Il Sentiero delle Orobie di Mario Poletti
«Non scrivere se pensi di conoscere già il senso della storia prima di raccontare - in quel caso diventa insegnante. Non metterti in testa che salverai il mondo, non tentare di cambiare il mondo. È meglio se, mentre racconti la storia di cui ti stai occupando, cambia te. Vai alla scoperta di te stesso e del mondo, tutte e due le cose insieme, mentre racconti»
10 Rules of Documentary Filmmaking, Victor Kossakowsky
Ci sono storie che quando cominci a occupartene, mentre ti stai documentando e informando dalla viva voce dei protagonisti per poterle raccontare, capisci che sono molto di più di quello che immaginavi. Hai la sensazione di conoscerla bene la vicenda, i protagonisti e i luoghi, e quindi sei quasi certo di sapere tutto quanto è necessario per scriverne e per raccontare. Poi succede che, mentre stai intervistando i protagonisti, mentre cerchi di mettere la storia in prospettiva e di ricostruire i fatti sentendo gli stessi episodi raccontati tante e tante volte da persone diverse, ti accorgi che quello che sai tu di quella storia, quello che hai sentito dire o che hai letto, non è che un pezzettino minuscolo. È la classica punta dell’iceberg. Tutto il resto, tutto quello di cui varrebbe la pena raccontare, rimane seminascosto sotto il pelo dell’acqua. La storia di Mario Poletti e del suo record di percorrenza del Sentiero delle Orobie, è una di quelle storie. Una di quelle che ti fanno venire voglia di occupartene ancora e di lavorarci sopra, perché hanno qualcosa da dirci che non è ancora venuto fuori.
‘IL’ MARIO (come si dice a Bergamo)
Il Mario Poletti di cui racconteremo adesso, per cominciare, non è il Mario che tutti conosciamo, il product manager e l’anima di Scott Running Italia: preciso, caparbio, entusiasta, quel Mario per un attimo lo mettiamo da parte. Il Mario di cui ci vogliamo occupare ora è un ragazzino di Clusone, in Valle Seriana. Siamo negli anni ’80. È un fondista promettente, magrissimo, tra i sei e i diciotto anni lo sci di fondo è il suo mondo e il suo sogno sportivo. Nelle categorie giovanili è quasi sempre tra i migliori, è determinato e motivato, entusiasta. Forte. Poi arriva il salto alla categoria Juniores. Il passaggio è difficile. Per allenarsi sulla neve Mario deve fare avanti e indietro da Clusone fino a Schilpario dopo la scuola, è impegnativo, i suoi coetanei nei gruppi sportivi invece possono finalmente allenarsi a tempo pieno, come veri professionisti. Mario è costretto a fare i conti con la realtà: ha finito la scuola e ha cominciato a lavorare, conciliare lavoro e sci di fondo ad alto livello è difficile. Diventare un vincente è impossibile. È in questo momento che la corsa a piedi in montagna, da fase di preparazione estiva per lo sci di fondo si trasforma in qualcosa sempre più grande nella sua vita. «Io sono sempre stato un competitivo, sin da piccolo. Gare, gare, gare, per me gareggiare era tutto. Mi sono sempre allenato regolarmente anche nella corsa in montagna, non avevo l’esperienza e la brillantezza che ti regala la pista, ma in quell’epoca, in allenamento, ho fatto alcuni record personali che poi non sono più riuscito a battere, nemmeno nel momento di massima forma nel 2005. Tipo Rovetta-Blom in 25’03, avevo quindici anni». Mario è una persona molto concreta, quando dice 25’03” o quando ti dice il tempo sulla maratona non sta dicendo soltanto un numero, non butta lì delle cifre a caso: sta fondando un mondo. Sta stabilendo un ordine di grandezza preciso e comprensibile, fornisce un dato fondamentale per mettere in prospettiva le sue qualità di un corridore e in definitiva anche di un uomo. Mario bada ai numeri, prima di tutto. Il dato cronometrico che ci riporta è piazzato dentro alla frase al posto degli aggettivi, è chiaro che per lui i tempi e i record sono i pilastri portanti del suo universo di corridore, il resto è conversazione. Forse è per questo che la corsa su strada occupa una parentesi importante nella sua carriera di corridore, tra il ’95 e il ’99 corre diciassette maratone fino ad arrivare a un personal best di 2h19’. Poi lo skyrunning torna a fare capolino nei suoi pensieri.
CORRERE FINO A CHE IL SENTIERO FINISCE
Non si può dire che Mario ‘torna’ alla corsa in montagna. Forse, più correttamente, si può dire che, dopo essersi accertato delle sue possibilità su strada ed essersi confrontato con i migliori e soprattutto con se stesso e con il cronometro, senza compromessi, intravede la possibilità di esportare le sue qualità di velocità e di potenza anche in montagna. Non è un cambiamento quello di Mario in effetti, piuttosto un ritorno. «Da piccolo con il CAI mi portavano in campeggio in montagna per una settimana e sui sentieri c’erano tutti quelle targhette segnavia bianche e rosse con dei tempi indicati, io mi chiedevo dove fossero quei posti che mi sembravano lontanissimi, irraggiungibili e se veramente i tempi necessari per raggiungerli fossero quelli indicati sui cartelli. Chissà se io, magari, potevo correre più veloce? Leggevo sulle targhette quattro ore o sette ore e immaginavo che quei luoghi fossero chissà dove, lontani e appartenessero a un mondo diverso, all’altro capo delle Orobie. All’inizio non immaginavo di poter andare fin là di corsa. Fino al momento in cui mi sono reso conto che erano luoghi fin dove avrei potuto correre e che i tempi indicati su quelle targhette non erano che un invito ad andare più veloce. Al record delle Orobie, in fondo, ci ho sempre pensato. Sin da piccolo».
SCOMMESSA AL BAR
Sono gli anni dei record di salita, delle skyrace e della seconda generazione di atleti che si affacciano alla corsa in montagna di lunga distanza. Le gare di trail running sono ancora lontane dal diventare il fenomeno di massa che sono oggi ma lo skyrunning sta evolvendo in qualcosa di diverso, di più vicino al praticante comune e alla combinazione di alpinismo e velocità. L’universo road running si sta avvicinando all’universo montagna, le maratone e le lunghe distanze non fanno più la stessa paura ai corridori comuni. I quarantadue chilometri non sono un tabù, anche nell’immaginario collettivo. Il 1995, per dare una collocazione temporale al momento storico, è l’anno del capolavoro di Fabio Meraldi al Monte Bianco, con lo stratosferico tempo di 6h45’ per superare i 49,6 km e 3.600 m D+ della via Ratti dal Rifugio Gonella fino alla cima e ritorno in paese a Courmayeur. Mario Poletti nello skyrunning nei primi anni del 2000 vince tutto quello che c’è da vincere. Primo al Giir di Mont nel ’99; primo al Trofeo Kima, ancora al Giir di Mont, alla Monza-Resegone e al Sentiero di Ferro nel 2000; campione italiano di Skyrunning al Sentiero 4 luglio nel 2003, fino alla magica stagione 2004 dove, oltre al resto, fa sua la leggendaria Zegama-Aitzkorri Marathon con il record del percorso di 4h06’00”. Mario è al culmine della sua carriera sportiva e sta per diventare papà, qualcosa nella sua vita è sul punto di cambiare. «Avevo pensato che era il momento giusto per tentare il record, poi forse non ci sarei più riuscito e così avevo proposto ai miei amici della bergamasca, ognuno sul tratto di sentiero che rappresentava il proprio terreno di allenamento, di accompagnarmi». Il piano è semplice ma efficace: correre tutto il Sentiero delle Orobie e abbattere il record di Pasini che risale al 1982. Si mette a provare le varie sezioni del sentiero e raccoglie tutte le informazioni necessarie. Lavora al suo progetto (oltre a lavorare anche normalmente, come tutti, almeno otto ore al giorno) provando pezzo per pezzo il sentiero, si rende subito conto che scendere sotto le 9h25’ del precedente record non è cosa facile. Forse il progetto sarebbe rimasto in stand-by per un po’, la nascita del figlio era imminente. Succede un giorno che Mario incontra in un bar di Clusone Giovanni Bettineschi, patron di Promoeventi, l’organizzatore locale della tappa del Giro d’Italia in Valle Seriana. «Giovanni mi chiese che progetti o che gare avevo in ballo e io dissi che, oltre a diventare papà, mi stavo preparando per tentare di stabilire il record del Sentiero delle Orobie. Lui si entusiasmò subito e mi disse che mi avrebbe messo a disposizione un elicottero per filmare il mio tentativo e la sua struttura organizzativa per raccontarlo. Fui preso un po’ in contropiede, rimasi sorpreso ed entusiasta». Il progetto in grande stile nacque così, su due piedi, al bar. Carlo Brena, giornalista e collaboratore di Promoeventi, fu coinvolto e gli fu affidato il compito di raccontare il tentativo attraverso il suo ufficio stampa, fu prodotto anche un video che oggi si può vedere integralmente in rete. «Il mio tentativo di record passò da esperimento personale a evento, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso. Sentivo di non potere più tirarmi indietro o fallire, a quel punto. La comunicazione attorno all’evento era una responsabilità supplementare».
IL SENTIERO DELLE OROBIE
Il Sentiero delle Orobie nasce da una intuizione del CAI e in particolare del suo presidente Carlo Ghezzi già negli anni ’50 e si concretizza poi grazie soprattutto al lavoro di Gianbattista Cortinovis alla metà degli anni ’70. È un percorso escursionistico che unisce tra loro, in un circuito di 84 chilometri con un dislivello di oltre 5.000 m D+, Valcanale con il Passo della Presolana. Il percorso collega tra loro sette rifugi del CAI di Bergamo e idealmente, in un abbraccio semicircolare, tutte le Orobie. I bergamaschi conoscono bene le loro montagne, il sentiero e in parte anche la storia del record, che è avvolta però in un alone di leggenda. Mario si trova alle prese con gli ultimi preparativi della sua sfida proprio nei giorni in cui vene al mondo il suo primogenito. Deve ancora provare alcuni tratti di percorso e tra le varie difficoltà che deve affrontare e il lavoro, c’è anche quella di reperire informazioni certe rispetto ai tempi di passaggio, non sempre parziali cronometrici e realtà corrispondono. «Avevo i tempi dei passaggi di Renato Pasini ma a volte mi sembravano molto tirati e altre abbastanza lenti. Certo era che per mettere insieme tutti i pezzi del puzzle e correre in meno di 9h30’ bisognava andare davvero forte e non lasciare niente al caso, non sbagliare nulla. Inoltre pochi giorni prima del mio tentativo, dopo che su L’Eco di Bergamo era stato annunciato grazie al lavoro di Promoeventi il mio tentativo di record, ricevo una telefonata da parte di un altro runner bergmasco, Battista Marchesi, che mi fa notare che il record del Sentiero delle Orobie non è di Pasini ma suo, con 9h06’. Resto di stucco».
IL TENTATIVO
«L’idea di avere un cronometrista federale a ufficializzare la prova - a parlare è Carlo Brena, addetto stampa dell’evento - era stata mia. Serviva avere un riferimento ufficiale e così ci organizzammo con la federazione nazionale per averne uno». Il racconto del tentativo da parte di Carlo offre un’idea della tensione e delle grandi aspettative che c’erano attorno all’evento. È il 7 agosto del 2005, il classico mese di ferie degli italiani è appena incominciato e quindi sparsa sul percorso, nei rifugi e in partenza, nei punti più panoramici dei sentieri, c’è un sacco di gente in attesa del passaggio di Mario. Escursionisti, uomini, donne, bambini, rifugisti, persone che sono partite il giorno prima o nella notte per testimoniare il passaggio e l’impresa. Per battere le mani per qualche minuto e per poter dire: io c’ero. «Alla partenza a Valcanale erano quasi le sei del mattino - continua Carlo Brena - si era radunata una piccola folla e io e Giovanni Bettineschi volevamo realizzare un’intervista filmata prima della partenza, quando il cronometrista ufficiale annunciò a noi e a Mario che alle 6:00 in punto avrebbe fatto scattare il cronometro, come gli avevano detto di fare dalla Federazione. Tentammo inutilmente di spiegargli che era un tentativo di record e non una gara e che quindi in fondo si poteva partire quando volevamo noi, ma il giudice fu irremovibile. A noi ‘girarono’ abbastanza e a Mario toccò partire in fretta e furia, niente interviste, niente video, poche foto. Non ci restò che seguirlo per tutto il giorno con l’elicottero facendoci trasportare da un rifugio all’altro. Mario ci aveva dato una tabella di marcia con i passaggi che rispettava al minuto».
