel tempo, per un marchio, significa anche vendere e produrre di meno. Un obiettivo non facilmente conciliabile con le normali dinamiche aziendali. «È vero, ma esistono anche mercati dove SCARPA non ha ancora una quota di mercato rilevante e i margini di crescita posso avvenire lì, ma sempre con l’obiettivo di vendere prodotti di qualità e che durano nel tempo e poi la qualità e la necessità di controllare tutto il processo produttivo non si conciliano con crescite troppo veloci» conclude Parisotto. È la filosofia SCARPA, da oltre 80 anni.


Dobro došli

«Molte delle nostre storie nascono anche grazie a una piccola tendina gialla, in cui dormiamo presto la sera e dove ci svegliamo di buon’ora in posti magici. Proviamo a spostarci a piedi quando i passi di montagna sono ancora chiusi e camminiamo, oltre che per il semplice andare, soprattutto per stare bene e conoscere culture. Puntiamo a spazi dove il tempo si allunga e le memorie sono diverse, le relazioni umane e i segreti si sanno ancora mantenere. In città abbiamo regole e binari ben definiti a cui dobbiamo adeguare il nostro stile di vita, ma in montagna possiamo esprimerci, rilassarci e appena si arriva in altura scatta quella originalità che contraddistingue ciascuno di noi. Abbiamo piccoli obiettivi di giornata e il solo vero scopo di raccogliere storie di minoranze scovandole nella familiarità che si prova tra le mura domestiche di qualcuno che hai appena conosciuto».

© altopiani.org

Scrivono così Giacomo Frison e Glorija Blazinšek in Dobro došli, su Skialper 136 di giugno-luglio. Nel reportage che pubblichiamo scrivono di incontri e di ospitalità tra Carpazi, Balcani e Caucaso. Spesso in case semplici ma dignitose, dove sono le donne le vere padrone. «Di solito è l’uomo che rompe il ghiaccio, cerca di filtrare lo sconosciuto da quella che è la sua casa. Non è sempre facile entrare in una proprietà privata, alle volte gli interrogatori durano decine di minuti sotto la pioggia o sotto il sole rovente, si viene ispezionati alla luce di una torcia, ti chiedono da dove arrivi e per dove hai intenzione di proseguire; in altre occasioni ci sono dei cani da guardia particolarmente aggressivi. Ma poi, quando tutto si calma, e ti viene fatto quel cenno di approvazione per entrare, quando passi la soglia e vieni accolto, è lei, la donna, che premurosa come se ti conoscesse da sempre si prende cura di te. Lungo le linee a zig-zag di Altripiani, seguendo monti e confini, lontano dalla città, è sempre andata così. Le donne sono le persone che il più delle volte ti fanno sentire a casa anche se ti trovi molto distante dai tuoi cari».

Si passa dalla genuinità della contadina Mayvala, in Georgia, al polacco Jozef che ha una vecchia radio che accende solo per ascoltare le previsioni meteo, oppure a Dana e Boro che vivono ancora con Tito, padre della Jugoslavia, che li guarda severo dalle pareti della cascina. Sui monti dell’Albania i giovani Pavlin e Zef accolgono i turisti nella loro guesthouse e nel ristoro tra i boschi, mentre non lontano sorgono villaggi turistici un po’ kitsch ad uso di facoltosi turisti arabi. Solo andando a piedi si possono scoprire i luoghi e le persone. E magari anche la natura selvaggia del parco del Durmitor, in Montenegro. 

© altopiani.org

«Abbiamo piantato la tendina in ottima posizione, poco distante da un lago glaciale e alcune lingue di neve che si alternano a una vegetazione ancora in lenta ripresa dopo la stagione più fredda. Stiamo godendo di una speciale luce del tramonto, dopo una giornata di vento forte e nuvole minacciose durante la quale spesso abbiamo calpestato neve sprofondando fino alle ginocchia. Sopra una certa quota è difficile andare a esplorare, infatti non c’è un’anima viva in giro, solo un camoscio solitario che nell’indifferenza più totale ha continuato a mangiare ramoscelli di graminacee e foglie di arbusti. In questo paesaggio sconfinato la luce si fa più debole e si avvicina per noi l’ora più difficile, quella tra le sette e le otto di sera. Vorresti dormire, appisolarti, ma al tempo stesso guardare fuori curioso». 