CORRERE, INSIEME
Uno dei fattori più straordinari della cavalcata di Mario Poletti sul sentiero delle Orobie, forse uno dei più sottovalutati, fu il concetto di correre ‘insieme’. Insieme a quelli che erano i suoi compagni di allenamento e in definitiva anche i suoi avversari nel corso di tante gare per tutta la carriera in giro sulle Alpi e per il mondo, tanto per cominciare. Insieme agli escursionisti e ai camminatori più lenti sul percorso che lo aspettavano, lo seguivano con lo sguardo e lo applaudivano. Insieme a tutti quelli che fino a pochi giorni prima non sapevano nemmeno dell’esistenza del Sentiero delle Orobie ma che sapevano del tentativo di record perché l’avevano letto sul giornale. Tutti, nessuno escluso, correvano idealmente con Mario. Curioso no? Gli avversari che diventano supporter, Il CAI e i suoi rifugisti che diventano partner di un atleta alle prese con il superamento dei propri limiti contro il tempo. Questo sentirsi uniti da parte di tutti gli appassionati della montagna ci offre un’idea di quanto il record di Mario sia diventato in realtà un urlo di gioia collettiva di tutti gli appassionati di running e di montagna bergamaschi. «L’organizzazione delle staffette era stata abbastanza semplice - dice Mario -: avevo chiesto ai miei amici con qualche telefonata di assistermi lungo il percorso. Il compito era quello di aiutarmi con le traiettorie soprattutto in discesa, passarmi da bere e qualcosa da mangiare ogni tanto, dato che io correvo da un rifugio all’altro in scarpe da running, calzoncini e maglietta, leggero e senza zaino. E poi soprattutto nell’ultimo tratto, quello della Ferrata della Porta alla Presolana che è tecnicamente il più impegnativo, dovevano tenermi d’occhio e ripigliarmi per le orecchie in caso di errore o di svarione, dato che procedevo slegato. Per fortuna tutto andò bene». Quello che forse ha segnato il passaggio tra l’epoca delle skyrace e dei trail è stato proprio questo concetto: l’idea di passare dall’indipendenza all’autonomia. Correre indipendenti sulle montagne implica il concetto di usufruire della assistenza in gara offerta dagli organizzatori, si è indipendenti tra un punto di controllo o di ristoro e un altro e tra corridori ma questo è più simile a quello che avviene alle gare su strada che non in montagna. Nel trail running invece spetta al concorrente fare fronte alla complessità del percorso e alle variazioni meteo e gestirsi, in autosufficienza. Serve essere solidali con gli altri. Nel tentativo di Mario si può dire che abbia corso in una specie di condizione speciale e bellissima intermedia tra le due possibilità, dove ad amplificare le sue qualità sportive e la sua tenacia si sono alternati gli amici e gli appassionati in attesa sul percorso. In questo senso il suo record è molto vicino al concetto atletico e sportivo della skyrace, ma anche alla solidarietà tra concorrenti tipica del trail e in ultima analisi anche dell’alpinismo. In questo senso Mario e il suo record, insieme agli organizzatori e al CAI, hanno precorso ampiamente i tempi, indicando una direzione da seguire.
TRIONFO AL PASSO DELLA PRESOLANA
Superata la crisi dopo il Rifugio Curò, tra il Valico della Manina e il Rifugio Albani e dopo il Sentiero della Porta, dopo 8h23’ di corsa ininterrotta Mario Poletti è in Cima al Visolo. Da quel punto è tutta discesa e in una picchiata velocissima, scortato tra gli altri da un giovanissimo Marco Zanchi, arriva al Passo della Presolana in 8h52’31’’, abbattendo nettamente il muro delle nove ore che si era idealmente e segretamente prefissato. Al Passo, dove è stato preparato un arrivo degno del Giro d’Italia, ad aspettarlo ci sono centinaia di persone che lo acclamano e lo applaudono, tra questi anche Renato Pasini, l’ex-detentore del record. I due si stringono la mano e si abbracciano, avviene il virtuale passaggio di consegne. Il cronometrista ufficiale certifica il tempo e una pietra angolare del trail running e dello skyrunning Italiano viene fissata. Il record è lì da battere, a tutt’oggi, per chi ci vuole provare. Non è facile. ma in fondo i record sono fatti apposta per essere battuti, prima o poi succederà.
DAL RECORD ALL’OROBIE ULTRA TRAIL
Dopo il record di Mario Poletti il Sentiero delle Orobie ha conosciuto alcuni anni di gloria, sul percorso sono stati organizzati nel 2007 i Campionati Mondiali di Skyrunning, ai quali ha preso parte anche un certo Kilian Jornet. Su un percorso a staffetta suddiviso in tre tronconi è stato possibile verificare l’assoluto valore della sua performance solitaria, paragonabile a quella degli atleti partecipanti in staffetta. Poi dopo, nonostante gli sforzi organizzativi e promozionali, anche per via della virata del gradimento dei runner e degli organizzatori verso le gare trail, la skyrace sul Sentiero delle Orobie e andata a sparire. Il Sentiero delle Orobie è ora tornato a essere terreno propizio per l’escursionismo e per la corsa in autonomia e l’Orobie Ultra Trail è diventata la gara di riferimento della bergamasca e non solo, si tratta in effetti di una vera e propria kermesse internazionale. «Abbiamo deciso di scegliere un percorso diverso da quello del Sentiero delle Orobie, coprendone solo alcuni tratti - a parlare è Paolo Cattaneo, responsabile tecnico della gara, organizzata da Spiagames Outdoor Agency - per dare un’interpretazione diversa del territorio. Il percorso è tecnico e impegnativo, si toccano Clusone e Carona, due località in cima alla Valle Seriana e Brembana ed entrambi i tracciati arrivano a Bergamo Alta. È una gara che coinvolge tutta la provincia e che porta idealmente le Orobie nel cuore della città. C’è una forte connessione del territorio con la gara, che si è radicata con forza. Abbiamo molti partecipanti che non hanno mai corso nemmeno una maratona, non sono runner o trail-runner ma appassionati delle Orobie che hanno voglia di mettersi alla prova e che vogliono condividere con un gruppo di amici il piacere della corsa e di tutta la preparazione necessaria».
Forse il più bel frutto dell’impresa sportiva di Mario Poletti è proprio questo: l’essere riuscito con il suo entusiasmo e la sua passione per la montagna oltre che per la corsa a fare amare le Orobie e i suoi sentieri ai bergamaschi. Nella scia del suo record ci sono centinaia di corridori amatoriali, alcuni grandi del trail running internazionale come Oliviero Bosatelli e Marco Zanchi e tanti gruppi di appassionati volontari che, coordinati da Spiagames Outdoor Agency, ogni anno si mettono con entusiasmo al lavoro per fare da supporto ai concorrenti della Orobie Ultra Trail. Radicare una gara vuole dire in definitiva farla crescere a partire da un seme. Quel seme lì, sulle Orobie, si chiama senza dubbio Mario Poletti. Qualcuno forse negli anni a venire - non senza fatica - potrà portargli via il record del Sentiero delle Orobie, ma nessuno mai potrà portargli via il merito di essere genitore di un movimento così grande. E per questo noi, a Mario, non diremo mai abbastanza volte grazie.
I PASSAGGI
Partenza, Valcanale, ore 6:00 del 7 agosto 2005
Rifugio Laghi Gemelli, ore 6:59
Rifugio F.lli Calvi, ore 8:01 [
Rifugio Brunone, ore 9:28
Rifugio Coca, ore 10:32
Passo Manina, ore 12.18
Pizzo di Petto, ore 12:59
Rifugio Albani, 13:36
Cima Visolo, 14:23
Passo Presolana 14:52
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Pierre Tardivel, l'evoluzione di un mito
L'appuntamento è fissato per il primo pomeriggio, il viaggio scorre rapido attraverso la Valle d'Aosta, il tunnel del Monte Bianco e poi tra gli autovelox e i limiti delle autostrade francesi verso Annecy. Abbiamo anche il tempo di constatare che negli autogrill francesi panini e gelati vengono conservati alla stessa temperatura.
Con Federico in auto, dopo aver parlato delle ultime arrampicate, il discorso vira - per ovvie questioni di politica aziendale - rapidamente sullo sci. Anzi sugli sci del mito che stiamo per incontrare. «Ha usato per anni quel modello lì, poi ha cambiato, è passato a modelli rockerati. Sì, però per le robe serie tornava sempre a quelli, poi adesso snow, comunque gli chiediamo tutto».
E fu così...
L'indirizzo è quello giusto, il navigatore non mente, le colline morbide di Annecy circondano una zona residenziale con casette unifamiliari basse, ciascuna con il suo giardino. Ci avviciniamo al cancello che riporta il numero civico indicato: un uomo sta sistemando dei rami in fondo al giardino. Ci vede, ci fa un cenno. Entriamo.
Stringiamo la mano a Pierre Tardivel.
Non nascondiamo un po' di emozione che svanisce quando, oltrepassando la soglia casa, ci si trova di fronte a un arredamento decisamente informale: libri e scaffali occupano le pareti, due divani dai cuscini multicolore abbracciano un tavolino con diversi oggetti sopra. Qualche armadio che porta con sé qualcosa di orientale, una sala luminosa che dà direttamente sul giardino. Sul tavolo da pranzo circolare una gabbia con uno dei membri della famiglia: un coniglio. Anche un cane e un gatto decisamente in carne ci fanno capire che la passione per gli animali è di casa dai Tardivel, per lo meno al pari dello sci!
Quella che avevamo immaginato come un'intervista con una traccia ben definita, si trasforma fin dalle prime battute in un'allegra chiacchierata con il Piero! Spero che Pierre non si offenda se mi prendo questa licenza. Chiamarlo Piero trovo che renda la cosa molto confidenziale.
«Hai visto cosa ha di nuovo sceso il Piero?».
«Grande il Piero, sempre avanti!».
E se ci pensate, quante volte tra gli appassionati di sci ripido, guardando una foto o una parete orlata di seracchi, magari appartenente al massiccio del Bianco, alla domanda da chi fosse stata scesaavete sentito rispondere Il Piero!. Proprio lui. Sempre lui. Come un amico più grande di cui hai sempre sentito parlare! Dunque che il Piero non sia un tipo convenzionale lo capiamo nei primi trenta secondi: quando scopre che uno di noi due è il fotografo, gli si illuminano gli occhi di quella curiosità genuina tipica delle persone eclettiche e inizia a tempestarci di domande tecniche sugli obiettivi, sui corpi macchina. E non certo per capire quali siano gli strumenti migliori da utilizzare durante le discese o per immortalare momenti di sci appesi a qualche pendio a 50°. Il Piero infatti ha una grande passione che coltiva parallelamente allo sci: l'avifauna alpina e la fotografia faunistica! Un po' stupiti, lo incalziamo.
Ci incuriosisce molto scoprire che sei un grande appassionato di animali nel loro ambiente naturale! Da dove arriva questa passione?
«Sono 30 anni che faccio foto, soprattutto alle varie specie della fauna alpina nel loro ambiente. Adoro prendere immagini degli animali di grossa taglia e di uccelli. Basta appena uscire da Annecy, diverse volte mi è persino capitato di fare foto a cerbiatti direttamente dalla finestra del salotto. Sono bellissimi. E poi gli uccelli, solo nel mio giardino ne ho potuti individuare una cinquantina di varietà. Sono un appassionato della natura e fotografare gli animali è stimolante. Incontrarli per caso e cogliere l'attimo giusto… (mima un gesto quasi da vera e propria caccia fotografica, ndr). Il problema sono le dimensioni dell'attrezzatura, di solito metto la mia macchina con un buon obiettivo in una sacca che tengo davanti sul petto e mi permette di muovermi sia in salita sia in discesa anche quando scio. Sì, perché lo scialpinismo è un'attività ideale per fare fotografie. In salita uno tiene il giusto ritmo e si ha tempo per guardarsi intorno e scattare. Poi invece in discesa si scia». (ride)
E foto di sci?
«Anche sciando faccio un sacco di foto ai miei compagni, ne ho pochissime invece dove ci sono io perché gli altri ne scattano meno. Mi piace tanto fotografare, ma nelle discese ripide spesso utilizzo una compatta che è più comoda: la tengo sullo spallaccio fissata con un laccetto al collo e... zan, quando passa il compagno, scatto veloce! Mi sono accorto che utilizzando un obiettivo grandangolare da 24 mm e fotografando in un canale a 50° si riesce a inquadrare l'orizzonte. È più bello!».
Mi sembra che ti piaccia molto vivere ad Annecy , perché non Chamonix, più vicino al Bianco?
«No, non mi piacerebbe vivere a Chamonix, è più caotica e molto più cara rispetto a qui. E poi Annecy ha molti più servizi ed è meglio collegata. Ci sono più scuole e università per le mie figlie».
Riesci a lavorare come Guida alpina anche qui?
«In realtà come Guida lavoro poco. Lavoro piuttosto come intermediario nell'editoria di montagna. Per esercitare come Guida dovresti fare eliski, spedizioni, oppure due o tre Vallée Blanche alla settimana. Sinceramente non mi piace. È bello anche arrampicare, ma non come sciare».
Quindi preferisci sciare, ma sei nato alpinista o sciatore?
«Essendo Guida ho scalato e scalo e non mi dispiace. Ma scalare è fatica, dolore a volte, devi sempre forzare per ottenere risultati e andare forte. Lo sci è diverso, è più fluido, meno forzato, un'attività più dolce. Sciare mi è sempre piaciuto. La mia famiglia in montagna faceva al massimo delle escursioni. A sciare mi ci portava la scuola. Ma già a 10-11 anni mi piaceva più andare in fuoripista che su percorsi battuti. E poi non serve forza, si fa tutto plus en douceur, l'ho sempre preferito. Con i materiali di oggi è facile diventare un buono sciatore, è molto più difficile essere un buono scalatore».
Negli ultimi anni il livello si è molto alzato, complici materiali sempre migliori e più facili da utilizzare. Però forse troppo spesso ottimi sciatori si cimentano in discese anche molto impegnative, trascurando forse un po' troppo la componente alpinistica che lo sci di pente raide richiede. Quanto è importante?
«È indubbiamente importante, specie per gestire situazioni come creare delle soste, fare delle calate e altre manovre di corda in sicurezza. E poi se sei solo uno sciatore e non provi piacere anche durante le risalite delle pareti... insomma magari sali una parete per quattro ore, se non ti piace questa parte la giornata diventa lunga (ride!). Discorso diverso per le valanghe, anche con 40 anni di esperienza il rischio non è mai completamente eliminabile purtroppo. Bisogna fare attenzione a scegliere le giuste condizioni, sapere aspettare. Con la neve dura il rischio valanghe è minore ma, appunto, la neve è dura».
Lo sci ripido è diventato una moda negli ultimi anni. Come in arrampicata e alpinismo esistono vie di salita e percorsi più o meno difficili: è giusto pensare che sia così anche nello skialp?
«Sì, esistono pendii e montagne più o meno difficili, certo. Per esempio la scala Volopress mette tutto insieme sotto un'unica valutazione di difficoltà che mi vede d'accordo. In effetti il ripido è un'attività che è diventata di moda, ma a volte chi la pratica non è pronto come si è potuto vedere dal gran numero di incidenti di questo tipo della scorsa stagione. Anche la PGHM (il Soccorso Alpino francese, ndr) non è contenta di ciò. Non vorrei che poi alla fine come soluzione si arrivasse a vietare delle discese come la nord-est delle Courtes».
Lo sci estremo, per quanto ti riguarda, è qualcosa di diverso?
«Se ci riflettiamo, l'estremo lo si ha quando si cerca e si raggiunge il limite. E il limite lo cerchi per esempio nelle gare di freeride, ti confronti con un cronometro e cerchi il limite. Infatti a volte cadono: arrivare al limite cercando la velocità. Nello sci di pente raide che ho fatto e faccio, non si cerca il limite. La caduta è da evitare assolutamente. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato di muovermi con un margine di sicurezza, magari facendo una curva in meno se non me la sentivo. Non ho mai voluto raggiungere il limite ma il maggior piacere che mi poteva offrire una discesa ripida. È un'attività molto psicologica, è tutto nella testa, come diceva Stefano De Benedetti».
È la possibilità che dà lo sci di pente raide di ampliare esponenzialmente il proprio terreno di gioco che ti affascina di questa disciplina?
«No, è proprio la ricerca della pendenza che mi piace. È cercare di prendere confidenza con le proprie paure e gestire l'incertezza che restituisce il ripido».
Allora come vedi la tendenza degli ultimi anni di scendere certe pareti in modo superfluido e a grande velocità? (Gli si illuminano letteralmente gli occhi, ndr)
«Ah, poter sciare come Jérémie Heitz e al tempo stesso mantenere un margine di sicurezza, sarebbe un sogno! Anche con curve meno filanti, andando leggermente più piano, ma con quella fluidità. Per me lo sci è diventato cercare la perfezione del gesto su pendii adatti allo sci. Non mi interessano più quelle discese molto tecniche dove fai una curva, derapi metri perché non c'è spazio, fai un'altra curva e poi una doppia. Lo sci è saper attendere il bon jour per avere le condizioni per poter scendere nel modo più fluido possibile un bel pendio. Se le condizioni non ci sono, aspetterò, magari degli anni. Certe discese fatte trovando tratti ghiacciati che obbligano magari a doppie o a non sciare integralmente diventano un esercizio d'alpinismo. Cosa che non rappresenta la mia idea di sciare. Per me è più importante la natura, cercare di capirla e prendere del piacere giocando con essa, come per la fotografia degli animali selvatici».
Lo sci per te è ricerca di fluidità, abbiamo capito bene?
«Sì, è la ricerca di quella sensazione di fluidità che ha sempre influenzato il mio modo di andare sulla neve, specie con i materiali di adesso. Il freeride ha portato molto allo sci in questo senso».
Questa tua ricerca della fluidità passa senza dubbio anche per l'evoluzione dei materiali. A fine anni ottanta e novanta si usavano sci molto stretti, poi verso i primi anni duemila utilizzavi i mitici Dynastar 8800 e le successive evoluzioni che erano 89 mm al centro. Parliamo del tuo sci preferito?
«In quegli anni gli sci erano molto stretti, fare le curve era più forzato, più brusco. Con i nuovi materiali è diventato tutto più armonioso, più morbido. Ho usato molto gli 8800, è vero, ma quelli con cui mi sono trovato meglio sono stati i Dynastar Cham 97. Non troppo lunghi, avevano una maneggevolezza incredibile e poi col rocker erano facilissimi da sciare, non restituivano sorprese e avevano una buona rigidezza torsionale che per tenere sul duro è la cosa più importante. Intorno ai 95-97 mm secondo me c’è il compromesso ideale».
Ti confesso che ci hai spiazzato… come sei arrivato allo snowboard?
«È stato naturale cercando un modo per ottenere maggiore fluidità. Lo snowboard per uno sciatore come me non è stato immediato. Ho iniziato nel 2014, in principio lo trovavo contraddittorio, devi sempre accompagnare il movimento, molto più che con gli sci. Ma una volta che uno impara è assai meno faticoso. E poi adesso ci sono le splitboard. Ho deciso di fare il salto verso lo snowboard quando si è perfezionato questo tipo di materiale».
Un punto di vista molto surf questa ricerca del gesto fluido e più armonioso possibile. Che materiale usi adesso?
«Sì, mi piace e pratico quando posso anche il surf da onda infatti. Sulla neve utilizzo una splitboard Plume. Ma il vero problema è cercare la combinazione perfetta attacchi-scarponi. Uso uno scarpone SB di Pierre Gignoux e trovo che sia il compromesso perfetto che mi garantisce un'ottima risposta nelle sezioni in backside, anche su nevi difficili. Ovvio, lo snowboard patisce un po' le nevi dure, infatti ci sono pochi video di ripido su nevi dure. Però hai anche due picche e in front su tratti ghiacciati è meglio. Le cose cambiano se ci sono tratti di dry…».
Come sono stati gli inizi? Erano davvero così mitici quegli anni da un punto di vista delle precipitazioni nevose?
«Una volta gli inverni erano davvero diversi, nevicava sul serio. Si poteva sciare nove mesi l'anno, da novembre a luglio. Tra il 1978 e il 1980 ho iniziato a fare ski de randonnée. Fino al 1988 sono stato a tutti gli effetti un amatore. Poi fino al 1995 sono stato sostenuto dagli sponsor. Era mia moglie Kathy a organizzare tutto e a gestire i rapporti con le aziende. All'inizio essere pagato per compiere delle prime discese sempre più difficili è stata una motivazione, ho smesso di lavorare in banca e mi ci sono dedicato a tempo pieno. La ricerca della prima era sia un discorso di ego che di soldi. Poi mi sono accorto che questa impostazione stava influenzando anche le mie scelte e ho continuato la mia attività solo per piacere».
Scorrendo la lista delle tue discese, mi piacerebbe saperne di più su alcune, per esempio spesso mi capita di sciare nel Massif des Écrins dove nel 1997 hai ripetuto il Couloir Gravelotte sulla parete nord-est della Meije.
«Sì la Meije, purtroppo l'unico che è riuscito a sciarlo tutto quel canale, a proposito di cambiamenti delle condizioni nevose negli anni, è stato Patrick Vallençant alla fine degli anni '70, in occasione della prima discesa. Quando sono andato io in basso c'era già un tratto di 50 metri insuperabile con gli sci, così per evitare di fare doppie sono risalito e ho sceso il Corridor».
Un'altra discesa che mi ha molto colpito è quella del '95 sul versante Italiano del Triolet. Che caratteristiche aveva?
«Il problema di questa discesa è che ci vuole un grande innevamento per poter collegare tutte le parti, poi certo, è ripida!».
Una data mitica: 10 luglio 1988? Ne parliamo? Il Grand Pilier d'Angle: un posto surreale e pericoloso.
«Nello stesso giorno, con l'elicottero però, ho concatenato la parete sud-est del Col de la Brenva e la parete nord del Grand Pilier d'Angle. Era dopo una perturbazione di una settimana, forse il secondo giorno di bello. Sul versante italiano del Monte Bianco c'era un innevamento incredibile, tutto bianco. Tutto. La Brenva l'ho scesa presto e la neve, essendo luglio, si era già trasformata: l’ho trovata quasi dura, specie in alto. Poi sono stato depositato nuovamente sulla cima del Bianco, ho sceso la cresta di Peuterey per fare infine una parte di cresta del Grand Pilier d'Angle a piedi e scendere la parete nord. Qui ho trovato soprattutto ‘poudre tassée’, tranne nell'attraversamento sopra al seracco. La neve, decisamente dura, era un po' verglassata, poi una parte in doppia sul salto centrale e i pendii del tratto basso. Dall'elicottero avevamo monitorato i seracchi della Poire, non erano particolarmente brutti o fratturati, però lì sotto ho allungato le curve... È un versante bellissimo, sul quale mi piacerebbe sciare ancora, fortunati quelli che possono averlo sotto gli occhi tutti i giorni».
Hai mai avuto paura di una discesa, magari una parete che hai deciso di non scendere perché ti incuteva timore?
«Certo! Il Nant Blanc sulla Verte».
Però lo hai sceso e ci sei andato ben due volte!
«Sì, ma mi ci sono voluti ben venti anni per andare a provare! Non mi sentivo pronto, lo reputavo troppo difficile per me. Poi l’ho sciato: il Nant Blanc racchiude una serie di problemi tecnici e di pendenza notevoli. Non abbiamo fatto le doppie della parte centrale, ma abbiamo cercato, con una traversata, di collegare i due nevai. Nell'arco delle due volte ho sciato tutte le varie sezioni dalla cima, ma non concatenandole in un'unica discesa. E poi oggi il problema potrebbe diventare il risalto alla base. Invece ci sono delle discese che, paradossalmente, miglioreranno con lo scioglimento dei ghiacciai, speriamo!».
Ultima domanda, soli o in compagnia?
«In compagnia c'è condivisione. È più bello!»
Grazie Piero, un mito.
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Quello che volevamo chiedere a Jérémie Heitz
Nello skibus del comprensorio austriaco di Lech-Zurs l’atmosfera è rilassata. Sono i giorni in cui si tiene l’evento organizzato da Scott per la stampa specializzata. Vengono anticipate le novità che saranno presentate a Ispo 2018, secondo la tendenza dei maggiori brand di settore. Fuori sta nevicando, forte, molto forte… a tal punto che, con un certo rammarico, scopriremo poi che alcuni impianti rimarranno chiusi per ragioni di sicurezza. È inverno dopotutto e forse non ci siamo più davvero abituati, anche se ognuno di noi cerca di trascorrere sulla neve il maggiore tempo possibile. Seduto, in un posto centrale ma un po’ in disparte rispetto al gruppo, che non fa che cercare di capire quali siano i confini ormai indistinguibili della strada che stiamo percorrendo, un giovane. Casco e una maschera con lenti fog, che ottimizzano la visibilità in giorni come questo, ma che lasciano vedere gli occhi. Lo riconosco subito: è Jérémie Heitz. Avevamo parlato con gli organizzatori per capire se si poteva organizzare una chiacchierata con lui: sapevamo che c’era. Dopotutto ci piace parlare con sciatori veri, con gente che ha fatto dello sci la propria vita, così come abbiamo fatto con Pierre Tardivel e Gilles Sierro.
Ho preferito osservare, non dire niente, non presentarmi nemmeno. Un cenno di saluto come si fa normalmente tra gente che sta andando a sciare neve… quando fuori nevica. E questo fa una bella differenza. Jérémie ha riabbassato subito lo sguardo sullo smartphone che teneva tra le mani. Lo confesso, non ho potuto fare a meno di sbirciare il social che stava sfogliando, così come fanno le morose per sgamarvi mentre seguite qualche donzella random. Anche lui stava guardando delle curve: sì! Ma quelle che qualche suo compare aveva appena disegnato su un pendio intonso delle Alpi! È in quel preciso momento che quel ragazzo mi è entrato in simpatia: uno che scia tutti i giorni di tutta la stagione, cosa fa quando ha cinque minuti liberi? Guarda video e foto di sci. Un altro. Uno sciatore. Geremia, uno di noi!