© altopiani.org

Marco De Gasperi 2.0

«Ho avuto l’onore di sfidare i due più grandi runner della natura degli ultimi decenni, Kilian Jornet e Jonathan Wyatt e, se guardo indietro, i due episodi chiave della nostra rivalità sportiva sono stati entrambi al monte Kinabalu, in Malesia, a pochi chilometri di distanza uno dall’altro. C’è una legge del contrappasso: nel 1999, ai Mondiali di corsa in montagna, abbiamo duellato tutta la gara con Jonathan, poi lui, su una salita, è partito e non sono riuscito a tenere il ritmo. Dopo un po’ l’ho visto accasciato a terra, a pagare quello sforzo, e mi sono trovato al collo una medaglia d’oro insperata. Nel 2011 ho patito una delle sconfitte più brucianti: avevo tre minuti di vantaggio su Kilian e davanti a me una discesa per gestire il vantaggio; ancora oggi non riesco a capacitarmi di come abbia potuto raggiungermi e superarmi prima del traguardo».

A parlare è Marco De Gasperi, intervistato dal direttore responsabile di Skialper, Claudio Primavesi, sul numero 136 della rivista, in edicola ora. Un anno ricco di novità quello della leggenda della corsa in montagna. Da carabiniere, con il tanto agognato posto fisso, a manager di uno dei marchi più famosi del mondo outdoor, SCARPA. E in dodici mesi difficili ha corso tanto, ma in un modo diverso da prima. Dal suo arrivo ad Asolo, ad aprile 2020, nel pieno di una pandemia, a maggio 2021, sono arrivate nei negozi ben quattro scarpe nuove. Così quella con Marco è stata una chiacchierata a 360 gradi, dalle scarpe da trail all’ultra-running. Ecco un paio di anticipazioni.

Come sarà la scarpa del futuro? 

«Conta il cushioning, conta il rebound, ma credo che nel mondo del trail non si possa prescindere dalla precisione, non tanto o solo in punta, ma all’altezza del collo del piede, indipendentemente dalla filosofia che si utilizza per raggiungere il risultato».

Cosa cambia tra corto e veloce e lunghe distanze, dal punto di vista di chi arriva dalla corsa in montagna e dalle skyrace?

«Ho grande rispetto per i più forti atleti ultra anche se a volte si è portati a credere che le prestazioni non siano così eccezionali e che allungando le distanze si possano mescolare le carte. Non è così: prendi l’UTMB, ci sono una ventina di atleti top eppure ne arrivano al traguardo sempre pochi, non perché non siano preparati, ma perché le variabili che rendono difficile la lettura della gara sono tantissime e gli outsider che si mettono in mostra non lo fanno per demerito dei big. Cambia l’approccio all’allenamento, la crisi non la puoi eliminare, ma devi allenarti a resistere, a superarla nel più breve tempo possibile. Quello che rende tutto più difficile è che è ancora una disciplina in fase di studio, a livello di conoscenze siamo come negli anni Ottanta per la maratona».

© Federico Ravassard

PrimAscesa, prove generali di alpinismo post apocalittico

«Per una civiltà fortemente urbanizzata la natura è, nel migliore dei casi, una gita nel weekend. Una cosa da Linea Verde, da guardare nei documentari. Qualcosa che non ci riguarda da vicino, così come non ci riguardano (apparentemente) da vicino gli effetti devastanti che hanno su di essa anni di abitudini globali di consumo non sostenibile. Ok, è triste che molte specie vegetali e animali si stiano estinguendo, ma in fondo chi le aveva mai viste?».

Comincia così l’articolo PrimAscesa, prove generali di alpinismo post apocalittico di Elisa Bessega su Skialper 136 di giugno-luglio. È proprio attraverso un documentario che Simon e Juan, alpinisti trentini da sempre alla ricerca di avventure fuori dal comune, si propongono di farci sentire abitanti, e dunque responsabili, del pianeta che dovremmo chiamare casa. E non lo fanno esaltando la bellezza idilliaca di qualche vallata incontaminata lontana centinaia di chilometri da qui, né denunciando gli effetti irreversibili dello scioglimento delle calotte polari. Al contrario, ci obbligano brutalmente a fare i conti con qualcosa di molto più familiare, ovvero tutto ciò che, una volta buttato nel cestino, pensavamo fosse scomparso. Benvenuti in PrimAscesa: la prima ascesa invernale e discesa su sci di una discarica cittadina.

«Nessuno sa cosa incontreranno durante la salita, non sono stati fatti sopralluoghi prima delle riprese né è stato concordato alcun copione. Nessuna relazione a cui fare riferimento, nessun video online che anticipi le condizioni del pendio: in un momento storico in cui mappe, GPS, forum e social ci permettono di attingere a un vastissimo bacino di informazioni prima di ogni gita, la sensazione paradossale è quella di ritrovarci per la prima volta ad esplorare sul serio un territorio vergine». PrimAscesa è un mediometraggio diretto da Leonardo Panizza e prodotto da Linnea Marzagora recentemente proiettato nel corso della sessantanovesima edizione del Trento Film Festival e premiato come miglior film della sezione Orizzonti Vicini.