Per lo meno a sud delle Alpi, il suo nome ha iniziato a circolare in concomitanza con i primi piazzamenti nel Freeride World Tour di un promettente sciatore svizzero, intorno al 2013. Passarono tre anni e nel 2016 ci fu un fulmine a ciel sereno! Esce La Liste, uno skimovie fuori dai canoni, dove tutto quello che era rimasto impresso nella nostra mente dopo la prima visione era una saetta che squarciava un muro bianco. Lo faceva a pezzi, letteralmente. Veloce, potente, precisa, fisica e nel contempo armonica. È sempre difficile descrivere una prima impressione, a volte non si riesce, ma ciò che si è provato in quella singola occasione orienta spesso indelebilmente tutto il modo che abbiamo di vedere poi le cose. In meno di cinquanta minuti tutte le certezze su come si sciavano le classiche big face alpine erano state prese a calci. Nessun modo sbruffone o arrogante, ma fatti. Quelle sciate erano su pareti, aperte, con tratti sostenuti a 50°, con esposizione, nessuna ripresa alaskan style ad aumentare pendenze. Tutti le riconoscevano quelle pareti, per alcune io stesso e numerosi conoscenti avevamo perso più di una notte, sognando le lamine su quelle nevi. Geremia ha sciato, come meglio non poteva, creando un riferimento di tecnica e stile, come ha detto qualcuno.
Sono passati più di tre anni, in cui si sono sentite polemiche, elogi numerosissimi, si sono messe in ordine le cose, si è sedimentato quel sentimento di sbigottimento e allucinazione che ha provocato nel 2016 La Liste… e credevamo che fosse giunto il tempo di sentire il diretto interessato!
Perdonaci la confidenza, Geremia è più rassicurante, ti rende più… umano! Anche perché oggi, quando ti abbiamo visto sciare finalmente dal vivo, c’era davvero poco di ordinario! La Liste ha fatto molto discutere, se ne sono sentite di tutti i colori, siamo qui per parlarne, per sapere un po’ di retroscena, per conoscere Geremia, quello che La Liste l’ha sciata!
(ride ndr) «Sì, è vero, son sempre stato uno sciatore… gare, poi freeride. Vivo in montagna, a Les Marecottes, posto che adoro e a cui sono molto affezionato. È stato facile per la montagna entrare a far parte di me, e poi mio padre è Guida alpina. Non scalo molto, anzi. Però lo sci è sempre stato di casa, anche e soprattutto quello di randonnée, i viaggi con lo sci, lo scialpinismo che mio padre praticava».
La Liste è stato presentato come un progetto in cui dovevi sciare nell’arco di due anni 15 cime delle Alpi di 4.000 metri, poi ha subito alcune modifiche. Innanzitutto, quali erano quelle del progetto originale?
«Più o meno quelle elencate nel film, non con un ordine preciso: Cervino, Les Droites, Aiguille Verte per il Couturier, il Couloir Gervasutti al Tacul, la nord-est della Lenzspitze, l’Obergabelhorn, il Marinelli, lo Zinalrothorn, Combin di Valsorey, il Lyskamm orientale, il colle tra Dom e Täschhorn nel Mischabel, Weisshorn, Hohberghorn, Stecknadelhorn e l’Aiguille de la Blaitière. Questo, a grandi linee, era il progetto iniziale che poi ha subito delle variazioni, soprattutto per le condizioni. Certe pareti, come il Cervino o il Dom, erano in condizioni due giorni prima e poi completamente vuotate dal vento. E così altre. Ho inserito nuove pareti come il Brunegghorn, che era proprio vicino al Weisshorn. È molto complicato trovare le giuste condizioni in parete e ciò ha influito sul progetto originario».
Nel film, in realtà, poi compaiono anche altre pareti, per esempio la nord-est dell’Aiguille dell’Amône e la Blaitière, dove hai sciato il Couloir Spencer, che non sono cime di 4.000 metri…
«È vero: abbiamo voluto inserire l’Amône per mostrare in modo evidente quale era il pendio-tipo con le condizioni-tipo, su cui volevo esprimere la mia idea di sci in parete. Anche se più in piccolo rispetto a un 4.000, quello è IL pendio su cui sciare in quel modo, con quella fluidità. In realtà l’ho sciata più di una volta in occasioni diverse, ci sono piccoli frammenti delle due volte nel video se ci fate attenzione. Ci sono anche le esigenze delle riprese ovviamente, ma soprattutto lo sci che volevo far vedere.
La Blaitière, invece, ho voluto inserirla perché era stata sciata 50 anni fa da uno dei personaggi che più mi ha ispirato, Sylvain Saudan. Fine anni ‘60, con quei materiali, senza le notizie di adesso sulle condizioni… Un pioniere, che aveva voluto mostrare che anche vie alpinistiche potevano essere sciate. Incredibile!».
Con chi hai deciso la tua lista?
«Molte persone mi hanno accompagnato in questa scelta, consigliandomi i pendii che vedevano più adatti allo sci che volevo esprimere. Da mio padre, che essendo Guida ha potuto darmi delle dritte, a Sam Anthamatten, fino a Luca Rolli. E poi ci ho messo del mio. Volevo trovare belle montagne, dove poter sciare nel modo più fluido possibile, in velocità. Pareti che potessero offrire bella neve. Che si prestassero a questo.
Come avrai capito uno dei miei riferimenti è proprio Sylvain Saudan… siamo perfino nati nello stesso ospedale e mio nonno sciava con lui!»
Quando parli della tua idea di sci che cosa intendi? Qual era il vostro obiettivo?
«Volevamo trovare le linee e le condizioni che ci permettessero di affrontare linee da tutti ritenute di steep skiing, secondo una ricerca di massima fluidità. I materiali evolvono ormai ogni anno e quindi anche gli sci che ti permettono di sciare a grande velocità terreni così ripidi. In questo progetto, in fondo, ho trovato anche un modo di migliorare il mio sci. Di evolvermi, spingendo forse più avanti il modo di sciare questi terreni».
Per affrontare queste pareti con questo tipo di sciata veloce e super fluida, in che modo le studiavi, come controllavi le condizioni?
«Fortunatamente avevamo a disposizione un piccolo aereo ultraleggero. Era fantastico: dopo le nevicate primaverili, nel giro di un paio d’ore riuscivo ad avere una panoramica completa delle condizioni».
E poi il giorno della discesa utilizzavi l’elicottero per raggiungere la cima o salivi by fair means?
«Solitamente io, con il compagno di turno, salivo dal basso. Le pareti le ho risalite quasi tutte per controllare le condizioni, per rendermi conto se c’era ghiaccio o altro. Vedi poi cosa è successo la prima volta al Combin proprio con il ghiaccio… Alcune volte, prima della ripresa, ero già sceso su quelle pareti, come per esempio all’Obergabelhorn, dove avevo provato altre due volte. Una mi sono dovuto fermare a metà parete per il ghiaccio, un’altra avevo sceso il lenzuolo a sinistra (Wellenkuppe), che è forse anche più ripido. Raramente siamo stati depositati in cima dall’elicottero: come per esempio sulla Lenzspitze. Sammy mi ha chiamato e mi ha detto con quelle condizioni dobbiamo andare domani, o forse mai più. Siamo scesi a un compromesso, lo so…».
Che condizioni cercavi?
«Il meglio è la poudre tassè, non troppo fonda ma morbida, regolare, ben attaccata alle pareti di ghiaccio».
Che materiali utilizzavi?
«Gli Scrapper 115 della Scott, un pro model che, rispetto a quello oggi di serie, aveva due fogli di fibra di vetro in più, per poter garantire ancora maggiore rigidezza ad alta velocità. Oggi scio con il nuovo modello di serie. Poi ho usato il sistema Cast, che mi permetteva di fissare attacchi da freeride fissi per la discesa, mentre in salita utilizzavo un puntale da skialp con sistema pin».
Geremia, dopo quasi due anni sei soddisfatto di questo tuo progetto? Ne hai pronti altri?
«Certamente! È stato il mio primo film project. Da quest’anno non parteciperò più alle competizioni di freeride e potrò dedicarmi a un progetto su tre anni con Sam Anthamatten: vogliamo sciare alcune pareti in Perù e su dei seimila himalayani, anche alcune linee nuove se si riuscirà. Sono terreni, quelli, dove ancora oggi possiamo essere pionieri, proprio come aveva fatto Saudan cinquanta anni fa, qui sulle Alpi. Dove c’è incertezza sulle condizioni e piacere della scoperta».
Alcuni, dopo La Liste, sostengono che in realtà non si sia trattato di evoluzione nell’ambito dello sci estremo, perché in fondo sono state sciate, seppur a grande velocità e con uno stile unico, linee classiche, non nuove o particolarmente tecniche. Come rispondi?
«È vero. Sono state sciate linee che, per quanto difficili, sono classiche. Niente di super tecnico, o di nuovo. Non era il nostro intento. Abbiamo scelto di proposito quel tipo di terreno, per fare un film di sci. E quando dico di sci, intendo un film comprensibile a tutti, indistintamente, anche ai non esperti delle linee super tecniche. La Liste vuole essere pure ski, puro sci nello stile più fluido possibile. Punto. Rispecchia la mia idea di questi sport e le pareti sono state scelte proprio per poterla esprimere. Non avrei potuto farlo su terreni ipertecnici o esplorativi».
Mi sembra di capire che non ti piaccia il termine sci estremo?
«Sinceramente non tanto. Che cos’è lo sci estremo, in fondo? Sammy fa sci estremo a modo suo, Vivian Bruchez anche, quelli che scendono a Kitzbühel fanno qualcosa di estremo, se ci pensiamo. Chi esplora nuove linee lo fa o semplicemente chi affronta qualcosa al suo limite sta facendo qualcosa di estremo per lui. Ci sono molti modi di farlo e forse non ha tanto senso definirlo così».
Ritieni però che questo modo di sciare si possa applicare solo su pareti aperte? Tardivel sostiene che secondo lui il vero estremo sta nelle competizioni, perché lì ci si avvicina davvero al limite. Ti senti di condividere questo pensiero?
«Forse ha ragione. Nelle competizioni spingi davvero al limite, cosa che non fai ragionevolmente in montagna su certe discese. Però, se ci pensiamo, una parete come quella del Bec de Rosses del Verbier Extreme non è forse un terreno tecnico dove si scia in velocità? Quindi chissà in futuro: un’evoluzione passerà certamente nello scendere con sempre maggior velocità e fluidità le pareti, comunque con dei limiti dettati da condizioni e terreno».
Geremia, dimmi solo un’ultima cosa: la cima che vorresti ancora aggiungere alla tua lista?
«In realtà c’era già. È il Cervino, il sogno sarebbe di farlo dalla punta. Si passa…forse!
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BIG uP & Down, siamo tutti figli dello stesso dio
Scordatevi tutina e cronometro, la parola d’ordine è tranquille. «Ci vediamo domani alle 9, anche 9.30, tranquille; vuoi fare un’uscita tranquillefuoripista?». La vera performance è finire tutta la tartiflette che ti hanno messo nel piatto. Benvenuti alla BIG uP & Down. Siamo a Les Arcs, Savoia, patria di un po’ di tutto, dal KL al freeride, al turismo internazionale. Inizio febbraio. Hai un paio di pelli e un attacchino perché un po’ bisogna salire con le tue gambe? Sei dei nostri, ma non importa quanto pesi o quanto sia largo sotto il piede il tuo sci, oppure ancora se la tutina da gara non ce l’hai: tutti insieme appassionatamente. E se pelli e attacchino non ce l’hai, tranquille,te li danno loro. Loro sono il Community Touring Club, la comunità creata da Gino Decisier e Guillaume Desmurs che mette insieme Kilian Jornet e Cédric Pugin, Mathéo Jacquemoud ed Enak Gavaggio, Laetitia Roux e l’ex campionessa di skicross Meryll Boulangeat. Skialper e freerider: alla francese i freerando.
Tre gare che gare vere e proprie non sono, nel senso che l’importante è esserci, non vincere. Ed esserci, però, non vuol dire appartenere a una comunità chiusa, anzi. Lo spirito è completamente diverso, è quello di allargare i numeri dei freerando. Tre giorni dove nel village puoi provare gratuitamente tutto il materiale che vuoi, che tu sia già skialper, freerider e sciatore. Nessuna distinzione. Abbiamo visto ragazzi con la divisa dell’Equipe de France di sci mettere in un angolo un gigante da gara per provare un bel 100 sotto il piede, cercando di capire prima di tutto come funziona il pin dell’attacco; bambini partire in gruppo con una guida per iniziare la discese fuoripista e conoscere come funziona l’ARTVA per la Première Trace. E poi c’erano quelli pronti per una uscita in neve fresca in big mountain, anche una banda tutta al femminile, le Girls Only. Basta andare e divertirsi fuoripista. Nella massima sicurezza, senza la massima prestazione.
Intendiamoci, non immaginatevi chissà quali numeri o un village smisurato. Ma tutto di qualità. Per capirci: nello stand Salomon abbiamo trovato il nuovo attacco Shift che andrà in commercio a settembre 2018. Come rivista siamo riusciti a vederne in anteprima uno solo, a Les Arcs ce n’erano almeno una decina e siamo andati a provarlo più di un’ora in salita, in pista e fuoripista. E ancora: in quello della Black Crows c’erano almeno tre nuovissimi Solis da ripido, in arrivo direttamente dall’ISPO.
I momenti clou sono due: La Belle Montée e Big Nak. Il primo appuntamento non è nulla di più di un raduno, o meglio, di una salita al rifugio alla chiusura degli impianti. Saranno in trecento, salgono tutti senza fretta, anzi. Parata iniziale con i big e su. Ci sono anche io, a mio agio con i miei 108 sotto il piede, uno dei tanti. «C’est joli» mi dice Jean-Pierre che vede laggiù in fondo la sua Bourg-Saint-Maurice tutta illuminata. Perché è qui? Perché è bello, perché anche lui preferisce la discesa alla salita: e allora uno sci più largo, non troppo pesante, per non fare chissà quanti metri di dislivello, ma poi godere dopo. Lo spirito freerando francese è tutto qui. Ci passa Anna, va veloce: avrà di sicuro più gambe, ma anche solo un 90 sotto il piede. E ci supera anche Mathéo Jacquemoud: non fa più le gare, ha deciso di diventare subito allenatore, ma il suo passo è un’altra cosa. Tanto che al collo ha un bel megafono per sostenere chi incontra in salita. Ci chiama, ci dice: «visto il mio nuovo lavoro? Il clown…». Fa freddo, ma la salita scalda. Alla fine proprio banale non è, con quasi 500 metri di dislivello. Dopo il couloiriniziale in pista, si avanza su una bella strada forestale nei pini, poi la rampa finale, ma si vede già il rifugio. Mi prende anche Antoine, un ragazzino di 14 anni accompagnato da papà Gregory. Arriviamo insieme su: finalmente si mangia. Passano anche a chiederti se stai bene mentre ritiri le pelli: sì, sto bene, c’est joli… Per fortuna basta raclette e tartiflette, ma pizza e birra e qualche fetta di jambon de Savoie. «Siamo partiti con qualcosa di nuovo due anni fa - mi racconta Guillaume, che nello staff organizzativo si occupa di comunicazione - che unisse tutti i mondi del salire in montagna, senza distinzioni tra chi fa dislivello per la prestazione, chi per una gita, chi per godersi la discesa. C’è anche una prova vera il venerdì, a cronometro, proprio per coinvolgere tutti. Ogni anno siamo sempre di più, perché alla fine è un modo come un altro per stare insieme. E vedrai domani». Intanto scendo a valle: la pista, ma anche il fuoripista a fianco, è illuminato a giorno da dei palloni giganteschi. Della frontale puoi fare a meno.
La festa continua nella birreria di Arcs 1800, molto local direi. Ma cosa sarà mai ‘sta Big Nak? Se ci mette la mano Rancho… Qualche idea me l’ero fatta: in fondo nulla di più di un vecchio rally, quattro prove cronometrate, due in salita e due in discesa. Niente piste però, o magari porte da gigante. Tutto fuori. Pettorali di carta che svolazzano oppure sono nascosti dagli zaini: e va bene. Ma la partenza proprio no, non me l’aspettavo così: tutti schierati in linea, alle 10 il via, anzi no, alle 10.15 perché devono arrivare ancora un po’ di rider. Tre, due, uno, go. Nessuno dice nulla ai turisti in pista, neanche a quelli che stanno prendendo gli impianti. Così per arrivare alla partenza della prima prova speciale, quelli della Big Nak prendono d’assalto la seggiovia. Di corsa, una mandriaimbizzarrita… in una domenica di febbraio. «Solo qui possono fare una cosa del genere» mi viene da dire. La gara continua, finisce nel primo pomeriggio: chi vince si porta a casa una testa di cinghiale. Finta, state tranquilli.
Community Touring Club, c’est quoi?
Nella pagina della Community Touring Club (www.communitytouringclub.com) troverete la foto di Kilian Jornet con gli sci da gara insieme ad Enak Gavaggio con quelli da freeride. Una associazione, o meglio una comunità, che vuole mettere insieme tutti i modi dello ski de randonnée. E unire appassionati, aziende, stazioni… Con la BIG uP & Down tra gli eventi top che organizzano.
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Online il nuovo documentario Protect Wild Fish di Patagonia
L'ultima campagna ambientale di Patagonia, Artifishal, mette in evidenza le problematiche causate dagli allevamenti ittici in mare aperto e la minaccia per il salmone selvatico e altre specie ittiche costiere in tutto il mondo. Dopo l’uscita del lungometraggio attualmente in tournée in Europa, Patagonia si è recata in Islanda con gli Ambassador del fly fishing Mikael Frodin e Katka Švagrova per realizzare un video sulla situazione attuale, con le ONG locali attivamente impegnate per la protezione dei pesci selvatici. Guardalo qui.
Nord Atlantic Salmon Fund Iceland (NASF) e Icelandic Wildlife Fund (IWF) stanno combattendo contro l’espansione esponenziale dell’allevamento ittico, che minaccia sempre di più l’esistenza del pesce selvaggio e della natura circostante. "La cosa più bella dell'Islanda è la sua diversità." ha affermato Jón Kaldal di IWF, "L'Islanda è, in un certo senso, l'ultima frontiera del salmone selvaggio dell’Atlantico".
Nel 1970, a livello globale erano presenti 10 milioni di uova di salmone atlantico selvatico, ora ne restano solo tre milioni. Mikael Frodin, che viaggia in tutto il mondo, Islanda compresa, per pescare ha raccontato che la quantità di pesce che entra nei fiumi è la metà rispetto al passato. Attualmente sono circa 8 milioni i salmoni atlantici allevati annualmente in Islanda, ma il piano è di triplicare le dimensioni dell'industria. «Siamo estremamente preoccupati per la crescita di allevamenti di salmoni in reti in mare aperto in Islanda. Riteniamo che questa sia la più grande minaccia per il salmone atlantico selvaggio nei nostri fiumi», ha dichiarato Fridleifur Gudmundsson, direttore di NASF Islanda.
La sopravvivenza dei pesci selvatici, tra cui il salmone atlantico, la trota di mare e il salmerino alpino, è in pericolo. «In Islanda abbiamo una delle più grandi aree selvagge d'Europa. La nostra generazione non ha il diritto di rovinarla, ha il dovere di conservarla per le generazioni future» ha affermato Jón nel cortometraggio lanciato da Patagonia questa settimana: Protect Wild Fish.
Puoi unirti a questa causa e sostenere la salvaguardia dei pesci selvatici - e delle specie e comunità che dipendono da essi - firmando la petizione sostenuta da North Atlantic Salmon Fund Islanda, Redd Villaksen - NASF Norvegia, Salmon e Trout Conservation Scotland e Salmon Watch Ireland.
Cala Cimenti vuole sciare il Nanga Parbat
Carlalberto ‘Cala’ Cimenti partirà il 2 giugno per il Pakistan. Obiettivo: salire il Nanga Parbat e sciarlo da una via nuova. Saranno con lui in questa spedizione i russi Vitali Lazo e Anton Pugovkin, il cui progetto Death Zone Freeride prevede la salita di cinque ottomila senza ossigeno con discesa sugli sci. Il Nanga Parbat rientra fra gli obiettivi e per questo hanno chiesto a Cala di unirsi a loro in questa avventura. La Nanga Parbat Ski Expedition 2019, in preparazione sin dall’agosto dello scorso anno, ha come obiettivo quello di scalare la montagna in stile alpino, senza portatori di alta quota e senza l’ausilio dell’ossigeno, dalla parete Diamir (Nord-Ovest) seguendo la via che si presenterà più praticabile, per poi scendere con gli sci dalla vetta, se le condizioni di neve lo consentiranno, lungo una via mai scesa fino ad ora con gli sci. Se il meteo sarà favorevole, Cala Cimenti prevede un primo periodo di acclimatamento in giugno, per poi chiudere la spedizione entro la prima settimana di luglio.
«La sfida è certamente impegnativa, ma allo stesso tempo estremamente affascinante - commenta Cala Cimenti - È ormai quasi un anno che Vitali, Anton e io studiamo ogni angolo della montagna per poterla affrontare con la maggior consapevolezza possibile. Molto dipenderà anche dalle condizioni della neve e dal meteo. Per quanto ci riguarda, ci stiamo allenando al meglio per poter arrivare preparati a questo importante appuntamento. Certamente affrontando oggi il Nanga Parbat il pensiero non può non andare alle tristi vicende degli ultimi mesi, ma queste devono servire per prendere ancora più seriamente il progetto che abbiamo in mente e a non sottovalutare in alcun modo la montagna».
Alpinista sciatore quarantaquattrenne piemontese, dopo alcune esperienze d’alta quota in Tibet, Nepal, Ojos del Salado, Kilimanjaro, nel 2005 è arrivato in vetta al Cho-Oyu (8.201 m) e successivamente ha scalato in solitaria in una no-stop dal campo base alla vetta in 26 ore l’Ama Dablam (6.812 m) in Nepal. Nel 2011 è sceso con gli sci dal Manaslu (8.156 m) e da allora ha sempre cercato di sciare in discesa le vette raggiunte. Nel 2015 è stato il primo italiano della storia a ricevere l’onorificenza Snowleopard, riconoscimento che la Federazione alpinistica russa concede esclusivamente a chi scala tutte e cinque le cime oltre i 7.000 metri sul territorio dell’ex Unione Sovietica. Nel 2017 ha raggiunto gli oltre 8.167 metri di quota del Dhaulagiri ed è sceso con gli sci ai piedi. Nel 2018 è sceso con gli sci dalla vetta del Laila Peak (6.096 m), prima ripetizione assoluta della via. Cala, che sarà supportato da Garmin, Masters, Elan, Mammut e Cèbè nell’impresa, è da poco diventato ambassador degli attacchi ATK Race. «Ho sempre guardato ad ATK come un’azienda seria che dedica un’attenzione particolare ai propri prodotti» dice Cala - Già solo da un esame visivo si notano la scelta di materiali di alta qualità e la lavorazione eccellente che si abbina ad una particolare cura del dettaglio e alla ricerca del miglior compromesso tra leggerezza ed affidabilità. Sono entusiasta di iniziare questa nuova collaborazione e spero di apportare un valido contributo già a partire dalla mia prossima spedizione».
Topturfestivalen, rotta per il nulla
Le stagioni invernali non si sa mai quando farle finire. Se uno ha passione vera per lo sci, uno strascico di inverno da qualche parte lo trova sempre. Uno, se vuole, può andare avanti tranquillamente a sciare fino a metà dell’estate, fino a giugno o a luglio, ma è chiaro che quello che sta facendo, da un certo momento in poi, è tirare avanti. Trascinarsi, e le passioni non bisogna mai trascinarle. A giugno si è in quella terra di mezzo che è il passaggio di stagione, periodo bellissimo, per carità, si può sciare ma si può anche correre e pedalare, arrampicare, camminare, fare un sacco di altre cose divertenti e anche niente, si può mettersi in spiaggia con una bella rivista di sci sotto l’ombrellone e godersi l’estate aspettando un altro inverno ancora. È per queste ragioni, per il bisogno di farla finita, che quando sai di dover andare a sciare alle Svalbard a giugno capisci che quella che sta per succederti è una cosa diversa. È un bypass delle stagioni, una circonvallazione del tempo. Tra l’inverno (anzi, la primavera inoltrata) e l’estate si inserirà un altro inverno ancora, uno vero, una stagione breve laterale ortogonale al trascorrere ordinario dei mesi. Cielo blu o nebbia che non si vede un tubo, neve, pelli di foca umide, scarponi bagnaticci e puzzolenti, il clack degli attacchi che si chiudono, gambe sudate, orecchie gelate, firn o polvere, diagonali e dietro-front, quel sapore amarognolo della borraccia, aria fredda della cima, sudore ghiacciato giù per la schiena, il caldo confortante dei guanti asciutti prima di scendere, insomma inverno. Vero. Scialpinismo vero. Le Svalbard - tu lo sai, ci sei già stato due volte - sono un mondo a parte. Una deviazione magica della linea spazio-temporale.