Il paradiso è per pochi

«L’inizio di luglio è uno dei periodi più tranquilli e bui dell’anno a El Chaltén. Gli affollati mesi estivi sono un lontano ricordo e gli inverni freddi e tempestosi della Patagonia meridionale, anno dopo anno, hanno fatto da humus per un’improbabile cultura dello sci tra le guglie di granito e l’arida steppa. Una cultura forgiata dal clima spietato della regione e dalla topografia, sfidando gli standard dell’industria dello sci e plasmando gli sciatori a partire da un improvvisato gruppo di semplici local con diverse storie di montagna alle spalle. In effetti si tratta di una community così poco conosciuta che molti dei non sciatori di El Chaltén sanno a malapena che esiste».

© Matthew Tufts

E di quella community così piccola (si dice una trentina di sciatori, in buona parte avvicinatisi alla montagna invernale senza avere mai preso una funivia o una seggiovia) ora fa parte anche il giornalista statunitense Matthew Tufts, che ha passato un intero inverno (che naturalmente corrisponde alla nostra estate) tra i venti burrascosi della Patagonia. Su Skialper 136 di giugno-luglio pubblichiamo in esclusiva per l’Italia un reportage di 20 pagine sull’inverno patagonico. Venti pagine per parlare di sci e pelli ai piedi di alcune delle montagne più fotografate al mondo, dal Cerro Torre al Fitz Roy. Venti pagine per spiegare un inverno fatto di avvicinamenti interminabili in foreste fittissime e di lunghe attese della finestra meteo giusta. «Il tempo gioca a uno strano gioco in Patagonia. Passano giorni e poi settimane all’insegna della tempesta. Questo, tuttavia, dà alla cultura montana argentina la possibilità di fiorire, celebrando la vita all’ombra di un anfiteatro alpino, banchettando con asados e sognando obiettivi futuri. Entrambi sono cotti a fuoco lento e marinati con la pazienza che solo la Patagonia può infondere. L’esperienza è innaffiata da un buon Malbec e dal fischio del vento, guarnita con un’alzata di spalle verso le opportunità mancate, deluse da tempeste furiose».

© Matthew Tufts

Poi però quando arriva l’occasione giusta, dimentichi le lunghe attese (che sono la migliore scusa per conoscere i local). «’In Patagonia devi essere paziente’ mi aveva detto Lipshitz diverse settimane prima. «È difficile aspettare, non è per tutti. Ma una volta che provi a sciare qui, quando trovi le condizioni giuste, non c’è niente di paragonabile». È l’incertezza che ti fa desistere, ma se hai il fegato di scommettere e di stare al gioco… A El Chaltén la questione non è ‘com’è’ o ‘come sarà probabilmente’, ma ‘come può essere bello’ dicono i local. Ed è un ottimo motivo per mettere il proprio destino in balia dei venti del Sud». Come ha fatto Matthew Tufts. 

© Matthew Tufts

La formula del divertimento di tipo 2

«Non l’avrei mai fatto se non qui, a casa mia, pandemia o meno». Ha detto così Martina Valmassoi parlando del record del mondo di dislivello in 24 ore con gli sci che ha fatto registrare a fine marzo in Cadore. 17.645 metri contro i 16.777 di Rea Kolbl, un record registrato solo qualche giorno prima. Eppure il primato di Martina è spontaneo come lei. Ha organizzato tutto da sola, messo insieme e gestito la sua crew, sentito il comune per capire se in zona rossa fosse possibile tutto questo. È nato all’ultimo minuto. «Poche strategie, l’obiettivo che si pone è di fare un giro all’ora e completarne 24 - scrive Smaranda Chifu su Skialper 136 di giugno-luglio - L’unica cosa che ha subito chiara, perché così le ha consigliato la trail runner brasiliana Fernanda Maciel, è di iniziare subito con la notte di modo da togliersela all’inizio». 