L’occasione per andare a giugno alle Svalbard è un festival. Esatto, un festival, proprio come la Skieda o la Scufoneda, quegli eventi insomma dove ci si incontra e ci si ritrova tra amanti dello scialpinismo e del telemark e si sta insieme, si fanno delle belle gite e si scia, ciascuno al proprio ritmo. E si fa anche un po’ di festa, certo, quella senza distinzione di livello tecnico e di capacità, a fare festa siamo tutti bravi uguali, non serve neanche impegnarsi. Basta avere voglia di stare insieme. La caratteristica del Topturfestivalen (così si chiama l’evento, l’organizzazione è norvegese) è che questo festival è itinerante e mi spiego: nel caso non lo sapeste le Svalbard sono isole relativamente vicine al Polo Nord e a primavera il ghiaccio che le ricopre e che riempie i fiordi si scioglie. Questo significa che si può navigare intorno alla terraferma e al pack. Vi serve una barca, se fate un grosso festival vi serve una grossa barca, cioè una nave. I ragazzi che hanno ideato il Topturfestivalen, che si svolge in questa modalità dal 2016, ne hanno trovata una che si chiama Nordstjernen e che è una nave da crociera artica costruita nel 1956 e recentemente restaurata e hanno deciso di farla diventare il campo base itinerante del festival. Avete capito bene: il campo base del festival è la nave. E la nave, naviga. Per capirci: è come se andaste alla Skieda a Livigno e invece che dormire in albergo (ammesso che andiate mai a dormire, alla Skieda) dormite in una cabina. Invece che guardare fuori dalla finestra della camera da letto, guardate fuori da un oblò. Invece che vedere Livigno fuori dall’oblò e il Mottolino, vedete delle montagne senza nome e in buona parte dei casi mai salite o mai sciate prima. Magari vi capita di vedere anche delle balene di Baluga o delle orche.
Non è fantastico? Longyearbyen è lontana. È proprio su, su, a guardare la carta geografica la trovate molto oltre la Scandinavia. In volo da Tromsø servono altre due ore e mezza ma è tempo speso bene, fidatevi. Quando ci arrivate, a Longyearbyen, nel vostro orologio biologico sembra esserci qualcosa che non funziona, il sole a giugno è sempre molto alto nel cielo ed è sempre giorno. Pieno giorno. La luce non è tenue e slavata come ve la aspettavate, è forte e abbagliante, cristallina, riflessa ancora con forza dalla neve e dal ghiaccio che hanno appena iniziato a sciogliersi. La cittadina in effetti è polverosa e sporca, un po’ come una stazione di sci a chiusura impianti, ma in fondo a voi cosa ve ne importa, voi nel tempo di qualche ora sarete a bordo della nave. Andrete via. Alle Svalbard latente nei vostri sensi ci sarà sempre, almeno nei primi giorni, quella sensazione bizzarra di svarionamento che la mancanza di buio notturno e la carenza di melatonina insinuano nel sistema nervoso. È un po’ come se foste in bilico tra un paio di birre di troppo, l’iperattività promossa da svariate Red Bull bevute una dietro l’altra come un adolescente eccitato e quei colpi di sonno che vi colgono nei dopo pranzo a casa di parenti che visitate di rado mentre vi mostrano le diapositive dell’ultima vacanza al mare. Il tempo di uno spuntino in uno dei locali del paese (andateci piano con gli spuntini, la luce continua vi fa venire una fame atavica e continua) e poi via, verso il porto e verso la vostra barca. Chiamarla barca è profondamente inesatto. Riduttivo. Quella su cui state per salire è una nave, piccola, ma nave. La differenza tra una barca e una nave, anche se non siete dei marinai, dovrebbe esservi chiara. La lunghezza complessiva della nave è di 88 metri. La Nordstjernen è una barca da crociera artica ed è attrezzata per rompere il ghiaccio se necessario fino a uno spessore di trenta centimetri; per resistere all’eventuale impatto con pezzi di ghiaccio vagante ha uno spessore dell’acciaio a prua di circa quarantacinque centimetri, perlomeno questo è quello che mi hanno raccontato. E io ci credo. Quarantacinque centimetri sono uno spessore rassicurante, per me che non ho un grande rapporto con le navi, lo ammetto. Soffro il mal di mare anche sul traghetto Piombino-Portoferraio per via del mio sistema propriocettivo che (così mi hanno detto) è così sensibile che alla minima variazione di stabilità sotto i piedi, vado in sofferenza. E sto male. Non so se è vera la storiella della sensibilità che mi hanno raccontato, però io mi ci consolo. Comunque il Mar Glaciale Artico, guardandolo dalla banchina del porto, non mi sembra agitato.
Salgo a bordo con la mia sacca, i miei scarponi e i miei sci da telemark che deposito sul ponte della nave. Il personale di bordo è molto gentile e simpatico, sono quasi tutti ragazzi e ragazze filippine, tra loro c’è solo qualche lupo di mare vichingo. Gli altri partecipanti alla crociera, a parte il mio amico Keith che è inglese, sono tutti norvegesi. Un norvegese si riconosce da tre cose: perché è grande e grosso come e più di un olandese (sono molto più grandi di un italiano medio); perché è molto gentile e quasi sempre porta la barba (a parte le ragazze, parlo della barba); e poi perché parla norvegese. Quella cosa che nei Paesi scandinavi parlano tutti tranquillamente inglese, credetemi, non è mica vera. I norvegesi parlano norvegese ed eventualmente, se proprio devono e sono costretti, anche inglese. I briefing informativi sono in norvegese, le istruzioni di cabina e i menù sono in norvegese, le conversazioni al bar in norvegese. Voi dovete accontentarvi di cercare di capire cosa fanno gli altri e intercettare le espressioni del volto o i gesti. Nel caso non abbiate capito, siccome i norvegesi sono gentili, vi spiegano meglio in un inglese ben scandito e comprensibile. Una volta a bordo la vita è semplice: mangiare, bere, dormire, mangiare, farsi trasportare con il gommone sulla terra ferma, pellare, pellare, pellare, sciare, pellare, sciare, pellare, sciare, eccetera, tornare a bordo in gommone, bere, godere del panorama a poppa, fare la doccia (a bordo, in piccolo, ci sono tutti i comfort) mangiare, chiacchierare con gli altri croceristi, bere, bere, dormire. E ricominciare da capo. Il trasferimento sulla terra ferma per sciare è abbastanza semplice, una volta a terra la vostra gita di scialpinismo comincia, c’è quasi sempre un breve avvicinamento pianeggiante da fare, ottimo per il warm-up, e poi si sale. Si trova di tutto, dai pendii ampi e morbidi ai pendii più ripidi e impegnativi, mai estremi a meno che uno li vada intenzionalmente a cercare.
I dislivelli sono di 800 metri a risalita, se ne fanno quanti se ne vuole. Abbiamo navigato a sud delle isole, in una zona chiamata Hornsund Fijiord. È il classico paradiso per lo scialpinismo classico (scusate il gioco di parole) e le montagne sono bellissime. In salita ogni tanto vale la pena di fare una pausa e sollevare lo sguardo all’orizzonte, il paesaggio è surreale. Ci sono montagne dalle forme alpine, fatte di rocce, pendii ripidi, ghiacciai e perfino delle meringhe di ghiaccio lavorato dal vento e giù, in basso, c’è il blu del mare. Ci sono i fiordi ancora ingombri di ghiaccio, in lontananza. Il cielo è azzurro se siete fortunati (noi lo siamo stati, per tutto il viaggio non abbiamo visto una nuvola) ed è evidente che vi trovate in un luogo ai confini del mondo. Non c’è niente e nessuno per chilometri e chilometri. Beh, a parte gli orsi polari, certo. È per quello che uno di voi, quando andate a sciare, si porta appresso un fucile. La faccenda di andare a sciare con il fucile è un po’ destabilizzante all’inizio. Uno può reagire in due modi: o è veramente preoccupato e ossessionato dalla paura di venire attaccato e sbranato da un orso polare; oppure vede quella dell’incontro come una remota possibilitàdi cui non preoccuparsi minimamente, come se fosse qualcosa che fa parte del pacchetto vacanza. In realtà l’atteggiamento corretto sta a metà strada tra queste due posizioni. Il pericolo di incontrare un orso è concreto e reale, poi gli orsi sono interessati più alle foche di cui si cibano che agli esseri umani ma sono predatori e per questa ragione non bisogna mai sottovalutare i rischi di un incontro faccia a faccia. Il pericolo è più consistente in prossimità del mare, in quota ci si può davvero rilassare e godere dello spazio immenso, della solitudine e dei pendii.
La qualità dello sci è fantastica, a nord si può trovare neve polverosa (il nord, alle Svalbard, è comunque un’esposizione che subisce la trasformazione per via del sole di mezzanotte, il metamorfismo della neve è soltanto un po’ più lento) a sud, est e ovest si scia su ottimo firn e corn snow, che è quella condizione della neve ancora ricca d’aria ma in avanzato stato di trasformazione che è difficile trovare da noi sulle Alpi. Quando sei in cima a una montagna e cominci a scendere il panorama davanti a te è strepitoso. Capisci che stai per affrontare davvero una di quelle discese epiche che ricorderai per tutta la vita. Ecco perché a fine giornata, quando, dopo l’ultima discesa, arrivi in spiaggia e ti ritrovi una grigliata di carne, la musica, una tenda-sauna, birra che scorre a fiumi e gente che balla come all’après-ski del Tonale, capisci che lì, quella sera, si sta per consumare una festa indimenticabile. D'altronde poi per tornare a dormire non devi nemmeno guidare, non devi far altro che un cenno a uno dei gentilissimi conducenti di gommone di riportarti a bordo e poi, una volta in cabina, schiantare dal sonno al piano superiore del tuo letto a castello. È difficile spiegare a parole le ragioni valide per andare alle Svalbard a sciare, io ne ho messe a fuoco tre principali: uno, ogni volta che hai la possibilità di andare a sciare in un luogo della terra dove non c’è nessuno intorno per decine o centinaia di chilometri, bisogna sempre trovare il modo di farlo. L’esplorazione, l’andare a sciare in luoghi in cui non lo ha ancora mai fatto nessuno è una esperienza umana che vale sempre la pena. Due, mare e montagna, sci e navigazione, neve e acqua sono i due estremi che si toccano, non bisogna mai rinunciare alle esperienze estreme, quando per farle non c’è bisogno di mettersi in ginocchio. Tre, dieci curvoni a manetta sulla parete ovest dell’Hornsundtinden che finiscono in spiaggia e nel mare più blu che voi abbiate mai visto, valgono una stagione intera. O forse anche due o tre. O dieci.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 113 di Skialper, acquistabile qui
Clare Gallagher, dal corallo alla CCC
Se sei sulla strada giusta, le porte si aprono; se sei su quella sbagliata, puoi aspettare, ma non si apriranno. Parola di Clare Gallagher, Boulder, Colorado. Probabilmente non erano tutte sbagliate le strade che ha percorso per buona parte dei primi 26 anni della sua vita. E sono tante. A 18 anni si è trasferita a Est, all’università di Princeton, dove ha iniziato a occuparsi di difesa dei coralli e ha seguito un corso di etica ambientale con Peter Singer, australiano, uno dei filosofi più influenti del mondo. Poi ha vissuto un paio di anni in Thailandia, prima insegnando l’inglese nei villaggi più poveri, poi impiegata in un programma di sensibilizzazione sulla difesa della vita marina. Ed ecco la prima strada sbarrata: le mancano gli amici, il Colorado, le montagne. Non è necessario essere una martire ai tropici per fare qualcosa per l’ambiente. Le porte si chiudono, mentre si aprono quelle della corsa.
«Ho sempre corso a scuola, ma facevo atletica o strada e, mentre alla high school ero bravina, all’università non andavo» dice Clare. Poi corre per caso un trail di 50 chilometri nel nord della Thailandia ed è subito amore. «Eravamo nella foresta e c’erano serpenti ovunque, era così selvaggio, mi è piaciuto subito». Torna a casa, nel 2015 fa un paio di gare e l’anno dopo vince subito la Leadville Trail 100 Mile, da quasi sconosciuta. Roba che ci sono atlete che ci tentano una vita senza successo. Le porte si aprono. La ragazza corre, forte. Però vuole provare a fare il medico e continua gli studi. Bastano poche settimane per capire che non è la sua strada. Le porte si richiudono. Lascia tutto per vivere di corsa. I risultati non mancano, la CCC del 2017 vinta con il record della gara dice qualcosa? E la Endurance Challenge - California Trail 50 Miles al secondo posto nel 2017? Le porte si riaprono, compresequelle del team La Sportiva, dove Clare è arrivata proprio quest’anno. «Avevo già usato le Helios, erano le mieLaSpo preferite, valide anche per correre su terreni duri, poi quest’anno ho provato di tutto, soprattutto le Mutant e ora ho trovato le mie nuove LaSpo preferite, le Bushido II, simili alle uno, protettive, ma morbide». Le porte del professionismo si aprono. «Sì, vivo della corsa, più o meno, diciamo che la mia unica preoccupazione è mangiare» scherza.
C’è una cosa che accomuna Clare e La Sportiva, entrambe hanno costruito i loro successi a partire dagli insuccessi. La casa di Ziano di Fiemmesu questa dinamica ha impostato la sua festa per i 90anni. Una scelta coraggiosa, come quella di Clare di abbandonare gli studi: «Quel fallimento mi ha dato tanta benzina per correre forte.» Corre forte, eppure Clairenon si definisce proprio una runner, piuttosto un’attivistaambientale e una runner. «Metto davanti la parola attivista, penso che viviamo sulla terra e dobbiamo fare di tutto per lasciarla migliore di come l’abbiamo trovata, dobbiamo restituire quello che ci ha dato e ancora di più come americani». Basta seguire i suoi accountsocial per capire che Clare ha fatto delle scelte radicalie la difesa dell’ambiente è al primo posto nella sua vita. Non mangia carne «perché è la prima e più facile sceltase sei ambientalista convinta e vuoi minimizzare la tua impronta ambientale, però poi mi sono accorta chesto anche meglio e corro più veloce». A proposito d’impronta, Clare compensa anche le emissioni prodotte dai suoi spostamenti in aereo. È stata anche a San Francisco dove con POW (Protect our Winters, un’associazioneche cerca di sensibilizzare sul climate change e gli effetti sull’inverno e la neve) ha partecipato a una grande marcia per invitare gli americani a votare per candidati che s’impegnano a difendere l’ambiente alle elezioni del mid term. «Il principale problema delle nostre società è proprio questo, che la gente non vota più perché pensa che sia inutile, invece bisogna votare per le persone giuste». Votare per le persone giuste e parlare con chi ci sta vicino, sensibilizzarlo dopo avere spiegato i problemi.
Il sogno però è riuscire a creare un movimento ambientalista anche tra i runner. «Io, Luke top, top3Nelson, Anton Krupicka, Joe Grant, Stephanie Violett, Dakota Jones siamo tra i più attivi e stiamo cercando di avvicinare quanti più runner a POW, vediamo cosa succederà nei prossimi anni, se funzionerà, per ora non ha senso creare un’altra associazione e disperdere gli sforzi». Protect our winters… dunque in inverno scii? «È il primo sport che ho praticato, poi tre anni fa ho iniziato a fare gare di scialpinismo, giusto per allenarmi, ho partecipato anche alla Grand Traverse, ma fa freddo, molto freddo e io sono freddolosa, anche quando corro». Però è meglio proteggere i nostri inverni, vero Clare?
Questo articolo è uscito sul numero 120 di Skialper, se vuoi acquistarlo vai qui
Bar Valeruz
Per quelli come me nati all’inizio degli anni Ottanta, il suo nome è sempre stato associato in maniera quasi naturale allo sci estremo. A dire il vero non riesco nemmeno a ricordare quando l’ho sentito per la prima volta, forse mai, quasi fosse stato inserito direttamente in quel particolare software che ci viene installato alla nascita. Tone Valeruz, naturale. Lo sciatore estremo. Valeruz, per tutti Tone. Il suo modo di sciare ha da sempre trasceso la ristretta cerchia dei praticanti di scialpinismo e del mondo dello sci libero. Tone è diventato, grazie alle sue imprese, alla spettacolarizzazione di alcune di esse, un personaggio trasversale. Conosciuto sia dalla massaia di Torino, che apostrofava le sue imprese urlate da qualche notiziario con un secco Oh basta là!!! È propi fol col li, sia dal mazinga pistaiolo tutto Moncler che,quando vedeva dalla seggiovia un versante particolarmente scosceso,lo mostrava al figliolo infagottato infarcendolo con un Da lì ero sceso una volta con Tone Valeruz, però oggi prendiamo la pista che ho vogliadi sciare più veloce…Per la massa, in Italia, lo sci estremo è sempre stato molto più associato a Tone rispetto ad altri nomi che come lui potevano vantare un curriculum confrontabile.
Contattare Tone sapevo che non sarebbe stato facile, nonostante i canali social oggi facciano sembrare questo aspetto immediato. Siamo dovuti passare attraverso telefonate, conoscenze comuni, ambasciatori, proprio come si faceva per le interviste fino a qualche anno fa. E sinceramente nonci è dispiaciuto, anzi, la cosa mi ha parecchio intrigato perché iniziava atrasparire il personaggio.Ma nessuna mancanza di disponibilità, ci mancherebbe! Tone è uno veroche preferisce le parole faccia a faccia. Genuino nel suo modo di sciare cosìcome nel modo di vivere. Padrone al cento per cento della sua vita.Dopo una telefonata, ci si è dati appuntamento davanti alla scuola sci diCanazei. Arriva anche Alice per le foto. È pomeriggio e il cielo sta diventandoscuro, fa freddo, ma Tone oggi teneva lezioni di sci. Il periodo dellevacanze è assai frenetico per chi lavora con i turisti in Dolomiti. Stiamofantasticando su come sarebbe averlo come maestro, poi vediamo un’ombrache ci si avvicina.Ci tende la mano, ci fissa con due occhi azzurrissimi: «Ciao! Sono Tone,leviamoci da qui, vi porto in un posto… nella mia tana! È anche l’ora dell’aperitivo,no?».
Ci siamo, si parte! Lo seguiamo in macchina scendendo la valle per alcuni chilometri, passiamo Campitello e poi parcheggiamo su uno spiazzo in curva vicino a un bar tutto rivestito in legno all’esterno. La finitura delle pareti all’interno non cambia. Il vociare che si leva dagli avventori (a una prima occhiata tutti professionisti del gioco delle carte) all’ingresso di Tone ci fa capire che siamo arrivati. La sua crew, la sua tana. Alcune foto sulle pareti, con gli amici di una vita e con il corpulento proprietario che prima si esserci seduti ci porta un paio di spritz e dello speck locale. Due parole per fiutarsi, un sorso, un clima sincero, cento per cento Tone!
Più che un’intervista ci piacerebbe fare una chiacchierata, libera, magari partendo da chi è Tone oggi, cosa fai?
«Tone oggi è pensionato, pertanto ci terrei a specificare che Tone non fa assolutamente niente!».
Ah! Decisamente categorico, però sei Maestro di sci e Guida alpina?
«Sì è vero, per lo sci ho sempre avuto una predisposizione. Oggi lavoro ogni tanto come Maestro. È sempre stata la mia unica occupazione. In realtà non ho mai aspirato a fare la Guida alpina. Se fai la Guida non è solo accompagnare qualcuno, un estraneo, ma porti il tuo cliente a vivere un’esperienza. È qualcosa di molto profondo, specie per lui. Poi ti devi far pagare e il denaro, a mio avviso, cambia totalmente il rapporto che si potrebbe instaurare. Il far parte di un’esperienza così particolare come l’andare in montagna può portare a un’amicizia, con i soldi di mezzo… non lo so».
So che hai anche altre passioni in montagna, una che mi incuriosisce molto è quella per i cristalli.
«È vero, è la mia passione più grande! Forse perché mi permette di avere un rapporto tutto particolare con la montagna. Mi offre l’occasione di viverla a 360 gradi. Ho iniziato ad avvicinarmi e appassionarmi alla geologia completamente da autodidatta. Ho incominciato a conoscere le rocce che possono contenere i cristalli. È una passione e come tale non ci vedo nulla di venale. Non mi è mai riuscito di guadagnarci qualcosa. Anche se dietro al mondo dei cercatori di cristalli e dei minerali si nasconde un giro d’affari difficile da immaginare. Pazzesco».
Tornando alla tua specialità più nota a tutti, ci piacerebbe capire se ti ritrovi ancora nel mondo dello sci di oggi dove - ormai è evidente - si tendono a far passare come eroiche anche prestazioni che non hanno certo titolo di esserlo.
«Guarda, per quanto mi riguarda tutti possono fare ciò che vogliono e possono vendere come estreme prestazioni che certo non lo sono. Sono fermamente convinto che poi la cosa importante per dare il giusto valore al tutto sia il livello culturale di chi giudica. Cioè da chi viene il giudizio. Il problema, se di problema vogliamo parlare, è che spesso oggi chi giudica una prestazione, il pubblico, spesso non è in grado di comprendere il vero valore di una discesa. Il problema non sta in chi vende una discesa che di epico non ha niente, ma sta nel livello di preparazione di chi osserva. Un occhio esperto sa sempre dare il vero valore alle cose».
A questo proposito, un po’ di tempo fa mi ricordo di una tua reazione ironica al video di una discesa ripida classica nelle Alpi Centrali sul Monte Pasquale che girava in rete come se fosse una discesa pazzesca. Entrambi sappiamo che si trattava di una prestazione sì ripida, ma assolutamente classica e percorsa con regolarità ogni anno, specie in primavera.
«Sì, esatto. Lì era proprio successo quello di cui parlavamo sopra. C’è stato un problema di giudizio. Uno che pratica quel tipo di sci ben sa che non era niente di particolare. L’errore stava in chi la giudicava una cosa estrema. È per questo che, se devo essere sincero, a me non me ne frega niente dei giudizi». Ride.
Domanda quasi classica che ci piace rivolgere a chi pratica o ha praticato: esiste ancora per te lo sci estremo?
«Secondo me oggi no, o per lo meno, in pochissimi sono in grado ancora di fare qualcosa che valga la pena considerare estremo. Scendere dalla cima del Cervino sarà ancora estremo. Come è stato estremo scendere il Lyskamm in meno di tre minuti negli anni in cui lo avevo fatto».
Oggi si può continuare a praticarlo, magari qui in Dolomiti?
«Penso che siano in pochi a poterlo veramente fare. E qui in Dolomiti rimangono un sacco di cose da fare».
Chi sono quelli che l’hanno praticato davvero? Vivevi una sorta di competizione nei loro confronti?
«Certamente Tardivel, Boivin, Vallençant, De Benedetti, Saudan, Holzer. Su nomi più recenti non mi sento di esprimermi. Competizione per quanto mi riguarda non ce n’era, nonostante si ragionasse come in ambito alpinistico».
L’aumento dei praticanti su terreni ripidi è certamente dovuto ai materiali. Adesso è più facile?
«Certo che è più facile! Però bisogna vedere dove ci sono sempre più praticanti. Se parliamo per esempio del canale Holzer qui sul Pordoi, sono d’accordo. Però sono tutti lì. Conta sempre l’atteggiamento di chi si avvicina a questo tipo di sci».
Occorre comunque allenarsi?
«Quando praticavo sci estremo mi allenavo facendo di tutto. Niente di specifico, ma ero in continuo movimento. Mi allenavo muovendomi! Passavo dalle salite solitarie di arrampicata come lo Spigolo Giallo, alle salite sull’Ortles e poi in Marmolada fatte di fila! Ero anche alpinista, anche se mi ritengo più uno sciatore». Caspita! A proposito di aneddoti, ci piacerebbe che ce ne raccontassi uno sullo sci. Alcune tue imprese hanno spesso suscitato scalpore. A volte anche polemiche per l’uso dell’elicottero. «È vero, a volte ho usato l’elicottero. L’ho sempre detto e mai nascosto. Non vedo il perché dovrei. Come quella volta sulla parete nord della Presanella. L’ho fatta quattro volte in un giorno la discesa: sono stato portato in cima e l’ho scesa per capire le condizioni e se c’era ghiaccio. Poi di nuovo in cima e me la sono scesa con un fascio di pali sulle spalle, piantando le porte per tutto il tracciato. Poi ho fatto il gigante. Quindi di nuovo in cima con l’eli per smontarmi da solo tutte le porte. Sì, ok l’eli, ma mi sono fatto un mazzo tanto!».
Le discese a cui tieni di più?
«Mah, ci devo pensare un attimo. Forse la parete Nord-Est del Civetta. Sciata tutta con sole due doppie in basso. E forse anche la Nord-Est del Sassolungo».
Invece qualche linea che ti senti di consigliare?
«Qui in valle, nei dintorni di Canazei, senza dubbio la Nord della Marmolada è sempre una bella sciata. Così come i canali del Pordoi. Altrimenti più lontano i versanti Nord-Ovest o Sud dell’Ortles».
Il tuo è spesso stato un approccio di rottura per certi versi. Pensiamo alla discesa del Cervino in frack o alla parete Nord-Est del Lyskamm in meno di tre minuti. Voleva esserci un messaggio dietro a tutto questo?
«Posso essere sincero? Perché volevo solo dimostrare che ho due palle così quando ho gli sci nei piedi! Dico la verità, scrivilo! (ride e cifissa con quegli occhi azzurri che non lasciano spazio a dubbi). Tutto quello che ho fatto l’ho fatto perché mi andava di farlo».
Dunque qual è la cosa più bella per te nella vita?