Martina non avevo praticamente sciato in pista quest’anno e nessun allenamento specifico, ha preso una decisione a febbraio e soltanto allora ho messo in cantiere due settimane di carico con circa 30.000 metri di dislivello in pista. Alla fine ne sono uscite 24 ore di divertimento due. «Ci sono tre tipi di divertimento. Il divertimento di tipo uno è quello che ti diverti mentre lo fai; il tipo due mentre lo fai non ti diverti affatto ma a posteriori assume un altro sapore e ti viene voglia di farlo ancora; e poi c’è il divertimento di tipo tre, che non ti diverti mai, nemmeno a posteriori. ‘Sicuramente questo è di tipo due’ risponde Martina ‘sai a un certo punto, mentre risalivo il muro, pensavo di aver sbagliato strada, mica me lo ricordavo così lungo, però alla fine ci sono arrivata col sorriso, ero proprio felice’»


Chiedimi se sono felice

«L’idea è nata praticamente insieme: Matteo vedeva, dalla finestra della suo nuova casa in affitto, a San Vito di Cadore, il Pelmo a destra e l’Antelao a sinistra, entrambi gli facevano l’occhiolino; io stavo cullando il sogno di un’avventura lunga con gli sci. Per un inverno intero ci siamo confrontati, abbiamo perfezionato il percorso, la strategia. Ognuno preso dai suoi impegni, ci siamo allenati meglio che potevamo. Ci siamo visti poco negli ultimi mesi, non abbiamo mai sciato insieme la neve di questa stagione. Eppure ci sentivamo tutti i giorni per motivarci e stare focalizzati sul progetto, per condividere i dubbi e la carica che avevamo dentro».

Quale idea? Concatenare quattro vette simbolo delle Dolomiti come Civetta, Pelmo, Antelao e Tofana di Rozes partendo da casa e spostandosi solo con gli sci o a piedi. Quello che hanno fatto Giovanni Zaccaria e Matteo Furlan. 56 ore, circa 9.000 metri di dislivello e 85 chilometri di sviluppo di cui parliamo su Skialper 136 di giugno-luglio. Ma il cronometro è stata solo l’ultima preoccupazione.

«Non abbiamo fatto le corse, il cronometro non è uno strumento che ci appartiene. Ci siamo messi in gioco, sì, dal primo all’ultimo momento. Abbiamo tracciato una curva a modo nostro, unito dei punti che per noi significavano qualcosa, prevedendo non solo neve brutta, ma anche fango e polvere. Ora, da ogni punto delle Dolomiti, guarderemo queste quattro cime e l’aria che le separa con occhi diversi. È stato strano salire le montagne senza dare importanza all’apice della vetta. Perché il nostro giro, come tutto ciò che scorre, andava avanti lo stesso. Non c’era tempo per sedersi sugli allori, sentirsi arrivati. Esisteva solo il presente, da assorbire con gli occhi e col cuore, lì in piedi di fianco a questa o quella croce. Fermi per un istante privo di gratificazione, come adesso che è tutto finito». 

Una fatica per scoprire la differenza tra contentezza e felicità. «È bello sentirsi soddisfatti e contenti, ma l’appagamento dura poco, il tempo di una storia su Instagram, e già bisogna pensare al giorno seguente. La felicità è un’altra cosa, dice il mio tumulto interiore mentre apro gli scarponi e cerco le chiavi dell’auto. Ha a che fare con il sogno, con l’ideazione, la sperimentazione e la condivisione vera. La felicità costa fatica ed ha bisogno dei suoi tempi».


Pionieri dietro casa

«L’Altavia numero 1 tocca quasi tutti i luoghi più simbolici delle Dolomiti, dal Lago di Braies alla città di Belluno. Forse, più che un concatenamento di sentieri, è un simbolo. Una metafora di libertà, un modo per le persone di riuscire a toccare l’indipendenza con uno zaino in spalla, tanto pesante quanto lo sarà la fame e la propria necessità di agio». 

Comincia così l’articolo di Andrea Galliano che pubblichiamo su Skialper 136 di giugno-luglio, in edicola a partire da questi giorni. Un articolo che mostra un’altavia in una veste completamente diversa, invernale. E con tutti i rifugi chiusi. «Quest’inverno tra i miei pensieri è riaffiorato un vecchio sogno: percorrerla nella stagione meno confortevole dell’anno. L’idea è molto semplice quanto per me elettrizzante: coprire tutte le tappe sci ai piedi, dormendo in bivacchi di fortuna, malghe o altri ricoveri che potrei trovare per strada».

Ecco così che un progetto a lungo nel cassetto diventa realtà, con tutte le sue difficoltà. «Se la giornata è andata bene, la notte al contrario: una delle più lunghe della nostra vita. Abbiamo scavato una truna con la stessa meticolosità di quando si fa un favore a una persona che sta antipatica». Un progetto che sa di libertà, nel cuore di uno dei momenti più difficili della nostra esistenza. «Siamo in un bar con una birra sul tavolo aspettando qualcuno che ci riporti a casa, la mascherina è tornata sul viso. I giorni trascorsi ci hanno fatto dimenticare il Coronavirus. Probabilmente abbiamo sbagliato, anzi sicuramente: non è dimenticandosi che si risolvono i problemi, ma siamo riusciti a sentirci realmente liberi».

© Andrea Galliano