«Guarda, da tutto ciò che ho fatto ho guadagnato solo un’assoluta libertà personale. Non ho mai preso in seria considerazione il discorso sponsor proprio per questo. Avere degli sponsor significa prendersi degli impegni e personalmente lo ritengo folle in un’attività come questa. Ognuno deve solo saper valutare un paio di cose: come è stata fatta una discesa, lo stile. E poi la ragione per cui si è ingaggiato per farla: se per il puro gusto o per riceverne una notorietà. Dalla mia vita ho solo ricevuto la libertà di fare ciò che voglio, sempre. Per farvi capire: sono un tipo che già solo quando vado a cena spera di mangiare subito, così poi posso decidere io quando andare via. Ad esempio, ora è meglio andare, non ho più voglia di parlare!».
Tone, senza compromessi. Sempre!
Tone Valeruz, è nato ad Alba, frazione di Canazei, nel gennaio del 1951. Maestro di sci, Guida alpina, ha sempre mantenuto un posto speciale nell’olimpo dello sci ripido grazie alle sue discese e a un carattere vulcanico. Vivendo in Val di Fassa ha presto iniziato a sognare di scendere con gli sci tutte le pareti che gli stavano intorno, frantumando il vecchio preconcetto che le Dolomiti fossero poco adatte allo sci. A 19 anni inizia con la parete Nord della Marmolada. Diversi i suoi itinerari sulla Nord del Gran Vernel, sulla parete Nord-Est del Sassolungo, sulla Nord-Est del Civetta, per rimanere in Dolomiti. Tra gli anni Settanta e Ottanta porta a termine discese di assoluto pregio in tutto l’arco alpino, dalla Est del Cervino (spalla a 4.200 m sulla cresta Hörnli), al Gran Couloir della Brenva nel centro alla parete Est del Monte Bianco (tra le vie Mayor e Sentinella Rossa), dalla via Lauper sulla Nord-Est dell’Eiger, alla Nord-Ovest dell’Ortles, solo per citarne alcune. La sua attività negli anni Ottanta conta anche diverse discese in Sud America tra le quali la prima dell’Alpamayo (5.947 m) e la parete Sud del Cerro Don Bosco in Patagonia. Nell’ambito di una spedizione himalayana è riuscito anche a posare gli assi sul Makalu da quota 8.100 metri. Vive ancora in Val di Fassa, continua a fare il Maestro e a coltivare le suepassioni: ricerca di cristalli e, ovviamente… lo sci!
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 117 DI SKIALPER, SE SEI INTERESSATO AD ACQUISTARLO LO TROVI QUI
Bormio-Livigno, traversata di successo
Domenica splendida giornata di sole per i partecipanti alla traversata skialp Bormio-Livigno, in collaborazione con i CAI dell’Alta Valle (Bormio, Livigno e Valdidentro) e Ski Trab. Circa 120 scialpinisti divisi in almeno dodici gruppi hanno segnato la loro traccia: chi, partendo dalle Motte o dal Forte di Oga è arrivato fino ad Arnoga, passando per la cresta del Corno San Colombano, ai piedi della maestosa Cima Piazzi ed attraverso il passo delle Pecore, altri hanno proseguito fino a Livigno - i primi in circa 7 ore -, con un dislivello positivo complessivo tra i 2.800 ed i 3.300 metri a seconda della via scelta; inoltre diversi percorsi sono stati tracciati anche partendo da Livigno, da Arnoga e dalla Foppa salendo sulle creste della Vallaccia e Val delle Mine con arrivo ad Arnoga o all'Agriturismo L'Al.
Vero obiettivo dell’evento è stato quello di contribuire a valorizzare un comprensorio per lo scialpinismo unico al mondo. Ricordiamo che l’Alta Valtellina, con i sui due marchi turistici di riferimento (Bormio e Livigno) offre un vero e proprio paradiso per gli scialpinisti: più di 300 itinerari a pochi passi dai centri urbani, 8 mesi di opportunità a diverse quote, una rete di bellissime valli ricche di ambienti, strutture e grande cultura di montagna.
Sulla pagina Facebook è stata promossa l’idea di questa traversata, lasciando la possibilità a chiunque di poter postare la propria traccia e pubblicare le foto durante tutto l’inverno. Molte foto e tracce sono già presenti sulla pagina e altre ne seguiranno.
Nel pomeriggio Ski Trab ha riunito a Li Arnoga tutti gli scialpinisti: oltre a ricevere il gadget della traversata è stato un momento di condivisione di pareri, commenti, foto, video, immagini e tracce GPS; è stata premiata Nadia Pozzi del Cai Valdidentro come miglior sequenza fotografica e il gruppo di Thomas Bormolini di Livigno come miglior traccia 2019.
Presenti al rinfresco ma soprattutto sul percorso due campionesse dello skialp internazionale come Laetitia Roux e Roberta Pedranzini e un giovane campione in piena ripresa dopo una stagione alquanto difficile, Andrea Prandi.
Il 2019 FWT Title a Arianna Tricomi e Markus Eder
A Verbier ultimo atto del Freeride World Tour. E due azzurri festeggiano il titolo nello sci. Sul Bec des Rosses vince la svizzera Elisabeth Gerritzen, Arianna Tricomi è seconda e si mette in testa, per il secondo anno consecutivo, la corona di regina del FWT. L’Xtreme Verbier va al francese Wadeck Gorak, ma Markus Eder, con il sesto posto, porta a casa il 2019 FWT Title.
Nello snowboard la francese Marion Haerty aveva già il titolo in tasca, ma ha chiuso il tour con un nuovo successo; al maschile a Verbier affermazione dello statunitense Jonathan Penfield, terzo posto e titolo di campione per il francese Victor De Le Rue
Contrabbandieri di emozioni
Ha ragione Giorgio Daidola, il vero scialpinista è un viaggiatore errante. Usa gli sci non solo come mezzo di trasporto, ma pure come strumento di conoscenza del mondo e di se stesso. Li utilizza per raggiungere luoghi inaccessibili attraversando deserti bianchi, come bene ci ha insegnato Michel Parmentier; per salire montagne che sono solo tappe di un percorso fuori e dentro di sé. Un percorso che, a volte, ha come obiettivo l’orizzonte, per vedere ciò che c’è dopo e ciò che c’è dentro. Non per niente sciare è un po’ come vivere: consente di lasciare una traccia che non è indelebile, ma che identifica in modo univoco chi l’ha disegnata, così vincolata come è alla sua sensibilità, alla sua capacità tecnica, all’attrezzatura utilizzata, persino allo stato d’animo e alle emozioni del momento. E le traversate - meglio di ogni altra attività scialpinistica - permettono di rendersi conto di tutto questo, seguendo le tracce di chi le ha percorse per primo ed entrando in sintonia con la sua sensibilità, pur vivendo ogni volta un’esperienza nuova; assecondando le proprie emozioni, entrando fra le pieghe delle montagne, penetrando in punta di piedi in un mondo che, seppure già percorso, come la neve, cambia a ogni ora, a ogni folata di vento.
Per vivere queste emozioni non è sempre necessario partire per più giorni da casa e andare in capo al mondo. A volte è possibile trovare ciò che si cerca anche dietro l’angolo. Io ho avuto la fortuna di condividere un breve viaggio alla portata di qualsiasi scialpinista allenato a pochi passi da casa, sulle nostre Alpi, in giornata, da Isolaccia di Valdidentro a Livigno, lungo le tracce dei contrabbandieri e dietro alle code di Giacomo Meneghello. Lui è un fotografo che vive a Sondalo e che, collaborando con la Ski Trab, ha avuto l’idea di creare un’alta via scialpinistica tra Bormio e Livigno, tracciando due percorsi. Uno, più logico e diretto, parte da Isolaccia e uno, più difficile e tortuoso, prende il via da Oga, quest’ultimo in verità già in parte sperimentato da alcuni scialpinisti locali che fanno capo sempre alla Ski Trab. Noi, a causa del rischio valanghe, abbiamo affrontato il tracciato meno pericoloso, ma anche più lineare. Ventuno chilometri per circa 1.900 metri di dislivello positivo. Un tracciato senza particolari difficoltà tecniche che, partendo dalla Valdidentro, concatena in modo logico diverse convalli esistenti tra Bormio e Livigno. Convalli in un recente passato utilizzate dai contrabbandieri per far transitare le merci dal porto franco di Livigno all’Italia. Lo abbiamo fatto il lunedì di Pasquetta in una giornata splendidamente serena dopo il maltempo della settimanaprecedente che aveva portato quasi un metro di neve fresca, ma anche numerosi accumuli da vento suipendii maggiormente esposti.
Partenza alle 6,30 da Sant’Antonio di Scianno, pochi chilometri sopra Isolaccia, nel comune di Valdidentro, a quota 1.650 metri. Lasciata l’auto in un piccolo spiazzo, abbiamo iniziato a risalire verso il Monte Resaccio dapprima facendo traccia in un rado bosco di abeti e poi su distese innevate in cui s’intuivano alpeggi semisepolti dalla neve in un universo fiabesco al risveglio. Giacomo Meneghello davanti, noi dietro. Una decina di scialpinisti in tutto per l’occasione: alcuni ragazzi di Cantù guidati da Marco Colombo di Ski Trab, il forte altoatesino Alex Kheim con la moglie parmigiana Anna e io. Si sono poi aggiunti in Val Vezzola alcuni appassionati livignaschi e di Semogo tra cui la nota atleta polacca di scialpinismo Anna Tybor. Ci aspettavano già in quota, essendo partiti più avanti, da Li Arnoga. Un ripido pendio, la larga cresta ed eccoci in vetta al Monte Resaccio. Siamo a quota 2.717 metri. Il panorama a 360 gradi toglie il fiato; Cima Piazzi ci ammalia controllando ogni nostro passo dall’alto della sua bellezza e severità. In fondo, a sinistra, riconosco il Pizzo Palù, dietro l’Ortles con la sua corona di cime del bacino dei Forni.
Anna Tybor, reduce da una brillante prestazione al Tour du Rutor, mi fa da Cicerone illustrandomi il nome di valli e convalli. Livignasca d’adozione, mi dice di non poter più fare a meno di queste montagne. Il tempo di spellare e giù, verso il bianco più bianco. Versante nord: farina intonsa, sciatona. Gli Ski Trab Maestro che l’azienda bormina mi ha dato da testare per l’occasione non mi fanno rimpiangere sci più larghi. Ricamiamo un lenzuolo intonso consapevoli di essere dei privilegiati. Consapevoli di poter ancora una volta sperimentare che è vero che gli sci sono sciancrati per meglio adattarsi alla forma rotonda del mondo; per meglio consentirci d’accarezzarlo con le nostre curve. Si attraversa un universo incantato senza alcuna traccia, se non quella di qualche camoscio. Dalla Val Vezzola transitiamo in Val Trela. Procediamo ora in leggera salita sotto un sole abbacinante. È metà mattina. Le montagne si scrollano di dosso ciò che non riescono più a trattenere. Sentiamo rombo di scariche. La tigre bianca oggi è sveglia, in agguato su molti pendii, nascosta sotto il nuovo strato di neve. Ma il nostro percorso è mansueto. Giacomo lo ha scelto apposta preferendolo a quello più rischioso che transita in Val Viola e che potrebbe essere affrontato al ritorno in un ipotetico viaggio ad anello di due giorni. Saliamo pendii non impegnativi al Monte Rocca (2.814 m), classica scialpinistica della zona. Lo rimontiamo da est, non - come di consueto - da nord-ovest.
Dalla vetta si apre sotto di noi la Valle di Tre Palle. Firn e neve trasformata per una sciata da ricordare, con Giacomo che si sdoppia nel ruolo di guida e fotografo. Malghe che emergono qua e là, stalle, cavalli. Un presepe che lascia segni indelebili nell’anima dell’escursionista-viaggiatore. Attraversiamo una strada asfaltata in località Trepalle (quota 1.918) e di nuovo rimettiamo le pelli. Ora si sale verso il Monte Crapene (2.430 m). Ancora pendii dolci, neve trasformata. Qualche escursionista con le ciaspole. L’ambiente si fa meno isolato, gli impianti e le piste del carosello sciistico compaiono dall'altra parte della valle. Dalla cima del Crapene appare Livigno, giù in fondo. Dall’alto sembra davvero esteso e con il suo vestito migliore, quello tutto bianco, sembra una perla tra una conchiglia di cime.
Inanellando curve sul firn, scendiamo così fino al capolinea del nostro viaggio, firmando altri magnifici pendii con le lamine. Le nostre tracce saranno già scomparse, cancellate dal sole o dal vento. Non sarà invece cancellata l’idea di Giacomo d’ideare questo percorso che consente di collegare al ritmo delle pelli questi due paesi, Bormio e Livigno, divisi dalla cresta delle Alpi, ma uniti in una splendida cavalcata. Percorrendola noi, contrabbandieri d’emozioni, siamo andati alla ricerca del senso del viaggio con gli sci, solcando valli e salendo montagne dolci come la panna montata. Come sempre alla ricerca della curva perfetta. Come sempre trovando alla fine noi stessi.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 118 di Skialper di giugno 2018. Se vuoi acquistare l'arretrato clicca qui, se vuoi abbonarti a Skialper qui.